Untitled - Rizzoli Libri

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Untitled - Rizzoli Libri
RICK MOODY
DIVINERS. I RABDOMANTI
Traduzione di Licia Vighi
I GRANDI TASCABILI
BOMPIANI
Titolo originale
THE DIVINERS
ISBN 978-88-452-8064-1
© 2005 by Rick Moody
First published in the USA by Little, Brown and Company,
Time Warner Book Group, New York, 2005
© 2005/2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano
I edizione Bompiani 2005
I edizione Tascabili Bompiani ottobre 2015
Per Melanie Jackson
Titoli di testa e tema musicale del film
La luce che illumina il mondo ha inizio a Los Angeles. Ha inizio nell’oscurità, ha inizio nelle montagne, ha inizio nei paesaggi vuoti, nel dubbio e nel rimorso. San Antonio Peak getta ombre su una città di ombre. Ci sono tracce dell’umana insignificanza. Incubi. Ma proprio nell’istante in cui stanno per farsi insopportabili, ecco un’eruzione di onde luminose. È mattino! Il mattino è incoraggiante, privo di complicazioni, e si arrampica sulle montagne così come su ogni altra cosa. La
luce proviene da un nulla insondabile, da una riserva a quanto pare
eterna di emanazioni, di radioattività. Luce che lambisce le creste dei
monti e attraversa i laghi sugli altipiani, luce che oltrepassa la Angeles
National Forest, luce che sfreccia, solcando le matasse di smog, nei cieli della California. Luce su Redlands, luce sulle comunità organizzate,
luce sul tizio che lancia il giornale del mattino da una Toyota gravata
da migliaia di chilometri. Luce sul Santa Ana River, su un ubriaco che
dorme placidamente accanto ai detriti trasportati dal fiume, luce sulle
Santa Ana Mountains, sulle San Bernardino Mountains, luce sul Prado
Basin, dove una donna che è stata accoltellata si rigira nel sangue delle
proprie ferite. Luce su East Los Angeles, su gangster che non si sono
ancora addormentati. Luce sulle distese desolate del centro di Los
Angeles. Un autobus vuoto fermo a un semaforo rosso, il motore al
minimo. Luce sui La Brea Tar Pits, sui cittadini del Pleistocene e dell’Olocene, luce sulla rete di viadotti che scendono dalle montagne, dal
rivolo da cui nasce il Colorado River, luce sulle tracce incerte della Faglia di Sant’Andrea, luce sui marciapiedi deserti e crepati, luce che
adesso corre più veloce, o forse è solo un’impressione. L’Ora Magica
dell’alba sui volti lampadati che spuntano da feste senza fine iniziate la
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sera prima. Luce sulle autostrade, luce sui finestrini oscurati, luce sulle
limousine. Persino i parcheggi sul retro risplendono. I tecnici delle luci
si destano ovunque, come se fosse la luce a esortarli ad alzarsi. Luce che
adesso avanza verso le spiagge, verso il grande e sonnolento oceano, luce sugli amanti, luce su Manhattan Beach, luce su Hermosa Beach, luce
su due ragazzini punk-rock con i pantaloni di pelle che fumano erba
sotto il molo a Redondo Beach, luce sulle onde, più veloce adesso, o
così sembra, luce sugli amanti addormentati su una spiaggia, luce sui
cani randagi e sulle lepri del Nordamerica, luce sui condor e sui moscerini della frutta del Mediterraneo accoccolati in mezzo all’erba delle valli, luce su tutta Los Angeles, e poi luce oltre Los Angeles, fino a
quando la città non diventa che un ricordo che si perde nell’avanzare
del mattino, solo uno strato di aria tinta di riflessi color rame e di musica vibrante che proviene da un sogno, luce sui surfisti che rimbalzano sulle onde, luce sulle isole dello stretto, e poi luce sull’immensità
del mare che rinuncia al conforto della costa.
Luce sul Pacifico maestoso, sui vortici delle correnti oceaniche che
da nord girano in senso orario attraverso la sua immensità, luce che illumina le profondità dell’abisso dalle isole Aleutine fino alla Corrente
Circumpolare Antartica. Ciò che era avvolto in un’opprimente oscurità ora si colora di una tonalità verdognola con timide incursioni nel
blu e nel grigio: indaco, ardesia, milori, zinco, Sèvres. Luce sull’acqua
del mare, dunque, e sul suo potassio, sul manganese, sul calcio e sul
cloruro, luce sulla rugosità della roccia erosa. Luce sull’invisibile fitoplancton e su tutta la materia organica. Luce sulla vegetazione marina,
sulle barriere coralline, luce sulla balena grigia del Pacifico diretta verso i climi più miti del sud, e luce sugli altri cetacei, luce sulla piattaforma continentale e sull’intero tragitto verso la piattaforma continentale,
luce su quell’anomalia del Pacifico nota come La Niña, poiché questo
è di nuovo l’anno della Niña, con la sua personale furia climatica. Luce sulle diverse forme di vita marina del Pacifico, luce sugli squali, luce
sui tonni e sugli altri pesci facili da catturare. Pesci che risalgono verso
la superficie del Pacifico, eccitati all’idea di nutrirsi quando arriva la
luce. Che magnifica testa di ponte crea la luce lungo l’estremità nordoccidentale delle isole hawaiane, Kauai, Nihau, e poi giù, fino all’atollo di Midway, quello della battaglia navale. Luce sui depositi di guano e sugli uccelli marini appollaiati sugli edifici che ospitano l’organico della Marina di Midway, organico che conta durante tutto l’anno
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ventitré persone. La luce non considera la linea internazionale del
cambio di data, benché qualsiasi resoconto esauriente dello sbocciare
del mattino debba includerla; luce che incalza sulla linea internazionale del cambio di data. Se un guardiamarina di Midway si spingesse in
mare per qualche miglio, cancellerebbe così un giorno intero, conterebbe un giorno in meno nel suo giro del Pacifico. Da qualche parte,
nello scompiglio di questo mattino, è già domani.
Luce sul Pacifico Occidentale, con le sue fosse sottomarine nelle
quali i pesci stessi sono fonte di luce. Occhi attaccati a lunghi steli,
occhi che irradiano luce dall’interno grazie al fosforo o al radium. Trasportati dalla corrente a diverse miglia in profondità, in uno stato di
beatitudine, liberi dall’uomo, nell’eterogeneità dell’universo marino.
Luce su tutte queste fosse sottomarine, e sulle crepe e le fenditure del
fondo oceanico che indicano l’assestamento delle placche tettoniche,
là dove lo strato fangoso della terra erutta e si rivela nella superficie
blu dell’oceano. Nelle fosse sottomarine la luce è speranza. O illusione. Luce come possibilità e come rivelazione.
Luce sulle isole Volcano del Giappone, nel Pacifico Occidentale.
Arcipelago non più lungo di otto chilometri, ma grande abbastanza
da avere ospitato la battaglia più atroce dell’ultima guerra globale.
Ventiseimila dispersi in tutto. Luce sui soldati giapponesi ancora là,
nelle grotte, che recitano sommessamente i loro sutra e bevono gocce
di condensa dalle pareti delle grotte mentre aspettano ordini dall’imperatore, ignari della deflazione giapponese e delle tre recessioni degli ultimi dieci anni. Luce sul monte Suribachi e sulla lacera bandiera
americana che è stata issata una sola volta, prima che Iwo Jima ritornasse sotto il comando della prefettura di Tokyo; luce sull’oscura storia e sulla porosa roccia vulcanica di Iwo Jima, sulle sue miniere di
zolfo e sulle raffinerie di zucchero. E ora è possibile ammirare anche
il più fulmineo avvento di alba del mondo, sulle isole Bonin, un altro
gruppo di estrusioni vulcaniche vicine al Tropico del Cancro, dove
proprio oggi stanno per essere abbattuti dei palissandri, col loro legno screziato di vermiglio perfetto per armadi di qualità superiore.
Luce sui mostri dell’insenatura di quest’isola, Godzilla, Baragon e altri, mostri che devono la propria esistenza alla storia nucleare della regione; luce sul lampo intenso dell’esplosione nucleare, dal momento
che adesso il sole nascente del mattino, spandendosi a levante, è sull’isola di Kyushu, nella parte inferiore dell’arcipelago giapponese. Luce
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sulle infinite distese verdi di Kyushu, e ora alba su Nagasaki, dove la
seconda esplosione è brillata con violenza, luce dell’alba che riflette
quell’altra luce. Luce sull’isola di Kyushu, dove crescono piante di tabacco e foglie di tè, luce sull’estremità meridionale della Corea del
Sud, luce che a poco a poco viene percepita in ogni parte della penisola della Corea, su Inchon e su Nampo, sul mar Giallo, relativamente poco profondo e illuminato di verde-azzurro, luce alla velocità della luce su un asse di rotazione, verso la costa cinese, verso Shanghai,
dove proprio la settimana scorsa è passata la coda di un tifone.
Luce sulla Nanjing Road, in direzione ovest, sugli edifici in stile
britannico, luce sulle palazzine francesi a quattro piani annesse al
quartiere, luce sui palazzoni che risalgono a una decina d’anni fa, luce
sulle scatole di vetro del capitalismo cinese, luce sulle aree suburbane
che hanno ricoperto i terreni agricoli fuori Shanghai, luce sulle industrie, con i cittadini impegnati a fabbricare impianti fax e semiconduttori, luce sulle ferrovie dirette a ovest, luce sugli informatori politici, luce sui poeti sovversivi di Shanghai, luce sui fedeli della Cina, e
luce sullo Yangtze, in senso contrario rispetto al suo corso, attraverso
Huize, le province dello Yunnan e del Sichuan, attraverso le zone più
popolate del più popolato dei paesi, attraverso le aree industriali e i
campi senza fine, attraverso la povertà, attraverso migliaia di chilometri, attraverso gli affluenti dello Yangtze, su, in alto, poiché lo Yangtze
discende dal tetto del mondo.
E ora luce agrodolce, color ambra, tra le colline ai piedi dell’Himalaya. Oggi le nuvole si sono diradate abbastanza da mostrare le vette
cinesi in mezzo all’esuberanza dei propri cumuli. Da molto lontano,
dagli aerei di linea che percorrono la rotta che da Calcutta va in Giappone, luce sulle vette, prima su quelle più basse, a ovest, sul confine cinese, e poi sul Namcha Barwa, sul Gurla Mandhata e sull’Everest; luce
sulle valli, luce che ficca il naso dentro le valli, luce sulle foci del
Mekong e del Gange, e luce sui monasteri non ancora saccheggiati dal
governo cinese e non ancora violati dalla polizia segreta, luce su una
costellazione di monaci che intonano i loro canti con voci acute e che
invitano al raccoglimento soffiando nei corni. Luce sull’Himalaya, serena, imprevedibile, là dove gli scalatori si avventurano con l’attrezzatura da roccia accompagnati dagli sherpa, luce diretta a ponente, sul
Karakorum, luce sulle due libbre di plutonio perse da qualcuno qui,
sulle montagne, e non ancora ritrovate, luce sul territorio occupato dai
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cinesi, e luce sulle fazioni belligeranti, luce sullo Jammu e sul Kashmir,
dove gli indù e i musulmani si puntano le armi addosso, luce su quella
regione del Ladakh, la regione dello Jammu e del Kashmir, sopra la linea tracciata dagli alberi, luce sulla regione di Kargil, luce sui musulmani sciiti, luce sugli indù della regione di Kargil, luce su Srinagar,
Badgam, Puilwama, Muzaffarabad, luce su Poonch, su Rajouri, luce
sulle diverse lingue, luce sulle diverse etnie, luce sui bambini che vanno a zonzo per le strade delle città scagliando sassi contro gli eserciti
occupanti, luce sui giovani militari di Bombay e di Calcutta che prestano servizio nell’esercito dello Jammu e del Kashmir. Luce sulle reclute che sperano soltanto di tornare a casa tutte intere, luce sugli abitanti del Kashmir in mezzo alla strada, sulle falangi dell’Islam, sui
mujahideen musulmani, su Al Barq, sulle falangi di Al Jehad, su
Harkat ul Mujahideen, su Hizbul Mujahideen. Luce sulla catena montuosa del Pir Panjal, dove i combattenti per la libertà, muniti di cospicue scorte di lanciarazzi e di mitra, si sono accampati.
Luce sulle madrasse a Peshawar, tante quante sono i petali dei fior
di loto del mondo intero. Le madrasse hanno reclutato tutti i ragazzi,
e dunque luce sul loro interesse per quel gioco noto come football, e
luce sulla partita che stamattina stanno giocando su un campo in terra
battuta vicino al passo Khyber. Luce sulle pareti a strapiombo del passo Khyber, luce sulle truppe comandate da un dittatore prostrato dallo sforzo di tenere al di là del passo quanti più profughi afgani possibili, e luce sui profughi afgani in fuga, luce sugli uomini dalla barba
non abbastanza lunga. Luce sui barbieri fuggiaschi. Luce sulla Via della Seta, dove il nestorianesimo aveva cercato rifugio una volta espulso
da Costantinopoli. Luce sugli squallidi stupratori afgani che a quanto
pare sono impegnati a profanare i ragazzi del Dehi-i-Haji e del Juwain.
Uomini asserviti al demone di tutte le depravazioni. Luce sugli uomini
in fuga per le colline, luce sui tagichi e sugli uzbechi, sui curdi e sugli
arabi, luce che illumina l’altopiano dell’Iran, luce sulle montagne e nel
Dasht-e-Lut, dove le colline si levano in alto ripide, scoscese, azzurre e
grigie. Non c’è anima viva all’orizzonte, eccetto questi cavalli e i loro
cavalieri in fuga. Per quanto le ciminiere di un impianto per l’estrazione di gas naturale siano ben visibili in lontananza, mentre la luce si
spande sul deserto, persino qui l’esplosione luminosa a est è accecante. Nell’aria aleggia il suono della poesia epica curda; immaginari alberi di pistacchio con le loro delizie. Più avanti, sulle rocce, un’oasi, per11
lomeno fino all’avvento di nuova luce, quando tutte le ricchezze della
Persia sembrano piuttosto appartenere al ricordo. I dormienti nel deserto sono stanchi, non riescono a svegliarsi, e vengono sopraffatti dall’alba che si diffonde verso ovest, nella terra dove è nato Maometto. A
perdita d’occhio, il profeta e la sua visione. L’alba è la sua metafora. Il
profeta cerca rifugio nel Signore del giorno nascente. Il Signore è privo di caratteristiche distintive, e non esistono parole adatte a descriverlo. Alba per tutta la gente della terra in cui è nato Maometto: persiani, curdi, arabi, palestinesi; alba per Baghdad, alba per La Mecca o
per Medina, per Damasco o per Gerusalemme. Ecco l’alba, ecco il cielo tempestato dai segni dello zodiaco. Ecco il muezzin. Luce sulla prima tazza di tè, luce sui fedeli inginocchiati per la preghiera, luce sui
profughi nei bivacchi che si svegliano per pregare, fino a quando le ginocchia non gli cedono; luce sui credenti, luce sui coloni della Cisgiordania, luce su di loro, sulle loro armi e sulle loro certezze, luce sulle
forze armate che si rifiutano di prestare servizio, luce su Gerusalemme, su Beirut e sul Cairo, luce sugli autori della Torah, luce sui talmudisti, su tutti coloro che versano lacrime sul Muro del Pianto, luce sui
resti del tempio di Gerusalemme, luce sulle rovine egizie, luce su ciò
che resta della Mesopotamia, luce sulle Mille e una notte, fiaba senza
fine. L’alba è più affidabile delle sue rappresentazioni concettuali, e
così tutto il suo splendore si diffonde nella nebbia lungo la costa del
Mediterraneo. È stanco il mattino, dopo un viaggio così lungo, stanco
per la grossa fatica. Non vede l’ora di immergersi in mare. Tutti i bagnanti, sulla sabbia rovente, ora la vedono, l’alba, mentre valica gli edifici, con le punte delle dita che passano oltre sfiorando il promontorio
di Jaffa; promontorio sul quale i bagnanti si raccolgono da quattromila anni. Un milione e mezzo di albe documentate, ognuna con un corpo nudo che ne registra i colori.
Quasi a volere indicare una metamorfosi. Luce sulle due metà gemelle di Cipro, quella turca e quella greca, centro della massa d’acqua
al centro del mondo, al centro di tutto. Omphalos. Rovine ovunque,
rovine di Cipro, turche e greche. E poi rovine in Turchia e rovine in
Grecia. Luce sulle rovine, luce sul fermento della Turchia, e poi luce
sulle isole dell’Egeo, luce su Patmos, dove san Giovanni ha avuto la
visione dell’Apocalisse, luce su queste allegorie e su questi enigmi; luce su Rodi, luce su Lesbo, luce sulle isole in cui si è aggirato Ulisse,
solo ed esiliato, fino a spingersi a un passo dal Purgatorio. Luce su
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