“Due parole” sull`IRAP ovvero Il professionista è sempre soggetto o
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“Due parole” sull`IRAP ovvero Il professionista è sempre soggetto o
“Due parole” sull'IRAP ovvero Il professionista è sempre soggetto o sempre esente? Scopo del presente lavoro è dimostrare che l'interpretazione oggi generalmente accettata dell'art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997 introduttivo dell'IRAP, il quale stabilisce che il presupposto dell'assoggettamento all'imposta è <l'esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata>, è errata sotto qualsiasi punto di vista, proprio in relazione al significato attribuito a tali ultime due parole. Mi riferisco ovviamente all'interpretazione che vorrebbe il reddito professionale soggetto all'imposta solo nel caso in cui il professionista disponga di un'organizzazione dotata di autonomia rispetto al titolare e quindi, in altri termini, che tale organizzazione sia capace di produrre reddito “proprio”, distinto e ulteriore rispetto al reddito prodotto con l'opera del professionista. L'autonomia di tale organizzazione, la cui presenza o assenza è considerata il discrimine tra l'assoggettamento o l'esenzione dall'IRAP, comporterebbe quindi una capacità produttiva impersonale ed aggiuntiva rispetto a quella propria del professionista. Per cui l'organizzazione di cui si sia dotato il professionista è ritenuta non solo autonoma dal medesimo, ma anche capace di produrre un proprio reddito: questa è la sostanza di tutte le sentenze degli ultimi anni, anche di Cassazione, in materia di assoggettamento a IRAP del professionista! Questo modo di considerare la produzione del reddito nell'esercizio di una professione equivale a dissociare il reddito in due parti: una prettamente professionale riconducibile all'attività del solo titolare e l'altra di natura imprenditoriale riconducibile all'organizzazione di beni e di persone. Ora, tralasciando il fatto che la logica conseguenza di tale differenziazione sarebbe, al limite, quella di assoggettare all'IRAP solo la seconda parte del reddito prodotto (con tutte le difficoltà di determinarne la giusta proporzione) lasciando indenne il reddito “da lavoro”, vanno fatte in merito alcune osservazioni in ordine alla corretta interpretazione del dettato normativo. Una piccola parentesi: si legge che l'IRAP (come a suo tempo l'ILOR e ieri e oggi tanti altri balzelli) sia un'imposta locale, nata per dare autonomia impositiva a Regioni, Provincie e Comuni e, più recentemente, per perseguire il Federalismo anche fiscale, toccasana delle ferite inferte al Bilancio statale dagli sperperi degli irresponsabili della periferia. Se fosse veramente così, l'IRAP colpirebbe tutti i redditi, anche quelli da lavoro dipendente, dato che anche i lavoratori subordinati usufruiscono dei servizi locali. Noi, però, non dobbiamo dimenticare che l'IRAP è quell'imposta demagogica (si può dire marxista? infatti, non colpisce il plusvalore – pudicamente trasformato nel politicamente corretto quid pluris – prodotto dal possesso dei beni di produzione e dallo sfruttamento della classe lavoratrice?) che grava solo sugli autonomi, notoriamente evasori di IRPEF e IRES (e se è per questo, a maggior ragione, anche di IVA) a differenza dei dipendenti, notoriamente onesti e pagatori di imposte fino all'ultimo centesimo. Quindi occorreva un rimedio che in qualche modo ridistribuisse il peso delle imposte, gravando solo sugli autonomi! E, come spesso accade, al peso materiale si è aggiunto il peso immateriale – ma comunque costoso – delle difficoltà di applicare una norma che nelle intenzioni doveva essere semplicissima. Ma, torniamo al tema. La questione è come si sia potuto giungere dall'espressione in sé estremamente chiara <attività autonomamente organizzata> a quella di <attività dotata di autonoma organizzazione> e, da questa, inferire che l'organizzazione possa essere autonoma dal titolare, dotata cioè di vita propria, distinta e separata dal medesimo organizzatore. Mi limiterò ad esaminare la norma in questione seguendo i soli criteri di cui al primo comma dell'art. 12 delle Disposizioni Preliminari del Codice Civile, e cioè il senso fatto palese dal <significato proprio delle parole secondo la connessione di esse> e dalla <intenzione del legislatore>: lettera e ratio. La ratio (lo scopo) della legge intanto può rilevare ai fini dell'interpretazione della norma in quanto la lettera di quest'ultima sia ambigua. Pertanto, in primissima istanza – senza peraltro farci oltremodo suggestionare dalle risalenti prescrizioni di Hammurabi, che decretavano la decapitazione del giudice che non avesse applicato la legge alla lettera – dobbiamo attenerci all'interpretazione letterale, tenendo presente che nella stesura originaria dell'art. 2 le parole <autonomamente organizzata> non erano presenti e che la questione controversa concerne proprio il significato da attribuire a questi due termini, in connessione tra loro e con le altre parole del periodo. Quindi, è evidente che se la norma si fosse fermata al termine <attività>, non sarebbe sorto alcun problema intorno all'organizzazione e alla sua autonomia. Tuttavia, anche se lo scopo della legge intanto può rilevare ai fini dell'interpretazione della norma in quanto la lettera di quest'ultima sia ambigua, giustificando così il ricorso all'interpretazione teleologica (tra le altre, Cass., Sez. Lavoro, Sentenze nn. 2183 e 2663 del 1983), nel nostro caso dobbiamo tenere presente (quasi) contemporaneamente anche l'intenzione del legislatore, evidente ancor più del solito proprio per il successivo, e necessariamente significativo, inserimento dei termini citati. Tutta la questione dell'interpretazione corrente, di cui alla premessa, si basa su una sottile deformazione dei due termini incriminati, deformazione che consiste nell'aver trasformato un avverbio (autonomamente) in un aggettivo (autonoma) e un aggettivo (organizzata) in un sostantivo (organizzazione). In questo modo, chi intendeva giungere alla lettura oggi in voga ha compiuto il primo passo: ha disgiunto l'aspetto dell'organizzazione (qualsiasi cosa questa significhi in relazione ad un'attività economica abituale, alla quale è tanto connaturata da esserne quasi un sinonimo) dall'attività, creando l'idea dell'esistenza di una attività del titolare e di una attività dell'organizzazione di cui questi si è “dotato”. Il secondo passo è consistito nel trasformare l'avverbio, che ha la funzione di delimitare e meglio specificare l'aggettivo o il verbo a cui è legato, in aggettivo con una sua propria “autonomia”, se mi è consentito il gioco di parole. Siamo così arrivati surrettiziamente da una <attività autonomamente organizzata> a una <attività [per lo svolgimento della quale la titolarità si sia] dotata di un'autonoma organizzazione>. Si è così creata una fantomatica organizzazione, che per di più è diventata autonoma rispetto al titolare, quasi fosse dotata di una vita propria, distinta e separata dalla titolarità dell'attività. In altri termini, si è dato ad intendere : 1) che possano esistere a) un'attività (esercitata abitualmente, non dimentichiamolo) non organizzata, cioè senza una pur minima ed elementare strutturazione e b) un'attività organizzata, cioè dotata di una struttura; 2) che tale organizzazione possa essere autonoma, cioè indipendente, non rispetto ai terzi, ma rispetto al titolare e quindi nei confronti dello stesso organizzatore. Non credo che ci siano dubbi sul fatto che per “attività” l'art. 2 intenda sia l'azienda sia lo studio professionale, per cui possiamo riferirci al Codice Civile che, nel definire l'azienda (e quindi in senso lato qualsiasi attività economica compresa quella professionale, se consideriamo le attuali esigenze di quest'ultima in termini di strumenti) dice che essa <è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa>. Quindi, nel concetto di <esercizio dell'impresa (leggi:dell'attività)> è implicita la presenza di beni organizzati, a maggior ragione in caso di esercizio abituale, come specifica l'art. 2. Pertanto, se l'esercizio abituale di un'attività contiene in sé la presenza di beni (mobili e immobili, materiali e immateriali, fungibili e infungibili) organizzati, perché il legislatore ha avvertito la necessità di aggiungere le parole “autonomamente” e “organizzata”, e in particolare quest'ultima che, come vedremo, è assolutamente pleonastica, inutile e proprio per questo fuorviante? Sinonimi di organizzato sono i termini costituito, disposto, impostato, programmato, strutturato, gestito e addirittura creato! Se il legislatore, avvertito dell'equivoco possibile, avesse usato l'espressione costituita o gestita invece che “organizzata”, oggi non parleremmo di organizzazione e tanto meno di autonoma organizzazione. Qui, a parte l'antica querelle sul modo, tipicamente nostrano, di scrivere le leggi – e non mi riferisco solo agli emendamenti dell'ultim'ora – sorge la questione della conoscenza, o meno, della nostra bella lingua, da parte del legislatore e dell'interprete. In italiano, lingua che non manifesta morfologicamente il caso (salvo poche residue eredità latine costituite, per es., dal pronome soggetto “io, tu” e dal pronome complemento “me, te”), è fondamentale il rilievo che nella frase viene dato ad una parola dalla sua posizione e ciò risulta molto evidente ove si consideri la posizione relativa di un sostantivo e dell'aggettivo che lo qualifica. La struttura della frase in italiano prevede che gli elementi informativi nuovi che via via si aggiungono nel formulare un discorso siano collocati a destra, cioè seguano gli elementi a cui si riferiscono: <Giovanni ha mangiato il panino> non può essere sostituito da <Il panino ha mangiato Giovanni>. Nella sequenza <nome + aggettivo qualificativo> la posizione normale, quindi informativamente neutra, è quella che vede l'aggettivo posposto al nome. Quest'ordine naturale è spesso modificato per mettere in rilievo l'elemento che si vuole porre all'attenzione dell'interlocutore. Tra gli aggettivi qualificativi non verificabili secondo un criterio assoluto, quindi suscettibili di un intervento valutativo da parte del parlante, alcuni sono molto ricorrenti nell'uso, come grande, alto, bello, vecchio. Tutti questi aggettivi mantengono il loro significato “fisico” quando seguono il nome cui si riferiscono, per cui un dirigente alto è un uomo alto di statura che svolge una mansione dirigenziale, mentre un alto dirigente è un uomo che ricopre una carica dirigenziale di livello superiore. In sostanza, la posizione dell'aggettivo qualificativo ne determina la diversa funzione: svolge una funzione descrittiva quando precede il nome, mentre assume una valenza restrittiva quando sia posposto. Per es.: <Ho conosciuto il giovane figlio di Mario> non equivale a <Ho conosciuto il figlio giovane di Mario>, perché nel secondo caso si presuppone che ci sia almeno un altro figlio di Mario, più grande di età, che già conoscevo. Recentemente è apparso più chiaro che nell'analisi della frase è opportuno distinguere varii livelli – pragmatico, sintattico, semantico – e che tra gli oggetti indagati nei diversi livelli di analisi le corrispondenze non sono automatiche. Il livello pragmatico, per esempio, ha soprattutto relazione con gli stimoli esterni che costituiscono la scena in cui si inserisce ciascun atto di comunicazione o con le assunzioni tacite del parlante sulle conoscenze dell'interlocutore. Per questo motivo, se vogliamo accreditare il nostro legislatore dell'aver tenuto conto di queste circostanze, dobbiamo ritenere che egli, volendo con l'intervento successivo chiarire che sono soggette ad IRAP le attività esercitate “in proprio” e non quelle svolte [dal parasubordinato con partita IVA] “presso terzi”, ha messo in risalto l'”autonomamente” anteponendolo all'”organizzata”, sapendo anche che tale ultimo termine (aggettivo e non sostantivo), essendo implicito nel concetto di attività, non fosse suscettibile di diversa interpretazione e men che mai che potesse assurgere ad ”organizzazione”. Qualcuno dimentica che la Commissione Parlamentare dei trenta, incaricata di esprimere un Parere sul decreto legislativo recante, tra l'altro, <Disposizioni correttive del D.Lgs. n.446/1997 (...)>, discutendo sull'ipotesi di introdurre all'art. 2 il concetto di organizzazione autonoma (non si parlava ancora di autonoma organizzazione), decideva di invitare il Governo <a precisare se il concetto di organizzazione autonoma> coincidesse <con la detenzione della partita IVA o se vi sia un'altra discriminante sottintesa>. Con ciò si accoglieva l'emendamento 5 del Sen. D'Alì, che richiedeva di premettere al punto 1 quanto segue:<Pare opportuno che venga precisato se l'introduzione dell'elemento organizzazione tra i presupposti dell'imposta, accanto a quello dell'abitualità dell'attività economica, valga ad escludere dalla soggettività dell'IRAP per carenza di presupposto tutte le fattispecie di attività economiche non caratterizzate dal requisito dell'organizzazione. E conseguentemente occorre precisare se nell'ipotesi di un lavoratore autonomo che abitualmente svolga la sua attività presso terzi, senza impiego di mezzi e persone, vi sia carenza o meno del requisito dell'organizzazione. Ed inoltre se le collaborazioni coordinate e continuative, tipicamente attività di lavoro autonomo nelle quali il soggetto che le svolge non si avvale di una propria organizzazione, sarebbero escluse o meno dall'IRAP>. E lo illustrava ulteriormente:<[Si] sottolinea come esso sia volto ad evitare che la previsione del concetto di organizzazione autonoma crei un ulteriore elemento di confusione. Si chiede cioè se vi possa essere il caso di soggetti titolari di partita IVA esenti dall'IRAP. Per questo motivo auspica che il Governo precisi i criteri di definizione di <organizzazione autonoma>, definizione a suo avviso ancora troppo vaga e quindi abbandonata ad una eccessiva discrezionalità da parte dell'amministrazione, con un prevedibile contenzioso futuro (grassetto mio)>. Il Sen. D'Alì aveva già capito tutto: non solo parlava di organizzazione autonoma e non di autonoma organizzazione, non solo indicava i veri e soli destinatari dell'esenzione, ma aveva anche chiaro il concetto che “autonoma” significa “propria” e, infine, prevedeva il futuro contenzioso generato dall'infelice formulazione della delimitazione chiarificatrice! Teniamo presente che l'interpretazione corrente si basa sull'equazione: autonomamente organizzata=autonoma organizzazione, per cui nel caso di cui ci occupiamo, cioè dell'interpretazione letterale delle parole <autonoma organizzazione> dobbiamo ritenere voluta la posizione dell'aggettivo “autonoma” (che, sia detto per inciso, nella forma avverbiale effettivamente utilizzata assume ancora di più particolare forza): è come se il legislatore avesse inteso sostantivizzare l'aggettivo e aggettivizzare il sostantivo, sempre se ammettiamo l'equazione di cui sopra. E fin qui sono d'accordo: l'importanza è deviata dalla organizzazione alla sua autonomia, e pertanto occorre definire il significato anche di questo abusato termine. Autonomia è parola di etimologia greca: da autos (stesso) e nomos (legge). L'autonomia è dunque la condizione di colui che detta legge a se stesso, si governa con regole proprie, è libero e indipendente; e perché l'autonomia sia possibile è necessario un alto grado di autosufficienza, cioè di autarchia, che in greco vuol dire “bastare a se stessi”. In conclusione: solo chi è autosufficiente può darsi le proprie regole di comportamento: infatti, sinonimo di autonomo è il termine “proprio”, come diceva il Sen. D'Alì. Pertanto, non è possibile che esista un'organizzazione del professionista (per non dire di altre figure, in questa sede) dotata di autonomia, cioè in altri termini, di indipendenza, autosufficienza, autogestione, autodeterminazione. A questo punto ci dobbiamo porre la domanda fondamentale: autonomia, dell'organizzazione, da chi? Secondo l'interpretazione corrente, proprio da chi tale organizzazione l'ha creata, l'ha messa in piedi, la dirige, la controlla, la mantiene, e quindi dal titolare! Da qui la stranezza dell'interpretazione di cui si diceva in apertura: se l'assoggettamento all'IRAP è determinato non dall'esistenza di una organizzazione autonoma del professionista, ma dall'esistenza di una organizzazione autonoma dal professionista, allora nessun professionista è soggetto all'IRAP, perché nessuna struttura di beni e risorse umane, per quanto organizzata, sarà mai autonoma, cioè autosufficiente, autogestita, autodeterminata, in altri termini indipendente dal professionista titolare della stessa. Al contrario, se l'organizzazione è del professionista, cioè se questi si è dotato di una propria struttura, che può (deve) essere più o meno organizzata, non ha alcun pregio valutare quanto grande sia la struttura, perché la questione rimane incentrata sull'autonomia della stessa, e abbiamo visto che tale condizione si deve verificare in rapporto ai terzi. Ora, affrontata la questione dell'interpretazione letterale sia della sola prima stesura della norma, sia della stesura definitiva, possiamo esaminare la questione sotto il criterio dell'interpretazione teleologica, dell'intenzione del legislatore. Dato per acquisito che un'attività, per di più già definita come esercitata abitualmente, è necessariamente organizzata, perché si è ritenuto utile e necessario definirla facendo ricorso al concetto di sua autonomia? Semplicemente perché si è voluto evitare che nell'assoggettamento all'IRAP rientrassero anche quelle attività che, pur esercitate abitualmente (combinato disposto degli artt. 1, 4, c.1, e 5, c. 1, del DPR n. 633/72) e pertanto in possesso di partita IVA, sono marginali e così vicine al lavoro subordinato da essere meritevoli di esenzione da quella particolarissima imposta. In altri termini, il legislatore ha preso atto che il “popolo delle partite IVA” è costituito per una certa parte da soggetti che tutto sono tranne che <autonomi>, in quanto in realtà hanno dovuto chiedere la partita IVA per mascherare un rapporto di lavoro dipendente con il loro, troppo spesso, unico committente: cioè, non sono <autonomamente organizzati> e utilizzano locali, beni strumentali e in qualche caso anche altre risorse umane, organizzati da altri, da terzi, dai loro committenti, dai loro “datori di lavoro”. Se oltre l'uomo anche altri animali fossero soggetti all'IRAP, considerando che la loro attività tipica, esercitata abitualmente, è la ricerca del cibo (oltre quella accessoria e meramente eventuale della riproduzione), mi chiedo se secondo la tesi oggi vincente la formica sarebbe soggetta all'IRAP, mentre la cicala ne sarebbe esente, in quanto notoriamente carente di organizzazione. E il cuculo, che affida parte della sua attività a un'organizzazione altrui, come sarebbe trattato? Se si vuole sintetizzare in poche parole quanto detto sinora, posso dire: - che il termine “organizzata” riferito all'attività è pleonastico e quindi possiamo eliminarlo senza modificare il senso della frase; - che l'unico termine rimasto, “autonoma(mente)” può significare, in relazione all'attività, solo “propria”, “non dipendente da terzi”. Tutto ciò premesso, l'interpretazione più corretta, tra le 144 possibili ipotizzate dal mio maestro Luigi Lombardi Vallauri, già professore di Filosofia del Diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Ateneo fiorentino, è quella oggettiva-storica-letterale se ci limitiamo alla disposizione nella stesura originaria, confortata e confermata da quella soggettivastorica-teleologica se ne teniamo presente la stesura definitiva. In altri termini, e più semplicemente, sia l'interpretazione letterale sia quella dell'intenzione del legislatore di cui alle preleggi, vorrebbero che tutti i professionisti siano assoggettati all'IRAP, per il semplice fatto di esercitare abitualmente un'attività autonomamente organizzata, cioè propria. Se invece, come oggi si ritiene comunemente, il discrimine dell'assoggettamento è dato dall'esercizio di un'attività professionale affiancata da un'organizzazione dotata di autonomia e pertanto in grado di produrre un reddito aggiuntivo e distinto da quello del titolare, allora nessun professionista è soggetto all'IRAP, perché non esiste (nemmeno nel campo imprenditoriale, se non nel caso delle grandi società anonime) un'organizzazione di beni e persone, organizzata – come dice il Codice civile – dall'operatore economico, che sia autonoma dal suo stesso organizzatore. Per concludere, un esempio semplicissimo, che ritengo di una chiarezza tale da rendere forse superfluo quanto detto finora. Prendiamo la frase <Presupposto per una guerra vittoriosa è un esercito modernamente armato>. Che un esercito sia armato è pacifico (come è pacifico che un'attività sia “organizzata”), quindi il fattore essenziale è che l'armamento sia moderno (così come il fattore essenziale è che l'attività sia “autonoma”). Al momento in cui scrivo sia il Governo sia la Corte di Cassazione si stanno ancora interrogando sul significato da attribuire all'autonoma organizzazione e sulla sua misurazione in termini di beni strumentali e risorse umane utilizzate. Queste sono cose per me assolutamente incomprensibili, che mi fanno dubitare di quanto ho studiato e, ritenevo, capito. E non all'Università, ma alle Scuole Elementari. Matera, 16 marzo 2015 Antonio R. Colucci Commercialista in Matera