015_Antoni Claudio G. - Riviste Edizioni ETS

Transcript

015_Antoni Claudio G. - Riviste Edizioni ETS
CLAUDIO G. ANTONI
(Udine)
ONOMASTICA PLURILINGUE
NELLA NARRATIVA DI JOSÉ RIZAL
Abstract. The present paper contains a discussion of the following classes of
anthroponyms used by José Rizal in his novels Noli me tangere (1887) and El Filibusterismo (1889):
a) Names with different significant values in Italian and Spanish, i.e. Señor Pasta.
b) Names of friars pertaining to a mythical dimension, i.e. Padre Florentino.
c) Names considered antiquated in Spain but in vogue in the nineteenth-century
Philippines, i.e. Don Custodio.
d) Names made of two syntagms whose meanings appear to be interdependent,
i.e. Placido Penitente.
e) Names of Filipino origin, i.e. Makaraig.
f) Symbolic names indicating linguistic and cultural uprooting, i.e. Ibarra.
Such anthroponyms are primarily derived from Spanish, Italian, Tagalog and Arabic.
José Rizal y Mercado (1861-1896) è non solo il padre dell’indipendenza
filippina dal governo coloniale spagnolo, ma anche il primo scrittore che
abbia introdotto il concetto di romanzo occidentale nella letteratura filippina attraverso due opere narrative, Noli me tangere (1887) e El Filibusterismo (1889).
In uno studio dell’onomastica rizaliana, si possono distinguere sei classi
di appellativi: a) appellativi in cui la valenza significante in italiano e in
spagnolo non coincide: Señor Pasta, Padre Camorra; b) appellativi che
rinviano ad una dimensione mitizzata, con riferimento a nomi di religiosi:
Padre Florentino, P. Salví, P. Irene, P. Sibyla; c) appellativi antiquati in
Spagna ma in uso nelle Filippine di fine secolo: Don Custodio, Don Primitivo; d) appellativi costituiti da due sintagmi leggibili secondo un significato interdipendente: Placido Penitente; e) nomi di origine filippina (tagalog): Isagani, Makaraig, Cabesang Tales; f) appellativi significanti sradicamento linguistico e culturale: Ibarra, Ben Zayb.
Gli echi plurilingui collegati all’uso rizaliano di antroponimi provenienti da svariati idiomi che sembrano coprire buona parte dell’atlante linguistico mondiale, derivano indubbiamente dagli interessi verso le lingue
straniere dimostrati da uno scrittore dai molteplici interessi teorici e pratici come Rizal, che aveva deciso di fare della medicina e dell’oftalmologia il
centro della sua attività di assistenza verso il prossimo. Secondo uno stu-
162
CLAUDIO G. ANTONI
dioso filippino,1 Rizal era in grado di leggere e di esprimersi in ben diciassette lingue europee ed orientali tra cui l’arabo e l’ebraico, da lui praticate
sia nella sua numerosa corrispondenza con scienziati di tutto il mondo, ai
quali inviava esemplari della flora e della fauna delle foreste filippine in
cambio di materiale librario scientifico aggiornato e di strumenti chirurgici introvabili nella madrepatria, sia oralmente nei viaggi per mare che lo
condussero a visitare vari continenti e paesi e a soggiornarvi per periodi
più o meno lunghi. Rimane tuttavia da appurare se Rizal fosse veramente
consapevole, da un punto di vista simbolico-narrativo, dell’uso degli antroponimi che appaiono nei suoi romanzi. In ogni caso, anche se questo tipo di indagine è soltanto agli inizi per quanto riguarda l’esegesi letteraria
degli scritti del nostro autore, si può nondimeno affermare che un primo
risultato di tale indagine tende, con una certa sicurezza, a notare un coordinamento simbolico, valido oltretutto sul piano semiologico, tra gli eventi
ascritti ai personaggi nonchè alla loro personalità, ed i significati impliciti
negli antroponimi scelti dall’autore.
Riveste particolare interesse il rapporto che si instaura tra le letture e la
pratica linguistica dello scrittore filippino e l’influenza, sia pure generica,
che si può ascrivere alla letteratura italiana conosciuta da Rizal, nonchè a
nozioni derivate da una conoscenza diretta o indiretta di situazioni culturali e linguistiche collegate ai viaggi rizaliani nel nostro paese. Già ai tempi
dell’Ateneo Municipal di Manila, Rizal legge con profitto la Storia universale di Cesare Cantù, alla quale segue la lettura della Divina Commedia di
Dante e quella dei Promessi sposi del Manzoni, si ritiene nella lingua originale. I romanzi di Rizal contengono riferimenti diretti ed indiretti a figure
e situazioni letterarie di derivazione prettamente italiana, come i cenni a
Giovanni Bernardone (meglio noto come S.Francesco), al vicario francescano scomunicato Elia da Cortona,2 e al conte Ugolino di Pisa, quest’ultimo, indubbiamente, un ricordo delle letture dantesche di Rizal.3 Analogamente, il titolo del cap. LIII di Noli me tangere è di chiara estrazione italiana, un proverbio che aveva colpito in qualche modo il nostro scrittore
(“Il buon dì si conosce da mattina”).
Indiretti ma, nondimeno, riconducibili ad origini documentabili rispet1
Vd. G.F. ZAIDE, José Rizal: Life, Works and Writings, Manila, Villanueva, 1954, p. 195.
J. RIZAL, Noli me tangere, Caracas, Venegraf, 1982, p. 216: “...¡nunca te viste rodeado de
tantas lumbreras, Giovanni Bernardone!... Pero, venerable y humilde fundador, si resucitas ahora,
no verás sino degenerados Eliases de Cortona...”.
3 J. RIZAL, Noli me tangere, op.cit., p. 253: “... diríamos, al leer la desesperación en el rostro
del anciano, que era la Torre del Hambre en la víspera de devorar Ugolino a sus hijos”.Vd. anche El
Filibusterismo, Madrid, Ediciones de Cultura Hispánica, 1997, p. 151, in cui viene menzionato
l’astronomo gesuita Angelo Secchi.
2
ONOMASTICA PLURILINGUE NELLA NARRATIVA DI JOSÉ RIZAL
163
tivamente nel capolavoro manzoniano (cap.I), e nelle rime di Cecco Angiolieri (cfr. S’i fosse foco, arderei ‘l mondo) sono, rispettivamente, i riferimenti alla metafora espressa da Don Abbondio dei vasi di ferro che si
chiudono minacciosamente su un vaso di coccio, rimaneggiata quale traslato dell’impotenza di Cabesang Tales contro i soprusi terrieri orditi ai
suoi danni dai frati latifondisti,4 e una rielaborazione del ruolo dell’acqua
e del fuoco intesi, rispettivamente, come immagini dell’inerzia dei filippini
contrapposta allo slancio costruttivo degli spagnoli.5
Nonostante il fatto che la letteratura italiana appaia come una componente non solo genericamente letta ma meditata ed assimilata da parte dello scrittore filippino, l’onomastica di derivazione italiana nei due romanzi
si rivela in effetti numericamente limitata, tanto più se si considera la duplice relazione significante dovuta al passaggio di alcuni antroponimi da
un’origine italiana ad un uso spagnolo e, successivamente a quello, talvolta
modificato, presente negli appellativi filippini. È questo il caso del señor
Pasta, un avvocato non più giovane, ben noto nella comunità di San Diego, il piccolo centro che fa da sfondo alla vicenda romanzesca, conosciuto
come idealista in gioventù, al quale si rivolge Isagani nel suo tentativo, parallelo a quello della scuola privata di Ibarra, di fondare un istituto specializzato nell’insegnamento del castigliano. I consigli elargiti da Pasta, provocando lo sconcerto di Isagani, rivelano quanto sia mutata la condotta attuale dell’avvocato, che si limita a raccomandargli di sposare una donna
ricca e devota, di esigere pagamenti più alti possibile da parte dei suoi futuri studenti, e di disinteressarsi, per il suo bene, delle condizioni generali
in cui versa la colonia. L’avvocato si rivela dunque un pastelero (pasticciere) – dallo sp. pasta, nel senso di dolce di vari gusti e dimensioni in vendita
nella pastelería – che manipola lo slancio idealista dei clienti al fine di appiattire in un’unica ricetta (leggi pasta), valida per tutti, le aspirazioni di
progresso che si fanno strada nella mente dei giovani. L’eventuale rapporto con l’espressione spagnola hombre de buena pasta mette inoltre in rilievo l’immagine metaforica di colui che si lascia modellare a seconda delle
circostanze. Esiste tuttavia un’altra possibile spiegazione per l’uso rizaliano di un cognome in apparenza di derivazione italiana ma esistente sia nella penisola iberica che nell’arcipelago filippino. Nel suo viaggio per mare
diretto in Spagna nel 1882, Rizal si era fermato per qualche tempo a Napoli, dove non si era ancora spenta del tutto l’eco delle rappresentazioni
4 J. RIZAL, El Filibusterismo, op.cit., p. 62: “Tales..., sumiso á los frailes como pocos, por no romper un palyok contra un kawalì como él decía (para él los frailes eran vasijas de hierro, y él, de barro)...”. Si parla qui di termini tagalog indicanti, rispettivamente, pentole di coccio e padelle di ferro.
5 Tale epigramma è intitolato “El agua y el fuego” (1890).
164
CLAUDIO G. ANTONI
operistiche di cui era stata protagonista Giuditta Pasta. Sembra da escludersi, invece, un collegamento con la pasta intesa quale piatto
napoletano.6
Uno dei casi in cui la valenza significante italiana e quella ispanica non
coincidono ma conducono, comunque, ad un uso onomastico inusitato in
ambedue gli idiomi è quello di Padre Camorra, il cui appellativo potrebbe
essere inteso come soprannome peggiorativo affibbiato al frate da un pubblico studentesco insoddisfatto dei rapporti interpersonali con il religioso.
Il significato del termine si sdoppia infatti tra quello italiano di associazione di persone prive di scrupoli che, per vie illecite, si procurano favori e
guadagni (De Mauro, 2000) – nozione particolarmente valida alla luce della serrata critica rizaliana nei confronti dello strapotere degli ordini religiosi nelle Filippine –, e quello spagnolo nel senso di alterco, lite, disputa
e relativi sinonimi (Ambruzzi, 1971).7 Nonostante il fatto che Padre Camorra sia un personaggio secondario, egli è uno dei primi religiosi ad apparire sul ponte della nave nel capitolo iniziale di El Filibusterismo, per assumere più tardi, nella sua funzione introduttiva di gruppo, il carico peccaminoso di una concupiscenza del tutto fuori luogo in un sacerdote, al
punto di essere soprannominato stallone.8 L’ambiguità originaria di questo
genere di appellativi, a metà strada tra l’italiano e lo spagnolo, si riflette
d’altronde su quello di Padre Florentino, uno dei francescani nativi che
troviamo a bordo del piroscafo Tabù, dai modi e dal comportamento del
tutto opposti alla volgarità ed ignoranza dei religiosi filippini, quasi un ritorno sognato alla realtà gentilizia di una Firenze rinascimentale, colta ed
operosa come sanno immaginarla soltanto gli stranieri. Elegante e dignitoso, ma oppresso dall’età che fa apparire il suo sorriso come la smorfia di
un moribondo,9 Padre Florentino è l’ultimo della sua specie, destinata a
perire in un mare di scandali e di intollerabili colpe; ma la sua umanità appare superiore a quella degli altri religiosi filippini perchè le sue esperienze (l’amore per una donna, gli ordini terziari a cui era stato costretto dalla
madre, l’adozione dello studente Isagani), per quanto amare, lo avvicinano
maggiormente a quelle della gente comune. Nella sua immagine, che pure
6 Rizal dimostra di conoscere soltanto il pansit, una sorta di maccheroni o di capelli d’angelo
di produzione cinese: “... al pastel gubernamental respondían con un plato de pansit, y todavía!” (El
Filibusterismo, op. cit., p. 281); “¡Dediquemos pues el pansit al pais y al gobierno!” (op.cit., p. 284).
7 È opportuno sottolineare il fatto che l’Accademia Spagnola, Toro Gisbert, e Gili Gaya
ne danno un’etimologia derivata dall’italiano, mentre Capasso, Croce, Mestica, Zingarelli,
Palazzi e Migliorini, per citare solo alcuni, lo fanno derivare dallo spagnolo.
8 Vd. El Filibusterismo, op. cit., p. 330: “... el P. Camorra se llamaba Si cabayo por otro nombre y era muy travieso”. Si noti che padre Damaso si macchia dello stesso peccato, anche se il
narratore non ne specifica i preliminari.
9 J. RIZAL, El Filibusterismo, op. cit., p. 53: “Sus risas parecían muecas de moribundo...”.
ONOMASTICA PLURILINGUE NELLA NARRATIVA DI JOSÉ RIZAL
165
non è esente da macchie (aveva infatti custodito il tesoro di Simoun fino
alla morte di costui), si sovrappongono la visione di una città diventata mito e quella di un essere umano vicino alla perfezione.
L’atteggiamento rizaliano nei confronti degli ordini religiosi non si discosta generalmente dalla sorda ostilità che ne caratterizza i rapporti con
l’elemento laico della popolazione. Padre Salví, il cui appellativo può farsi
risalire ad un’apocope dell’aggettivo spagnolo salvífico, con riferimento
ironico ad una visione teleologica dell’esistenza che ovviamente non si cura degli eventi negativi nelle vicende terrene10, si segnala per la crudeltà e
il disinteresse verso il prossimo. Si fa qui riferimento alla controversa vicenda in cui Crispin e Basilio, figli di Sisa, una povera donna abbandonata
dal marito, vengono accusati di aver sottratto due monete d’oro dalla canonica di Padre Salví; di conseguenza sono rinchiusi in prigione, nonostante si proclamino innocenti, e non si permette loro di avvertire la madre
che si dispera fino alla follia per la loro assenza ingiustificata.
È da notare che l’uso in apparenza improprio di alcuni antroponimi
quali Padre Irene e Padre Sibyla, di cui non si comprende il capovolgimento di genere dal maschile al femminile, è forse riconducibile ad una
categoria separata, quella appunto degli antroponimi di origine classica,
indicante una provenienza ‘esotica’ europea e quindi enfaticamente indipendente da quella dei frati nati nell’arcipelago, tristemente noti per la loro ignoranza ed il loro comportamento volgare e scorretto, mentre a questi
ultimi – si veda, ad es., Padre Damaso, Padre Fernandez, ecc.11 – vengono
imposti nomi ordinari, come ordinari, per non dire bassi e triviali, si rivelano i loro appetiti e le loro esistenze. Tale ipotesi si fonderebbe, tra l’altro, sulla descrizione del tipo fisico del personaggio in questione. Non a
caso di Padre Irene non si sa quasi nulla eccetto che, con l’abbigliamento
ricercato, il roseo volto sempre accuratamente rasato e l’accattivante naso
giudeo, dava lustro al clero locale e non disdegnava di partecipare alla rappresentazione di vaudevilles francesi, trasudando un senso di pace in tutto
ciò che faceva. Le apparizioni di Padre Sibyla, invece, sono tutte in funzione del suo latino e delle controversie create dal suo perfetto uso della casuistica. Anche in questo caso si sottolineano la sua avvenenza fisica e la
brillantezza degli occhiali, metafora del suo intelletto non comune ([...]
“brillante como sus gafas de montura de oro”).12 La sua abilità dialettica appare quale l’immagine capovolta del latino improprio e inadatto alle circostanze di don Primitivo e fa pensare, nella sua sottigliezza intellettuale, a
10 A questa chiave di lettura potrebbe collegarsi la descrizione fisica del frate, macilento e
sofferente (vd. Noli me tangere, op. cit., pp. 61-62).
11 Non sempre, come si vede, Rizal è coerente con la distinzione tra nome e cognome.
12 J. RIZAL, El Filibusterismo, op. cit., p. 10.
166
CLAUDIO G. ANTONI
scuole di teologia presenti soltanto nel continente europeo. Nondimeno,
l’appellativo stesso impostogli dall’autore tradisce, a ben guardare, quel
dissidio tra cultura e primitivismo che, lungi dal trovare un punto di contatto, fa sì che la faconda eloquenza di Padre Sibyla si riduca, per gli indigeni, ad un linguaggio rituale oscuro ed inintelleggibile come gli astrusi
enunciati della Sibilla cumana.
Di notevole interesse appaiono quegli appellativi che, considerati antiquati nella penisola iberica durante il sec.XVIII e XIX, si ritrovano nell’Ottocento nelle parti più periferiche del dominio coloniale spagnolo come
l’arcipelago filippino, mentre cadono in disuso già nel Settecento in gran
parte delle colonie ispanoamericane. Il loro significato, sia pure sempre di
derivazione neolatina, acquista dunque una valenza tipicamente filippina
ormai estranea al loro impiego in ambito castigliano, accentuandone il valore iconico atemporale. Ecco dunque Don Custodio e Don Primitivo, caratterizzati sia quali veri e propri arcaismi onomastici in ambito ispanico, sia
dal fatto che vengono utilizzati come nomi di battesimo e come cognomi, a
volte con riferimento alla medesima persona. Don Custodio – da intendersi
nel senso di vigilante e di guardiano di una certa realtà di carattere religioso, con riferimento alle sue origini tardo-romane – risulta invece, in qualità
di alto funzionario del governo coloniale spagnolo, custode di una realtà
sociale immobile e stagnante che volge le spalle ad ogni tentativo di modifica dello status quo; anch’egli, parallelamente al señor Pasta, è responsabile
del muro di disinteresse e di indifferenza che Isagani si trova a fronteggiare
nel suo intento mal riuscito di aprire una scuola privata di spagnolo. Appoggia a parole i liberali, ma ritiene che il controllo dei frati nei confronti
dell’istruzione nazionale sia un male necessario; non legge per pigrizia i
giornali provenienti da Madrid, e giunge a ritenere erroneamente che le liriche popolari filippine quali il kundiman, il balitaw e il kumingtang,13 siano di origine giapponese o araba. Quale uomo politico, don Custodio non
appare certamente peggiore di coloro che, in ogni tempo, hanno scelto di
rappresentare una tendenza governativa o una parte della popolazione, nonostante l’atteggiamento sarcastico di Rizal. In effetti don Custodio fallisce
proprio nello scollamento tra il suo appellativo e il significante che lo designa, come avviene del resto con don Primitivo (v.), in quanto si lascia irretire in un’avventura erotica poco raccomandabile con la capricciosa ed instabile ballerina Pepay (diminutivo tagalog di Josefa).14
13 Il kundiman è una canzone d’amore; il balitaw è una canzone folklorica la cui tematica si
riferisce all’ambiente naturale e alle tradizioni della semplice vita di campagna; il kumingtang, in
origine un canto guerresco, si è trasformato in un ballo folkloristico di gruppo.
14 Tra i diminutivi utilizzati da Rizal si tengano presenti Sisa (Narcisa) e Tasio (Anastasio), il
linguista ritenuto folle che appare in Noli me tangere (op. cit., pp. 141-148 e passim) e che, come
ONOMASTICA PLURILINGUE NELLA NARRATIVA DI JOSÉ RIZAL
167
Un analogo meccanismo semantico governa il nome e le sorti di don
Primitivo, un filippino dell’alta borghesia che conosce a memoria intere
opere filosofiche in latino e che, simile ad un oracolo incomprensibile nel
mezzo di una popolazione che, in molti casi, non era nemmeno in grado di
comprendere lo spagnolo, pur di fare sfoggio della sua sterile cultura, non
esita a confondere le idee di chi si rivolge a lui ritenendolo inviato dalla divina provvidenza. A questa figura quasi manzoniana nella sua incessante
profluvie di un latino pappagallesco e risibile, l’autore impone un nome
che, fin dai tempi della conquista spagnola, aveva incontrato grande favore tra la popolazione filippina da una prospettiva essenzialmente eufonica,
senza riferimenti dunque ai possibili agganci significanti di tale scelta onomastica. Ai tempi di Rizal molti filippini venivano battezzati con il nome
Primitivo (oggi sono decisamente meno numerosi, dopo l’ondata anglofona che ha sconvolto la cultura dell’arcipelago), e spesso diventavano oggetto di scherno e di sarcasmo da parte di europei non avvezzi a tale appellativo. L’origine di questo nome è da ricercarsi nella numerazione della
prole, molto diffusa nelle lingue europee e semitiche,15 per cui Primitivo si
identificherebbe con primero en su línea,16 quindi come primo nato, senza
allusioni ad una possibile condizione di arretratezza o di inciviltà (stupisce, tuttavia, che in ambito castigliano sia avvenuta una sovrapposizione
tra primero e primitivo, mentre la numerazione ordinale con relativa formazione onomastica si mantiene rigorosa in altri idiomi). Tuttavia don Primitivo non sfugge al dissidio tra cultura autoctona e latino quale linguaggio culturale dell’occidente: egli fa, per così dire, la figura dell’intruso perchè ha assimilato un idioma, il latino, del tutto esteriore rispetto al suo
modo di essere, rimanendo così estraneo al piano socio-culturale a cui desidera appartenere o, in altre parole, restando un primitivo (leggi indio, come appunto venivano considerati i filippini dai criollos, discendenti di puro sangue castigliano), in grado soltanto di parodiare un linguaggio che in
effetti gli sfugge. Non a caso don Primitivo sostiene che sia possibile mutare la logica di un discorso a seconda del linguaggio impiegato, funzione a
cui serve egregiamente il latino (cfr. la citazione preferita di don Primitivo
per cui “... las verdades latinas son mentiras tagalas...”),17 nella quale semdon Rafael, padre di Ibarra, osa sfidare le convenzioni socio-linguistiche del paese conoscendo alla perfezione sia lo spagnolo che il tagalog.
15 Si pensi ad es. a Primo, in italiano, e a Rābi‘a, mistica sufi di Basra (Iraq) morta nell’801, il
cui nome (“quarta”) si identifica con l’aggettivo indicante l’ordine delle nascite nel suo nucleo familiare.
16 Vedi G. TIBÓN, Diccionario etimológico comparado de los apellidos españoles, hispanoamericanos y filipinos, México D.F., Editorial Diana, 1988, p. 196.
17 J. RIZAL, Noli me tangere, op. cit., p. 326.
168
CLAUDIO G. ANTONI
bra di percepire una vaga eco del Dottor Azzeccagarbugli di manzoniana
memoria.
Nel novero dell’onomastica filippina di origine ispanica vale la pena di
ricordare Placido Penitente, non perchè appaia come un personaggio importante nella risoluzione di qualche episodio di El filibusterismo (Rizal fu
criticato infatti per aver riempito oltre misura i suoi romanzi di vicende secondarie, secondo la moda del costumbrismo allora vigente), ma in quanto
possiede una sua valenza simbolica fondamentale, rappresentando il tipico
studente di etnia filippina, vilipeso e schernito da compagni e da docenti
per le sue origini razziali e per la presunta ottusità mentale, come si diceva
a quei tempi di tutti gli studenti nativi. Placido è un provinciale che è venuto a frequentare i corsi universitari nella capitale Manila, e incarna tutto l’astio di cui può essere capace il filippino mestizo messo sistematicamente da
parte in tutte le questioni, compresa l’istruzione, riguardanti la sua terra natia. Per questa ragione egli diventa il simbolo di quella guerra non dichiarata tra l’Università di Santo Tomás, roccaforte dei domenicani conservatori e
illiberali, e gli studenti progressisti che la frequentavano. Nello stesso tempo, Placido è portatore di un tipo di appellativo caratteristico dell’onomastica filippina, nel quale si trovano due sintagmi, nome e cognome, ambedue significanti di un modo di essere coordinato che, in effetti, non dovrebbe essere decodificato come tale ma che, nondimeno, conduce l’interlocutore o il lettore a percepire i due sintagmi come interdipendenti.18 La
sorpresa linguistica che scuote l’europeo di fronte a tali forme onomastiche
è, del resto, pienamente condivisa da un filippino, come testimonia la reazione dello stesso autore che tuttavia, invece di partecipare, prima facie e
senza riserve, a questa sorta di calembour onomastico, lo distanzia attraverso una sorta di sublimazione linguistica trasponendone il valore significante
in un gioco ulteriore di parole sullo sfondo delle vicende scolastiche di una
lezione di fisica, facendolo quindi dipendere da una situazione narrativa
creata ad hoc e non da un pun fine a se stesso. Si spiega in questo modo la
battuta di padre Millon nei confronti dello studente impreparato ma combattivo: “Ajá! Plácido Penitente, pues mas pareces Plácido Soplon ó Soplado.
Pero te voy á imponer penitencia por tus sopladurias”.19
18
Mi era stata segnalata di recente, a questo proposito, l’esistenza di un certo Sig. Placido
Calma, il cui nome risponde alla medesima struttura di cui sopra. Di notevole interesse appare
l’osservazione rizaliana per cui Ben Zayb viene trattato da ignorante per aver tradotto male il nome di un tenore italiano su un giornale di Manila (El Filibusterismo, op. cit., p. 237). Poichè tale
errore in realtà non esiste, in quanto i nomi propri non si traducono, viene da chiedersi se l’autore
non avesse in mente invece una struttura onomastica del tipo che stiamo discutendo. D’altronde,
lo scrittore non dà alcuna indicazione sull’appellativo in questione.
19 J. RIZAL, El Filibusterismo, op. cit., p. 157. Frase di difficile traduzione letterale in italiano,
ma abbastanza comprensibile da un punto di vista intuitivo. Ci limitiamo a sottolineare che soplar
ONOMASTICA PLURILINGUE NELLA NARRATIVA DI JOSÉ RIZAL
169
Fedele alla sua concezione ispanocentrica, per cui un’eventuale rinascita della cultura filippina non sarebbe potuta avvenire se non attraverso le
linee guida, sia linguistiche che culturali in senso lato, di una nazione già
presente nel novero dei paesi più avanzati del momento, tra cui appunto la
Spagna, Rizal sembra trasporre questa teoria nel campo dell’onomastica.
Gli antroponimi da lui impiegati sono infatti spesso di origine ispanica o
adattati dal castigliano all’uso filippino; molto più raramente, invece, ci
imbattiamo in antroponimi autoctoni o derivati da una o più delle parlate
locali dell’arcipelago (tagalog, bisaiano, ilocano, sebuano, ecc.) che, secondo alcune stime,20 supererebbero la quarantina. Tra gli antroponimi di
estrazione linguistica locale sono da ricordare Isagani – l’alter ego di Rizal,
“nipote” di Padre Florentino ed uno degli studenti più appassionati nella
difesa dell’idioma castigliano, ritenuto per questa ragione una testa calda –
la cui grafia (Ysagani) varia per ragioni di scrittura antiquaria,21 e Makaraig, lo studente a capo del movimento linguistico filoispanico, entusiasta,
idealista, elegante e di famiglia agiata. Mentre l’etimologia di Isagani rimane oscura, quella di Makaraig può collegarsi a due forme lessicali tagalog,
in quanto tale appellativo può scindersi in due voci, maka, con il significato di tendenza, inclinazione, predisposizione, e raig che, come tale, sembra
essere privo di significato, ma che, se opportunamente modificata sostituendo la r con la d, genera il sostantivo daig, con l’accezione di vincitore,
di insuperato, o di colui che possiede un certo vantaggio; tuttavia, allo
stesso tempo, questa voce lessicale può riferirsi a significati del tutto opposti, a seconda della semantica del discorso di cui fa parte, quali sconfitto,
battuto, o debellato.22 Vista la condizione ambivalente in cui si trovava il
nostro autore nella sua veste di attivista politico e di educatore delle masse, incerto fino all’ultimo sulla sopravvivenza del suo movimento di affrancamento dal governo di Madrid, non stupisce che sia stato Rizal stesso,
con le sue vaste conoscenze in campo linguistico, ad escogitare, quale referente etimologico, un appellativo artefatto quale Makaraig, contenente i
termini essenziali del dilemma esistenziale della sua vita, vittoria o sconfitta, che lo avrebbe condotto fatalmente ad una scomparsa immatura.
Un altro antroponimo di origine tagalog, particolarmente significativo
significa in questo caso suggerire, come avviene tra gli studenti descritti nel cap. XIII.
20 Cfr. C.D. MCFARLAND, A Linguistic Atlas of the Philippines, Manila, Linguistic Society of
the Philippines, 1983, passim.
21 Si tenga presente che non è disponibile un’edizione filologica dei romanzi di Rizal, con
tutti i problemi che questo comporta.
22 Tale condizione linguistica, tipica di una certa dimensione primitiva del linguaggio in cui
l’ambiguità a livello lessemico e quella a livello discorsivo sono intercomunicanti, è messa in evidenza, tra gli altri, da W. EMPSON, Seven Types of Ambiguity (New York, New Directions, 1947,
pp. 192-233), quale esempio di metodologia nell’esegesi del testo poetico.
170
CLAUDIO G. ANTONI
nella sua struttura significante, è quello di Cabesang Tales, l’indigeno affittuario di terreni che piomba, per ragioni economiche, nella disperazione
più profonda giungendo a macchiarsi dell’assassinio di coloro che erano
stati gli artefici della sua caduta. A prima vista, Tales risulta essere un paese della provincia spagnola di Castellón; ma, in effetti, è necessario riferirsi
al nome completo del personaggio, Telésforo Juan de Dios, per evitare attribuzioni erronee. Tales risulta essere il diminutivo di Telésforo con modifica vocalica (e ↔ a), che si accompagna al sostantivo spagnolo cabeza
(o cabesa, secondo la pronuncia filippina). Di particolare interesse si rivela
il suffisso -ng, diffuso in tutta l’area del sudest asiatico tra cui il Vietnam, a
volte presente nel discorso come particella indipendente caratterizzata da
vari significati riducibili a preposizioni (di, da, per) ma usato, in questo caso, come pronome relativo, in modo da formare una sorta di attributo
scritto all’incontrario (Cabesang = colui che è capo).
Questo soprannome ci permette di intravvedere uno spaccato di vita
quotidiana filippina di provincia, valido sia nella seconda metà dell’Ottocento che in tempi anteriori alla conquista spagnola, riferendosi ad un costume radicato profondamente nelle origini della civiltà dell’arcipelago.
Tales era il capo di un gruppo di famiglie (barangay) residenti in un villaggio. I capi dei barangay erano incaricati di raccogliere le imposte ed i tributi delle famiglie sotto il loro controllo, aggiornando, se necessario, gli
elenchi dei residenti nel caso di decessi e di trasferimenti di nuclei familiari in altre circoscrizioni della provincia.23 Per la popolazione locale era
senza dubbio un onore essere nominati capi di barangay, ma non mancavano gli aspetti negativi come, ad esempio, il fatto che il cabesang era tenuto a garantire il pagamento dei tributi fissati anche da parte di coloro che
erano insolventi, rimettendoci spesso del denaro che, in ultima analisi,
proveniva dalle sue rendite private. Si aggiunge così un tocco di ironia ad
un soprannome che indubbiamente poteva suonare ragguardevole alle
orecchie di un contadino filippino misero e diseredato, ma che, a ben
guardare, aveva contribuito in misura non indifferente al crollo finanziario
di Telésforo.
Si è visto dunque che, almeno in parte, la personalità e le aspirazioni di
Rizal si riflettono sulle peculiarità comportamentali e sulle decisioni di
fronte agli eventi in cui sono calati, di almeno tre personaggi, Isagani,
Makaraig e Cabesang Tales che, a prescindere dalle vicende di vario genere a cui sono collegati, rispecchiano una comune origine tagalog per quanto riguarda i tratti onomastici che li caratterizzano. Meno chiaramente delineata appare invece la supposta relazione tra l’elemento onomastico inte23
Cfr. J. RIZAL, El Filibusterismo, op. cit., p. 416.
ONOMASTICA PLURILINGUE NELLA NARRATIVA DI JOSÉ RIZAL
171
so quale segno narrativo ed il principale alter ego di Rizal, vale a dire Crisostomo Ibarra. Come si è detto in precedenza, l’appellativo Ibarra appare
soltanto in Noli me tangere; mentre nel romanzo successivo, El Filibusterismo, il medesimo personaggio acquista il nome di Simoun, delineando così un’ambivalenza che, dal piano onomastico, viene a collegarsi sia con
quello narrativo che con le vicende biografiche a sfondo politico che avevano caratterizzato la breve vita dello scrittore.
In primo luogo vale la pena sottolineare che l’appellativo di Crisostomo
Ibarra, a cui ci si riferisce nel corso della narrazione come a Ibarra tout
court anche quando gli parla la fidanzata, non si identifica con un appellativo castigliano. Si tratta invece dell’abbreviazione di un cognome basco,
Eibarramendía, sufficiente a mettere in primo piano alcuni elementi fondamentali nella struttura dei due romanzi, tra i quali lo sradicamento culturale, sia dal versante ispanico che da quello filippino, a cui si aggiunge,
come inevitabile corollario, il motivo dei viaggi per mare a lunga distanza,
dapprima con Ibarra quale protagonista nel percorso circolare Filippine Spagna - Filippine e, successivamente, con Simoun che, recatosi a Cuba a
fare fortuna, ritorna anni dopo nell’isola natia, assetato di vendetta, dopo
aver mutato il suo cognome originario. Le coincidenze tra il significato lessicale di ibarra e le possibili connessioni tra l’elemento narrativo e quello
biografico facente capo a Rizal sono singolari: da un lato, infatti, il significato di ibarra coincide con quello di vallata o pianura fertile, richiamando
quindi l’attività principale dei Mercado nonchè la vicenda di Cabesang Tales strettamente collegata al lavoro campestre; dall’altro, ibarra possiede
pure il significato di riva, costa, litorale e sinonimi, con evidente riferimento al tema del viaggio e a spostamenti fisici che, in effetti, risultano essere
metafore dell’instabilità di determinati sfondi socio-culturali come quelli
relativi alla civiltà basca e a quella filippina.24 Ma Ibarra possiede, nonostante la sua personalità solare ed ottimista nel suo entusiasmo verso il
prossimo, un’individualità oscura ed antisociale che si fa strada lungo i
percorsi narrativi di El Filibusterismo e che culminerà nell’attentato finale
in cui egli stesso troverà la morte.
Questa personalità distruttiva, che si compiace di un atto terroristico
inaudito nel piccolo centro di San Diego, risponde ad un appellativo enigmatico quanto il personaggio al quale viene applicato. Simoun sembra infatti il risultato di una sovrapposizione di carattere anagrammatico tra due
appellativi diversi, vale a dire Simeón e Simón, ai quali, tuttavia, deve aggiungersi il sostantivo arabo samum, successivamente modificato in francese e in inglese attraverso l’introduzione della i al posto della a (ingl. si24
Vedi G. TIBÓN, op. cit., p. 121.
172
CLAUDIO G. ANTONI
moom, fr. simoun), il vento caldo e secco che soffia nelle regioni desertiche
dell’Africa settentrionale sollevando enormi nuvole di sabbia (De Mauro,
2000). Come l’omonimo vento africano non cessa di mettere sottosopra e
di sconvolgere qualunque oggetto gli si pari dinnanzi turbando tutte le attività al suo intorno, allo stesso modo Simoun è il corrispondente umano
di una forza della natura che non troverà pace finchè non avrà vendicato
la morte di Maria Clara, scomparendo egli stesso nel suo folle atto terroristico. L’unica corrispondenza mancata tra l’immagine del tenebroso Simoun e il vento desertico che gli fa da prestanome è l’origine araba di quest’ultimo, mentre l’autore non esita a sottolineare, quasi antinomicamente,
l’estrazione giudaica dello sconosciuto commerciante, Simoun per l’appunto, che si appresta a sbarcare a Manila evadendo le domande più indiscrete intorno al suo passato.
Non deve meravigliare, d’altra parte, se Rizal non dà seguito al possibile rapporto semantico tra l’appellativo in codice con cui Ibarra si ripresenta alla comunità che, anni addietro, lo aveva esiliato, e le origini culturali
dell’inquieto mercante di gioielli. In effetti il cristiano e filospagnolo Rizal
non riconosce in alcuna delle sue opere, né tantomeno nei romanzi, il possibile ascendente della cultura araba su alcuna parte della civiltà o dell’evoluzione letteraria dell’arcipelago, e questo nonostante che tale influenza
sia chiaramente riconoscibile nei generi letterari, nelle tradizioni popolari
e nei calchi linguistici presenti nelle isole meridionali delle Filippine, dove
la religione coranica si instaura a partire dal basso medioevo. Non è dato
quindi di conoscere quali siano i fondamenti conflittuali che presiedono
alla rimozione, da parte del nostro autore, di quanto possa in qualche modo collegarsi alla civiltà islamica. Ci si imbatte, a volte, in dettagli di chiara
ascendenza araba che, però, non vengono mai approfonditi nei loro valori
apportatori di civiltà, come la menzione, di sfuggita o in un contesto ironico, di arabeschi, di Sinbad e delle Mille e una notte.25
La nozione di convivenza con l’elemento arabo o con quanto di tale
cultura si era assimilato da secoli in regioni filippine lontane da Luzon,
isola principale dell’arcipelago e teatro delle vicende dei romanzi rizaliani,
appare dunque come remota dall’ideale di una cultura spagnola guida, nonostante tutto, di una possibile rinascita futura del substrato autentico della civiltà filippina quale era concepita da Rizal. Inoltre non mancavano i
problemi sociali collegati ai moros stessi, come venivano chiamati i filippini di fede islamica, dediti talvolta alla pirateria e a scorrerie aventi come
obiettivo gli insediamenti dei filippini cattolici.26 Queste ragioni contribui25
26
Vedi J. RIZAL, El Filibusterismo, op. cit., pp. 113, 126-127 e 209.
Si veda C.G. ANTONI, Scritti minori di José Rizal: poesia e teatro, “Quaderni del Diparti-
ONOMASTICA PLURILINGUE NELLA NARRATIVA DI JOSÉ RIZAL
173
scono al fatto che, in tutta l’opera rizaliana, si può trovare soltanto un riferimento, per così dire neutrale, nei confronti della cultura araba, rappresentato da un sonetto del 1880, in cui il poeta si rivolge alle isole dell’arcipelago natio paragonandole in modo sorprendente alle urì del paradiso
islamico (“Ardiente y bella cual hurí del cielo... / Duerme una diosa del indiano suelo”).
Le ambiguità ed i silenzi che caratterizzano il rapporto, non esattamente amichevole, tra Rizal ed il mondo arabo si riassumono in un antroponimo, Abraham Ben Zayb, singolare per la sua struttura leggibile sia in spagnolo che in arabo, a cui si aggiunge l’apparente incongruenza di un appellativo, Abraham, appartenente alla tradizione cristiano-giudaica, che
sostituisce la forma araba Ibrahim più consona al cognome Ben Zayb.
Quest’appellativo rivela, in effetti, una realtà linguistica bifronte, la prima
di derivazione spagnola in quanto l’autore stesso afferma che si tratta di
un anagramma del ben più comune patronimico Ybáñez (o Ibáñez); la seconda proveniente dal verbo arabo zaba nel senso di sciogliere, dissolvere,
fondere (Al-Mawrid, 1996) da cui, attraverso il participio attivo za’eb (solubile), si giunge all’aggettivo zayeb con il significato di tenero o sciolto,
diffuso ai tempi del Profeta come nome proprio ed esistente ancora oggi
nella tradizione onomastica araba (si noti che il patronimico spagnolo sussiste anche nella forma araba, dando origine appunto a Eben Zayib → Ben
Zayb). Il fatto stesso che tale forma onomastica sia il risultato di un anagramma che si pone quale punto di collegamento tra due tradizioni linguistiche diverse (v. in questo senso gli antroponimi Ibarra, Cabesang Tales e
Simoun, di cui si è trattato in precedenza), dimostra che non ci troviamo
di fronte ad un evento linguistico puramente fortuito, bensì ad una costruzione da tavolino dietro la quale non poteva che esserci un linguista appassionato.27
Ben Zayb è un giornalista de La prensa filipina, un quotidiano di Manila
di fama non eccelsa, se Rizal si permette un chiste a questo riguardo, sovrapponendo il significato di stampa a quello di ferro da stiro maneggiato
da una popolana scarmigliata, cieca da un occhio, che stira affannosamente
degli abiti in una modesta bottega.28 Il nome esotico con cui si firma il giornalista non può che attirare tutta una serie di commenti, non sempre benemento di Lingue e Letterature dei Paesi del Mediterraneo”, V, Università degli Studi di Trieste,
(2004), pp. 17-50.
27 Cfr. l’interesse di Rizal verso il Volapük, una sorta di esperanto ideato dallo svizzero J.M.
Schleyer verso il 1885 (Noli me tangere, op.cit., p. 223), nonchè i numerosi passi in cui l’autore
tratta di argomenti linguistici di vario genere (ad es., El Filibusterismo, op. cit., pp. 93-94, 135138, 224 e passim).
28 J. RIZAL, El Filibusterismo, op. cit., p. 199.
174
CLAUDIO G. ANTONI
voli, e di considerazioni polemiche nei confronti di una realtà non cristiana
che pure appartiene al complesso della civiltà filippina. Il disinvolto Ben
Zayb, che si destreggia tra la sostanziale ignoranza del suo pubblico di lettori, attratti soltanto da notizie locali che coinvolgono frati e alti funzionari
durante le loro periodiche visite a manifestazioni ufficiali e a spettacoli teatrali, sopprimendo a malincuore il desiderio inappagabile di dimostrare la
sua conoscenza dei classici e la dimestichezza con un mondo della cultura
praticamente ignorato dai più, diventa il bersaglio di un’ostilità diretta verso il problema dell’assenza della cultura e del monopolio ideologico dell’onnipresente cattolicesimo filippino. Ne consegue che l’appellativo di Ben
Zayb viene preso dal collega di un giornale rivale non come uno pseudonimo letterario, bensì come l’appellativo autentico di un musulmano stanziato a Manila: dunque Ben Zayb non può che essere non cattolico, da cui se
ne deduce che gli manca il dono della carità cristiana.29 Ma è proprio a
questo punto che Rizal riserva al lettore una rivelazione sorprendente: Ben
Zayb altro non è che un domenicano dedicatosi alla professione giornalistica, tant’è vero che il pubblicista nemico, che si cela sotto lo pseudonimo di
Horatius, si rivolge a lui chiamandolo Fray Ibañez e deridendo la sua ignoranza del latino, tipica della classe religiosa filippina.
La polemica giunge al suo culmine nei riferimenti alla biblioteca di
Alessandria. Nel diciannovesimo secolo comincia a manifestarsi in Europa, di fronte ad una rinnovata presa di coscienza culturale alimentata dalle
tendenze unificatrici nazionali e dai rispettivi movimenti risorgimentali, il
concetto per cui gli arabi erano nemici del sapere,30 e per sostenere tale
posizione perlomeno azzardata, l’esempio che maggiormente si addiceva a
tale prospettiva non poteva che essere quello della distruzione della biblioteca di Alessandria, avvenuta nel 642 per mano delle truppe del califfo
Omar che, secondo una leggenda apocrifa, fecero uso dei rotoli di papiro
e dei manoscritti su pergamena custoditi nella biblioteca per riscaldare i
bagni e le terme della città per una durata di sei mesi. A chi gli chiedeva la
ragione di tale immensa distruzione del sapere umano, Omar avrebbe risposto che tutta la cultura di cui aveva bisogno l’umanità risiedeva nel Corano; quindi la produzione filosofica e letteraria che si poneva al di là dei
limiti imposti dal messaggio di Allah non aveva ragione di esistere.
Lo pseudonimo di Ben Zayb si adatta dunque perfettamente ad una situazione che, pur non avendo nulla a che spartire con la distruzione della
famosa biblioteca, ne fa una sorta di simbolo culturale che rispecchia la
29
J. RIZAL, El Filibusterismo, op. cit., p. 320.
Citato da M. R. Menocal, The Arabic Role in Medieval Literary History, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2004, p. 24, a proposito di Louis Bertrand.
30
ONOMASTICA PLURILINGUE NELLA NARRATIVA DI JOSÉ RIZAL
175
controcultura studentesca ostile al sapere domenicano forzatamente imposto nell’ateneo di Santo Tomás. Dopo l’affissione anonima delle pasquinate che danno il via ad un’atmosfera di inquietudine e di sedizione latente,
Ben Zayb concede il suo appoggio di libero informatore della stampa alla
fazione studentesca,31 ma si vede nel contempo attribuire quella mancanza
di sensibilità verso la cultura cattolica che, secoli addietro, era stata ascritta alle popolazioni medio-orientali convertite all’Islam. Nella disinvoltura
intellettuale che riflette l’etimologia araba del suo appellativo, Ben Zayb è
latore di un trasformismo che non conosce i limiti tra territorialità e cultura e che, come tale, si fa portavoce di tutti quegli strati culturali, compreso
quello arabo, che confluiscono nella civiltà filippina definendone la sua
eterogeneità.
31 “La instrucción es funesta, funestísima para las Islas Filipinas!” (J. RIZAL, El Filibusterismo, op. cit., p. 311).