1 A quaranta anni dalla morte Etica e politica la lezione di

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1 A quaranta anni dalla morte Etica e politica la lezione di
A quaranta anni dalla morte
Etica e politica
la lezione di Chiaromonte
di Manfredi Mannato
Cos’è rimasto di Nicola Chiaromonte, morto quarant’anni fa, il 18 gennaio 1972? Poco o
nulla. Certamente fu un irregolare, un outlandish, che mai intrattenne relazioni pacifiche con
qualsivoglia “spirito del tempo”, o “individuo cosmico storico” del panorama politico italiano degli
anni Cinquanta-Sessanta, che pur bene conosceva, e in cui si trovò ad operare. Sempre fuori furono,
lui e il suo amico Ignazio Silone, dalla cerchia dei noti protagonisti della politica e della
intellighenzia ufficiali del momento. Anima critica la sua, la cui esemplarità socratica non poteva
non farlo essere e sentire cittadino del mondo; un mondo che aveva cercato di comprendere e
spiegare attraverso la pubblicazione di “Tempo presente”, una delle migliori riviste italiane di
cultura del dopoguerra, fondata nel 1956 con Ignazio Silone e insieme all’amico diretta fino al
1968.
Nato nel momento in cui prende l’avvio in Italia la rivoluzione industriale – i cui sviluppi
economici e sociali caratterizzeranno nel periodo successivo l’intera storia materiale e morale del
nostro Paese, per cui alle idee del liberalismo e della democrazia, si opporranno quelle del
socialismo e del comunismo -, il giovane Chiaromonte si verrà a trovare nel bel mezzo di una
riflessione, d’ordine non soltanto politico, che metterà progressivamente in discussione i
fondamenti e il destino della stessa società industriale.
Figlio del suo secolo, egli da subito pone radici in quei fermenti nuovi che, a fascismo
ormai consolidato, cercano la costruzione di un nuovo sapere politico, modellato soprattutto sulle
garanzie offerte dal liberalismo e dal socialismo, le due anime più nobili della tradizione politica
moderna italiana ed europea. Scriverà:”La nostra è stata una generazione ricca di idee e priva di
convinzioni; alla ricerca della verità e dogmaticamente certa che non ci fosse altra certezza che nel
relativo e nel mutevole, cioè nel caso: generazione, soprattutto che non credendo in nulla, credette
negli eventi e nella loro logica, come se gli eventi potessero dare quello che non era negli uomini”.
Saranno le lotte sociali e i contrasti ideologici – intorno a cui si travaglierà il mondo della fine del
secolo XIX -, ad avvicinare il giovane Chiaromonte alle idee del liberalismo e della democrazia.
Parlare della sua vita e della sua opera significa richiamare alla memoria la figura di un
uomo schivo, la cui discrezione, effetto di una congenita tensione morale, lo portava ad esprimere
con un pensiero chiaro e libero verità a lungo riflettute e sofferte; verità vissute e partecipate che per
lui rappresentavano, sempre e comunque, la ragion d’essere della cultura:“La cultura, infatti, non è
il terreno della verità”. Di qui l’antifascismo, le battaglie politiche e militari in Spagna (aveva
partecipato come combattente alla guerra civile sulle bare volanti della squadriglia Malraux), gli
esili in Francia, Algeria, Stati Uniti, che alimentarono sempre più quel suo liberalsocialismo di una
cultura di sinistra sobria, la cui origine inconfondibile aveva le sue matrici nei Quaderni di Giustizia
e libertà dei fratelli Rosselli. Liberalsocialismo, il suo, che oltre ad essere una proposta politica era
un vero e proprio stile di vita, che nasceva da una serrata quanto congrua elaborazione intellettuale
intessuta di profonda partecipazione umana.
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A differenza di tanti profeti e ciarlatani del suo tempo, Chiaromonte non ritiene inevitabile,
né auspicabile, qualsivoglia cataclisma ideologico-politico, che in nome di un qualunque ideale
distrugga con sangue, dolore e lacrime tutto ciò che è caro all’umana civiltà. Quando mette in
guardia i suoi amici contro il giacobinismo più spinto o la bandiera rossa delle masse, che considera
non meno feroci della ragion di Stato della classe dominante, non è animato da una disperazione di
eroe romantico, ma semplicemente da un intento positivo: egli ritiene infatti che la cultura, il buon
senso, la volontà, il coraggio delle idee possano scongiurare il pericolo, e modificare il cammino
dell’umanità. Poiché Chiaromonte ama lo stile e l’eleganza degli uomini liberi, le qualità che più
ammira sono l’immaginazione, la sincerità, la naturale generosità, l’umanità, l’ampiezza di vedute,
il sentire proprio della libertà individuale, la forza d’animo, l’energia morale, l’odio verso tutte le
forme e situazioni di schiavitù, verso ogni imposizione o regola arbitraria, ma soprattutto verso la
mortificazione e l’annichilimento dell’uomo. Chiaromonte loda queste preziosità dell’anima
ovunque le incontri, rigettando le semplicistiche formule politiche e le demagogiche
generalizzazioni, anche se glorificate dal sacrificio e dal martirio di uomini che combattono in nome
di una stessa causa. Più e più volte dichiara che l’esperienza è tutto e che non potrà mai essere
sostituita dalle idee e dalle parole, in quanto la vita è sempre eccezione, frattura, improvvisazione e
mai sistema, processo, struttura. Ecco perché questo atteggiamento, nel suo caso, non lo porterà al
distacco, né, tanto meno, al cinismo; si affianca, invece, ad un temperamento appassionato e ribelle,
all’occasione anche moderato ed equilibrato, facendo di lui uno straordinario personaggio per la sua
unicità e onestà morale, un rivoluzionario privo di fanatismo, un uomo disposto ad essere in prima
linea a battersi nel nome non già di principi astratti, ma sempre contro miserie e ingiustizie reali,
concrete, vere, che nel mondo innervano condizioni e situazioni di vita miserabili e che richiedono
di essere riscattate all’insegna di un nuovo e più forte senso morale.
L’intera evoluzione che muove il pensiero e l’opera di Chiaromonte può essere apprezzata
alla luce di un tagliente aforisma dello Stesso:” Le menzogne corrodono le verità inutili, mettendole
fuori uso e falsandole”. Parole di alto valore terapeutico che, come “maestro segreto”, aveva
precocemente esercitato fin da quando gli apparve in tutta evidenza la natura totalitaria dei regimi
novecenteschi. Strenuo assertore del principio di responsabilità, questo “poliglotta dello spirito” mai
ha dismesso le pulsioni dell’intellettuale libertario, tant’è che ha sempre vissuto in tutto il suo
drammatico spessore – nella costruttiva tensione tra la concezione della libertà e, rispettivamente, la
democrazia da un lato e il socialismo dall’altro -, l’intera parabola della sua esperienza di
intellettuale e di uomo. Egli è certamente uno dei principali eredi della duplice tradizione politica,
quella liberale e quella socialista, della modernità, anche se sempre cosciente del fatto che i
programmi degli scrittori socialisti e libertari furono spesso propagandistici e utopici; altri, a volte,
un po’ troppo virulenti e d’impatto, ma che comunque né le manchevolezze, né i difetti, né le
insufficienze e gli eccessi di quei programmi, né il loro fallimento socio-politico, annullavano la
legittimità delle questioni sollevate da pensatori della statura di un Herzen, Tolstoj, Proudhon,
Camus, Köstler e tanti altri. Latori, questi ultimi, di domande fondamentali che emergono nel
momento stesso della nascita dell’era moderna e, in nuce, essendo in esse contenuta tutta la storia
della nostra epoca, i suoi sogni e le stesse realtà virtuali di libertà, uguaglianza e fraternità della
democrazia occidentale, il cui nesso pencolante o, piuttosto, controverso, potrebbe far pensare ad
una giustificata incompatibilità, ad una contraddittoria prassi o speculazione politica, a cui, tuttavia,
il pensatore lucano volle dare una risposta.
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