Schermi_di_guerra [ 1.18 MB ]

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
CORSO DI STUDIO IN DAMS
TESI DI LAUREA
SCHERMI DI GUERRA
Le guerre jugoslave tra cinema,
storia e società
Relatore:
Prof.Giaime Alonge
Candidato:
Mauro Ravarino
matr. n°147230
Anno accademico 2004-2005
INDICE
I NTR OD U Z IO NE
1.1 Cinema e guerre jugoslave
7
1.2 I film e la geografia del conflitto
13
PARTE PRIMA
R A P PR ESE N T A Z I ONE E V IS I O NE : I TEATR I DI GU ERRA
1
Vukovar e la Croazia
22
1.1 Il disertore
24
1.2 Tempo d’amare
28
1.3 Harrison’s Flowers
30
1.4 Vukovar: Poste Restante
34
1.5 Gli altri film
36
2
39
Sarajevo
2.1 Benvenuti a Sarajevo
47
2.2 Do you remember Sarajevo?
54
2.3 Lo sguardo di Ulisse
56
2.4 Teatro di guerra
62
2.5 Il cerchio perfetto
64
2.6 Forever Mozart
66
2.7 Gli altri film
69
3
82
Bosnia-Erzegovina
3.1 Pretty Village, Pretty Flame
83
3.2 Beautiful People
91
3.3 No man’s land
95
3.4 La vita è un miracolo
100
3.5 Benvenuto Mr. President
105
3.6 Una ricostruzione storica e i documentari su
Srebrenica
107
3.7 Gli altri film
113
1
4
Belgrado e la Serbia
4.1 La Polveriera: Belgrade as state of mind
116
116
4.2 I giovani registi e la generazione dei “ragazzi
di Praga”
123
4.3 Gli altri film
131
5
135
La Macedonia e il Kosovo
5.1 Prima della pioggia
138
5.2 Il Kosovo sul grande schermo: tra documentario e
fiction
145
6 La guerra tra mito, realtà e metafora
151
7 Il conflitto visto dall’Italia: “la guerra in casa”
174
7.1 Nema problema
177
8 Media e guerra
184
PARTE SECONDA
G UERR E JU GOS LAVE (1991-1999)
1 Gli ultimi anni della Jugoslavia e la sua disgregazione
201
2 La guerra in Slovenia e in Croazia: 1991
213
3 La guerra in Bosnia-Erzegovina: 1992-1994
221
4 La guerra continua nel 1995 in Bosnia-Erzegovina
e in Croazia
234
5 La guerra in Kosovo 1989-1999
246
2
PARTE TERZA
E M IR K USTURICA E LA STOR IA DELL ’ EX -J UGOS LAV IA :
U NDERGROUND
1 Analisi del film
279
2 Reconstruction: cinema e storia
300
3 Tra mito e realtà
309
4 Realtà e finzione: tra surrealismo, doppio, vero e
manipolazione
315
5 Le polemiche
322
B I B L IO GR A F IA
335
F ILMOGRAFIA
353
S I T O GR A F IA
358
3
INTRODUZIONE
La Storia irrompe nuovamente nel cinema contemporaneo con
insolito slancio, originali forme e ampie problematiche. Il caso
delle guerre jugoslave, che avevano colpito la civile Europa a
cinquant’anni
dal
secondo
grande
conflitto
mondiale,
è
assolutamente significativo al proposito. Esse sono diventate il
soggetto fondamentale di una vasta filmografia.
Numerosi autori si sono confrontati con la recente storia dei
Balcani, sia registi originari delle repubbliche che costituivano la
Jugoslavia, sia stranieri, definendo così due modalità diverse di
approccio e messa in scena della storia: auto-rappresentazione e
rappresentazione.
Questa
ricerca
si
propone
di
analizzare
la
produzione
cinematografica, e più in generale audiovisiva, sui conflitti che, a
poca distanza dal confine italiano, si sono protratti per tutti gli
anni Novanta, e sulla complessiva disgregazione della Jugoslavia.
Affronta un percorso interdisciplinare tra cinema e storia,
inserendo i film in un contesto storico, culturale e politico,
interessandosi al rapporto con gli altri media e arti, in primis la
televisione e la letteratura. Utilizza strumenti e materiali diversi:
testi scritti, video e multimediali. Tra i film compaiono opere di
fiction (per la stragrande maggioranza lungometraggi, ma in
alcuni casi anche cortometraggi) e documentari, non operando
particolare
distinzione
fra
fiction
e
non-fiction,
ritenendo,
d’altronde, una semplificazione la suddivisione delle pellicole in
due rigide categorie. Realtà e finzione sono due dimensioni che,
anche
alla
luce
della
post-modernità,
si
contaminano
e
compenetrano in modo difficilmente inestricabile. E’ nostra
intenzione offrire uno sguardo critico su tale rappresentazione.
4
Lo studio del rapporto tra cinema e storia è un campo
complesso, che da più di un decennio è stato alimentato da nuovi
stimoli teorici e artistici. Permette di analizzare le dinamiche
sociali di un’epoca, le forme figurative, le strategie comunicative,
la mentalità, la ricerca e l’elaborazione estetica, l’interpretazione
del passato e allo stesso tempo il ruolo del cinema nella società e
nella contemporaneità, l’apporto alla formazione di un pensiero e
immaginario collettivo, multiforme, e di una memoria, non solo
iconografica.
Il progetto è stato suddiviso in tre parti, in dialogo tra loro. La
prima “Rappresentazione e visione: teatri di guerra” ripartisce la
geografia
del
conflitto
in
cinque
grandi
aree
territoriali,
analizzando le diverse opere che si soffermano su ciascuna: dalla
Croazia alla Bosnia, dalla Serbia alla Macedonia, fino al Kosovo.
Focalizzando l’attenzione anche su tre città particolari: Sarajevo,
vittima di un lungo assedio e protagonista di una indescrivibile
resistenza
culturale,
Belgrado
e
Vukovar.
La
filmografia
delineata, segnata da un non trascurabile approccio artistico, si è
rivelata composita e multiforme. Tre approfondimenti concludono
la sezione: la guerra e il destino dei Balcani come costante della
relazione “mito e realtà”; il conflitto visto dai registi italiani; il
complesso rapporto tra media e guerra.
La seconda, sulla storia delle guerre jugoslave, si inserisce tra le
due parti più “cinematografiche”, proprio a voler sottolineare
l’interdisciplinarità che struttura la ricerca. Indicativamente
vanno dal 1991 al 1999, ma comprendono una lunga fase di
incubazione e la propaggine del conflitto macedone. Questa
sezione cerca di fornire un quadro sulla storia recente e la
società
dell’
ex
Jugoslavia,
smontando
l’idea
distorta
e
semplificata di una guerra per motivi etnici, e si pone come base
essenziale per lo studio dei film. E’, infatti, interessante in alcuni
5
passaggi utilizzare una lettura “non lineare” che permetta di
creare un rapporto sincronico e diacronico tra cinema e storia.
La terza ed ultima parte è dedicata ad Underground (1995) di
Emir Kusturica, probabilmente allo stesso tempo il film più noto,
controverso e complesso sull’intera tematica. Dopo l’analisi
dell’opera, si sono rilevati alcuni nodi problematici del testo
filmico:
la “reconstruction” storica effettuata dalla pellicola,
ovvero l’interpretazione creativa, non sempre filologicamente
corretta, ma in grado di muovere un discorso articolato sul
presente e sul passato1; il mito e la realtà nel film; la
contaminazione
delle
categorie
“realtà”
e
“finzione”
tra
surrealismo, doppio, vero e manipolazione; infine le numerose
polemiche, sul suo valore “politico”, che avevano accompagnato
il successo a Cannes nel 1995 e l’uscita del film nelle sale.
1
Si veda Marc Ferro, Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980 (del testo vi è poi
un’edizione aggiornata Cinéma et Histoire, Gallimard, Parigi, 1993).
6
1.1 C INEMA
E GUERRE JUGOSLAVE
Dieci anni di lunga guerra, con qualche pausa dopo il 1995, ma
senza allentamenti di tensione. Tanto durarono i conflitti nell’ex
Jugoslavia, che imperversarono per tutti gli anni Novanta e sono
diventati oggetto, e a tratti ossessione, dei cineasti, prima
balcanici e poi di tutto il mondo. Quella dei registi jugoslavi fu
una reazione pressoché istantanea, basti pensare che il primo
film Il disertore (1992) di Živjon Pavlović è stato girato a
Vukovar quando i fuochi della guerra erano ancora accesi.
E’ un argomento di ricerca che solo ultimamente viene studiato a
livello accademico. Nell’aprile del 2004 Nevena Daković, storica
del cinema e docente all’Università di Belgrado, contava più di
trecento film di finzione e documentari, che trattano della
disgregazione del Paese2. Ne deriva un racconto multiforme e
stratificato. A questo “genere” senza confini, la stessa Daković
propone la denominazione di “nuovo film di guerra postjugoslavo”3.
Diverse
opere
hanno
ottenuto
una
considerevole
ribalta
internazionale nei maggiori festival: Prima della Pioggia di
Manchevski ha conquistato il “Leone d’oro” a Venezia nel 1994,
un anno dopo a Cannes Kusturica con Underground ha vinto la
“Palma d’oro” e Angelopoulos con Lo sguardo di Ulisse, il “Gran
premio della giuria”; Benvenuto Mr. President di Žalica ha
ricevuto il Pardo d’argento a Locarno nel 2003, Pretty Village,
Pretty Flame di Dragojević e La polveriera di Paskaljević hanno
riscosso notevoli consensi e riconoscimenti in varie rassegne
2
Il dato è riportato all’interno di un articolo di Nevena Daković, La guerra sul grande
schermo per il settimanale indipendente “Vreme” di Belgrado, pubblicato dal “Corriere dei
Balcani” (10 aprile 2004) e tradotto anche dall’ “Osservatorio dei Balcani” (16 aprile
2004).
3
Ibidem
7
internazionali, infine nel 2002 No Man’s Land di Danis Tanović ha
ottenuto l’ Oscar per la Bosnia-Erzegovina.
La narrazione cinematografica ha costruito metafore complesse
(Underground e Prima della Pioggia), si è avvicinata alla tematica
attraverso un naturalismo vivo e metafisico (Pretty Flame, Pretty
Village;
I
(Benvenuto
testimoni/Svjedoci),
Mr.
President,
un
Beautiful
umorismo
People)
agrodolce
e
molto
più
raramente ha ceduto ad una propaganda unilaterale (Tempo
d’amare).
I film affrontano diverse storie: il mondo dell’informazione e dei
reporter di guerra (Benvenuti a Sarajevo, Nema problema,
Veillées d'armes), Sarajevo sotto assedio (Do you remember
Sarajevo?), la difficoltà di prendere una posizione (Pretty Village,
Pretty Flame; Prima della pioggia), la situazione di follia e
stagnazione a Belgrado (Premeditated Murder, Ghetto), la
complessità della Storia dei Balcani (Lo sguardo di Ulisse,
Underground), il destino dei bambini orfani (Il Cerchio perfetto),
l’assurdità della guerra (No man’s land), il dramma di Vukovar
(Vukovar: Poste Restante, Harrison’s Flower), il rapporto tra
Europa e Balcani (Beautiful People, Forever Mozart), la violenza
contro le donne in guerra (Calling the Ghosts), l’incapacità
dell’Onu
e
della
comprendere
comunità
(tematica
internazionale
ricorrente)
ed
di
intervenire
insieme
i
e
traumi
contemporanei dell’ “urbicidio” (la distruzione sistematica delle
città), della povertà, dell’isolamento e della distruzione sociale.
Dalla seconda metà degli anni Ottanta, i media di informazione
jugoslavi, in primis la televisione, sono diventati strumento
fondamentale
della
propaganda
nazionalista
e
così
fattore
scatenante del futuro conflitto e del condizionamento popolare.
In una situazione simile poteva essere possibile un allineamento
del cinema agli altri media, in base ad una conversione in atto di
8
principi etici in etnici. Fortunatamente ciò non è accaduto, sia
perché i registi hanno ritenuto impossibile associarsi all’isteria
nazionalistica, sia perché nella seconda metà dello scorso secolo
il cinema ha avuto una ricollocazione all’interno del sistema dei
media, con l’avvento della televisione che l’ha in buona parte
emancipato dai doveri di propaganda.
I film offrono spiegazioni molteplici e complesse della guerra,
talvolta cadono in confusioni interpretative, a cui sono soggette
anche le numerose “instant history” (saggi storici o giornalistici)
che accompagnano le rivalità balcaniche.
Alcune pellicole
ricorrono all’ipotesi di debiti storici e nazionali che si trascinano
dal passato (Underground), altri invece, in forme diverse,
spiegano la drammatica contemporaneità con l’impassibilità del
destino balcanico (La polveriera, Prima della pioggia), altri
ancora presentano gli eventi attraverso una situazione comica
basata sulla follia del temperamento balcanico (Benvenuto
Mr.President). I film criticano, anche indirettamente, chi ha
incitato lo scontro militare e sollecitato l’odio tra i popoli della
jugoslavia. Pretty Village, Pretty Flame e I testimoni suddividono
le responsabilità tra tutte le parti in causa. No man’s land
rappresenta la guerra come male universale e non solo come un
fenomeno endemico di quei territori.
Ritorna
nei
film
un’interpretazione
“mitica”,
consolidatosi
soprattutto nel dopo Dayton (novembre ’95) della storia della
Jugoslavia, intesa come fatalistica e ciclica. A tal proposito Marco
Dogo, in uno studio sulla storia dei Balcani, scrive: “Esiste un
destino balcanico? La domanda può essere tradotta in questi
termini: esiste una specie di condanna alla ricorrente ripetizione
di una storia di violenze? Sì e no. Esiste un destino nel senso di
9
condizionamento storico che predispone al ripetersi intermittente
di violenze, ma non è un condizionamento invincibile”4.
L’analisi della relazione tra cinema e storia a proposito delle
guerre jugoslave fa emergere problematiche affrontate nella
ricerca teorica. Dal cinema come agente e fonte storica di Marc
Ferro5 al concetto di visibile di Pierre Sorlin6. Gli ultimi studi di
Sorlin, che in La storia nei film7 affrontava il tema del film
“storico” sostenendo che tali pellicole rappresentano il passato e
riorganizzano il presente, allargando la ricerca ad altri media
come la televisione (che col cinema finisce per creare la “realtà”)
si interrogano sull’“irrappresentabilità” della storia; L’immagine e
l’evento8 esamina come la Storia possa essere anticipata se non
addirittura determinata dal sistema dei media, le immagini che
rappresentano il mondo, a volte influiscono sulle circostanze o
condizionano
un
modo
di
interpretare
gli
eventi.
Robert
Rosenstone ha delineato le coordinate del film storico postmoderno, una catalogazione ampia ed articolata, a cui possono
essere ricondotti in buona parte i film che analizzeremo9.
4 M.Dogo, Storia balcaniche. Popoli e stati nella transizione alla modernità, Libreria
Editrice Goriziana, Gorizia, 1999.
5
M.Ferro, op.cit., p.21.
6
“Il visibile è quel che appare fotografabile e presentabile sugli schermi in un’epoca
data”, P.Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti Milano, 1979, p.253.
7
P.Sorlin, La storia nei film, interpretazioni del passato, La Nuova Italia, Firenza, 1980.
8
Cfr. Pierre Sorlin, L’immagine e l’evento, Paravia Scriptorium, Torino, 1999, p.145.
9
(1) Tell the past self-reflexively, in terms of how it means to the filmmaker historian. (2)
Recount it from a multiplicity of viewpoints. (3) Eschew traditional narrative, with its
beginning, middle and end – or, following Jean Luc Godard, insist that these three
elements need not necessarily be in that order. (4) Forsake normal story development, or
tell stories, but refuse to take the telling seriously. (5) Approach the past with humor,
parody, and absurdist, surrealist, dadaesque and other irreverent attitudes. (6) Intermix
contradictory elements – past and present, drama and documentary – and indulge in
creative anachronism. (7) Accept, even glory in, their own selectivity, partialism,
partisanship and rhetorical character. (8) Refuse to focus or sum up the meaning of past
events, but instead make sense of them in a partial and open-ended, rather than totalized
manner. (9) Alter and invent incident and character. (10) Utilize fragmentary or poetic
knowledge. (11) Never forget that the present is the site of all past representation and
knowing.
Tratto da Robert Rosenstone, The Future of the Past: Film and Beginnings of
Postmodern History, in Vivian Sobchack (a cura di), The Persistance of History: Cinema;
Television, and the Modern Event, Routledge, London e New York, 1998, p.206.
10
Si
sono
confrontati
con
la
rappresentazione
del
conflitto
balcanico, quattro generazioni di registi jugoslavi: gli autori
dell’”Onda Nera” (l’avanguardia degli anni Sessanta), quelli del
cosiddetto “Gruppo di Praga”, la generazione di poco successiva
(quella di Kusturica per intenderci) e i giovani film-maker. La
filmografia, sviluppatasi nel corso degli anni, è stata solo in
minima parte distribuita in Occidente. Le varie opere sono state
presentate in diverse rassegne, che talvolta hanno dedicato
apposite sezioni relative all’argomento: Sarajevo film festival,
Pula film Festival, Belgrade film festival, Alpe Adria Cinema di
Trieste,
International
Amsterdam
Documentary
Festival,
Thessaloniki film festival. Le cinematografie nazionali dell’ex
Jugoslavia che si sono espresse in modi e periodi diversi,
verranno analizzate sia nella loro singolarità sia in un’ottica
balcanica.
Su tale e complessivo argomento il testo più esaustivo è Cinema
of Flames10 di Dina Iordanova, storica del cinema, bulgara, a cui
si aggiungono gli studi di Nevena Daković11. Importanti per la
nostra ricerca sono poi i testi di Maria Todorova, Immaginando i
Balcani (Argo, 2002) e Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario
(Meltemi, 2004).
In lingua italiana, al di là delle opere
monografiche su Kusturica, la bibliografia sul cinema jugoslavo è
ridotta, ricordiamo tra l’altro:
La meticcia di fuoco. Oltre il
continente balcani, a cura di Sergio Grmek Germani (Lindau,
2000), il volume collettivo Iugoslavia: il cinema dell’avanguardia
(Marsilio, 1982) e il saggio di Paolo Vecchi Kusturica, Paskaljević
e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo12.
10
Dina Iordanova, Cinema of Flames: Balkan film, culture and the media, Bfi, London,
2001, p.141.Dina Iordanova, Cinema of flames.
11
N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, in “Nexus Project”, Sofia, 2003.
12
Il testo è pubblicato nel libro G.E. Bussi e Leech P., Schermi della dispersione, Lindau,
Torino, 2003.
11
Nelle pellicole compare, sotteso, il rapporto tra l’Europa e i
Balcani, in continuo riposizionamento dopo la fine della guerra
fredda, in termini inclusivi ed esclusivi. I Balcani, non solo
geograficamente e storicamente, sono parte dell’Europa ma sono
stati concettualmente costruiti ed interpretati, soprattutto nel
Novecento e nella sua ultima fase, come “Altro”, un luogo di
violenza e confusione. Una percezione distorta e semplificata,
che non risponde alla complessità del reale e che si riflette anche
nei film. Sia in opere di film-maker occidentali (costruite spesso
come un viaggio dall’Occidente ai Balcani), sia in alcune di registi
jugoslavi, nei casi che Iordanova chiama di “self-exoticism”13.
La
filmografia
generale
che
abbiamo
stilato
(fiction
e
documentari di registi balcanici e internazionali) si caratterizza
per una qualità complessiva delle opere, caso non così frequente
in altri casi di rappresentazione storica, per un approccio stilistico
multiforme e per le complesse strutture narrative.
Il racconto sulla guerra si è sviluppato in chiave metaforica,
realistica, indiretta, surrealista, o allegorica, con un’introspezione
maggiore, una ricerca metaforica più accentuata e magari un
distacco
fisico
ma
non
mentale
dal
conflitto,
sottolineati
nell’auto-rappresentazione. Si sofferma su drammi individuali
che si inseriscono in una più ampia storia collettiva. La
rappresentazione del conflitto militare a volte risulta poco
visibile, in altre violentemente realistica. Non deve essere
ricondotta ad un unico modello, ma possono essere rintracciati
tratti comuni nell’estesa filmografia.
13
Dina Iordanova, Cinema of flames, cit.p.61.
12
1.2 I
FILM E LA GEOGRAFIA DEL CONFLITTO
I territori dell’ex-Jugoslavia sono un’area non solo complessa dal
punto di vista storico e culturale, ricco di contaminazioni, ma
anche
la
loro
“scoperta”
geografica
comporta
alcune
complicazioni per l’analisi dei testi filmici.
Per comprendere gli eventi narrati nelle diverse opere è utile
l’ausilio
della
cartina
geografica.
La
grande
produzione
cinematografica, successiva o contemporanea al recente conflitto
balcanico, si concentra, infatti, sui vari “teatri di guerra”, alcuni
sconosciuti ad uno spettatore occidentale.
Ciascun regista si è confrontato, in particolare, con uno di questi.
Si passa dalla Slavonia, regione croata bagnata dalla Sava e dal
Danubio, ai boschi, alle campagne e alle valli della BosniaErzegovina,
il
più
tragico
teatro
di
guerra
del
conflitto,
delimitato, oltre che dal fiume Sava dalla Drina. Centro di
interesse dell’immaginario cinematografico sono ovviamente le
grandi città Sarajevo e Belgrado. E poi i territori “agli estremi” di
Macedonia e Kosovo nel sud dell’ex-Jugoslavia.
L’ambientazione
geografica
funge,
in
un
certo
senso,
da
“etnopaesaggio”, secondo la definizione di Antonhy Smith14, che
costituisce lo sfondo di quei conflitti, non solo di guerra; i film
contribuiscono alla creazione del mito della territorialità, che sta
alla base della rappresentazione simbolica dell’identità nazionale.
14
L’etnopaesaggio è uno dei modi in cui la costruzione simbolica dell’identità nazionale è
legata alla nozione di territorialità. L’etnopaesaggio è in primo luogo l’ambientazione
geografica, come sfondo agli eventi storici determinanti per la crescita e la storia di una
comunità. Smith sostiene che tale etnopaesaggio può inoltre svolgere una funzione
“iconica”. Si crea così un legame tra gruppo e ambiente naturale, tra aspetti fisici del
paesaggio e carattere degli eventi storici che vi accadono. In un terzo luogo questo
legame può essere celebrato attraverso alcuni rituali (come quelli che riguardano la
morte), giungendo così ad una “territorializzazione della memoria”. Antonhy Smith, Myths
and Memories of the Nation, Oxford University Press, Oxford, 1999.
13
I primi film di fiction sono apparsi relativamente poco tempo
dopo lo svolgersi dei fatti reali, contraddicendo la teoria che lo
storico militare inglese John Keegan ha tratteggiato nel saggio Il
volto della battaglia, ovvero che “tutte le guerre dei tempi
moderni hanno provocato una risposta letteraria ma sempre a
una certa distanza dalla fine delle ostilità”15. Quando ancora
l’attualità era incandescente, ferita dalle bombe e dalle violenze,
alcuni registi tentavano in modo quasi istantaneo di descrivere
la distruzione della Jugoslavia, che li toccava in prima persona.
Anche,
se
a
voler
esser
precisi,
la
maggiore
produzione
cinematografica si è sviluppata dopo gli accordi di Dayton
(1995).
Ma tornando ai primi anni di guerra, gli incendi nella città croata
di Vukovar non erano ancora del tutto spenti che questo centro
barocco sul Danubio è divenuta il simbolo cinematografico di una
distruzione senza fine16. Fu la prima città europea assediata,
dopo la seconda guerra mondiale, e si trasformò in un tragico
laboratorio del conflitto. Živojin Pavlović uno dei grandi maestri
del cinema jugoslavo17, girò nel 1992 Il disertore ispirato alle
vicende di Vukovar, un dramma intimista che racconta la storia
di due ufficiali dell'esercito jugoslavo, un tempo innamorati della
stessa donna e impegnati nella guerra serbo-croata da cui
fuggono, ritrovandosi a Belgrado. Il primo è un disertore
scappato da Vukovar, il secondo un giudice militare oramai
umanamente incapace di condannare. Il film di Pavlović può
essere considerato la prima opera che ha come oggetto il
conflitto in corso.
15
John .Keegan, Il volto della battaglia, tr.it., Mondatori, Milano, 1978, pp.304-305.
Cfr. Nevena Daković, La guerra sul grande schermo, cit.
17
Coscienza critica del cinema jugoslavo, Pavlović (1933-1998) fu uno uno degli
animatori del “Novi film”, l’avanguardia cinematografica detta anche onda nera.
16
14
L’anno successivo uscì il Tempo d’amare (co-produzione italocroata) di Oja Kodar, ex-compagna di Orson Welles. Il racconto
cinematografico si svolge durante il conflitto serbo-croato, in
territori non lontani da Vukovar, ottenendo però un risultato
meno riuscito e più retorico rispetto al film di Pavlović. Il disastro
di Vukovar è ricreato, inoltre, in Harrison’s Flower di Elie
Chouraqui, che fornisce la più articolata e realistica messa in
scena dell’assedio e della presa violenta della città da parte delle
milizie serbe, e in Vukovar: Poste Restante (1994) di Bora
Drašković.
La capitale della Bosnia-Erzegovina, Sarajevo, città cosmopolita
e
vivace,
circondata
dalle
montagne,
è
stata
al
centro
dell’attenzione dei media dell’informazione per quasi quattro
lunghi
anni
d’assedio
serbo-bosniaco,
diventando
il
punto
fondamentale delle immagini televisive del conflitto. E non
poteva che essere così anche nella visione di molti autori
cinematografici.
Protagonista
indiscussa
del
primo
lungometraggio di Emir Kusturica, Ti ricordi di Dolly Bell?,
sceneggiato dallo scrittore Abdulah Sidran, Sarajevo ritornò
prepotentemente all’attenzione degli spettatori in un’atmosfera
completamente diversa. Abbandonati i colori e la festosa
confusione, attraverso la quale si muoveva il giovane Dino,
Sarajevo, si ritrova in preda a cecchini sui tetti delle case, a
bombardamenti massicci e alle rischiose corse per le strade dei
suoi cittadini. Do you remember Sarajevo? è l’opera di tre
giovani filmaker sarajevesi, i fratelli Kreselvijakovic e Nedim
Alikadic,
che
instancabilmente
durante
raccolto
l’assedio
voci
ed
(1992-1995)
immagini
per
hanno
farne
un
documentario lungo poco meno di un'ora: un documento di
memoria storica e d'amore, sulla vita e la morte in quegli anni.
15
Liberamente tratto dal libro Natasha’s Storvdel giornalista
Michael Nicholson, Benvenuti a Sarajevo (1997), di Michael
Winterbotton è stata la rappresentazione cinematografica più
famosa dell’assedio a Sarajevo, vista attraverso gli occhi di un
reporter inglese. In Lo sguardo di Ulisse di Théo Anghelopulos
(1995), Sarajevo, dove il regista greco A. (interpretato da
Harvey Keitel) giunge alla ricerca del primo film dei fratelli
Maniakas, tenta di riprendere il corso della vita nelle improvvise
nebbie,
che
ingannano
il
tempo
dell’infinito
assedio,
in
un’atmosfera quasi onirica. La lavorazione del film è avvenuta
quando
il
conflitto
era
ancora
in
corso,
la
Sarajevo
di
Anghelopulos non è del tutto “reale”, ripresa un po’ a Mostar e
un po’ a Vukovar e in parte ricostruita in studio. Anche Il cerchio
perfetto di Ademir Kenović sceglie come location la Sarajevo
accerchiata.
Siamo a Napoli, nel 1994, nel film Teatro di Guerra di Mario
Martone, ma l’idea di Sarajevo è continuamente richiamata alla
mente, è il filo conduttore di tutto il film, la meta agognata. Una
compagnia teatrale prova I Sette contro Tebe di Eschilo sperando
di portare lo spettacolo a Sarajevo, sotto i bombardamenti, in
segno di solidarietà, scontrandosi con l’indifferenza generale.
La città sotto la morsa dei cecchini diventa il vero simbolo delle
guerre jugoslave, influenzando concretamente l’immaginario
cinematografico. Oltre ai film a soggetto, sono svariati i
documentari sul dramma della città bosniaca, come i lavori del
regista Giancarlo Bocchi o l’immenso materiale girato dai
reporter della Bbc confluito in Yugoslavia: Death of a Nation
(1995). A metà strada si colloca Notre musique (2004) di Jean
Luc Godard, che già in Forever Mozart (1996) aveva affrontato il
tema della guerra in Bosnia ed ha ambientato il secondo episodio
16
del nuovo film nel dopoguerra di Sarajevo e di Mostar, altra città
storica della Bosnia-Erzegovina occidentale.
Molti autori cinematografici hanno scelto la Bosnia come “teatro”
dove si svolse il capitolo più tragico del conflitto. In quei villaggi
e nelle campagne dimenticati dai media occidentali, una sorta di
Jugoslavia in piccolo con la coabitazione di tre etnie (musulmani,
serbi e croati), fu storicamente un confine virtuale tra Occidente
e Oriente (il fiume Drina assunse spesso nel corso della storia il
valore di “limes”).
Pretty Village, Pretty Flame (Lepa sela, Lepo gore,
1996) di
Srdjan Dragojević è forse uno dei film chiave per comprendere le
guerre jugoslave: un’opera inquieta e complessa che va oltre le
letture stereotipate del conflitto e non accetta compromessi di
ogni sorta. Si muove nei territori della Bosnia nord-orientale, non
lontano dal tunnel Bratsvo i Jedinstvo, la galleria che Tito fece
scavare come simbolo della tanto predicata "unità e fratellanza”,
dove durante la guerra un gruppo di combattenti serbo-bosniaci
si rifugia per sfuggire ai musulmani.
La valle della Drina e le montagne circostanti, ricche di paesaggi
incantevoli, lungo il confine con la Serbia, vicino ai luoghi dove si
registrarono i maggiori scontri armati tra serbi e musulmani di
Bosnia,
sono
divenuti
l’ambientazione
dell’ultimo
film
di
Kusturica, La vita è un miracolo (2004)18. Poco distante, proprio
nella cittadina che patì la maggiore violenza della guerra Danis
Tanović ha girato il suo episodio all’interno dell’opera collettiva
11 settembre, a Srebrenica, dove si verificò il noto massacro di
migliaia di musulmani nel luglio del ’95 e, da quella data, il
18
L’ultimo film di Kusturica seppur ambientato nella finzione in Bosnia, tra i boschi, i
monti e il fiume Drina che separano la Serbia dalla Bosnia, è stato girato principalmente
in Serbia, poco al di là del confine e non molto distante dalla Drina. In La vita è un
miracolo contro le previsioni del protagonista (che aveva costruito una sorta di “trenino
della fratellanza”), scoppia la guerra fratricida che cambia radicalmente la vita da una
parte e dall’altra della Drina, come accadde realmente dal 1992 in poi.
17
giorno undici di ogni mese le donne si ritrovano in piazza per
commemorare la tragedia. Alcune decine di chilometri più a
nord, ci troviamo nei pressi di Tuzla, nelle cui campagne due
uomini Ciki e Nino, un bosniaco e un serbo, si ritrovano isolati
dalle linee nemiche in una “terra di nessuno”, in No Man’s Land
(2001). Il film che valse il premio Oscar a Tanovic è ambientato
nel pieno della guerra in Bosnia, precisamente nel 1993. I toni
tragicomici che lo caratterizzano sono anche un tratto distintivo
di Benvenuto Mr.President (Gori Vatra, 2003), opera del regista
bosniaco Pjer Valica.
Beautiful People (1999) di Jasmin Dizdar rimbalza da Londra alla
Bosnia, creando diversi punti di contatto tra i due luoghi,
apparentemente così distanti, come nella grottesca vicenda di un
hooligan
ubriaco
paracadutato
per
errore
nel
pieno
dei
combattimenti, che inconsapevolmente diventa quasi un eroe
nazionale.
L’italiano
lungometraggio
di
Nema
Giancarlo
problema
Bocchi
si
(2004)
primo
svolge,
invece,
completamente in Bosnia seguendo le vicende di due reporter di
guerra.
La città di Belgrado che venne toccata solo parzialmente dalle
bombe è al centro dell’interesse di Goran Paskaljević in La
polveriera. Il film racconta la realtà jugoslava, i suoi foschi
scenari e la sua disperazione, meglio di qualsiasi resoconto di
guerra, in una lunga notte
“dove ogni individuo a Belgrado è
una carica pronta a esplodere alla minima scintilla”19. Anche
nella complessa metafora della storia jugoslava, che Kusturica ha
creato con Underground, Belgrado occupa sicuramente un ruolo
da protagonista. Il documentario Sedicipersone di Corrado
Veneziano, attraverso interviste, notizie e immagini inedite, dà
19
P.Vecchi, Kusturica, Paskaljević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo, in
G.Elisa Bussi e Patrick Leech (a cura di), Schermi della dispersione, Lindau, Torino,
2003, p.316.
18
giusta memoria al bombardamento della Tv di Belgrado fornendo
uno spazio virtuale alle “parole negate” di quel tragico fatto,
spesso oscurato dai media occidentali. Il piccolo film, Ghetto di
Mladen Maticević e Ivan Markon, produzione dei dissidenti di
radio B9220, riflette criticamente sulla vita e sulla sorte di
Belgrado durante la guerra. Una Serbia confusa e ferita, ma
ancora piena di fervori, viene rappresentata nel lungometraggio
di Gorčin Stojanović,
Ubistvo s predumisljanjem/Premedidated
murder (1995) mentre
le sue contraddizioni tra arcaico e
moderno prendono vita nel cortometraggio Moja domovina
(1995) di Milos Radović, vincitore di diversi premi internazionali.
Prima della pioggia (1994) di Milcho Manchewski, trittico a
struttura circolare, porta invece l’attenzione su un territorio
all’estremo
sud-est
dell’ex-Jugoslavia,
la
repubblica
di
Macedonia, anche qui l'odio ha contaminato i rapporti tra le due
etnie (albanese a macedone) della popolazione. Un’altra regione
geograficamente ai più sconosciuta è il Kosovo, incastonata tra
Albania,
Macedonia
e
Montenegro,
arrivata
ai
vertici
dell’attenzione mediatica per la guerra del 1999, in cui fu
coinvolta anche l’Italia. Vento di Terra e Kukumi sono i film più
significativi. Molti documentari si sono interessati al dramma dei
profughi, al controverso intervento militare della Nato e al
presente quanto mai instabile (Kosovo, nascita e morte di una
nazione, 2000).
20
Cfr. Dina Iordanova, Cinema of flames, Bfi, London, 2001, p.13.
19
PARTE PRIMA
RAPPRESENTAZIONE E VISIONE:
I TEATRI DI GUERRA
Una produzione cinematografica e audiovisiva vasta e composita,
che proponiamo di analizzare
suddividendo la filmografia sulle
guerre jugoslave in cinque “teatri di guerra”: Vukovar e la
Croazia; Sarajevo; la Bosnia; Belgrado e la Serbia; la Macedonia
e il Kosovo. Attraverso un percorso che collega indissolubilmente
il contesto storico, culturale e politico ai testi filmici, si esamina
la rappresentazione del conflitto nei Balcani.
Ogni autore, che si è confrontato con la materia, ha scelto
principalmente
e
significativamente
un
“teatro”,
ma
sono
possibili rimandi ad altri o la compresenza parziale, soprattutto
quando le aree, non solo da un punto di vista geografico ma
anche storico-politico, sono contingenti: vedi Vukovar e Belgrado
(distano alcune centinaia di chilometri ma sono profondamente
legate nella seconda metà del 1991) o Sarajevo e il resto della
Bosnia. Detto questo, è rintracciabile una caratteristica comune
nei film, ovvero l’attenzione per un particolare teatro di guerra,
sia perché sono riferibili in buona parte a periodi e fasi diverse
delle guerre, sia perché riflettono alcune tipicità proprie di ogni
territorio e momento storico.
Potrebbe balzare agli occhi l’assenza della Slovenia, il motivo
principale è perché è stata la prima Repubblica ad essersi
staccata dalla Federazione jugoslava; protagonista di una breve
guerra nell’estate del 1991 è riuscita a contenere relativamente i
danni. E’ necessario comunque ricordare il periodo vivace che sta
vivendo la sua piccola ma non minore cinematografia, in grado di
20
confrontarsi
in
chiave
originale
con
le
problematiche
del
presente. Tra gli autori, spiccano due registi della nuova
generazione di cineasti: Jan Cvitković e Damjan Kozole. Il primo
è recente vincitore del “Torino film festival” del 2005 con
Odgrobadogroba (Di tomba in tomba/Gravehopping). Il film a
suo
modo
grottesco
ma
non
assimilabile
alla
corrente
kusturiciana, contraddistinto da uno stile sobrio e distaccato,
mette in scena la storia di Pero, un trentenne, residente in un
piccolo villaggio, che si guadagna da vivere scrivendo discorsi
funebri nei quali sfoga le velleità letterarie ed esprime le sue idee
sul mondo. Cvitković si era fatto notare, quattro anni prima, con
Kruh in Meklo (Pane e latte, 2001): un ritratto di famiglia volto a
descrivere il disagio sociale e politico del suo paese. Kozole in
Rezervni deli (Pezzi di ricambio, 2003) affronta, invece, il
dramma dei rifugiati in Slovenia, terra di passaggio per migliaia
di immigrati clandestini che, condotti da “mercanti di uomini”,
cercano di raggiungere l'Italia; Delo osvobaja (Il lavoro rende
liberi, 2005) è l’ultimo e sesto lungometraggio del prolifico
autore, che con un taglio prettamente tragicomico segue le
avventure di Peter, un operaio specializzato che con l’entrata
della Slovenia nell’Unione Europea perde il proprio posto di
lavoro e da quel momento viene subissato da ulteriori problemi.
La Slovenia è anche la location di Les 20 heures dans les camps
(1993), opera dell’affermato documentarista francese Chris
Marker. Il regista si sofferma su un gruppo di giovani rifugiati
bosniaci, accampati tra le rovine di una caserma diroccata, a
pochi chilometri da Lubiana. Hanno organizzato un laboratorio
video, piratando il segnale dei network internazionali da dove
riprendono le news e hanno messo in piedi un telegiornale,
povero ma creativo, che ogni sera racconta le notizie del mondo
21
e del “campo”, smontando la manipolazione mediatica delle varie
fazioni in guerra.
E’ utile, in determinati passaggi, una lettura parallela all’analisi
dei
film,
dei
capitoli
storici
che
costituiscono
un
corpus
fondamentale di questa ricerca.
1 V UKOVAR
E LA
C ROAZIA
Vukovar è immersa nella fertile pianura della Slavonia orientale,
sulla riva destra del Danubio, là dove il grande fiume, al confine
tra Vojvodina e Slavonia, abbandona la direzione ungherese
“nord-sud” e piega a est verso Novi Sad.
Arrivando
da
direzioni
diverse,
da
Zagabria,
Belgrado
o
dall’estero, la sua visione può essere contrastante, così la sua
rappresentazione cinematografica. Le varie provenienze possono
diventare “sguardi” diversi.
Ma facciamo un passo indietro per comprenderne la sua storia
recente.
Nel
1991,
Vukovar,
importante
porto
fluviale
e
industriale, era una città dalle forti caratteristiche mitteleuropee
e dalla consolidata convivenza interetnica: il 43,9 per cento degli
abitanti era di origini croate, il 37,2 serbe, il restante 18,9 di
varie nazionalità, tra cui molti ungheresi e cechi. Tra le vie del
centro barocco e nei caffè della borghesia “cosmopolita”, nei
primi di agosto, la guerra sembrava distante. Non sapeva che tra
pochi giorni la città sarebbe stata assediata dalle milizie serbe,
venute per lo più dall’esterno, e dalle truppe dell’Armata
popolare, per tre lunghi mesi con drammatiche sofferenze, che
22
avrebbero registrato un’escalation di violenza finale e migliaia di
morti.
Vukovar, la prima città rasa al suolo dopo la seconda guerra
mondiale, assurse presto a simbolo della distruzione della
Jugoslavia e venne considerata la Stalingrado sul Danubio.
“Capire Vukovar – ha scritto Paolo Rumiz - significa capire il
nucleo degli eventi”21.
I tragici fatti di Vukovar causarono un forte shock emotivo
nell’opinione pubblica jugoslava, soprattutto tra intellettuali e
artisti. Si verificò un’istantanea reazione espressiva, che si
riflettè in diverse opere cinematografiche.
In
questo
capitolo
analizzeremo
come
l’immaginario
cinematografico abbia raccontato la distruzione di Vukovar e la
guerra tra croati e serbi, in territorio croato. Principalmente
prenderemo in esame le seguenti opere: Il disertore (The
Deserter/Dezerter) di Živjon Pavlović (1992), Harrison’s Flowers
(2000) di Elie Chouraqui, Tempo d’amare (Vrijeme za...) di Oja
Kodar (1994) e Vukovar poste restante (Vukovar – jedna prića)
di Bora Drašković (1994). Terremo inoltre in considerazione il
film Vukovar is coming home (Vukovar se vraca kuci a.k.a.
Vukovar - The way home) di Branko Schmidt (1994) e
l’importante documentario Yugoslavia: Death of a Nation (1995)
di
Angus
McQueen
and
Paul
Mitchell,
una
coproduzione
americana, inglese e francese22; nonché i film di Vinko Bresan,
tra cui I testimoni/Svjedoci (2003).
21
P.Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti, Roma, 2000, p.87. Rumiz
definisce inoltre Vukovar città laboratorio delle guerre jugoslave. Vukovar è stata colpita
in quanto città cosmopolita per mettere in scena l’impossibilità di una convivenza che
invece era consolidata.
22
Il documentario è stato trasmetto la prima volta in Italia all’interno della trasmissione
curata dal giornalista Andrea Purgatori, che porta il titolo dello stesso documentario:
Yugoslavia morte di una nazione, andata in onda nell’aprile del 1999.
23
Sono quasi tutte opere di autori slavi, alcuni serbi altri croati,
tranne quella di Elie Chouraqui, regista francese, a cui si
aggiungono alcuni film stranieri che citerò nel testo.
Vukovar è il centro dell’immaginario della prima parte di guerra,
ma sono frequenti i riferimenti nei film presi in esame alle altre
zone del conflitto, tra i croati e i serbi, affiancati dall’Armata
popolare jugoslava, che proprio in questa fase si connotò sempre
più in chiave serba. Scontro che raggiunse il livello più alto
proprio negli ultimi mesi del 1991. Si tratta di territori molto
diversi l’uno dall’altro dal punto di vista storico, geografico ed
etnico che vanno dalle ricche pianure del nord-est della Slavonia
occidentale e orientale (la zona di Vukovar), al territorio carsico
della Krajna, a quello mediterraneo della Dalamazia e di
Dubrovnik.
1.1 Il disertore
Probabilmente il primo film sulla guerra dei Balcani, fu girato
quando non erano ancora state del tutto spente le fiamme a
Vukovar. Le riprese si svolsero in parte nella città barocca in riva
al Danubio e in parte a Belgrado. Živjon Pavlović, regista serbojugoslavo, è considerato uno dei maestri del cinema jugoslavo,
animatore dell’onda nera (secondo l’etichetta negativa affibiatale
dal potere titino, poi orgogliosamente rivendicata dai suoi autori)
insieme a Dušan Makavejev, l’avanguardia degli anni sessanta
che rivitalizzò la cinematografia jugoslava contrapponendosi alla
retorica ufficiale dei film patriottici e resistenziali, attraverso una
visione radicalmente innovativa, critica e personale, della realtà
e della società contemporanea, che mise a nudo le incoerenze
del sistema jugoslavo, con un sguardo a tratti anarcoide,
pungente e acuto. Pavlović, tra l’altro romanziere molto prolifico,
24
è scomparso all’età di 65 anni, durante la lavorazione del suo
ultimo film Država mrtvih (1998)23.
Il film (1991), tratto dal romanzo L’eterno marito di Fëdor
Dostoevskij, non rinnega la classica ispirazione dostoevskiana
che pervade la filmografia del regista belgradese, basti ricordare
il suo primo lungometraggio Il nemico (Neprijatelj, 1965) tratto
da Il sosia dello stesso autore russo.
Al centro de Il disertore, si colloca la storia di due ufficiali
dell'esercito jugoslavo, amici dai tempi dell’Accademia militare,
trascorsi a Vukovar nei primi anni ottanta, e innamorati della
stessa donna. Si incontrano nove anni dopo (1991), a Belgrado;
ambedue in fuga dal fronte, per motivi diversi. Per uno è un
allontanamento dalla guerra “legittimo” per l’altro no, Pavle
Trusic è infatti un disertore scappato da Vukovar (“A Vukovar –
dice – mi hanno distrutto tutto, casa e caserma”), mentre Aleksa
Velijacuc è un giudice militare ormai umanamente incapace a
condannare.
La donna, Nadezda, di cui erano ambedue innamorati, è morta
l’anno prima: Pavle era il marito, mentre Aleksa ne fu l’amante ai
tempi
dell’Accademia
e
padre
inconsapevole
della
figlia
dell’amico, Lila. Segreto di cui il capitano Trusic sembra sempre
più al corrente.
“La paura di morire al fronte li attanaglia entrambi, ed allora si
aggrappano a quel poco che hanno per sentirsi vivi: l’amore e
l’amicizia. Il dramma scoppia quando il disertore decide di
23
Cfr. Sergio Grmek Germani (a cura di). La meticcia di fuoco. Oltre il continente Balcani,
Lindau, Torino, 2000, p.218. A proposito di Država mrtvih (Lo Stato dei morti) ,il vero eroe
del film è la famiglia multinazionale di un ex ufficiale dell’esercito yugoslavo: il padre è
sloveno, la madre macedone, il genero di Sarajevo, la ragazza del figlio è croata.
Finiscono a Belgrado, in un campo comune, e vengono messi a confronto con la povertà,
i suicidi, la criminalità, nella sventura generale di un paese e di un’epoca.
25
tornare a combattere. Non per la Serbia, né per l’onore di
militare, ma solo per rabbia”24.
I tormentati rapporti umani di Pavle, a cui si aggiunge la precoce
morte di Lila (ammalatasi durante la sua permanenza in una
residenza per figli di rifugiati), hanno provocato un forte
risentimento, che troverà sfogo in guerra, causando morte e
distruzione.
Il film si struttura su un continuo parallelo tra Vukovar, dove
infuria la guerra serbo-croata, e Belgrado, dove, se non per
l’aumento di mezzi militari e dei soldati per le strade, il conflitto
parrebbe più lontano. Ma anche a Belgrado la guerra combattuta
arriva, attraverso la televisione e i telegiornali marcatamente
propagandistici. L’utilizzo di immagini documentarie e televisive
all’interno
del
montaggio
filmico
è
una
costante
della
cinematografia jugoslava sull’ultima guerra, che ha sviluppato
un’interessante commistione di formati diversi e spesso superato
i confini labili tra le categorie di realtà e finzione. Inizia e si
chiude a Vukovar, a distanza di quasi dieci anni.
L’incipit è un flashback: siamo nel 1982, un uomo in divisa
militare e una donna, che si scoprirà la sua amante, si rincorrono
in un bosco. Un semplice stacco di montaggio ci catapulta nel
1991: è guerra aperta. Un’ampia sequenza ricrea l’assedio della
città (durato dal 18 agosto al 17 novembre del 1991), attraverso
poche ma complesse inquadrature, che ritraggono i soldati
dell’Armata popolare in combattimento, e termina con una
panoramica che ci porta da un ambiente esterno all’interno di
una caserma, dove Aleksa processa un militare, senza troppa
convinzione. Le ultimi immagini sono, invece, un lungo camera24
E’ uno stralcio di una più ampia riflessione di Maurizio Bekar , scritta nel febbraio del
1994, che prende spunto dalla visione di due film: Tempo d’amare e Il disertore. Il
nazionalismo è la percezione distorta, è stato pubblicato l’11 marzo 1994 nell’inserto
culturale “7 Val” del bisettimanale “Primorske Novice” di Capodistria-Nova Gorica
(Slovenia).
26
car “documentaristico” su una città completamente distrutta,
dopo gli intensi bombardamenti serbi.
Il disertore è pervaso da un costante senso tragico che le scelte
di messa in scena contribuiscono a creare. Ne scandiscono il
ritmo lunghe inquadrature, articolati movimenti di macchina,
l’utilizzo del piano-sequenza (come nella scena della sepoltura di
Lila) e una fotografia dai colori mai saturi, che insieme creano
un’atmosfera cupa, dai toni amari. Sono i tratti stilistici di un
dramma intimista attraversato dalla violenta disgregazione della
Jugoslavia.
Durante il Festival “Alpe Adria Cinema” del ’94, Pavlović, ospite
della rassegna, rivelò al critico Sergio Grmek Germani, che,
prima che scoppiasse la guerra, pensava di farne un film da
camera, da girare in Russia. Per il regista, era infatti, un progetto
in cantiere da diversi anni, prima della lavorazione: un altro
capitolo della sua ossessione dostoevskiana. I collegamenti con
le recenti vicende jugoslave, oltre a cambiare radicalmente
l’ambientazione del film, “hanno accentuato – spiegò Pavlović – il
carattere di dramma intimo”25.
Il disertore, secondo la storica del cinema Nevena Daković,
stabilisce già un modello di trasposizione retrospettiva della
storia e dei transfert emotivi, che caratterizzerà molte pellicole
successive. “Utilizzando la cronologia delle stragi reali, i nuovi
film di guerra trattano i temi universali dell’amore, dell’odio, del
tradimento, dell’onore, che si manifestano tra i personaggi
rappresentativi dal punto di vista nazionale e sociale, con i quali
il pubblico s’identifica”26.
25
La testimonianza è stata raccolta da Germani in un documento filmato andato in onda
nel 1995 all’interno di una puntata di Fuori Orario (Raitre) dedicata alla tragedia jugoslava
e al cinema dei Balcani.
26
Nevena Daković, La guerra sul grande schermo, cit.
27
1.2 Tempo d’amare
Al festival “Alpe Adria” proprio lo stesso anno in cui fu proiettato
Il disertore, era presente un altro film sulla guerra jugoslava:
Tempo d’amare di Oja Kodar, fresco di lavorazione (1994). Ci
furono polemiche per la concomitanza dei due film, mosse in
particolare dai croati, stessa nazionalità della regista, che è stata
l’ultima compagna di Orson Welles. Protestarono sia Zagabria,
sia gli autori croati presenti al festival: non volevano sentir
parlare di opere serbe. Troppo recente e ancora caldo il ricordo
dello scontro fratricida tra serbi e croati e, tra l’altro, la guerra
infiammava ancora nell’ex-Jugoslavia. Dopo giorni di mediazione
gli organizzatori, che non volevano far altro che “stimolare una
riflessione sulla guerra, tramite due opere di grande interesse”27
decisero di proiettarli in serate diverse.
La vicenda narrata nel film della Kodar, coproduzione italocroata, è inserita nel contesto della guerra in Croazia nel 1991,
di cui Vukovar resta il simbolo. Marija fugge dal villaggio
attaccato
dai
cetnici
insieme
al
figlio
Darko
da
poco
maggiorenne. Lei troverà lavoro nell'ospedale in una città vicina
e Darko, all’insaputa della madre, si unirà ai “resistenti” della
forze militari croate. Dopo una battaglia viene riconsegnato a
Marija un corpo martoriato, le dicono che è quello di suo figlio.
Disperata ma tenace, pretende di seppellirlo nel suo villaggio,
distrutto dai serbi. Inizierà così un viaggio, per lo più a piedi
verso il suo paese, Vidovo. Ma non è il corpo di Darko quello
nella bara; lo rincontrerà solo alla fine in un paesaggio cupo e
completamente distrutto.
Sono due le versioni del film, quella integrale croata e quella
italiana, molto tagliata. Prendiamo come riferimento, in questa
analisi, la versione critica che confronta le due, andata in onda
27
M.Bekar, op.cit.
28
nel 1995 in una puntata di “Fuori orario”, su Raitre (rete
televisiva che tra l’altro è uno dei partner della produzione).
Nel film, la guerra in Croazia è appena scoppiata e le tensioni tra
le due comunità etniche si sono fortemente radicalizzate, gli
appellativi “cetnico” e “ustascia” vengono utilizzati da ambedue
per indicare l’altro, seppur in realtà non siano rappresentativi di
tutta la popolazione dei due gruppi. Si delinea presto una visione
manichea del
confitto
da parte
dell’autrice.
I
serbi
sono
considerati negativamente: violenti ed accecati dall’odio etnico
hanno il sostegno dell’Armata Jugoslava che li aiuta fornendo le
armi, sotto la benedicente approvazione del pope del villaggio. I
croati sono considerati come carne da macello, le terre come
proprietà da espropriare, le donne come oggetto di stupro.
L’unico personaggio positivo serbo è un poeta alcolizzato che
vive in una tomba, in un villaggio colpito della pulizia etnica, e
uccide a mitragliate una banda di cetnici serbi. Si attua così quel
meccanismo che porta ad identificare un popolo con i criminali;
una schematizzazione che è ricorsa spesso, in altri casi, nel corso
della Storia.
Tempo d’amare è un film che certo non lascia indifferente,
un’opera che denuncia le reali violenze subite dalla popolazione
civile croata (dalla pulizia etnica serba), ma evita uno sguardo
critico e sceglie la scorciatoia del nazionalismo. Emergono
elementi
di
propaganda
nella
strategia
comunicativa
del
lungometraggio. Caratterizzato da un approccio melodrammatico
al tema e da alcune scelte “televisive” di regia, Tempo d’amare
non si dimostra quello che invece risulta essere Il disertore, che
come descrive Maurizio Bekar, “non è un film ‘serbo’ ma
un’opera di segno universale, che cerca di mostrare le radici
29
della violenza”28. Rimane comunque intatto nel film della Kodar
un
grido
di
sofferenza,
che
condanna
l’indifferenza
degli
occidentali nei confronti della tragedia jugoslava: “L’Europa ci ha
dimenticati” sostiene un personaggio.
1.3 Harrison’s Flowers
Se le due pellicole appena prese in esame sono casi di
“autorappresentazione”, Harrison’s Flowers (2000) è invece
l’opera di un regista francese, Elie Chouraqui. E’ l’unico film su
Vukovar che abbia ricevuto un’adeguata distribuzione in Europa
e in America, fornendo la più articolata rappresentazione
cinematografica dell’assedio della città e della presa finale da
parte dei serbi. Si sviluppa, soprattutto nella seconda parte,
come un viaggio in mezzo a quel conflitto che gli occidentali
faticavano ad interpretare, in cui viene affrontato un rapporto
nodale per lo studio delle “nuove guerre”, quello tra media e
guerra, sul quale ci soffermeremo maggiormente in un prossimo
capitolo. Introduce il film una didascalia che riporta il numero dei
giornalisti morti durante le guerre jugoslave dal 1991 al 1995:
sono 48 tra giornalisti, fotografi e reporter televisivi. Un alto
tributo in un conflitto che per la maggior parte ci è stato
raccontato per immagini.
Harrison Lloyd, fotografo e premio Pulitzer nel 1989, viene
inviato dal “Newsweek” in Jugoslavia nell’autunno del 1991
perché porti a termine un reportage su quella che gli americani
pensavano erroneamente fosse solo una piccola guerra. Il
caporedattore del giornale le descrisse infatti all’inizio come
“schermaglie etniche” e la Cnn ancora non ne parlava. La
situazione reale è invece ben più grave e presto dovranno
arrendersi all’evidenza delle stragi e della “pulizia etnica”. Per
28
Ibidem
30
Harrison dovrebbe essere la sua ultima “missione”, vuole
smettere, rientrare in famiglia e dedicarsi ai suoi fiori. Di lui si
perdono presto le tracce: prima viene dichiarato disperso, poi
morto sotto un bombardamento. La moglie Sarah (Andie
MacDowell) però non crede alla sua morte e prende il primo
aereo per la Jugoslavia per cercarlo. Arriverà fino a Vukovar
insieme ad altri reporter.
La guerra piomba nella redazione del “Newsweek”, solo qualche
mese dopo lo scoppio reale del conflitto (21 giugno ’91), con le
prime fotografie di massacri e violenze spedite da Harrison,
partito per i Balcani nel mese di ottobre. Il rullino di Llyod, come
consuetudine, arreca con sé un bigliettino, questa volta con una
scritta spiazzante: “They’re all insane”. Arriva poco prima delle
immagini della Cnn e incomincia a confutare i luoghi comuni sulla
supposta “guerricciola”.
Entriamo prepotentemente nella guerra con l’arrivo di Sarah in
Jugoslavia, ai primi di novembre, intenzionata a ritrovare il
marito che lei non crede morto.
Il ritmo del film accelera improvvisamente, superato l’incidere
lento della prima parte, i tempi morti scemano e la tensione sale
con l’avvicinamento a Vukovar.
L’impatto di Sarah con la guerra è subito violento: la sua
macchina, affittata a Graz, viene assalita dal fuoco dei blindati, la
donna subisce un tentativo di stupro e lo studente croato a cui
aveva
dato
un
passaggio
viene
ucciso
a
sangue
freddo.
Recuperata da alcuni reporter tra cui ritroverà Kyle (Adrien
Brody), il fotografo “idealista” che alla serata dei premi “Pulitzer”
litigò col marito. Insieme a lui e al suo collega, Stevenson, si
mettono in viaggio da Osijek verso Vukovar. Harrison’s Flowers
prende la forma di un road-movie, quello dei reporter all’interno
delle linee nemiche. Inizia per loro un percorso, per gironi, verso
31
il profondo inferno. Massacri, stupri, bombardamenti di giorno e
notte, posti di blocco con soldati isterici che siano serbi o croati,
fosse comuni, cecchini “cetnici” sempre pronti a sparare, fiumi di
profughi che vagano per le strade, villaggi incendiati dai serbi,
violenze contro i civili, donne e bambini: uno scenario da “guerra
vera” in tutta la sua crudeltà. Spesso l’occhio dei fotografi si
intreccia a quello della macchina da presa: gli scatti prendono
movimento o, viceversa, la narrazione viene immortalata in
un’immagine.
Prima di arrivare a Vukovar incontrano Yeager, premio Pulitzer
dell’anno, come gli altri, newyorkese e amico di Harrison. Cerca
di dissuaderli dal proseguire per Vukovar, la città – dice – dove
“nessuno entra e nessuno esce”, ma decide di seguirli. L’assedio
serbo alla città si fa sempre più stretto. Riescono fortunosamente
a superare, mimetizzatisi tra le sterpaglie, la guardia indomita
dei cecchini. Percorrono un tratto dell’autostrada che collega
Belgrado a Zagabria, interrotta ormai da metà agosto dopo gli
incessanti
bombardamenti
dell’Armata
popolare.
Entrano
a
Vukovar: la cinepresa li segue o li precede di poco, si muove ad
ampio raggio unendo piani ravvicinati a campi lunghi su una città
rasa al suolo. Dopo le prime due inquadrature sull’arrivo nel
centro della città, un travelling allarga il campo e ci svela il
teatro di guerra che investe Vukovar, in mano alle bande
paramilitari del temibile comandante Arkan. Tra le macerie e le
fiamme, cadaveri penzolanti e corpi inermi distesi per terra, per
le strade viene messa in pratica dalle milizie serbe una terribile
pulizia etnica. I civili vengono cacciati dalle loro case, torturati e
giustiziati per strada. La voce-over di Yeager, in una delle
interviste “a posteriori” che raccontano a tratti la storia, descrive
la scena. Elie Chouraqui decide di “scagliare” la cruda violenza
della guerra dei Balcani contro lo spettatore, una scelta che lo
32
distingue dalla maggior parte dei registi jugoslavi che seppur
utilizzino la guerra come fattore narrativo dominante, l’hanno
spesso raccontata in via indiretta o metaforica. I tre reporter
insieme a Sarah percorrono le strade di Vukovar: un tragitto in
cui l’oggettività del documentario si unisce al pathos della
finzione. Mentre si dirigono verso l’ospedale nella speranza di
trovare Harrison, Kyle viene ucciso da un proiettile.
Arrivano all’ospedale, che storicamente segna uno degli apici
della violenza a Vukovar (seppur non se ne faccia esplicito
accenno nel film): è, infatti, uno dei crimini di guerra per il quale
diversi militari serbi sono accusati dal Tribunale Internazionale
dell’Aja; si parla di 261 persone ricoverate, scomparse. Tra le
fiamme
che
avvolgono
l’edificio,
Sarah
riesce
a
ritrovare
Harrison, immobile e senza parole seduto su un letto, fortemente
traumatizzato
da
ciò
che
si
chiama
in
gergo
“shock
da
esplosione”. E’ il giorno prima della fine dell’assedio e della presa
finale della città di Vukovar da parte dei serbi, che avvenne il 18
novembre del 1991. Terminò un assedio durato 87 giorni e
costato 15 mila morti.
Harrison’s Flowers è un film dalle molte anime. Si sviluppa in
parte su una struttura classica da film di guerra: un prologo soft,
una storia d’amore travolta dagli eventi (quella di Harrison e
Sarah), nemici agguerriti e un finale relativamente lieto con il
salvataggio della persona amata. A questa struttura si innesta,
inoltre, un interessante “road-movie” dei reporter all’interno del
conflitto. Il racconto filmico è inserito in una cornice costruita
dalle interviste a Yeager Pollack e Marc Stevenson e ad altri
colleghi, che raccontano la storia di Harrison. Nel film, sostenuto
da un ottimo cast di attori tra cui spicca l’intensa interpretazione
di Andie Macdowell, convivono alcuni elementi cari al cinema
americano e altri al cinema europeo: da una parte, la tradizione
33
del road-movie, gli echi coppoliani di Apocalypse Now, la messa
in scena spettacolare delle sequenze di guerra; dall’altra, i tempi
più lenti della prima parte, i discorsi interrotti, l’attenzione per i
contenuti “politici” e le immagini apparentemente precarie.
1.4 Vukovar: Poste Restante
Sei anni prima del film di Chouraqui, Bora Drašković, regista
serbo-bosniaco nato nella cosmopolita Sarajevo, girò Vukovar:
Poste Restante (1994), una coproduzione con partecipazione
jugoslava. La pellicola si ispira alla vicenda di Romeo e Giulietta.
Nei mesi della guerra serbo-croata Ana e Toma si sposano
proprie nelle ore in cui scoppiano i primi focolai tra le due
principali etnie. Lei è croata, lui serbo, ma quasi non ci
penserebbero se non fossero gli altri – gli amici, i vicini, e i
fanatici nazionalisti – a ricordarglielo. Dopo tutto loro arrivano da
Vukovar, che nel corso dei secoli ha fatto della convivenza tra
culture diverse un tratto distintivo. La guerra interrompe la loro
luna di miele. Toma viene reclutato nell’esercito e Anna, incinta,
rimane sola a casa, cade in depressione e subisce la violenza
sessuale di un balordo. Nasce loro figlio, ma la guerra e le due
forze
antagoniste
che
si
fronteggiano
sono
riusciti
irrimediabilmente a dividerli. In un finale apertamente simbolico
li vediamo salire su due autobus del tutto simili che imboccano
strade diverse: uno è diretto a Zagabria, l’altro a Belgrado. Sullo
sfondo del film c’è una città distrutta senza pietà, dove la
violenza dei gruppi nazionali è superata dai “dogs of war”29,
milizie paramilitari sia serbe sia croate che violentano e uccidono
senza ritegno. Una lunga e cruda sequenza ripresa dall’alto
29
N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, in “Nexus Project”, Sofia, 2002/2003,
p.21
34
testimonia, inoltre, come non sia rimasto intatto un solo edificio
di Vukovar.
Il film che offre una riflessione critica sulla guerra jugoslava,
dividendo le responsabilità del conflitto tra le varie parti in causa,
suscitò polemiche soprattutto in Croazia, mentre fu ben accolto
all’estero.
Dina
Iordanova,
docente
di
cinema
e
media
all’università di Leicester, prova a sintetizzare i motivi della
diatriba, collegando il film di Drašković all’opera di Srdjan
Dragojević,
Pretty
Village,
Pretty
Flame
(1996),
che
approfondiremo in un prossimo capitolo. Entrambe presentano
un approccio non nazionalistico alla recente storia dell’exJugoslavia, uno focalizzandosi sulla distruzione di Vukovar, l’altro
su quella della Bosnia.
“While Dragojević and Drašković’s films were acclaimed abroad
for trying to offer a balanced view of the conflict, critics in
Yugoslavia did not accept the angle that the directors were
proposing – it was not about guilt in principle, but about
quantifying and measuring concrete crimes. The attempt to rise
above the damaging side-taking by showing the madness of all
sides, a proposition which looked promising form outside, was
not really viable in the divided public space of former Yugoslavia.
People there were not ready for an easy reconciliation”30.
Rispetto al film di Dragojević, Vukovar: Poste Restante presenta
sicuramente una struttura più semplice, tuttavia la regia di
Drašković mette in circolo la sincerità del dolore. La pellicola
presenta, infatti, alcuni riferimenti autobiografici; Bora Drašković
è nato a Sarajevo ed è un serbo di Bosnia, ma i suoi genitori
come i protagonisti del film provenivano da etnie diverse. E’ un
testo, quindi, che - come nota il critico Umberto Rossi – “nasce
30
Dina Iordanova, Cinema of Flames: Balkan film, culture and the media, cit., p.141.
35
da
un’esperienza
quasi
autobiografica
da
cui
distilla
una
sofferenza autentica”31.
1.5 Gli altri film
Anche l’esordiente Oleg Novković, regista serbo, raccontò la
tragedia di Vukovar in Why did you leave me? (1993), rivolgendo
l’attenzione alle conseguenze psicologiche sulle vittime del
conflitto. Nel racconto filmico due storie parallele si incontrano.
Da una parte un giovane che ha prestato servizio di leva
nell’Armata
popolare
e
torna
da
Vukovar
profondamente
traumatizzato, simbolo di una delle reali vittime della cosiddetta
“sindrome di Vukovar” che causò diverse defezioni nell’esercito,
soprattutto da parte di giovani sconvolti dalle efferate e
disumane violenze commesse dai gruppi paramilitari. Dall’altra
parte, una ragazza serba stuprata dalle truppe croate, intravista
al tempo dal giovane militare e ritrovata casualmente. I due
personaggi intrecciano una storia sentimentale dalla tragica fine.
In risposta alle pellicole serbe, il regista croato Branko Schmidt
girò
Vukovar
is
coming
home
(1994),
il
dramma
di
un
combattente che ritorna nella sua città; qui si confrontano il
passato e il presente della città, il suo “memento”, pieno di odio
e amarezza verso i soli colpevoli della distruzione.
Il panorama cinematografico croato è sicuramente meno vivace
di quello serbo. Un autore interessante è Vinko Brešan, regista di
How the war started on my Little Island (1996) e Marshal Tito
(1999), una commedia (genere poco frequentato in Croazia)
contraddistinta da una marcata satira sociale, dove il fantasma di
Tito prende vita, diventando ben altro rispetto all’abusata
formula, cui riferirsi in ragione del declino jugoslavo. Nel 2004
31
Umberto Rossi, Serbia: schermi di guerra senza tentazioni “eroiche”, in “Cineforum”,
n.343, aprile 1995.
36
con I testimoni (Svjedoci, 2003) vince il “Premio per la Pace” al
Festival di Berlino. Un film coraggioso nel riconoscere le colpe
croate nel conflitto, caso non troppo frequente finora nel paese
che fu di Tudjman. A passare sotto la lente d’ingrandimento è
una rappresaglia che un gruppo di soldati croati compie nella
città portuale di Split alla casa abbandonata di un negoziante
serbo. A dispetto delle apparenze, però, lui si trova in casa e
viene ucciso. Non contenti, gli attentatori rapiscono la figlia di
undici anni, tenendola in ostaggio in un garage. Questo, l’evento
cardine dell’inizio che viene rivisitato ciclicamente, riproponendo
ogni volta i punti di vista di tutti i personaggi coinvolti. Una
scomposizione di piani temporali che raggiunge uno sguardo ad
affresco e perviene ad un respiro corale.
Uno dei più importanti registi croati, Lordan Zafranović nei primi
anni Novanta, in forte disaccordo con il delirio nazionalista, si
allontanò dal suo paese, in esilio a Praga, non perdendo
l’attenzione-ossessione costante per la storia e le vicende della
Jugoslavia. Nel 1994 esce Il tramonto del secolo/Testamento,
documentario che può essere considerato la sintesi della sua
opera nell’ambito del filone storico-politico dedicato alla seconda
guerra mondiale.
Due film italiani si sono interessati al conflitto serbo-croato. Il
Carniere (1997) di Maurizio Zaccaro è tratto da un fatto di
cronaca
ed
ispirato
al
diario
di
guerra
del
giornalista
dell’“Espresso” Gigi Riva, che firma anche la sceneggiatura; un
gruppo di italiani nell’autunno del 1991 raggiungono come
d’abitudine una riserva di caccia tra la Croazia e la Bosnia, e si
ritrovano a loro insaputa in mezzo ai primi e già cruenti focolai di
guerra; feritosi uno dei tre, si rifugiano in un hotel (in una città
che può ricordare Sarajevo) dove incontrano un giornalista che
raccoglierà la loro testimonianza sui fatti accaduti. Ricco di spunti
37
interessanti e strutturato come un western mitteleuropeo è Il
Toro di Carlo Mazzacurati (1994) che racconta la storia di due
italiani che varcano la frontiera per poter vendere un toro rubato
(il
riproduttore
numero
cinque
del
mondo)
in
Ungheria.
Attraversano la Croazia imbattendosi nei profughi della guerra,
parcheggiati da mesi su dei binari, per cui il toro “Corinto”
potrebbe diventare una preda e significare migliaia di bistecche;
vengono poi ospitati in una casa colonica da un vecchio
contadino e da una giovane nuora prima di riprendere il viaggio
verso la pianura magiara.
Infine, tra i documentari Yugoslavia: Death of a Nation (1995),
coproduzione inglese, francese e americana, guidata dalla Bbc,
affronta, nella complessiva ricostruzione delle guerre jugoslave,
il caso di Vukovar. Mostra come la città, centro cosmopolita della
Slavonia, sia stata abbandonata al proprio destino sia per
accelerare il riconoscimento internazionale della Croazia e sia in
conseguenza agli accordi sottobanco tra i governi serbo e croato
per la futura spartizione della Bosnia.
38
2 S ARAJEVO
«A Sarajevo, chi soffra d'insonnia può sentire strani suoni nella notte cittadina.
Pesantemente e con sicurezza batte l'ora della cattedrale cattolica: le due dopo
mezzanotte.
Passa più di un minuto (esattamente settantacinque secondi, li ho contati) ed ecco
che si fa vivo, con suono più flebile, ma più penetrante, l'orologio della Chiesa
ortodossa, e anch'esso batte le due.
Poco dopo, con voce sorda, lontana, il minareto della moschea imperiale batte le
undici: ore arcane, alla turca, secondo strani calcoli di terre lontane, di parti
straniere del mondo.
Gli ebrei non hanno un orologio proprio che batta le ore, e solo Dio sa qual è in
questo momento la loro ora, secondo calcoli sefarditi o ashkenaziti.
Così, anche di notte, mentre tutto dorme, nella conta di ore deserte d'un tempo
silenzioso, è vigile la diversità di questa gente addormentata, che da sveglia
gioisce e patisce, banchetta e digiuna secondo quattro calendari diversi, tra loro
contrastanti, e invia al cielo desideri e preghiere in quattro lingue liturgiche
diverse.
E questa differenza, ora evidente e aperta, ora nascosta e subdola, è sempre
simile all'odio, spesso del tutto identica ad esso.»
Ivo Andrić, da Lettera del 192032
E’ la città simbolo e martire del conflitto jugoslavo, soprattutto
per l’audience occidentale, che qui ha calamitato l’attenzione
mediatica. Sarajevo ferita da un interminabile assedio dei serbobosniaci, il più lungo della storia contemporanea, quasi quattro
anni di sofferenze per la popolazione multietnica della città:
musulmani, serbi, croati ed ebrei. Oltre 1300 giorni di agonia
32
Ivo Andrić, Racconti di Sarajevo, Newton Compton, Roma, 1993.
39
dalla primavera del 1992 ai primi mesi del 1996, 12 mila morti e
più di 50 mila feriti.
Visse al suo interno una coraggiosa resistenza culturale.
Per paradosso, la vita artistica della città rivelò un’intensa, pur
sofferta, vivacità nella prima metà degli anni Novanta, quelli
della guerra. Ad essa presero parte intellettuali ed artisti di tutto
il mondo, insieme a quelli locali forti di una consolidata
tradizione, che nel decennio precedente ebbe uno dei suoi
momenti migliori. Basti ricordare il festival internazionale “Days
of Poetry”, l’annuale esposizione “Yugoslav Documenta”, “The
international Festival of Fringe and Experimental Theatre” e
soprattutto il movimento artistico di opposizione culturale “New
Primitives”, tra teatro e musica, formatosi negli anni del dopoTito, a cui si affiancarono rock band come i “White Button” di
Goran Bregović e i “No Smoking" di Nelle Karajlić ed Emir
Kusturica, che tra l’altro faceva parte anche della formazione
teatrale “Top Lista Nadrealista” , che attraverso il registro del
grottesco costruiva una lucida e beffarda satira sociale. Kusturica
nel frattempo portava a compimento i due primi lungometraggi
cinematografici: Ti ricordi di Dolly Bell?
(1981) e Papà è in
viaggio d’affari (1985), entrambi sceneggiati dal poeta e scrittore
sarajevese
Abdulah
Sidran,
per
qualche
anno
suo
fedele
compagno di strada, poi, complice il precipitare degli eventi in
Bosnia, sua rispettosa ma ferma coscienza critica. Durante la
guerra il regista abbandonò, infatti, Sarajevo per Parigi e
Belgrado, né sostenne la causa bosniaca;
fu accusato di
tradimento e quasi rinnegato, criticato con toni assai meno
distinti, e a volte ingenerosi, di quelli di Sidran, che nella sua
40
legittima
accusa
ha
sempre
riconosciuto
il
talento
di
Kusuturica33.
Sarajevo, che ritroviamo nei “reportage” televisivi dei primi anni
Novanta è completamente diversa da quella lasciata in Ti ricordi
di Dolly Bell?, che si muoveva sullo sfondo delle vicende del
giovane Dino (Slavko Štimac) nei primi anni Sessanta, pulsante,
vivace e contraddittoria, in bilico tra innovazione e tradizione.
Le corse agli angoli delle strade sotto il tiro dei cecchini, le
fiamme che bruciano la Biblioteca Nazionale, le code per
prendere l’acqua e i massacri del mercato hanno, invece,
costruito l’immaginario collettivo di Sarajevo durante l’assedio.
Una guerra etnica in cui Sarajevo si è ritrovata invischiata e che
non gli apparteneva, in quanto, da secoli, città della convivenza
e della tolleranza. Con la disgregazione della Jugoslavia e il
sorgere dei nazionalismi la città divenne il principale “bersaglio”
dopo Vukovar34. Durante l’assedio viene sottolineato il suo
carattere
cosmopolita,
anzi
viene
rafforzato,
forse
come
compensazione alla distruzione dilagante, nelle visioni della città
da parte degli intellettuali accorsi. Il suo multiculturalismo era
fortemente messo alla prova, minacciato e dilaniato dalle
granate, dalla paura dei cecchini, dalla fame e dal nuovo odio
etnico. Tutto questo succedeva a Sarajevo, città europea dai
sapori orientali, un luogo dove a poca distanza, tra loro, si
trovavano chiese, moschee e sinagoghe.
Autori
cinematografici,
diventarono
parte
giovani
integrante
di
film-maker,
un’articolata
documentaristi
politica
della
rappresentazione della città, in cui erano elementi discriminanti
la scelta di vivere per lungo o breve tempo a Sarajevo, per
quanto riguarda i registi stranieri, e l’auto-rappresentazione da
33
Cfr. Paolo Vecchi, Emir Kusturica, cit. p.19 e Piero del Giudice, Sarajevo!, Nicoldi,
Trento, 2001.
34
Cfr. Paolo Rumiz, Maschere di un massacro, cit.
41
parte dei cineasti sarajevesi che spesso non collideva con quella
estera. Ne scaturirono diverse percezioni ed interpretazioni
dell’assedio che si rifletterono nelle varie opere cinematografiche.
Benvenuti a Sarajevo (1997) di Michael Winterbotton resta la
rappresentazione
sul
grande
schermo
più
nota,
forse
politicamente corretta, ma non priva di interesse. Nell’intreccio
tra immagini reali e fiction, che caratterizza il film, compaiono
quelle dell’incendio dell’antica Biblioteca Nazionale. Uno degli atti
più simbolici dell’ “urbicidio” che colpisce la capitale bosniaca. E'
stato proprio per i casi di Sarajevo e Vukovar che è stato coniato
il termine “urbicidio”, ovvero un'intenzione feroce, premeditata,
metodica, prolungata di massacrare una città. Urbicide: A
Sarajevo Diary (1993) è infatti il titolo di un film documentario di
Dom Rotheroe e come in Killing Memory (1994) di Andreas
Riedlmayer, l’incendio viene paragonato a quello che colpì la
biblioteca di Alessandria d’Egitto.
La resistenza culturale, di cui parlavamo, viene evocata o ripresa
direttamente nei film. Sarajevo è stata, in quegli anni, il centro
principale di progetti di solidarietà internazionale da parte di
artisti ed intellettuali35. In Teatro di guerra (1998) di Mario
Martone, una compagnia teatrale di Napoli decide di allestire uno
spettacolo da portare nella Sarajevo assediata. Similarmente in
Forever Mozart (1996) di Jean-Luc Godard un gruppo di giovani
attori si mette in viaggio alla volta della capitale bosniaca per
mettere in scena Non si scherza con l'amore di Alfred De Musset.
Tra le nebbie sarajevesi di Lo sguardo di Ulisse (1995) di Theo
Angelopoulos scorgiamo lungo le strade un quartetto di musicisti
che suona Mozart e a agli angoli di una città semidistrutta attori
che
presentano Romeo e Giulietta. Alla fine di Benvenuti a
Sarajevo su un’altura panoramica un violoncellista esegue un
35
Cfr. Dina Iordanova, Cinema of Flames, cit., pp. 238-241.
42
concerto
per
la
pace,
suonando
l’Adagio
di
Albinoni.
Winterbottom prende spunto da un evento realmente accaduto
nel 1992, nei giorni successivi al massacro di venti persone (in
coda per il pane nella centralissima via Vase Miškina), quando il
violoncellista locale Vedran Smajlović suonò l’Adagio proprio nel
luogo dell’attentato. Ed è solo una delle numerose iniziative
artistiche d’opposizione alla guerra. La scrittrice americana
Susan Sontag curò la regia teatrale di Aspettando Godot, che fu
presentato il 17 agosto del 1993 al Teatro Giovani di Sarajevo. Il
regista sarajevese Haris Pasović produsse diversi spettacoli, dai
drammi di Shakaespeare al musical Hair, tutti riadattati alla
situazione contingente. Nel ’95 il compositore scozzese Nigel
Osborne, scrisse e diresse una nuova opera a Sarajevo Europe,
mentre dalle emittenti musicali veniva trasmessa Miss Sarajevo
cantata dal leader degli U2 Bono Vox, che aveva appena messo
in piedi con Brian Eno il progetto “Passengers” e con il tenore
Luciano Pavarotti. Anche le arti visive avevano una parte
significativa nella resistenza culturale: dal pittore Nusret Pašić ai
designer del gruppo pop-art Trio, dai diari di guerra in forma di
collage di Alma Hajrić (ricreati nel film Black Kites di Jo Andres)
al pittore inglese Peter Howson o a quello bosniaco Muradif
Ceremagić, fino al fotografo francese Louis Jammes, autore di
Angels of the walls un’opera sperimentale sui ritratti dei bambini
di Sarajevo, tra fotografia, grafica e murales. Senza dimenticare
l’esposizione War Art nel 1994 di Nedzad Begović costruita
attorno alle macerie della guerra, agli oggetti che dopo l’assedio
hanno perso la loro funzione primaria. Lo stesso Begović ha
girato
un
documentario
sul
progetto
artistico.
E’
difatti
principalmente un regista ed è membro della Saga (Sarajevo
Group of Authors), il collettivo fondato nel 1990 da Ademir
Kenović (autore de Il cerchio perfetto, 1996) e da Ismet
43
Arnautalić, che dal 1992 divenne un fondamentale punto di
incontro tra cineasti, artisti e studenti dell’Accademia di Cinema
e Teatro di Sarajevo, che rimangono a Sarajevo durante il
conflitto, ne prese parte anche Danis Tanović. Scendendo in
strada con i giubbotti antiproiettile, armati di sola betacam, i
registi filmarono l’orrore, la disperazione, la vita dei loro
concittadini. Al fine di documentare, testimoniare e fermare in
quelle immagini su supporto magnetico, ciò che il mondo doveva
sapere: la quotidianità di quegli uomini e donne sotto assedio di
cui spesso i servizi giornalistici non parlavano, poiché in due
minuti ci aggiornavano sullo spostamento di forze armate e
mezzi blindati e sul numero di granate cadute. Una guerra vista
dall’interno: loro stessi erano vittime dell’assedio dei serbi. In
quattro
anni
la
Saga
svilupperà
un
vasto
archivio
documentaristico, metterà in piedi progetti di fiction e farà da
supporto alle produzioni estere.
“Fama International” è un gruppo di creativi e ricercatori fondato
nel ’91, che in quel periodo aveva prodotto numerosi progetti,
dando vita ad un vero network indipendente, utilizzando più
media:
scrittura,
video,
disegno,
grafica,
televisione
e
multimedia. Sarajevo Survival Guide e Sarajevo Survival map
92-96 sono, per esempio, due diverse proposte secondo una
“filosofia della sopravvivenza”, la prima una guida turistica “stile
Michelin”, non priva di humour nero, per sopravvivere durante
l’assedio tra i fuochi incrociati dei cecchini, mentre la seconda è
una mappa topografica della vita e della morte a Sarajevo. Sono
diventate
parte
integrante,
insieme
all’archivio
video
(documentari, interviste, reportage televisivi) costruito negli anni
appena dopo la guerra, di quella testimonianza storica, politica e
culturale che mostra la città non come vittima, ma come un
44
esperimento di sopravvivenza, una possibile vittoria dello spirito
e dell’ingegno sul terrore.
Nella resistenza culturale, nelle varie forme di opposizione al
conflitto e alla violenza, nella documentazione e nella controinformazione, arti e media si contaminavano.
I
film
documentari
spesso
ripercorrevano
i
luoghi
e
le
problematiche affrontate dagli scrittori, come le pagine di Zlatko
Dizdarević,
caporedattore
di
Oslobodjenje,
il
quotidiano
sarajevese indipendente, voce del dissenso. Nei suoi libri
Giornale di guerra. Cronaca di Sarajevo assediata e Lettere da
Sarajevo36, emergevano le storie e le cronache dalla città, i
dilemmi, la rabbia e i drammi dei sarajevesi e poi un atto
d’accusa nei confronti dell’indifferenza e dell’ipocrisia occidentale
e dei nazionalismi al potere nelle repubbliche ex-jugoslave. Il
volume Sarajevo! (2001, Nicolodi) è allo stesso tempo un libro
fotografico, un reportage e un testo di memorie e racconti, nato
dalla
collaborazione
di
due
fotografi
di
Sarajevo,
Danilo
Krstanović e Milomir Kovačević, e un giornalista italiano Piero Del
Giudice. Attraverso fotografie in bianco e nero di forte impatto,
alternate
alle
testimonianze
di
chi
la
guerra
ha
vissuto
realmente, scopriamo una Sarajevo sradicata dalla sua stessa
immagine, un popolo e la sua anima che rischia di scomparire
con la città. E’ un libro che racconta l'assurdità della guerra con
immagini, racconti, pagine di diario, interviste, poesie, articoli e
lettere. Tra i brani riportati anche alcuni stralci degli scritti di
Marko Vešović, autore di Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo
(1996, Sperling & Kupfer) e del poeta Abdulah Sidran. A
quest’ultimo
Piero
Del
Giudice
ha
dedicato
un
breve
36
Zlatko Dizdarević, Giornale di guerra.Cronaca di Sarajevo assediata, Sellerio, Palermo,
1994 e Lettere da Sarajevo, Feltrinelli Milano, 1998
45
documentario
Abdulah
Sidran,
poeta
in
Sarajevo
(1995),
presentato in una serata dell’Alpe Adria Cinema nel ‘95.
Nello stesso anno prese il via nella capitale bosniaca, ancora
sotto assedio, il primo “Sarajevo Film Festival”, che oggi, giunto
all’undicesima edizione, è diventato il più importante evento
cinematografico dei Balcani. “Tutto è nato perché volevamo dare
un nostro contributo allo spirito e alla cultura della città
assediata. Era un modo per resistere all’aggressione, per
superare il terrore e la violenza” spiega Miro Purivatra direttore
della rassegna37.
Durante una guerra la quotidianità viene soverchiata, si vive in
condizioni estreme, la tradizionale routine della quotidianità
sostituita da un’altra più alienante e distruttiva, quella del
coprifuoco, della ricerca di cibo e acqua, del rischio dei cecchini e
delle granate. Sarajevo cerca di resistere nel disperato tentativo
di ricostruire una condizione di normalità durante l’assedio, ma
viene segnata irrimediabilmente dalle rivalità che hanno leso la
sua convivenza multiculturale.
Dopo questa articolata premessa in cui abbiamo descritto la
resistenza culturale di Sarajevo e in cui il cinema ha occupato un
posto di primo piano, analizziamo nello specifico alcuni casi
filmici. Principalmente Benvenuti a Sarajevo (1997), Do you
remember Sarajevo? (1992-2002) e Lo sguardo di Ulisse (1995);
poi Teatro di guerra (1998), Il cerchio perfetto (1997) e Forever
Mozart (1996). In conclusione, un rapido commento a riguardo di
altri film, documentari e cortometraggi.
37
Jasenka Kratović, Sarajevo Film Festival: un decennio di crescita, in “Notizie Est”, 15
settembre 2004.
46
2.1 Benvenuti a Sarajevo
Si tratta del quarto film del regista inglese Michael Winterbotton,
dopo Butterfly Kiss (1994), Go Now (1996) e Jude (1996).
Apre con le immagini reali, in bianco e nero, di un gruppo di
serbi che festeggia, a colpi di mitra, vicino ad un carro armato la
presunta liberazione di Vukovar; dopo uno stacco di montaggio,
un lungo camera car percorre la città tra le rovine. Nelle
successive
inquadrature
la
fotografia
prende
gradualmente
colore segnando il passaggio netto da realtà a fiction. Sono i due
piani strutturali che si intrecciano nel corso della pellicola che
appunto
riunisce
sequenze
di
fiction
ad
immagini
documentaristiche, in modalità non sempre deducibili come in
questo caso. Il prologo del film si conclude introducendo la figura
di Michael Henderson (Stephen Dillane), giornalista televisivo,
impegnato a registrare il commento al suo servizio, tra le rovine
e i profughi di Vukovar. Al termine delle sue parole si ascolta The
way young lovers do, una canzone di Van Morrison (tratta dal
celebre album “Astral Weeks”, 1968), e con lei i titoli di testa
sovraimpressi ad immagini panoramiche di Sarajevo, relative al
1984 l’anno delle Olimpiadi Invernali, che si tennero proprio nella
città bosniaca. Quella che apparentemente potrebbe sembrare
una
musica
extradiegetica
non
si
rivela
tale,
perché
in
un’inquadratura successiva, che ci porta direttamente nella
diegesi del film, scopriamo che viene emessa da un radioregistratore. Siamo nel ’92, nel locale di una parrucchiera, ad un
certo punto manca la luce, la musica si interrompe. A Sarajevo la
luce non c’è, chi se lo può permettere l’attiva con un generatore,
una donna nel locale lo fa ripartire e la canzone riprende.
L’attenzione del regista si sposta allora, a due altri momenti di
vita quotidiana: in una chiesa, dove un giovane prete e alcuni
chierichetti aspettano di celebrare una funzione religiosa, e in
47
una casa, dove una ragazza sta indossando l’abito da sposa. La
vita tenta di proseguire nonostante la guerra. Alla musica del
brano si sono ormai sovrapposti le raffiche dei mitra. Scesi per
strada a festeggiare il matrimonio, sposa e parenti, vengono
colpiti dai tiri dei cecchini, una donna muore proprio davanti alla
chiesa di prima. Da un’inquadratura oggettiva passiamo ad una
soggettiva, la stanno infatti osservando un gruppo di giornalisti.
Cambia anche il formato da pellicola a video. La vediamo con gli
occhi dei reporter o meglio, con quelli delle loro telecamere
(l’immagine è sgranata, con camera a mano). Tra giornalisti e
cameraman c’è anche Michael.
Questa introduzione relativa alle prime due sequenze del film
non è fine a se stessa, rimarca i differenti piani che si intrecciano
nel film: realtà e finzione, oggettività e soggettività. Come si
comunica la guerra? Come la si guarda? Come la si rappresenta?
Michael Henderson, reporter inglese, si ritrova a Sarajevo per la
sua quattordicesima guerra; sono i primi mesi dell’assedio. Nella
bizzarra classifica dell’Onu si trova al quattordicesimo posto tra i
luoghi più pericolosi della terra. Ma è sulla strada per diventare il
primo. Nessuno è al sicuro nemmeno i giornalisti che lavorano in
prima linea. Alla sera si ritrovano al bar dell'albergo Holiday Inn,
per raccontarsi le reciproche esperienze, in un clima di rivalità
professionale ma anche di umanità. Un giorno Henderson e il
collega americano Flynn (Woody Harrelson) scoprono uno dei
campi di concentramento organizzati dai serbo-bosniaci. Poi è la
volta delle stragi di civili in coda per la distribuzione del pane.
Durante la visita ad un orfanotrofio sotto il fuoco nemico
Henderson sente il bisogno di fare qualcosa di più concreto e
promette ad una bambina, Emira, di portarla lontano dai
bombardamenti. La crudeltà della guerra ha cambiato il suo
sguardo,
prima
distaccato.
Quando
un
convoglio
di
aiuti
48
umanitari guidato da una giovane americana, Nina (Marisa
Tomei), si offre di mettere in salvo alcuni bambini, Henderson
decide di portare Emira in Inghilterra. Sembra tutto risolto,
quando la mamma pretende di riaverla indietro. Henderson torna
a Sarajevo e riesce a convincere la madre. Intanto in città
qualcuno riesce ad organizzare un piccolo concerto, sfidando il
pericolo, in favore della pace.
Interamente
girato
a
Sarajevo
nel
1996,
all’inizio
della
lavorazione non era ancora terminato l’assedio, Benvenuti a
Sarajevo è tratto dal libro autobiografico Natasha’s Story di
Michael Nicholson, giornalista della tv inglese, sempre in prima
linea dal Vietnam in poi, che in Bosnia salvò la piccola Natasha
dagli
orrori
di
una
guerra
fratricida.
Winterbottom
e
lo
sceneggiatore Frank Cottrell Boyce hanno allargato la narrazione
ad una coralità di personaggi, all’interno della quale spicca la
città di Sarajevo con un ruolo da protagonista. Il personaggio di
Flynn, il giornalista della tv americana che sembra approfittare
del dramma della popolazione per mettersi in mostra (ma poi
arriva a rischiare la vita per aiutare i civili), non è desunto dal
testo letterario. Anche perché al di là della presenza fissa della
Cnn, la maggior parte delle televisioni americane avevano
seguito in minima parte la guerra.
Non è solo un film sul conflitto in Bosnia, ma anche sul
giornalismo di guerra. Ricostruisce come Sarajevo
descritta
dagli
inviati:
la
frustrazione
è stata
dell’isolamento
e
dell’abbandono, le tragedie, i palazzi sventrati, i materassi alle
finestre, le paure, il buio e la fame. Mette in luce i tentativi della
gente comune di restituire alla città, anche solo per un giorno, la
vita e quelli dei volontari stranieri, di fronte ai temporeggiamenti
dei governi o ai raid della Nato, di caricare su camion viveri e
medicinali e di portare soccorso alla popolazione assediata.
49
Il regista inglese ha scelto, nella messa in scena, una via di
mezzo tra fiction e documentario in cui combina, a volte con
eccessiva disinvoltura, materiale tratto dagli archivi televisivi,
immagini in pellicola 35 millimetri ed immagini video, scene reali
o verisimili e pura fiction. Ha ricreato, in tal modo, uno degli
episodi più cruenti, la bomba al mercato di Sarajevo. Il vero si
amalgama
col
falso,
continuità,
spesso
con
è
la
difficile
finzione,
senza
riconoscere
le
soluzione
due
di
diverse
dimensioni.
“Il cocktail all’inizio rende perplessi: è lecito montare immagini
vere dell’assedio di Sarajevo a quelle ricostruite subito dopo sugli
stessi
luoghi?
Hanno
le
vittime
della
cronaca
ad
essere
preservate dalla messainscena?” si è chiesto Giorgio Rinaldi su
Cineforum38. Winterbotton ha riproposto immagini già viste, ma
perse nella memoria, facendole riemergere, confutando il diritto
dello spettatore di guardare altrove. “Il mix documento-fiction
funziona grazie anche ai prodigi del montatore Trevor Waite. [...]
Non è l’unica strada (Underground e Lo sguardo di Ulisse
raccontano la stessa guerra con la pura invenzione), ma
permette di veicolare informazione e sensazione, emozione e
denuncia. L’approdo è una sintesi tra un instant movie e un film
sulla
memoria”39.
In
un
montaggio
ritmato
e
complesso,
Winterbotton sceglie come colonna sonora, in dialogo e contrasto
con l’orrore delle situazioni, brani di gruppi rock inglesi (Blur,
Stone
Roses,
Teenage
Fanclub,
Massive
Attack
e
Happy
Mondays).
Nel film si intrecciano punti di vista diversi che definiscono
un’alternanza di oggettività e soggettività, su un piano non solo
linguistico. Attraverso l'occhio dei corrispondenti di guerra, nella
38
39
Giorgio Rinaldi, Benvenuti a Sarajevo, in “Cineforum”, n.369, novembre 1997.
Ibidem
50
finzione, vediamo la città e seguiamo lo sviluppo narrativo,
mentre attraverso l'occhio delle telecamere di chi c'è stato e
qualche volta ci ha lasciato la pelle, osserviamo la realtà della
tragedia
bosniaca,
quella
che
i
giornalisti
in
Inghilterra
mandavano in onda nel telegiornale, dopo il gossip sulla famiglia
reale.
La narrazione può essere, inoltre, suddivisa in due parti
principali, che si compenetrano ed hanno pesi diversi nel corso
del film: la storia collettiva (quella dei giornalisti in guerra) e la
storia individuale (quella di Henderson). Nella prima tranche è
preponderante il mosaico di esperienze, nella seconda il percorso
individuale.
Winterbotton ha realizzato un’opera in parte irrisolta, ma di certo
non si può
dire non sia impegnata. Oltre alla tragedia
complessiva di Sarajevo focalizza l’attenzione, con le vicende di
Emira e dei bambini dell’orfanotrofio, sulle sofferenze dei più
piccoli in guerra. Punta poi il dito contro l’ipocrisia e l’indifferenza
dell’Occidente, l’ignavia dell'Onu e le vergogne della politica
europea, a cui dedica un collage d’immagini d’archivio.
Una problematica che riguarda l’analisi del film, è il suo rapporto
con la storia recente. Il film non si distacca dalla versione storica
ufficiale,
né
la
indaga.
Critico
nei
confronti
di
un
certo
schematismo proposto dall’opera (un’impostazione politicamente
corretta) è Giorgio Rinaldi, che tra l’altro è stato anche inviato
durante la guerra in Bosnia40. In Cinema of flames sono raccolte
alcune
posizioni
proposito.
Roy
critiche
Gutman,
di
commentatori
premio
Pulitzer
internazionali
e
giornalista
al
del
“Newsday”, il primo che documentò l’orrore dei campi di
concentramento in Bosnia, accusò il film di distorcere la realtà
della guerra e far convergere eventi completamente separati, da
40
Ibidem
51
un punto di vista temporale e geografico, tutti a Sarajevo.
Marshall
Fine
lamentava
una
costruzione
stereotipata
dei
personaggi (i bosniaci vittime; i serbi selvaggi e violenti; gli
adorabili orfani di guerra; i giornalisti occidentali allo stesso
tempo insensibili e di buon cuore). Hoberman su “Village Voice”
descrisse il film come un mix di “real
tragedy with Hollywood
drama”41. Emma Daly su “The Indipendent” notò che il film non
fornisse un contesto alla storia narrata, che permettesse agli
spettatori di poter comprendere la guerra bosniaca42.
Benvenuti a Sarajevo è una produzione ad alto budget, investito
anche per l’ampio battage pubblicitario che aveva contraddistinto
la promozione del film. Fu presentato al concorso di Cannes nel
’97, dove ottenne un’accoglienza tiepida e giudizi differenti da
parte della critica. La squadra di autori che ha lavorato alla
scrittura e alla realizzazione del film era molto meno partecipe e
conoscitrice dei fatti bosniaci, rispetto ad altri registi che si sono
interessati al caso Sarajevo per lunghi periodi. Nella lavorazione
sono stati coinvolte troupe locali e case di produzioni sarajevesi
come la Saga.
Scrisse Irene Bignardi su “La Repubblica”: “Il film rivela un
irrisolto conflitto tra emozione e denuncia, tra invenzione e
documento. [...] Forse per pudore, per paura della retorica, per
self control britannico, la storia vera (ovviamente composta di
immagini
di
finzione)
è
condotta
sottotono,
e
risolve
sbrigativamente e per ellissi la fuga della piccola Emira, mentre
tutta l'emotività si concentra nelle immagini vere (queste sì) di
Sarajevo, che sottratte alla cornice indifferente dello schermo
televisivo, scelte con occhio attento, esplodono sul grande
schermo del cinema con il loro carico di orrore realistico, facendo
41
42
Dina Iordanova, Cinema of Flames, cit. p.250.
Ibidem
52
toccare con mano l'inadeguatezza delle fiction e di una storia
individuale. Per cercare di fondere i due elementi del suo film
Winterbottom si dà a sofisticati esercizi visivi e sonori - e bisogna
dire che non si sentiva il bisogno di tutto quell'Albinoni. Ma alla
fine di questo film onesto e squilibrato, generoso e irrisolto, non
si può che dar ragione alle sue intenzioni e a Woody Harrelson:
le immagini di Sarajevo sono un virus di cui lo spettatore farà
fatica a liberarsi”43.
Maurizio Porro sul “Corriere della Sera” descrisse “un film che,
con un ottimo montaggio, lotta per non dimenticare e per
denunciare il cinismo occidentale, sfiorando la poesia e parlando
a nome di 300 mila bambini. Una cosa è certa: nessun uomo è
moralmente abilitato a reggere l'agonia di un popolo. E i bambini
sempre e comunque ci guardano"44.
Al di là di alcune evidenti debolezze, nella contestualizzazione
storica e nella costruzione drammatica, Benvenuti a Sarajevo
rimane un film significativo, che crea e risveglia quella memoria
addormentata (o mai conosciuta) nel flusso catodico del piccolo
schermo domestico e invita a riflettere sul rapporto tra guerra e
media e su come quest’ultimi costruiscano l’immagine del
conflitto.
Il racconto, forte e sdegnato, si rivela quadruplo: la guerra, le
vittime della guerra, i narratori della guerra e gli spettatori della
guerra. L’interpolazione di immagini documentarie con la finzione
ha
consentito,
infine,
al
regista
di
evitare
una
spettacolarizzazione della guerra.
43
44
Bignardi I., Benvenuti a Sarajevo, in “La Repubblica”, 9 novembre 1997.
Porro M., Benvenuti a Sarajevo, in “Corriere della Sera”, 8 novembre 1997.
53
2.2 Do you remember Sarajevo?
Per la prima volta nella storia delle guerre, la gente comune si è
trovata
nella
situazione
di
documentare
gli
eventi
che
avvenivano attorno a sé con una videocamera. Videocamere
amatoriali che invece di filmare vacanze o compleanni, hanno
ripreso il bombardamento della propria città, Sarajevo. Girato da
appartamenti, rifugi, quartieri, in varie parti della città il
materiale, è confluito in un film documentario sulla vita di ogni
giorno in una città europea assediata, alla fine del XX secolo.
Gli autori sono tre giovani film-maker che all’epoca avevano poco
più di diciotto anni. I fratelli Sead e Nihad Kreševjaković e Nedim
Alikadić, nell’aprile del 1992 decisero di filmare ciò che li
circondava:
l’assedio
che
li
rendeva
prigionieri.
Do
you
remember Sarajevo? è l’assemblaggio, per lo più, di materiale
video amatoriale selezionato da un corpus di cinquecento ore e,
in minor parte, di immagini tratte dalla televisione bosniaca o
straniera.
Senza retorica documenta l'incredibile normalità dell'impossibile:
la vita durante la guerra. Non ci troviamo di fronte alla solita
celebrazione della multietnicità, con il ritualistico mostrare luoghi
e simboli delle tre religioni e del loro tollerarsi, o alle scene dei
massacri di massa.
Assistiamo a qualcosa di realmente inedito, sia per il suo valore
storico e culturale sia per il riflesso che il film ha avuto sul
cinema documentario. Non mostra nessuna delle immagini più
conosciute, ma tutto lo spirito dissacrante e irriducibile della città
assediata e la sfida a rischio della vita per muoversi, vivere ma
anche filmare senza la protezione di tessere giornalistiche o dei
blindati bianchi Unprofor. Al di fuori di ogni news management,
attraverso una fotografia sgranata, il quadro della camera è
traballante, ma non per una mera scelta stilistica.
54
Marcello Walter Bruno intravede in Do you remember Sarajevo?
l’avvento di una nuova categoria nel panorama dei documentari
e dell’infofiction di guerra, segnata dalla rivoluzione digitale:
“Una
categoria
del
controinformazione
tutto
come
nuova,
che
opposizione
va
alla
oltre
la
propaganda
governativa: i new media significano per la prima volta la
possibilità dell’auto-informazione, dell’auto-documentazione”45.
Sarajevo a dieci anni di distanza dall’inizio dell’agonia, nell’aprile
del
2002
(quando
è
terminata
la
post-produzione
del
documentario), ha rivisto se stessa attraverso le immagini girate
dai
tre
autori
che,
insieme
ad
altri
amici,
avevano
instancabilmente raccolto voci, volti e situazioni per farne un
documentario lungo poco meno di un'ora. Dall'immagine dei due
grattaceli della Unis in fiamme (che riecheggiano le più famose
torri gemelle newyorkesi) alle interviste ai cittadini, dalla vita
quotidiana alle migliaia di granate scagliate ogni giorno dalle
truppe di Mladić, dai concerti punk alla male armata resistenza
bosniaca, fino ad un’improvvisata gare sugli sci nella città
imbiancata che si conclude con una parodistica premiazione.
“Un documento di memoria storica e d'amore, sulla vita e la
morte in quegli anni”46.
Il film termina con le immagini dei cimiteri di Sarajevo e mentre
già vanno i titoli di coda, una voce fuori campo dice: “avrei
potuto vivere anche senza tutto questo".
Do you remember Sarajevo? riesce alla stesso tempo essere la
vita, il film e la realtà di una comunità, dal 1992 al 1996. Una
storia sulla gente comune che ha vissuto sotto un assedio
barbaro alla fine del XX secolo.
45
Bruno M.W., L’infofiction di guerra, in “Close-Up”, Immagini del reale figure della nonfiction, n.16, settembre 2004.
46
Valentina Pellizzer, Sjecas li se - Do you remember - Ti ricordi Sarajevo?, in
“Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 2 aprile 2002.
55
Il documentario è stato ben accolto dalla città, tanto da
prolungarne le proiezioni, e negli ultimi anni è stato presentato in
diverse rassegne internazionali.
Nihad Kreševjaković è cosciente del mutamento introdotto dalle
telecamere palmari: “C’è una profonda differenza tra le immagini
televisive e quelle amatoriali. E’ l’intimità dello sguardo. Quando
riprendi con una telecamera professionale, tutti si atteggiano.
Con le telecamere piccole era diverso, riuscivamo a registrare
situazioni molto naturali”.
2.3 Lo sguardo di Ulisse
A.
il
regista
greco
esiliato
negli Stati Uniti, protagonista
dell’opera di Theo Angelopoulos, ritorna nella sua terra natale
alla ricerca delle bobine del primissimo film girato nei Balcani ad
opera dei fratelli Maniakas e compie un viaggio attraverso tutta
la penisola balcanica, incontrando i diversi teatri di guerra dell’ex
Jugoslavia. Abbiamo collocato Lo sguardo di Ulisse all’interno del
capitolo di Sarajevo, perché è il punto di arrivo del peregrinare di
A., il luogo dove incontra realmente il conflitto, nonché lo spazio
simbolico più importante del film.
Lo sguardo di Ulisse, “Gran premio della giura” a Cannes nel ’95
(con disappunto dell’autore), è il secondo film della trilogia
chiamata “dei limiti, dei confini e dell’esilio” ispirata alle novelle
di Albert Camus L’esilio e il regno.
Il motivo dell’esilio, elemento fondante della trilogia, viene
affrontato associato a quello della frontiera. Varcando, appunto,
tutte le frontiere della penisola, nella necessità di rincorrere un
“altrove” che, se ne Il passo sospeso della cicogna (il primo film
della trilogia del 1991) era visibile ma invalicabile, qui diviene
meta necessaria per un’inevitabile presa di coscienza storica. A.
interpretato da Harvey Keitel, fin dal nome un riferimento
56
autobiografico al regista (che più volte si è definito un esiliato in
casa), sperimenta questa ricerca, dolorosa, che non è solo
storica ma anche personale, attraverso la Macedonia, la Bulgaria,
la Romania, la Serbia e la Bosnia.
Presupposto
di
Angelopoulos
per
affrontare
la
storia
contemporanea è la rilettura di un classico L’Odissea di Omero,
utilizzato in chiave metaforica.
A. è come Ulisse, cerca se stesso, i ricordi, il futuro. Come lo
stesso eroe greco è ridotto ad essere Nessuno, “non ha più nome
e la sola lingua nella quale può esprimersi non è la sua”47.
Angelopoulos ha sottolineato come il suo è, a tratti, un Ulisse
dantesco che sceglie la guerra in Bosnia per intraprendere un
viaggio all'interno di se stesso48.
Torna a Florina, la sua città natale per la proiezione eccezionale
di uno dei suoi film più contestati, ma il motivo principale della
sua venuta è quello di riuscire a scovare i primi leggendari rulli,
mai sviluppati, dei fratelli Maniakas, citati in apertura con un
frammento delle Tessitrici (1906). Nati in Grecia, si stabilirono
nel 1905 in Macedonia, dove aprirono un laboratorio di fotografia
e di sviluppo di film e successivamente una sala di proiezione.
Ebbero una vita movimentata, percorsero gli interi Balcani senza
preoccuparsi di quelle differenze nazionali o etniche, che a fine
secolo sembrano insormontabili, lasciando attraverso il loro
obiettivo un insieme di memorie di una regione e dei suoi
costumi.
A. si incammina alla ricerca di quello sguardo primigenio
intrappolato nelle bobine, di quell’innocenza sconvolta dal corso
della
Storia,
di
quella
testimonianza
di
una
coesistenza
multietnica che sembra perduta.
47
Sylvie Rollet, Figure dell’esilio e delle frontiere nell’opera di Anghelopoulos,
“Cinemalibero”, I quaderni del Battello Ebbro, 2000, p.31.
48
Ibidem
57
Inizia un percorso complesso e visionario, dal sud al nord dei
Balcani, che esplora la drammatica contemporaneità e porta
inevitabilmente a Sarajevo. Il regista infonde al viaggio un
carattere polimorfo strutturato su più piani: letterario, storico,
individuale, ricco di simboli e metafore. Un viaggio a ritroso nel
tempo, nei meandri della memoria e, allo stesso tempo,
un'esplorazione meravigliata di un'attualità che sembra quasi
irreale. A., novello Odisseo, costeggia le insidie di un mondo che
non riconosce più, da Skopje a Bucarest, da Costanza a
Belgrado. Lo sguardo del protagonista in perpetuo movimento
costruisce il fulcro organizzatore del racconto.
“Ulysse’s Gaze is a deconstruction of self-perceptions and
identity believed to be firmly rooted in space and time”49.
Angelopoulos rompe le categorie temporali e spaziali, la loro
apparente linearità, dilatando il racconto.
“A. si trova ad affrontare luoghi che, perduto ormai il loro statuto
di spazio puramente geografico (e cioè non più sperimentabile
esclusivamente come tale), si sono caricati delle tensioni di
spazio della Storia e delle suggestioni di spazio dello sguardo.
Qui legati in un rapporto di diretta subordinazione, poiché è lo
spazio della Storia a strutturare il percorso dello sguardo. Gli
scenari che fanno da sfondo al viaggio sono intesi come
immediati portatori di senso e non sono mai presentati nella loro
connotazione
dell’ideologia
fotografica”50.
marxista
Basti
comunicato
pensare
dalla
al
statua
fallimento
di
Lenin
smembrata, trasportata su una chiatta del Danubio. Tanto
quanto la statua di Lenin rappresenta il comunismo perduto, così
la ricerca di una pellicola storica allude al cinema smarrito o alla
paura da parte del regista di aver perso il proprio “sguardo”, la
49
50
Dina Iordanova, Cinema of Flames, cit., p.106.
Attilio Coco, Lo sguardo di Ulisse, “Segnocinema”, numero 77, 1995,p.58
58
sua
visione
sul
mondo,
definendo
la
dimensione
metacinetografica, uno degli elementi cardine del film.
Nelle scelte stilistiche della messa in scena l’autore rimane fedele
alla sua poetica e alla sua ricerca estetica, infondendogli però
nuovi
significati,
come
nell’uso
del
piano-sequenza.
Appropriandosi dell’archetipo letterario dell’Odissea, il viaggio,
fornisce un supporto narrativo alla fluidità del piano sequenza,
che lega spazi e popoli, crea suggestioni, supera frontiere,
dialoga con i silenzi del film ed interpreta la ricerca o la presa di
coscienza del protagonista.
Rimane per Angelopoulos quella
struttura linguistica, che quasi al pari di una ideale macchina del
tempo, permette di viaggiare nella memoria e nella coscienza del
suo paese e del mondo, dall’inizio del Novecento ai nostri giorni.
Un esempio è la sequenza ambientata, nel passato, nella villa di
famiglia in Romania, dove sperimenta una fusione temporale e
spaziale, tramite il piano sequenza, di tre capodanni (1945, 1949
e 1950), che affiorano alla mente o nei sogni del protagonista.
Nei tre momenti i festeggiamenti sono ciclicamente interrotti
dall’irruzione della Storia e della polizia.
Dopo esser stato a Belgrado, A., accompagnato, insidiato ed
atteso come il vero Ulisse da tre donne (Circe, Nausicaa e
Penelope), in realtà una sola essendo interpretate dalla stessa
attrice (Maia Mongerstern), giunge a Sarajevo, la devastata Itaca
odierna, il cuore dei conflitti non solo jugoslavi, ma europei.
Lorenzo Pellizzari ha sostenuto che non è un caso che la ricerca
di Angelopoulos, e con lui quella del suo personaggio, termini a
Sarajevo. “Un tempo sarebbe potuta finire a Madrid que bien
resiste o alla Vienna de Il terzo uomo o alla Parigi del joli mai
(che non è quello del ’68)”51. E’ ultima e fondamentale tappa del
51
Lorenzo Pellizzari, Lo sguardo di Ulisse, in Cineforum, 350, dicembre 1995, p.66. Nello
stesso articolo Pellizzari attribuisce al film la qualifica di film “europeo” e sostiene che il
59
viaggio nella coscienza, nel passato e nel presente di A., alla
ricerca di una propria identità, impersonato con un’immersione
quasi da sonnambulo da Keitel.
L’arrivo
a
Sarajevo
è
quasi
metafisico,
passando
dall’inquadratura notturna di una barca che scivola sull’acqua di
un canale, dove si trova A., alle immagini di distruzioni della
città, anticipate brevemente da un tonfo di un’esplosione. La
capitale sotto assedio è introdotta da lunghe inquadrature (longtake), percorse da A. quasi sempre in campo lungo. Antichi
palazzi distrutti, nuvole nere all’orizzonte, macchine incendiate,
gente che corre al riparo agli incroci delle strade con taniche
d’acqua; le strade deserte ricordano i quadri di Giorgio De
Chirico. La Sarajevo nel film, a causa dell’impossibilità di poterlo
girare in quella reale, è stata ricostruita quasi completamente a
Mostar e in parte a Vukovar e a Belgrado.
Qui A. incontra finalmente Ivo Levi, conservatore della cineteca
di Sarajevo, che ha custodito negli ultimi anni le tre bobine,
interpretato da Erland Josephson (la parte doveva essere di Gian
Maria Volonté, poco prima che l’attore italiano morisse). A. lo
invita a liberare quello sguardo imprigionato all’inizio del secolo,
che non vide mai luce. Dopo aver ritrovato la pellicola e
sistemato il rullo nel proiettore, Ivo e il regista escono a
festeggiare l’evento nella nebbia che avvolge Sarajevo. Ebbene
sì, i giorni di nebbia sono i “giorni di festa” nella Sarajevo
assediata. “La nebbia è la migliore amica dell’uomo, è il solo
momento in cui la vita della città torna normale, quasi come
prima” - spiega il direttore della cineteca ad A. “I cecchini
devono fermarsi per problemi di visibilità”. Passeggiano tra la
nebbia ed incontrano la figlia di Ivo; agli angoli delle strade
film “è un invito alla ragione (e non alla ragion di Stato), di cui abbiam bisogno, perché il
relativo sonno non generi altri goyeschi mostri”.
60
musicisti suonano ed attori mettono in scena il loro spettacolo,
giovani musulmani, serbi e croati scendono in strada.
Se nel precedente film di fiction analizzato, Benvenuti a
Sarajevo, completamente diverso dall’opera di Angelopoulos, la
città è sempre illuminata dal sole, qui la nebbia è la vera
costante spaziale e simbolica della città. Una coltre di nebbia che
scende a velare l’orrore quotidiano della guerra bosniaca, che
però, anche nella sua dimensione quasi onirica, non smarrisce
l’incertezza e le tensioni del presente. Una camionetta si avvicina
ai personaggi, sentiamo degli spari Ivo e la figlia sono stati
uccisi, vediamo solo i loro corpi quando A. si avvicina. Torna,
affranto, alla cineteca e proietta la pellicola ritrovata. Keitel è
inquadrato con un piano ravvicinato (i primi piani sono molto rari
nel cinema di Angelopoulos), il volto in lacrime, lo schermo gli
restituisce lampi ciechi di luce vuota. Non sapremo mai quale
immagine sia stata fissata nel primo film dei fratelli Maniakias.
Forse sopravvive l’innocenza di un primo sguardo creativo o
molto più probabilmente è ormai perduto.
Secondo Attilio Coco: “L’innocenza imprigionata in quel primo
guardare il mondo non ha resistito di fronte alla violenza della
Storia. Di questa che, fuor di retorica, è la nostra Storia”52.
Nell’ultimo monologo, ispirato ad Omero, A. annuncia la sua
ulteriore partenza, con queste parole: “Quando io tornerò,
tornerò indossando gli abiti di un altro uomo e con il nome di un
altro”. La storia raccontata è come un cerchio, si conclude per
iniziare ancora.
52
Attilio Coco, op.cit.
61
2.4 Teatro di guerra
Siamo nel 1994, la guerra in ex-Jugoslavia è ormai in corso da
tre anni. A
Napoli, un giovane attore e regista, Leo, inizia le
prove di uno spettacolo da portare in un piccolo teatro di
Sarajevo diretto da un regista conosciuto prima della guerra, nel
corso di un seminario. La compagnia di Leo lavora in un teatro
malandato in mezzo ai vicoli dei Quartieri Spagnoli, sta provando
I sette contro Tebe di Eschilo: un testo che parla di un assedio e
di una guerra fratricida.
E’ lo spunto del quinto film di Mario Martone, che nell’arco di sei
anni, ha creato una sorta di “trittico napoletano” con Morte di un
matematico napoletano (1992), L’amore molesto (1995) e
appunto Teatro di guerra (1998), scandagliando dall’interno le
varie anime della città e i luoghi che la formano.
Se Napoli è lo spazio fisico complesso e profondo del film,
Sarajevo è lo spazio mentale, agognato, discusso e aspirato, a
cui la storia tende ma mai raggiunge. In Martone, Napoli è una
specificità non tanto per le storie scelte quanto per lo sviluppo, le
implicazioni, i riferimenti che esse subiscono, “perché pare
proprio
e
sempre
che
una
sorta
di
destino
esistenziale,
connaturato alla città influisca sul loro svolgimento e anche su
una certa impossibilità di fuga (verso Roma o verso Sarajevo)”53.
Leo si scontra con l’indifferenza dei media allo spettacolo di
solidarietà, i giochi di potere delle compagnie più potenti e il
proprio senso di sconfitta di fronte alla realtà.
Le prove si intrecciano alla vita degli attori della compagnia e a
quella che scorre intorno alla sala teatrale, nei vicoli disagiati e
violenti dei Quartieri Spagnoli, un altro “teatro di guerra”, reale e
quotidiano.
53
Pellizzari L., Fra scene e vicoli le tragedie del tempo, “Cineforum”, n.374, maggio 1998.
62
Teatro di guerra riassume l’esperienza dei “Teatri Uniti”, unendo
molti degli attori che negli anni hanno lavorato con Martone, da
Andrea Renzi ad Anna Bonaiuto, da Iaia Forte a Toni Servillo.
Mentre i due film precedenti di Martone avevano come elemento
comune l’esistenza di un nucleo (la morte annunciata di
Caccioppo e la morte memorizzata di Amalia) attorno al quale
procedeva per cerchi concentrici, in Teatro di guerra sceglie un
percorso inverso: i cerchi si stringono progressivamente fino
all’evento: il debutto dello spettacolo teatrale che in realtà è
un’ulteriore morte, quella di Yasmin, il direttore del teatro
bosniaco. Quando ormai è tutto pronto, dopo la prova generale,
Leo rivelerà, quello che per alcuni giorni ha taciuto, il suo amico
di Sarajevo è morto da due settimane, colpito da una granata
mentre si recava a teatro.
Martone avvicinandosi al tema della guerra jugoslava, oltre a
rivisitare un mito greco come Angelopoulos, ha scelto (lo
riportano le note di regia) di non mostrare immagini di Sarajevo,
di non parlare dell' "altro" in guerra ma di noi stessi "in pace" e
di filmare il teatro per davvero, accettando che lo sviluppo del
film dipendesse dall'andamento reale delle prove54. La Bosnia
entra fisicamente nel film solo attraverso una lettera (letta da
una voce fuori campo in inglese), il telegramma di Yasmin tenuto
nascosto da Leo, un frammento di un fregio della biblioteca di
Sarajevo donato come ricordo. L’occhio di Martone è un occhio
riflesso:
un’altra
Bosnia,
solo
meno
esplosiva,
è
vissuta
dall’interno a Napoli.
E’ un film dalla struttura complessa dove è difficile tracciare una
linea di separazione tra la scena, il mestiere, la vita quotidiana;
tra il richiamo del teatro classico e la messinscena che lo
54
Cfr. Irene Bignardi, Napoli di Martone è un teatro di guerra, “La Repubblica”, 1 maggio
1998.
63
aggiorna; tra testo e contesto; tra la memoria storica e la
cronaca odierna; tra realtà e finzione. Un’opera che riflette
criticamente
sul
teatro,
oltre
che
su
altri
aspetti
forse
predominanti (la realtà di Napoli e, indirettamente, la guerra dei
Balcani), ma non si dimostra, dal punto di vista stilistico, un film
“teatrale”, anzi forse è il lavoro più propriamente filmico di
Martone: “insegue corpi e umori attraverso i diversi piani di un
mondo sospeso tra simbolo e quotidianità, con un occhio curioso
e caleidoscopico”55.
2.5 Il cerchio perfetto
Appena termina l’assedio nel febbraio del 1996, in una situazione
ancora instabile, Ademir Kenović inizia le riprese del primo film
bosniaco sulla guerra. Kenović, che ha studiato in America, ha
alle spalle già due film realizzati prima del conflitto (A Little Bit of
Soul del 1986 e Kuduz 1989); durante gli anni dell’assedio è
stato il principale animatore del collettivo di cineasti Saga.
Il cerchio perfetto è un progetto che l’autore aveva in mente da
quattro anni. Co-sceneggiato dal poeta Abdulah Sidran è stato
filmato completamente a Sarajevo, tra le macerie di una città
distrutta.
Nel bel mezzo della guerra un disilluso poeta musulmano,
Hamza, lasciato da solo da moglie e figlia fuggite in Croazia
(sotto false identità cattoliche), si ritrova improvvisamente in
casa due bambini orfani, scampati ai massacri delle campagne.
Kerim di nove anni è sordomuto, suo fratello più piccolo, Adis, ha
invece sette anni. Col passare del tempo tra di loro si instaura un
forte legame di amicizia e complicità, che permette ad Hamza,
poco prima sull’orlo del suicidio di ritrovare un senso alla propria
vita, e a tutti e tre di sopravvivere alla fame, alle sofferenze che
55
Paolo Mereghetti, Dizionario dei film, Baldini&Castoldi, Milano, 2002, p.2073.
64
si trascinano nell’animo e che li circondano. Si mettono alla
ricerca della zia dei ragazzini, l’unica parente ancora in vita, li
accompagna un cane ferito. Dopo tanto cercare, ricco di siparietti
surreali, il poeta ottiene notizie della zia, rifugiata in Germania.
Hamza prepara Adis e Kerim alla partenza, ma il loro rapporto è
diventato troppo forte e rifiutano di abbandonarlo. La casa viene
bombardata, Hamza convice i piccoli ad andare dalla zia, devono
solo raggiungere l'aeroporto. L’impresa, sotto il fuoco dei
cecchini, è ardua e riserverà nuovi dolori. “Davanti a noi ci sono
le tenebre” recita la poesia di Sidran nell’epilogo finale.
Oltre ai tre personaggi principali, il quarto protagonista del film è
la città stessa sotto gli attacchi dell'artiglieria pesante serba. La
quotidianità dei suoi abitanti è allo stesso tempo composta di
dramma e di voglia di vivere, di grandi conflitti e di piccoli litigi;
viene raccontata, a volte con tratti surreali e ironici, a volte con
brutalità disarmante.
Kenović opta per una struttura lineare in bilico tra realismo e
fantastico. I suoi personaggi sognano ad occhi chiusi o aperti,
tanto “non si può sognare niente che sia più brutto della realtà”.
Ma è l'autenticità di quei luoghi filmati, senza nessun filtro, che
carica il film di ulteriore emozione. Non c’è una sola scena che
non porti le stigmate del dramma realmente vissuto.
La semplicità e la primordialità dei sentimenti nell’incastro
melodrammatico, asciugano l’opera dai rischi di sentimentalismo
Come altri film sulla guerra jugoslava termina con l’immagine di
un cimitero, là dov’era iniziata la narrazione. In questo luogo,
Kerim impara a tracciare il cerchio perfetto (come quelli disegnati
dal poeta, quando le mani iniziavano a formicolare per lottare
contro le tenebre) sulla lapide del fratello morto, per ricordare e
congelare nella perfezione di quel disegno geometrico l'orrore e
la violenza della guerra.
65
2.6 Forever Mozart
Lo spunto principale del soggetto del film è un articolo di Philippe
Sollers su “Le Monde” (20 maggio 2004) in cui lo scrittore
sosteneva che sarebbe stato meglio rappresentare a Sarajevo Il
trionfo dell’amore di Marivaux invece che Aspettando Godot,
come aveva appena fatto Susan Sontag. “Non si scherza con
l’amore a Sarajevo”56 pensò Jean-Luc Godard parafrasando il
titolo di una commedia di De Musset. Il film racconta infatti il
fallimento di un gruppo di giovani intellettuali francesi partiti per
Sarajevo allo scopo di allestire Non si scherza con l'amore (On ne
badine pas avec l’amour, il titolo originale in francese).
Forever Mozart sintetizza le linee guida dell’ultima ricerca
artistica di Godard: la storia, le guerre, i nuovi stati postcomunisti e il ruolo dell’arte e del cinema in tutto ciò. L’opera è,
parallelamente alla storia principale della compagnia di attori alla
volta di Sarajevo (che non raggiungeranno mai), anche la storia
di una troupe cinematografica alle prese con un film che si
intitolerà Bolero Fatale.
I legami tra le due esperienze artistiche sono stretti, perché tutti
i personaggi sono in qualche modo imparentati tra loro. Il regista
del film è l’anziano Vicky Vitalis; sua figlia Camille è una degli
attori del gruppo diretto alla volta della capitale bosniaca. Li
troviamo in viaggio, prima in treno tra Salisburgo e Trieste, dove
provano la pièce, poi in Jugoslavia, a piedi, dove si accampano
sulla riva di un fiume. Incontrano soldati, miliziani e partigiani di
nazionalità imprecisata, Sarajevo è ancora lontana. A Parigi,
Harry celebre scrittore e sceneggiatore del film, accompagnato
dalla madre di uno degli attori, Jerôme, si fa ricevere dal
ministro della difesa perché intervenga in soccorso dei giovani
56
Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano, 2002, p.229.
66
artisti in pericolo nei Balcani. I tre si sono persi, è ormai inverno;
finiscono in mezzo ad una zona di combattimento circondati dai
carri armati. Tra i soldati ci sono anche giornalisti, fotografi,
inviati dell’Onu e della Croce Rossa: “le brigate internazionali” o,
parrebbe dire Godard, i briganti internazionali. I giovani vengono
sequestrati dai miliziani serbo-bosniaci. Poco dopo, tra i colpi di
mortaio sono costretti a scavare la loro fossa. Prima della
fucilazione Camille dà l’addio a suo cugino Jerôme, chiamandolo
Perdican,
come
nella
commedia
che
non
hanno
potuto
rappresentare. Intanto in Francia si incomincia a girare la
pellicola, è un film di guerra, dal lago le riprese si spostano vicino
al mare. In una ripresa un’attrice che dovrebbe pronunciare solo
“sì” spreca centinaia di ciak. I due soci del produttore, il barone
Felix, scappano con la cassa del film; si decide allora di stampare
subito il film e di farlo uscire in sala, ma sarà un insuccesso.
Nell’ultima sequenza il barone-produttore Felix si reca ad
ascoltare in un sontuoso palazzo un concerto forse di Mozart in
persona, dove arriverà anche Vitalis.
La guerra in Jugoslavia è il momento di maggior coinvolgimento
politico, morale ed emotivo della storia europea degli anni
Novanta. Godard se ne era già interessato in Histoire(s) du
cinèma e lo farà ancora nel successivo Notre musique (2004). In
Forever Mozart è il soggetto cardine del film, sia in chiave diretta
che indiretta, poiché anche quello che gira Vitalis è una pellicola
di guerra. E come spiega Alberto Farassino è anche un film
storico: “Il Bolero fatale è quel ripetitivo e ossessivo crescendo –
proprio come nel Bolero di Ravel – di ‘piccole’ guerre che
l’Europa ha vissuto negli anni Trenta. Anni che, come sostiene lo
67
scrittore Juan Goytisolo, citato direttamente nel film, sembrano
ripetersi ‘con leggere varianti sinfoniche’ negli anni Novanta”57.
Emergono nel film di Godard, un’opera a sé nella filmografia
stilata, alcune similarità, con altre pellicole, nell’approccio al
conflitto balcanico. Ad esempio, la comparazione della guerra
jugoslava con altre guerre e l’analisi del passato, anche se su un
piano
simbolico,
per
comprendere
il
presente.
Inoltre,
lo
accomuna ad altri lavori, soprattutto di registi occidentali,
l’utilizzo di una figura classica nella costruzione narrativa, ovvero
quella di uno straniero o di un gruppo di stranieri, che attraverso
un viaggio giungono nei Balcani tormentati, intesi come “altro”,
anche come regno di barbarie. Ma negli intrecci e nelle
frantumazioni
create
rappresentazione
dal
della
film,
Godard
Jugoslavia
solo
non
in
imbriglia
la
un’immagine
semplificata o puramente simbolica, anzi nei “pro e contro” la
inserisce in un contesto europeo in cui tutti siamo, come i
personaggi del film, lontanamente imparentati. Il film è intessuto
di “frasi” che provengono da molti scrittori cari al regista, da
Pessoa a Malraux, da Duras a Bazin. Non è solo il classico
mosaico parlato di un film di Godard, qui è anche un richiamo a
quella cultura europea che produce mitologie ridicole (vedi la
società del barone-produttore Società dei Grandi Film Europei),
ma che esiste ed è esistita anche là dove ora sembrano esserci
solo barbarie e “briganti internazionali”. Fra i soldati slavi c’è ne
uno che assomiglia a Danton e che ha letto Michelet. Il Mozart
finale, apparentemente slegato dal corpus narrativo, potrebbe
incarnare simbolicamente il genio unificatore dell’Europa, il
“voltar pagina” dopo la guerra.
La parte francese e quella jugoslava sono collegate da una
scena, in bilico tra flashback e dimensione fantasico-surreale, in
57
Ivi, cit., p.232.
68
cui l’aiuto regista di Vitalis scopre in Jugoslavia i cadaveri dei
giovani uccisi e sembra trasportarli sul set francese, rendendoli
attori del nuovo film.
Forever Mozart è anche la storia di una guerra tra baroni e
lavoratori,
nei
dialoghi
ritornano
infatti
frequentemente
considerazioni sociali e di classe.
Godard, come l’alter ego Vitalis che si rifiuta di girare una
sequenza di guerra, non vuole rappresentare l’oscenità della
guerra (né mostrare la morte). Già in Les carabiniers, Godard
evitava riprese di battaglia, attingendo da immagini di repertorio
o costruendo versioni minimaliste di scene militari. Delle guerre
jugoslave si sono già viste troppe immagini televisive, l’autore
francese sceglie allora di rappresentarle attraverso i rumori, le
esplosioni, i frastuoni, immagini confuse e disturbanti.
“Non volevo mostrare la guerra. Mostravo delle persone fatte
prigioniere e volevo che si sentisse che c’era qualcosa di più
vasto di loro. Questo senso della guerra come qualcosa di più
vasto dei personaggi, qualcosa che sta fuori campo, si avverte
grazie a un rumore di mitraglia che spezza la colonna sonora, o
con qualche carro armato che raffigura la pesantezza dell’acciaio”
ha dichiarato Godard58.
2.7 Gli altri film
Agli inizi del 1993, il regista Marcel Ophuls si reca
Sarajevo,
dove tornerà per brevi periodi nel corso dell’anno, con l’intento di
realizzare un documentario sul giornalismo di guerra. Intervista
gli inviati dei media occidentali, commentatori, storici, politici e
intellettuali. Segue i reporter al fronte nella città assediata e sulla
collina che la circonda, dove stanno gli assedianti. Il materiale
confluisce in Veillées d'armes (The Troubles We've Seen: A
58
Ivi, cit., p.233.
69
History
of
personale
Journalism
in
riflessione
sull’informazione
manipolazione,
sulla
Wartime,
ricerca
della
1994),
verità,
un’articolata
in
guerra,
sul
valore
e
sulla
delle
immagini, sulla disinformazione, sull’etica di una professione, che
non si riduce alla guerra in Bosnia, ma abbraccia gli eventi bellici
di tutto il Novecento, di cui una delle memorie storiche è Martha
Gellom, leggendaria corrispondente di guerra e compagna di
Ernest Hemingway. Tra gli intervistati compare anche il filosofo
francese Bernard-Henri Lévy, autore con Alain Ferrari, del film
documentario Bosna! (1994). Per l’esordio dietro la macchina da
presa Lèvy si ispira a Espoir (1939) di André Malraux sulla guerra
civile spagnola. Giunto a Sarajevo con una piccola troupe, ha
girato un documentario apertamente militante sulla guerra in
Bosnia e sul dramma della capitale assediata, affrontando
un’analisi socio-politico su come la situazione sia precipitata, allo
scopo di superare i luoghi comuni, che rappresentano i Balcani
come luogo di eterni lutti e confusione. Sostiene la causa e la
resistenza bosniaca musulmana, attacca il nazionalismo serbo,
denuncia
la
vigliaccheria
e
l’attendismo
dell’occidente,
in
particolare dell’Europa che ha “des yeux pour pour ne pas voir et
des oreilles pour ne pas entendre”.
Se Ophuls, Levy e altri autori decidono di andare a Sarajevo e
qui fermarsi per un tempo limitato, alcuni di ritornarci per un
breve
periodo
come
Briton
Bill
Tribe
(protagonista
del
documentario Urbicide), che visse ed insegnò all’Università di
Sarajevo per oltre vent’anni, o il regista francese di origini
jugoslave Radovan Tadić che ha diretto Les vivants et les morts
de Sarajevo (1993), una piccola-grande tribù di giovani filmmarker stranieri ha inteso vivere a Sarajevo. In un contesto di
morte e distruzione la decisione di venire o andare, lasciare o
rimanere, diventa cruciale nella diversa percezione della città e
70
nell’autenticità della rappresentazione. Consideriamo il caso di
coloro che decidono di vivere a Sarajevo, come i cittadini
assediati, anche se a differenza di loro avrebbero la possibilità di
abbandonarla. Si tratta per lo più di giovani occidentali, le varie
esperienze
riflettono
nelle
relative
opere
una
sorta
di
Bildungsroman in versione cinematografica: la loro formazione si
sviluppa parallelamente alla guerra, che vivono dall’interno.
L’australiano Tahir Cambis ha vissuto a Sarajevo dal 1992 alla
fine del 1995 ed è l’autore di Exile in Sarajevo, documentario che
già dal titolo testimonia il suo esilio “dalla civilizzazione” a
Sarajevo. Bill Carter, americano, rimane a Sarajevo quasi sei
mesi, realizzando Miss Sarajevo, focalizzando l’attenzione sulla
resistenza
culturale
della
città.
François
Lunel,
francese,
trascorre diversi anni a Sarajevo, rimanendo per un lungo
periodo anche a conclusione dell’assedio. Potremmo dire che è
qui
dove
diventa
film-maker.
Prima
con
una
serie
di
cortometraggi e poi esordisce con un lungometraggio Unspected
Walk (1994-7). Nel film un soldato bosniaco ferito fugge
dall’ospedale militare e va alla ricerca della sua fidanzata, nel
viaggio incontra diverse persone. C’è un momento significativo
nell’opera: quando il protagonista cammina nel parco, che noi
riconosciamo essere uno di quelli costantemente ritratti dai
documentari su Sarajevo, il prato è completamente verde. Non è
distrutto come nella realtà, come nelle immagini che abbiamo
recentemente visto. “The image of the green Sarajevo park is
stronger than images of destruction; it resonates in the same
way as the landscape of green fields at the site of Auschwitz
today resonate in Claude Lanzmann’s Shoah”59. Lunel mostra le
visibili cicatrici lasciate dall’assedio, ma preferisce concentrarsi
su una dimensione invisibile del trauma vissuto dal protagonista
59
D.Iordanova, Cinema of flames, cit.,p.244.
71
che affiora in superficie dalla gestualità dell’attore e dai
momentanei silenzi. Nel 1996 gira il suo secondo film Heroes,
nuovamente ambientato nella Sarajevo sotto l’assedio dei serbi.
La maggiore accessibilità alle tecnologie audiovisive, fin dai primi
anni Novanta, aveva coinvolto un buon numero di persone nella
produzione e documentazione video. La rappresentazione di
Sarajevo solleva dunque anche la questione del cosiddetto
“participatory
cinema”,
che
l’antropologo
visivo
David
MacDougall ha descritto come “a principle of multiple authorship,
which in its turn creates a form of intertextual cinema, and thus
makes cross-cultural films really dialogic and polyphonic”60. I
cittadini di Sarajevo sono raccontati e filmati, dagli osservatori e
visitatori, spesso loro stessi prendono parte ai progetti letterari,
giornalistici e cinematografici realizzati dagli stranieri. Molte volte
sono loro stessi che scrivono o filmano loro stessi, durante la
guerra. Secondo Dina Iordanova, valutando tutti i vari lavori,
possiamo sostenere che solo in alcuni casi possono essere
descritti come dialogici e polifonici, “because the films made by
outside observers enjoyed a much wider exposure tahn the ones
local people made about themselves. It was not so much the
chances for production, but the politics of exposure which came
to matter so much”61. Sono tantissime le immagini registrate dai
film-maker
sarajevesi,
proporzionale
diffusione
ma
a
di
tale
ciò
non
corrisponde
materiale.
A
volte
una
veniva
considerato potenzialmente propagandistico, in quanto, seppur
sotto attacco, loro erano visti come una delle parti in conflitto. Lo
stesso materiale appena veniva raccolto e utilizzato dai registi
occidentali,
pareva
tutto
d’un
tratto
privo
di
valenza
propagandistica. Il caso più eclatante è quello della Saga che ha
60
61
Ivi, cit. p.245.
Ibidem
72
prodotto diversi documentari. Sarajevo: Ground Zero (1993) che
intreccia i cortometraggi documentaristici girati dai membri del
gruppo, fu offerto ad un vasto numero di network televisivi
internazionali, ma fu rifiutato, ufficialmente perché il formato non
veniva considerato “adatto”. Il collettivo decise allora, di fronte a
tale trattamento, di fornire il materiale a coloro che invece
consideravano
il
formato
“appropriato”,
tra
cui
molti
documentaristi occidentali che hanno girato film sulla città. Per
esempio, Lèvy per Bosna! ha fatto grande uso dei lavori prodotti
dalla Saga.
Mgm – Sarajevo: Covjek - Bog - Monstrum (Mgm Sarajevo L’uomo - Dio - Il mostro, 1992/4) opera collettiva di Ismet
Arnautalic, Mirsad Idrizovic, Ademir Kenović e Pier Žalica, registi
Saga, presenta uno spaccato di vita nel cuore di una città
assediata che soffre delle costrizioni imposte dalla guerra. I tre
episodi scorrono dalla vita di un uomo comune (Covjek, significa
“uomo”),
un
cineasta
che
vive
nella
città
distrutta,
alla
descrizione degli sforzi tesi a comprendere che cosa si cela dietro
la realtà palpabile, così come appare nella realizzazione della
commedia Godot-Sarajevo (Godot, ovvero “Bog” nel titolo che
significa Dio), messa in scena da Susan Sontag, “provando” con i
suoi attori sotto i bombardamenti, fino all’incontro con una
macchina che uccide (il “mostro”), un soldato serbo, Herak, poco
più che ventenne addestrato ad uccidere i civili.
Tra i documentaristi italiani colui che ha dedicato il maggior
impegno a Sarajevo è probabilmente Giancarlo Bocchi, filmmaker e giornalista parmense, che ha realizzato quattro film dal
1994 al 1995. Sarajevo terzo millennio (1994) segue la vita di
Esse, un giovane pittore di Sarajevo, che negli ultimi quattro
anni ha alternato l'attività artistica con l'impegno militare
nell'esercito bosniaco. La sua vita è divisa tra il suo studio di
73
pittore
all'Accademia
d'arte
e
la
prima
linea
dove
fa
l'
“antisniper”, il cacciatore di cecchini. Mille giorni a Sarajevo
(1995)
racconta
tre
storie
in
una
città
assediata.
Alija,
cinquantacinque anni , lavorava alla radio di Stato come
coordinatore dei programmi , adesso vive solo perché la famiglia
si è rifugiata in Inghilterra. Graca poco più che trentenne ,era un
grafico di Oslobodenje il quotidiano di Sarajevo, mentre Idaet,
cinquant'anni, era un manager di una grande industria di Stato.
Durante l’assedio difendono la loro città nelle trincee sulle alture
che sovrastano Sarajevo. Sono "impiegati" della guerra : partono
da casa nel tardo pomeriggio per andare al fronte e tornato il
giorno dopo. A Sarajevo la guerra è come un lavoro qualsiasi. A
differenza dei primi due classificabili come “documentari di
creazione”, Morte di un pacifista (1996) è un film inchiesta più
tradizionale (con voce narrante), sulla morte di Moreno Locatelli
ucciso durante una manifestazione pacifista, il 3 ottobre del
1993, sul ponte di Vrbania, tristemente noto a Sarajevo come "il
ponte della morte". Qui c’era stata la prima vittima nell’aprile del
1992 la giovane pacifista Suada Delberović e poi trovarono la
morte Bosko e Admira (Giulietta e Romeo di Sarajevo). La
responsabilità dell' uccisione di Locatelli venne frettolosamente
attribuita ad un "anonimo" cecchino. Dietro questo delitto si
nascondevano verità inconfessabili. Diario da un assedio (1996)
raccoglie, invece, interviste e testimonianze di alcuni giornalisti
italiani, che hanno vissuto gli oltre mille giorni d’agonia di
Sarajevo.
Ricordiamo tra i documentari italiani Raja Sarajevo di Erik
Gandini che con (1995), Dopo l’assedio (2003) di Roberta Ferrati
e Massimo Sciacca e i lavori di Adriano Sofri che realizza nel
1994 per il programma televisivo Mixer cinque reportages da
Sarajevo, prodotti dalla Palomar: Un sabato a Sarajevo, I cani di
74
Sarajevo, La primavera di Sarajevo, Dolce Vita di Sarajevo, Il
giorno che il papa non venne a Sarajevo, Soluzione Sarajevo. La
città è sotto assedio da oltre due anni quando Sofri vi giunge per
la prima volta, ritagliandosi nella moltitudine di telecamere
piazzate dalle tv di tutto il mondo un ruolo originale a metà
strada tra il reporter della vita quotidiana e il narratore.
Teorizzando un “uso morale” della telecamera – con cui, dice
esplicitamente,
“non si deve fare agli altri quello che non si
vorrebbe fosse fatto a noi”-, Sofri guarda l’orrore “di sponda”,
ritrovandolo nelle vicende quotidiane, nei racconti e nei volti
delle donne e degli uomini della città assediata. C’è pudore negli
occhi e rabbia nel cuore in quelle immagini che raccontano di
bambini che giocano a pallone nelle strade, di donne e uomini
che sorridono gentili.
Passiamo, ora, in rassegna i film a soggetto, prima i lavori dei
registi bosniaci, poi quelli di autori stranieri. Remake (2003) del
sarajevese Dino Mustafić è un coraggioso tentativo di leggere la
guerra degli anni '90 come una ripetizione di quanto avvenuto
durante il secondo conflitto mondiale. Lo fa intrecciando due
piani narrativi e temporali in una trama multiforme dai continui
rimandi all’interno del testo: le vicende del padre si riverberano e
si ripropongono nelle vicissitudini del figlio, a distanza di
cinquant’anni. Tarik è un giovane e sconosciuto scrittore di
Sarajevo. Alla vigilia della guerra in Bosnia spedisce una
sceneggiatura ad un concorso in Francia. Il testo, che riguarda la
seconda guerra mondiale e come suo padre sia finito in un
campo di concentramento e fu poi liberato in cambio di fascisti,
diventa improvvisamente la storia della sua vita. Come nel
remake di un film, le vicende del padre in tempo di guerra si
ripetono in quelle del figlio. Tarik viene preso prigioniero
dall’esercito serbo, ma il produttore francese che aveva accettato
75
la sua sceneggiatura, aiutato dall’Onu, organizza uno scambio e
lo porta a Parigi. Lì, per puro caso, incontra il suo aguzzino del
campo di prigionia e medita propositi di vendetta.
Go West (2005) del promettente regista Ahmed Imamović per le
tematiche affrontate ha suscitato numerose polemiche tra gli
ambienti più reazionari della piccola repubblica balcanica. E’ una
storia d’amore tra due giovani uomini durante la guerra. Milan,
uno studente serbo, e Kenan, un musicista musulmano, vivono
nella capitale bosniaca Sarajevo, le loro vite sono sconvolte
dall’aggressione militare alla Bosnia-Erzegovina, le cui devastanti
conseguenze
portano
alla
luce
pregiudizi
razziali,
che
sembravano dimenticati. Decidono di fuggire insieme dalla città
assediata dai serbi con il progetto di raggiungere Amsterdam,
dove sperano di poter finalmente vivere in pace. Ma scappare
non è semplice e Milan riesce a far passare Kenan attraverso le
linee degli assedianti soltanto facendolo travestire da donna e
spacciandolo
per
la
sua
promessa
sposa.
Con
questo
stratagemma i due arrivano nel villaggio natale di Milan, dove
Kenan rimane travestito e viene presentato ai parenti con il
nome di Milena. Mentre i due si preparano al grande salto verso
l’occidente e la libertà di amarsi, il padre di Milan insiste per farli
sposare e organizza la festa di matrimonio.
Faruk Sokolović è autore di The Tunnel (1999) e Milky Way
(2000). Il primo adotta un procedimento per certi versi simile al
film di Mustafić nell’interpretazione del presente, come rilettura
del passato. L’ingresso fisico nel tunnel (uno dei simboli della
resistenza di Sarajevo) di un vecchio rifugiato della Bosnia,
segna simbolicamente i suoi ricordi degli anni ’50 e del suo
amore giovanile distrutto dalla gelosia e dalla vendetta di un
poliziotto serbo, con le immagini delle persecuzioni “staliniane”
contro il movimento dei “Giovani musulmani”. La storia di Milky
76
Way si svolge nella Sarajevo del dopo-Dayton: due coppie, una
musulmana e l’altra croata, che vivono da un capo all’altro della
città, intenzionate ad emigrare in Nuova Zelanda, cercano di
eludere la legge sull’emigrazione, che consente solo alle coppie
miste l’ottenimento dei documenti per l’espatrio. Srdjan Vuletić,
considerato da Pjer Žalica (Benvenuto Mr.President) uno dei
giovani
registi bosniaci più interessanti, ha esordito con il suo
primo lungometraggio nel 2003, Ljeto u Zlatnoj dolini (Estate
nella valle dorata), anch’esso ambientato nella capitale bosniaca
appena uscita dalla guerra e intriso di humour nero tipicamente
balcanico, è il doloroso racconto di una società agonizzante, che
cerca di sfuggire al suo declino. Fikret è un adolescente che
passa il suo tempo per strada a bighellonare
sognando
una
vita
ricca
e
opulenta,
con un amico
"all’occidentale".
La
monotonia del loro quotidiano è rotta dalla morte del padre di
Fikret, al funerale si presenta un uomo che pretende dal ragazzo
la somma di un debito che il padre non gli ha mai pagato. Il
ragazzo obbligato a rispettare i patti, per cercare i soldi,
comincia, insieme all’amico, a frequentare persone sempre più
losche, precipitando in un vortice di violenza.
Nel 2002 è uscito in sala Il temporale-Nevrijeme con cui il regista
italiano Gian Vittorio Baldi ha rinnovato la sua idea di cinema
fatto rigorosamente in presa diretta. Nel film ci troviamo nel
1992, in una Sarajevo devastata dalle bombe e dalla mancanza
di cibo, Sveto, un usuraio di cultura e religione ortodossa compra
e vende di tutto, oggetti e anime, utilizzando il potere e le
minacce. E' lui il perno di tre storie d'amore: la sua per Djula,
zingara giovane e bella a servizio nella sua casa; quella di Blanka
una ragazza (uccisa da una granata) che vive un amore assoluto
e viscerale per un ufficiale dell’esercito bosniaco e infine quella di
Suljo, un bambino di religione musulmana orfano di guerra,
77
innamorato di Kata, una bambina sua coetanea, di religione
cristiana. Baldi coniuga con uno stile personale realismo e
poesia, incastonando nel tessuto narrativo del film i diversi punti
di vista dei personaggi. E’ stato girato interamente con camera a
mano,
tra
Sarajevo
e
l’Appennino
Tosco-Emiliano,
senza
illuminazione artificiale, presa del suono diretta (con lingue e
dialetti diversi dal bosniaco al siriano fino al romagnolo). Tutti
questi elementi consentono al regista di rimanere il più possibile
vicino alla drammaticità degli eventi e concorrono a definire il
linguaggio rigoroso di Baldi. La pellicola è scandita da finestrefotografie di una Sarajevo fantastica, dove convivono sinagoghe,
moschee con i loro minareti, cattedrali cattoliche e chiese
ortodosse. Le "finestre" sono state colorate a mano e i colori
sono arbitrari e costruiscono quella che l’autore ha chiamato una
topografia fantastica. Sarajevo era un esempio unico, in cui,
convivevano i turcomanni, i serbi ortodossi, gli austroungarici, i
dalmati
di
origine
veneziana,
gli
ebrei
sefarditi.
Oggi
la
maggioranza è costituita di bosniaci musulmani. “Avrebbe potuto
essere un esempio per la nuova Europa. Non lo è più”.
Notre Musique presentato a Cannes nel 2004, segna un ritorno,
dopo Forever Mozart, di Jean-Luc Godard ai temi della guerra e
dell’ex Jugoslavia, ancora una volta attraverso il suo sguardo
sperimentale e personalissimo. Il film è diviso in tre parti:
Inferno, Purgatorio e Paradiso. La prima è risolta attraverso un
montaggio di immagini sulla guerra, da Ejzenštejn a Hollywood,
senza ordine cronologico né divisioni storiche. La seconda,
“Purgatorio”, la parte più importante (un’ora di durata all’interno
dei complessivi ottanta minuti), è ambientata a Sarajevo,
durante gli “Incontri Europei del Libro”. Godard, presente
direttamente nel film (fu invitato ad una conferenza) rincorre
luoghi della memoria e della speranza: si concentra sull’apertura
78
del salone del libro e sulla ricostruzione del ponte di Mostar,
completata recentemente. Il Purgatorio si rivela come una
metafora della vita persa in un clima sospeso tra gli orrori di una
catastrofe vicina e la speranza per un futuro migliore. A Sarajevo
incontra Olga, una ragazza ebreo-russo-francese, ossessionata
dal conflitto palestinese, che riflette attraverso la letteratura e la
filosofia sul significato del suicidio. Olga di ritorno dal viaggio in
Bosnia entra in un cinema di Gerusalemme con uno zaino
“sospetto” e chiede agli spettatori di restare “per la pace”. Se ne
vanno tutti e la polizia la uccide. Nello zaino aveva solo libri.
L'ultima parte del film mostra una giovane donna che ha trovato
la pace su una piccola spiaggia al bordo del mare, è Olga che
gioca con gli angeli, alcuni marines vigilano su di lei. Notre
musique è un film-saggio che mescola fiction e materiali di
repertorio, recitazione e verità in un progetto d´intransigente
radicalismo poetico. A colori e in bianco e nero, con parole,
musica e immagini, Godard, contemporeanamente, denso e
sintetico, percorre la sua Divina Commedia. Un’opera che parla
di cinema e di politica, di attualità e di assoluto, come sempre
nella filmografia del regista francese.
Ispirato al libro omonimo di Arturo Perez-Reverte, Territorio
comanche (1997) è una coproduzione internazionale che vede
alla regia lo spagnolo Gerardo Herrero. La pellicola è il racconto
della guerra in Bosnia vista da una troupe di giornalisti della
televisione spagnola. Laura una giovane reporter, in cerca di
sensazionalismo, si reca a Sarajevo per seguire la cronaca
dell’assedio. Conosce Mikel un reporter di esperienza e di ferme
convizioni, con lui anche Josè un cameraman. Herrero mette in
scena le derive dell’informazione-spettacolo. Quando la troupe
intervista un cecchino sul posto come fosse una “curiosità”
locale, l’obiettivo della macchina da presa si confonde con il
79
mirino del fucile, mentre parte un colpo. La camera registra in
diretta la morte di un uomo. Il film attacca il voyeurismo dei
giornalisti e dei telespettatori, quasi come complici della morte in
diretta.
Altri registi si sono confrontati con il formato del cortometraggio.
Presentato in concorso a Cannes nel 2001, Prima esperienza di
morte (Prvno smrtno iskustvo, 2001) di Aida Begić, giovane filmmaker bosniaca, racconta la storia di disegnatore di fumetti,
ventunenne, che vive a Sarajevo. A guerra finita, nel 1996, si
reca negli uffici comunali per rinnovare la carta di identità e
scopre di essere stato registrato come deceduto. Da quel
momento il ragazzo deve dimostrare di essere ancora vivo. Una
storia assurda, a tratti surreale - ma a Sarajevo può succedere di
tutto -, che affronta i problemi delle nuove generazioni, la loro
identità e la mancanza di politiche giovanili. E’un ritratto
simbolico di un intero paese smembrato a causa della guerra.
Attraverso un sottile senso dell'umorismo, supportato dalle
tavole disegnate da Dado, fumettista, la regista riesce con
leggerezza a raccontare una situazione difficile e complessa,
come la guerra e il periodo successivo.
Racconto di guerra (2003) di Marco Amura è ambientato nel
2003; narra di un gruppo di paramilitari che utilizza i bambini
che non hanno più casa né famiglia per saccheggiare le case
abbandonate a Sarajevo. In cambio li lasciano abitare una
vecchia fabbrica, danno loro da mangiare e non li uccidono. Il
film nella sua crudezza è lontano dalla retorica e dall'inutile
spettacolarità mediatica. Ahmed Imamović è l’autore di 10
Minuta (2002); un montaggio parallelo tra due luoghi diversi:
Roma e Sarajevo, nel 1994, su quante cose differenti possano
accadere contemporaneamente in soli dieci minuti. (A)Thorzia
dello sloveno Stefan Arsenijević, sceneggiato da Abdulah Sidran,
80
racconta l’avventura di
un coro di dilettanti che negli anni
dell’assedio, per partire alla volta di una tourneé in Europa, è
costretto a attraversare il fantomatico “Tunnel” di Sarajevo,
unico
Jasmila
canale
con
Žbanić,
l’esterno
per
i
cittadini
sarajevese,
ha
girato
due
della
capitale.
cortometraggi,
presentati ambedue al “Torino film festival” del ’98 e del 2000.
Protagonisti di Noc Je, Mi Svijetlimo (1998) sono i gemelli
venticinquenni Sead e Nihad Kresevjaković (Do you remember
Sarajevo?), mentre realizzano un film su se stessi. Le riprese si
svolgono in una Sarajevo postbellica, durante il mese del
Ramadan. Sopravvissuti alla guerra in Bosnia, ora sono affetti da
una sindrome post-traumatica: prendono la vita con uno
stridente sense of humour. In Crvene Gumene Cizme (2000)
Jasna P. è alla ricerca dei suoi due bambini, Amar e Alja, uccisi
dall'esercito serbo durante la guerra in Bosnia e poi sepolti in
una fossa comune. L'unico indizio sono degli stivaletti rossi, che
suo figlio indossava quando venne rapito. “Ho sognato prima
dell’alba di avere capelli lunghi, lunghissimi e la barba. Tutto il
mio volto era coperto di peli e intravedevo la fossa. Cosa sarebbe
successo se Jasna oggi avesse scoperto gli stivaletti rossi nella
fossa? Sarebbe sopravvissuta? E se invece non li avesse
trovati?”62.
62
In “Catalogo” 18° Torino Film Festival (17-25 novembre 2000), p.27.
81
3 B OSNIA -E RZEGOVINA
Con la disgregazione della Jugoslavia pareva inevitabile il tracollo
della Bosnia, la repubblica più multietnica di tutta la federazione
e la più pacifica. E se i segnali erano già nell’aria nei primi mesi
del 1992, nessuno voleva vederli.
In Slovenia avevano combattuto, in Croazia combattevano, ma
sulla Drina, nella zona di Srebrenica, dicevano che non sarebbe
successo. Non fu così, la repubblica sprofondò in una drammatica
spirale di violenza e di odio etnico: dal 1992 alla fine del 1995 in
Bosnia Erzegovina si verificò la fase più lunga e cruenta di tutte
le guerre jugoslave.
Il crollo del ponte di Mostar, bombardato dalle truppe croate il 9
novembre del 1993, fu una delle immagini più emblematiche del
conflitto. Non veniva abbattuta solo una via di comunicazione,
cadeva una metafora, assai più forte, quella del legame tra
culture diverse, splendidamente ritratta da Ivo Andric63. Si
colpivano i simboli: i ponti, le città e le biblioteche, per mettere
in dubbio una convivenza secolare.
Due furono i conflitti principali: tra serbi e musulmani e tra, gli
ex alleati, croati e musulmani. Quattro anni di guerra: Sarajevo
vittima di un assedio infinito, migliaia di villaggi incendiati, oltre
200 mila morti e tre milioni di profughi (vittime della pulizia
etnica operata nel corso della guerra da tutte e tre le etnie
principali), a cui si aggiunge un numero incalcolabile di feriti. E
63
«Di tutto ciò che l'uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più
bello e più prezioso per me dei ponti. I ponti sono più importanti delle case, più sacri,
perché più utili dei templi. Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, [...], più duraturi di
tutte le altre costruzioni, mai asserviti al segreto o al malvagio.[...] Ovunque nel mondo, in
qualsiasi posto, il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno
e mai soddisfatto desiderio dell'uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che
appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano
divisioni, contrasti, distacchi... ». Ivo Andric, I ponti, in Racconti di Bosnia, tr.it. D.
Badnjevic Orazi, Newton-Compton, Roma 1995, pp.156-157.
82
poi i campi di concentramento, tragicamente ricomparsi nella
civile Europa cinquant’anni dopo la sterminio nazista, fino al
genocidio
operato
dalle
milizie
serbo-bosniache
ai
danni
dell’enclave musulmana di Srebrenica nel luglio del 1995 (8 mila
morti). Gli accordi di Dayton del novembre del 1995 hanno
interrotto il conflitto ma di certo non sono stati risolutori. Ora la
Bosnia Erzegovina è divisa in due entità: Federazione di Bosnia
ed Erzegovina (croato-musulmana) e Republika Srpska (serba).
In questo capitolo analizzeremo come il conflitto bosniaco sia
stato rappresentato dai media audiovisivi in particolare dal
cinema, tralasciamo i film direttamente interessati a Sarajevo,
che merita uno spazio a sé all’interno della ricerca. In particolare
la riflessione riguarderà: Pretty Village Pretty Flame (1996) di
Srdjan Dragojević, Beautiful People di Jasmin Dizdar (1999), No
Man’s Land di Danis Tanović, La vita è un miracolo (2004) di
Emir Kusturica, Benvenuto Mr.President (2003) di Pjer Žalica e i
documentari su Srebrenica.
3.1 Pretty Village, Pretty Flame
E’ la seconda opera (titolo originale Lepa Sela, Lepa Gore) di
Srdjan Dragojević, regista serbo, uno degli autori più interessanti
del nuovo cinema balcanico.
Il soggetto del film è ispirato ad un fatto realmente accaduto
nell’autunno del 1992, quando un gruppo di soldati serbi rimase
intrappolato in un tunnel vicino a Visegrad, assediato da truppe
musulmane. L’articolo che riportava il fatto, da cui ha preso
spunto lo sceneggiatore Vanja Bulić, fu pubblicato dalla rivista
“Duga”,
vicina
al
regime
di
Milošević,
con
un
tono
propagandistico da cui il film, invece, è stato completamente
spogliato, scegliendo un più sobrio e complesso sguardo sulla
83
controversa
esperienza
della
guerra,
da
una
posizione
antinazionalistica.
La vicenda è inserita in un più ampio intreccio narrativo,
dal
quale emerge la storia di Milan e Halil, amici fin dall’infanzia,
separati dalla guerra.
Il film presenta una struttura non-lineare, una narrazione
frammentata che si muove attraverso quattro diversi periodi:
1971, 1980, 1992 e 1994 (in questi ultimi due anni si svolge la
maggior parte della storia), senza una scansione cronologica, ma
con un ritmo dettato da continui flash-back e flashforward, tanto
che è spesso difficile, soprattutto all’inizio, per lo spettatore
riconoscere i diversi piani diegetici in cui gli eventi si svolgono.
Un falso cinegiornale definisce il prologo metadiegetico del film.
Nel 1971 viene inaugurato, vicino ad un piccolo paese della
Bosnia, il “Tunel Bratsvo i Jedinstvo”, il tunnel dell’unità e della
fratellanza (vocaboli cardine della retorica titoista), che avrebbe
dovuto simbolicamente unire i popoli della Jugoslavia, posto su
una strada che congiungeva Belgrado a Zagabria. Durante il
taglio del nastro il politico venuto da Belgrado si ferisce il dito, il
sangue schizza sul volto di una bambina: un’immagine grottesca
che fa presagire la futura tragedia. Nove anni dopo, nei primi
giorni del dopo-Tito due bambini si trovano davanti al tunnel, già
in disuso: sono Milan e Halil, il primo di origine serba, l’altro
musulmano. Niente di più normale e naturale nella Bosnia
multietnica. Pensano che dentro alla galleria ci sia un orco o il
diavolo
che
dorme,
se
si
sveglia
incendierà
il
villaggio.
Torneranno il giorno dopo, armati con il coltello della nonna.
Scorrono i titoli di testa e in poco tempo ci troviamo di fronte ad
una scena concitata: una barella viene portata di corsa lungo i
corridoi dell’ospedale militare di Belgrado, siamo nel 1994. Il
soldato ferito è Milan. Da lì, partiranno i suoi ricordi di guerra e
84
di gioventù che si intrecciano nel corso del film, delineandone la
struttura portante. Un semplice stacco di montaggio ci riporta
due anni addietro, in Bosnia al primo giorno di guerra; Milan e
Halil giocano a basket davanti nella spiazzo accanto al bar di
Slobo, non pensano che la guerra sia alle porte. Dopo poco
tempo, si arruoleranno nelle rispettive formazioni militari. La
guerra scoppia sprigionando tutta la sua violenza e li divide
irrimediabilmente.
La truppa di miliziani serbo-bosniaci di cui fa parte Milan,
saccheggia il suo villaggio e incendia la casa di Halil e l’officina
che i due amici avevano messo in piedi. Milan non resiste e spara
alle gambe dei suoi compagni. Intanto, dalla casa esce con la
refurtiva Slobo, colui che diventerà profittatore di guerra e
cercherà di dividere con le menzogne Halil e Milan. La madre di
Milan viene uccisa, ma non dalla banda di Halil, come gli rivela
Slobo. Lo rivedrà impellicciato e pieno di gioielli in ospedale a
lanciare regali, senza ritegno, ai feriti di guerra.
Durante
un’azione
militare,
vicino
al
villaggio
dei
due
protagonisti, il gruppo di Milan, si nasconde nel tunnel ma
rimane intrappolato dai soldati musulmani giunti all’esterno.
L’esperienza della truppa serba, assediata nel tunnel, diventa la
linea narrativa principale e permette all’autore di approfondire i
personaggi secondari che convivono con Milan durante i dieci
giorni
di
assedio,
ai
quali
si
aggiunge
casualmente
una
spaventata giornalista americana, che si era nascosta nel
furgone di uno di loro. Diverse e contrastanti sono le motivazioni
che li hanno portati in guerra. Attraverso una narrazione nonlineare, Dragojević ricostruisce, con un mosaico irregolare di
diversi flashback, i percorsi individuali che hanno portato i soldati
a
trovarsi
insieme
nella
galleria.
Dall’anziano
capitano
dell’Armata popolare, Gvozden Maksinović che si era fatto 350
85
chilometri a piedi per andare al funerale di Tito a Barzia (il
soprannome, traducibile in italiano con “Svelto” o “Speedy” in
inglese), tossicodipendente, figlio di un ex colonnello dell’esercito
jugoslavo, che in preda alle droghe si era lanciato su un camion
di militari inneggianti la Grande Serbia; da Velja, che di ritorno
dalla Germania, dove si era arricchito in traffici criminali, aveva
sostituito
il
fratello,
studente
di
archeologia,
davanti
alla
chiamata militare (si suiciderà nel tunnel), a Petar, professore e
poeta, fino a Fork (con barba e capelli lunghi in vero stile
“cetnico”) e a Laza, contadini un po’ sempliciotti, condizionati
dalla propaganda della televisione. Uno spaccato della società
serba, certo parziale, ma ben caratterizzato, che il regista pone
in dialogo con altre realtà. Nell’ospedale di Belgrado dove
vengono ricoverati i tre superstiti (Milan, Barzia e Petar), feriti
gravemente, le cure scarseggiano, i medici considerano i
ricoverati degli “stranieri”, le infermiere si fanno sedurre dai
soldati di guardia trascurando i malati, in strada i cittadini, tra
cui un gruppo di intellettuali, manifestano per la pace e contro un
regime che manda in guerra la gioventù di un Paese.
Affiorano tematiche presenti nella società serba degli anni
Novanta, come il contrasto tra città e campagna o gli scontri
generazionali. Nella città cosmopolita, dove fervono posizioni e
sentimenti diversi rispetto alla guerra, c’è chi si oppone (le
manifestazioni di studenti ed intellettuali), chi la sente lontana o
la ignora (le infermiere dell’ospedale), chi partecipa all’ondata
nazionalista o chi vi è appena giunto, come i profittatori di guerra
arricchitisi speculando sulla tragedia, rappresentati da Slobo
(nome e diminutivo scelti non a caso). La campagna rurale,
semplice e passionale, più condizionabile dalla propaganda
televisiva nazionalista, su cui appunto vuole far presa, come nel
caso di Laza che, in una sequenza a tratti surreale, ascoltando al
86
telegiornale (insieme ai parenti in mezzo ad un prato) il rischio di
genocidio dei serbi da parte degli ustascia croati, si alza, senza
proferir parola si dirige verso la strada, fa l’autostop ricevendo il
passaggio da un autotrasportare a cui comunica la sua scelta di
combattere per difendere il suo popolo. Un breve dialogo che il
regista risolve con un campo-controcampo, prima inquadrando
da solo Laza, che esterna la sua indignazione e poi afferma “il
piede del crucco e del turco non toccherà più questa terra”,
controcampo dell’autista, probabilmente turco, vicino al quale è
appesa una piccola mezzaluna con una stella, simboli classici
dell’Islam, (nonché della bandiera della Turchia) che annuisce
dicendo “Ja Ja”. Chiude la sequenza “surreale” una domanda di
Laza su come vada in Svezia.
Compressi nel tunnel ognuno esterna idee, emozioni e rabbia.
Come
quando
Liza,
la
reporter
americana,
improvvisa
un’intervista, con tanto di videocamera, a Barzia/Speedy, che
esprime il suo disprezzo nei confronti del padre ex ufficiale
dell’Armata Jugoslavia “mascalzone e alcolizzato per tradizione”,
a
quel
punto
insorge
il
capitano
Maksinović
“Cosa
dici
imbecille?”; Velja chiede a Barzia di continuare, lui sarà il
secondo a parlare davanti alla camera. Nasce un diverbio tra il
capitano che accusa Velja di aver “taglieggiato le vecchiette in
Germania, vergogna rubare agli onesti” e lui che è stufo della
retorica comunista sull’onestà attacca Maksinović: “E la tua
onestà? Fai la guerra per fregarti i gradi”. Con toni estremizzati,
emerge quel contrasto che forse impropriamente potremmo
definire “generazionale” tra gli anziani, ancora legati all’ideologia
di Tito basata sull’unità e la fratellanza, e le giovani leve ormai
disilluse.
Dragojević smonta la mitologia dell’eroe serbo, analiticamente e
allo stesso tempo con irriverenza e ironia. Gli improbabili eroi
87
della squadra “cetnica”, sono votati alla morte nell’assurdità della
guerra. Il regista non nega un’umanità ai suoi personaggi, ma è
la guerra che fa uscire il peggio da ognuno di noi. Attacca
prepotentemente la pulizia etnica, montando in una sequenza le
immagini di incendi dei villaggi, operate dai soldati di Maksinović,
su musica rock, riecheggiando indirettamente The End dei Doors
in Apocalypse Now. Bruciano villaggi di cui nemmeno conoscono
il nome: “I bei villaggi sono belli quando bruciano, quelli brutti
sono brutti anche quando bruciano” dice Velja, davanti allo
sguardo
ancora
attonito
di
Milan,
che
si
farà
trascinare
completamente dalla violenza e dall’odio solo alla fine del film.
A parte il personaggio di Halil, i musulmani rimangono ombre
all’estremità della galleria, ogni tanto si affacciano per sparare,
ma sentiamo spesso i loro rumori e le voci, il dileggio tra i due
gruppi. “You don’t see a lot of Muslims on the film. They are in
the shadows, but this is good because this is a movie we made
about ourselves. The sterotype is that the Serbs are the best,
cleanest, true heroes. We attacked this mythology” ha spiegato
lo sceneggiatore Bulić.64
Nel corso del film tra i personaggi rinchiusi nel tunnel, al di là
delle differenze che li separano, si crea una sorta di solidarietà,
la stessa giornalista americana sfata i suoi luoghi comuni sui
“cattivi“ serbi. Ma è nel complesso della vicenda che notiamo
invece come ci siano più similarità tra alcuni soggetti dei due
gruppi rivali, che tra i membri della stessa truppa. Milan è di
certo più vicino, per cultura, sensibilità, formazione, ad Halil, che
al suo capitano, che a sua volta appartiene alla stessa classe
sociale del collega musulmano, con il quale è stato compagno
all’Accademia militare. Dragojević, in questo modo, confuta la
64
D.Iordanova, Cinema of flames, cit. p.145.
88
teoria semplificata di una guerra di matrice etnica, dovuta alle
insormontabili differenze tra i popoli della Jugoslavia.
Pretty Flame, Pretty Village non risparmia la violenza della
guerra allo spettatore, alcune immagini di villaggi incendiati sono
addirittura reali. Fa un gran uso di humour nero, che smorza solo
in parte la tensione e rende ancora più assurda la guerra.
La seconda opera di Dragojević è segnata da un ardito
sperimentalismo su un piano stilistico e narrativo, sottolineato
dalla
struttura
non
lineare,
che
come
ha
scritto
James
Berardinelli potrebbe far sembrare Pulp Fiction un film lineare65.
La macchina da presa si muove, senza soluzione di continuità, da
un periodo storico all’altro. I primi anni Novanta riferibili ai due
grandi blocchi 1992 e 1994, vanno oltre questa distinzione e
sono più dilatati e intrecciati tra loro.
Possiamo in parte ricondurre il film all’articolata classificazione
che Robert Rosenstone ha chiamato “post-modern historical
filmmaking”66. Pretty Flame, Pretty Village evita, infatti, una
narrazione tradizionale con un inizio, una parte centrale ed una
fine,
riordinando
in
altro
modo
questi
elementi,
frammentariamente; mescola passato e presente, fiction e
documentario e si concede creativi anacronismi; l’approccio alla
Storia avviene anche attraverso parodia e ironia; affronta il
passato in termini auto-riflessivi.
Alla fine Milan e Halil si incontrano fuori dal tunnel, la guerra e la
storia collettiva che si è frapposta fra loro, li ha divisi
irrimediabilmente. Tra le fiamme, si rinfacciano delitti non
commessi (la madre sgozzata, la casa e l’officina incendiata,
episodi in cui centra direttamente Slobo). Halil chiede allora se
65
James Berardinelli, Pretty Village, Pretty Flame, “Reel Views” (moviereviews.colossus.net), 1997.
66
Robert Rosenstone Rosenstone R., The Future of the Past: Film and Beginnings of
Postmodern History, cit., p.206.
89
l’autore fosse stato l’orco, quello di cui avevano paura da
bambini, morirà di lì a poco per un’esplosione di una granata.
Milan lo troviamo, invece, morente in ospedale dissanguato,
dopo essersi trascinato per il corridoio per raggiungere un
prigioniero di guerra musulmano, mentre Petar il professore
tentava di fermarlo. Le sue ultime parole sono contro l’orco
maledetto.
L’ultima breve sequenza, a-temporale e simbolica, è risolta con
una carrellata in avanti sopra una lunga fila di cadaveri e termina
con un mezzo primo piano di Milan e Halil bambini. Si trovano
all’inizio del tunnel, ai loro piedi anche i corpi esamini di loro due
adulti, i bambini tengono in mano una pentola e una pistola
giocattolo, come si erano accordati per affrontare l’orco. I due
bimbi si voltano e fuggono via, scappano dal mostro che
liberatosi ha sprigionato tutta la sua violenza. L’orco è una
metafora multiforme; può rappresentare la Storia che ritorna
ciclicamente con le sue guerre, i politici corrotti, i media
propagandistici o prendere forma fisica nella figura ambigua di
Slobo, il gestore del bar del villaggio.
L’epilogo
come
il
prologo,
proprio
per
descrivere
questa
circolarità drammatica, è costruito come un falso cinegiornale
ambientato negli anni Novanta, durante l’inaugurazione del
tunnel prontamente ricostruito, l’autorità invitata si ferisce il dito,
presagendo una potenziale e futura distruzione.
Il
film
dall’indubbio
valore
artistico,
ricevette
reazioni
contrastanti, come d’altronde la maggior parte dei film sulla
Jugoslavia usciti subito dopo il conflitto. Alcuni lo criticavano
perché ritenesse tutte le parti in causa unitamente responsabili,
altri intravedevano elementi filo-serbi quando invece il film era
boicottato dallo stesso Radovan Karadžić (leader dei serbo-
90
bosniaci), altri ancora riscontravano invece un ritratto troppo
lugubre della Serbia.
A
livello
internazionale
ottenne
numerose
critiche
positive
soprattutto negli Stati Uniti (in Italia non è stato distribuito),
dove fu spesso paragonato ai film sul Vietnam come Apocalypse
Now e Full Metal Jacket. Veniva sottolineata la rappresentazione
della complessità del conflitto e l’attenzione, per comprenderne i
motivi
dell’esperienza,
agli
“oppressori”
serbi.
Michael
Wilmington sul “Chicago Tribune” parlò del film come “truly
audacious spirit”67.
Come afferma il sociologo Srdjan Stanković, l'opera di Dragojević
“non vuole compromessi. Non accetta né l'immagine locale e
popolare dei serbi come difensori della loro patria, né la
generalizzata immagine internazionale dei musulmani come
uniche vittime, né, infine, l’immagine che deriva dai reclami
ufficiali della Serbia che afferma di non aver partecipato al
conflitto"68.
E' un film polemico e coraggioso, che sa esprimere con forza la
critica dissacratoria di un intellettuale libero da pregiudizi e
opinioni faziose.
3.2 Beautiful People
Cinque anni dopo Prima della Pioggia (1994) torna, in un film
sulle guerre jugoslave, l’asse anglo-balcanico, come punto di
vista privilegiato, scelto dal bosniaco Jasmin Dizdar, da anni
residente a Londra, per riflettere sui conflitti che hanno investito
la sua terra d’origine.
67
D.Iordanova, Cinema of flames, cit.p.147.
Drobilovic L., Il cinema serbo-croato: considerazioni sociologiche, “Fucine Mute”
(www.fucine.com), gennaio 1999.
68
91
Con Beautiful People l’autore costruisce un articolato intreccio
narrativo
attraverso
un
mosaico
di
storie
e
oltre
venti
personaggi, tutti coinvolti nelle vicende della Bosnia, che si
trovino a Londra o nell’ex Jugoslavia. Un iniziale “short cut”,
riadattato dal modello originale di Altman (America Oggi 1993),
delinea
le
diverse
esistenze
dei
suoi
personaggi,
che
si
incontrano tra loro accidentalmente.
Ci troviamo a Londra nell’ottobre del 1993. Mentre tutto il paese
è in spasmodica attesa della partita di calcio, che si giocherà in
serata fra la nazionale inglese e l'Olanda, la guerra nella ex
Jugoslavia è giunta al suo culmine. La città di Srebrenica è sotto
assedio serbo e le Nazioni Unite si stanno organizzando per
paracadutare sul posto generi di soccorso rivolti agli abitanti,
intrappolati nell’enclave. Su un autobus londinese si incontrano
un serbo ed un croato; riconoscendosi rinnovano il loro astio
scatenando una grottesca rissa. Intanto il dottor Mouldy, medico
del servizio sanitario nazionale, sta per essere lasciato dalla
moglie, pur stanco e sfiduciato riesce comunque a confortare la
giovane paziente bosniaca Dzemila, incinta di un bambino non
voluto,
frutto
di
uno
stupro
etnico.
Nel
giorno
del
suo
cinquantesimo compleanno, Roger, direttore di una scuola
elementare è triste perché vede il figlio ventenne, Griffin,
traviato dalla cattiva compagnia dei coetanei Jim e Bigsy. I tre,
tutti disoccupati e tossicodipendenti, decidono di andare a
Rotterdam a vedere la partita. Ma qualcosa va storto: Griffin si
ritrova sull'aereo sbagliato, viene paracadutato in Bosnia e qui
partecipa ad azioni di soccorso in mezzo ai combattimenti.
George Thornton, deputato dei Tory, la moglie Nora e il figlio
Edward sono i prototipi dell'alta borghesia. Reagiscono con
sospetto
e
disapprovazione
quando
la
figlia
Portia,
neo
dottoressa, si innamora di Pero, un suo paziente ex soldato
92
proveniente dalla Bosnia. Kate Higgins vive, invece, in uno stato
di ansia prolungata legata a quello che potrebbe succedere al
marito, corrispondente di guerra della Bbc.
Lo sguardo di Dizdar arriva a frantumare la macrostoria in un
autentico collage di microstorie, ricco di ironia e sarcasmo. Per
forma e struttura, Beautiful People richiama La polveriera (1998)
di Goran Paskaljević, sviluppando una costruzione ad incastro e
in crescendo, mescolando registri diversi su un fondo grottesco;
qui con una prevalenza di toni malinconici, nel film di Paskaljević
tragici. Le differenze tra i due film, ha scritto Enrico Danesi, sono
invece di tempo e di sostanza: ”La polveriera, col suo carico di
violenza implosa è un grido di dolore contro il vacuo calderone
delle rivendicazioni razziali e religiose che ciascuno riempie di
personali grettezze; Beautiful People, che segue l’esplosione,
inscena una possibile ricomposizione dei frammenti attraverso il
recupero dell’umanità perduta e del senso dell’altro nel finale di
ciascuna delle singole vicende, suggellato dalla composizione a
livello di cornice”69.
Dizdar sceglie i toni della commedia amara non risparmiando la
tragicità e le contraddizioni della guerra. Vuole riflettere sul
conflitto dell’ex Jugoslavia con le armi del paradosso (l’episodio
surreale di Griffin, paracadutato per caso in Bosnia, deve molto
allo stile di Danny Boyle), della commedia beffarda, dell’apologo
poetico e della satira graffiante.
Le tensioni etniche della Jugoslavia, apparentemente estranee
alla capitale inglese, piombano a Londra, facendo riaffiorare
analogie con la storia passata della Gran Bretagna nel dialogo tra
un paziente gallese e i due profughi dell’autobus, ricoverati in
ospedale dopo il litigio.
69
E.Danesi, Beautiful People, “Duel”, n.78, marzo 2000.
93
Il rapporto tra l’Inghilterra e la Bosnia, all’inizio distaccato o
difficile,
dà
vita
cambiamenti
a
nuove,
radicali
anche
nell’esperienza
positive,
di
relazioni
ciascuno.
e
a
Tutti
i
personaggi provano ad accettare gli altri e a cambiare se stessi.
Griffin, tornato da Srebrenica quasi da eroe, ha portato con sé
un bambino cieco salvato dalla guerra. Pero e Portia superano le
diffidenze parentali e si sposano. All'ospedale, il serbo e il croato,
senza placare del tutto i disaccordi si mettono a giocare a carte
con gli infermieri. Nasce il bambino della coppia bosniaca, si
chiamerà,
non
a
caso,
Caos.
Il
cronista
traumatizzato
dall’esperienza di guerra in Bosnia si dimette dalla Bbc e parte
per un viaggio di riposo con la moglie.
Il finale riconciliatorio non è del tutto un happy-end, è una
concreta speranza: la convivenza passa attraverso la conoscenza
e l’accettazione del diverso da sé, ma implicitamente il film pare
avvertirci che i drammi della Storia ritornino.
“Dizdar sin dalla prima sequenza ci descrive hegelianamente un
Mondo e una Storia che vanno avanti proprio in virtù della
tensione dialettica tra i poli opposti che li animano dall’interno e
che si ripercuotono nella stessa accurata resa stilistica”70. Al
rapido montaggio alternato della zuffa tra il serbo e il croato,
costruito a ritmo di musica e alla mobilità agitata della macchina
da presa intenta a riprendere il litigio, si oppongono inquadrature
simmetriche e primi piani da cavalletto che incorniciano l’interno
alto borghese della famiglia di Portia. E allora seguendo, di pari
passo, la filosofia hegeliana non può che scaturire, da una tesi e
da un’antitesi, una sintesi, che ci si augura capace di mettere
finalmente pace tra le parti in conflitto.
70
Guidetti N., Lunga vita al piccolo Caos, “Cineforum”, n.394, maggio 2000.
94
3.3 No man’s land
Danis
Tanović,
insieme
a
Pjer
Žalica,
è
l’esponente
più
importante del nuovo cinema bosniaco, sviluppatosi dopo la fine
del
conflitto.
Tutte
e
due
hanno
avuto
un
passato
da
documentarista. Nel 1992 quando iniziò la guerra Tanović, aveva
ventitré anni ed era studente dell’Accademia d’Arte di Sarajevo;
tra la pazzia e la fuga – come ha ribadito in diverse interviste –
scelse la passione, sotto forma di cinepresa, con cui filmare tutto
ciò che vedeva per strada. Entrò a far parte della Armata
bosniaca,
come
operatore
audiovisivo
e
poi
responsabile
dell’archivio filmico, successivamente collaborò insieme al regista
Dino Mustafić (Remake, 2003) alla Commissione di indagine sui
crimini di guerra e fu uno degli animatori del collettivo di cineasti
Saga, guidato da Ademir Kenović.
Nel
2001
riesce
a
realizzare
il
suo
primo
e
fortunato
lungometraggio, No Man’s Land, che oltre al premio per la
miglior sceneggiatura al Festival di Cannes, ha conquistato nel
2002 il primo Oscar per la Bosnia-Erzegovina.
Il film è ambientato nel 1993, durante la guerra di Bosnia. Due
soldati, Ciki e Nino, uno bosniaco e l'altro serbo, si trovano isolati
tra le due linee nemiche, nella cosiddetta “terra di nessuno”,
esattamente in mezzo alle prime linee degli schieramenti
contrapposti. Con loro c’è anche Cera, commilitone di Ciki, che
poco prima sembrava morto ed era stato usato dai serbi come
esca mortale, piazzandogli una mina sotto la schiena; non può
muoversi altrimenti rischierebbe di esplodere. Ciki e Nino
sembrano disposti, dopo le prime scaramucce, a collaborare, ma
con il trascorrere delle ore la tensione tra di loro sale. Un casco
blu francese cerca di aiutarli, violando l'ordine dei suoi superiori
di
un
Onu
inerme.
I
media
si
impadroniscono
del
caso
trasformandolo in uno spettacolo mediatico internazionale. La
95
situazione diventa sempre più tesa e i due soldati devono
negoziare il prezzo della loro vita nella follia della guerra. Davanti
a loro non resta che il dramma.
Tanović non ripercorre la storia della guerra, né indaga i motivi
della dissoluzione di una nazione, sceglie di lavorare su una
messa in scena del conflitto, che a partire dalla contingenza
bosniaca si spinge verso una riflessione più ampia dell’assurdità
bellica.
“Conosci la differenza tra un pessimista e un ottimista? Il
pessimista pensa che la situazione non possa peggiorare,
l'ottimista sì”, è una delle prime battute del film, pronunciata da
uno dei membri di un piccolo gruppo di soldati bosniaci
musulmani, dalle divise scombinate, persi nella nebbia, che
avanzano imprecando, a tentoni, prima di fermarsi per attendere
l’alba. E' con questo freddo umorismo che si apre il sipario della
tragedia umana a cui lo spettatore sta per assistere. I militari si
sveglieranno proprio sotto una postazione serba e verranno tutti
uccisi, tranne due: Ciki e Cera. Allo stesso tempo, le due semplici
frasi, introducono il registro del tragicomico, uno degli assi
portanti del film. Tanović, se dovessimo rispondere alla battuta
di prima, è un “ottimista” perché ha vissuto la guerra e ne
conosce gli imprevisti e la crudeltà; la situazione non può che
peggiorare.
Nino, giovane soldato, viene mandato dall’ufficiale serbo ad
ispezionare, insieme ad un collega più anziano (colui che decide
di collocare la mina sotto il corpo di Cera) cosa sia successo in
mezzo alla trincea, dopo che loro hanno fatto fuoco. L’imboscata
si capovolge improvvisamente, perché ad attenderli troveranno
Ciki (con la maglietta dei Rolling Stones al posto della divisa),
che uccide il militare più anziano e sequestra Nino. Rimangono
loro due nella “terra di nessuno”. Scoppia una lite furibonda su
96
quale dei due popoli abbia cominciato la guerra, la risposta è
semplice: il colpevole è chi, in quel momento, non ha il fucile in
mano, sia esso Nino o successivamente Ciki. L'assurdità della
situazione prende presto il sopravvento quando scoprono che c’è
una terza persona con loro, ancora viva e sdraiata sopra una
mina, Cera. Tutto ciò li porterà a parlarsi invece che spararsi; si
creerà
tra
loro
quasi
una
solidarietà,
soprattutto
quando
scoprono di avere conoscenze comuni, la stessa ragazza di Banja
Luka. Ma la tensione presto riprenderà di nuovo il sopravvento.
Nella costruzione drammatica del film fa spesso comparsa il
teatro dell’assurdo di Samuel Beckett. L’attesa dell’artificiere
tedesco, contattato perché risolva la situazione, tiene alta la
tensione per circa un’ora, salvo poi scoprire che non potrà far
nulla oltre che constatare l’impossibilità di disinnescare la mina. I
caschi blu, che vengono chiamati sia dai serbi che dai bosniaci
“puffi”, perseguono un solo obiettivo: impegnarsi perché non
succeda nulla, schivando ogni difficoltà, fino a rimanere inermi di
fronte alla tragedia. “Non è dunque assurda una guerra in cui ci
si sventola in mutande per attirare l’attenzione dei rispettivi
eserciti o dove chi parla la stessa lingua è nemico, mentre chi ne
parla tre diverse dovrebbe far parte del medesimo schieramento
di pace?” scrive Michele Marangi71. Oltre al teatro dell’assurdo
nell’opera affiora un riferimento indiretto al teatro classico, alla
tragedia greca, nell’organizzazione del racconto secondo una
rigorosa unità di tempo, luogo e azione. Dopo il prologo in cui la
squadra bosniaca si perde nella nebbia, la narrazione si svolge
nell’arco di una giornata, dall’alba al tramonto.
Lo spazio ristretto della trincea di mezzo e l’immobilità di una
situazione drammatica, calamita l’attenzione morbosa dei media,
71
Marangi M., La morte in diretta assurda e grottesca, “Cineforum”, n.409, novembre
2001.
97
interessati più alla ricerca di uno scoop che a comprendere la
complessità della guerra, tra i giornalisti si distingue Jane,
reporter inglese, che oltre al lato sensazionalistico, pare anche
interessata a sensibilizzare gli spettatori denunciando l’ipocrisia
del non intervento. L’empasse dell’Onu acquista tratti grotteschi,
tra ufficiali isterici ed inconcludenti che sbraitano al telefono o
giovani soldati che invece di prestare attenzione all’evolversi
della vicenda ascoltano musica techno in cuffia. Se i francesi
dell’Onu ripetono più volte di trovarsi davanti ad un popolo di
pazzi, ad una guerra fratricida che non comprendono, gli stessi
tre protagonisti slavi sono letteralmente perplessi di fronte
all’incapacità e all’inutilità di chi dovrebbe garantire la pace. Solo
il sergente Marchand cerca invano di sbloccare la situazione,
violando gli ordini superiori affermando che “la neutralità non
esiste di fronte a un assassinio. Non fare niente per fermarlo è
già una scelta”.
Il regista muove un severo atto d’accusa nei confronti del
comportamento dell'Onu durante il conflitto, guidato da un'idea
di neutralità giudicata inaccettabile, che si risolveva in ogni caso
nel cercare soprattutto l'incolumità per le proprie truppe e una
buona immagine mediatica internazionale.
Il film utilizza diversi registri stilistici e narrativi, in parte
contrastanti, sviluppando uno slittamento continuo dal tragico al
grottesco, dal realistico al surreale, che spiazza regolarmente la
percezione dello spettatore, a voler testimoniare come la
complessità della guerra jugoslava non possa essere risolta
attraverso gli schematismi di una visione omogenea ed uniforme.
No Man’s land si caratterizza per una regia sobria e soprattutto
per un’ottima sceneggiatura, in cui Tanović ha approfondito la
costruzione e la psicologia dei suoi personaggi mai stereotipati. Il
98
film sfoggia dialoghi ben calibrati ed un ottima gestione dei ritmi
narrativi in bilico tra pause ed improvvise impennate.
Nel vertiginoso finale, durante l’attesa di uno scioglimento
improvviso della situazione, le telecamere rimangono accese
inseguendo il mito della diretta e filmano la morte di Nino e Ciki,
che, dopo la parziale tregua nella trincea, tornano a detestarsi
violentemente fino ad uccidersi a vicenda. La morte in diretta,
anch’essa assurda e grottesca, sembrerebbe il culmine tragico
dell’opera, ma viene superata dalla scoperta del mancato
disinnesco della mina, ormai a telecamere spente. Quando il sole
tramonta, Cera rimane solo, ancora vivo, ma di fatto già morto,
sopra la solita mina. Dall'alto e allargando il campo, la macchina
da presa lo inquadra in un orrore infinito.
Una visione che è riservata solo agli spettatori cinematografici
perché gli ipotetici spettatori televisivi, interni alla diegesi, che
hanno assistito allo spettacolo della guerra in diretta, non
avrebbero mai potuto vederla. Le truppe dell’Onu mettono,
infatti, in scena il disinnesco della mina, convincendo i giornalisti
ad andarsene. “Tanović invita a riflettere sulla presunzione di chi
produce e consuma immagini accontentandosi di ciò che vede,
senza chiedersi cosa resta fuori campo o, ancora di più, ciò non è
possibile mostrare”72.
Danis Tanović è anche l’autore di uno degli episodi del film
collettivo 11 settembre 2001 (2002), in cui ha voluto collegare la
ricorrenza del giorno undici di ogni mese delle donne di
Srebrenica, che sfilano per non dimenticare il massacro del 11
luglio ’95, con la tragedia delle Twins Towers. Un film di silenzi e
di volti, nel quale prendono voce le parole di una giovane donna,
che nonostante l’accaduto non vuole rimanere a casa e proprio
l’11 settembre del 2001, le donne di Srebrenica scendono in
72
Ibidem
99
piazza per manifestare e per non dimenticare i due drammatici
avvenimenti.
3.4 La vita è un miracolo
Dopo Underground (1995), Emir Kusturica torna al tema della
guerra nell’ex-Jugoslavia con La vita è un miracolo.
L’ultimo film del regista di Sarajevo è uscito nelle sale in un
clima assai diverso dal capolavoro visionario firmato dieci anni
prima. Seppure attualmente la situazione non sia completamente
pacificata (vedi il Kosovo), il conflitto ai tempi di Underground
era ancora in corso, pochi giorni prima che vincesse la Palma
d’oro a Cannes c’era stata la strage di Tuzla (26 maggio) in
Bosnia, dove una granata serbo-bosniaca uccise più di settanta
giovani, che si trovavano nella piazza centrale della città. In un
clima
surriscaldato,
accolto
positivamente
dalla
critica
cinematografica, Underground subì da parte di diversi opinionisti
di quotidiani francesi, italiani e bosniaci (il filosofo Finkielkraut e
il giornalista Bettiza per dirne due che non avevano nemmeno
visto il film) attacchi e forzate letture
come propagandistico e filo serbo), che
ideologiche (fu tacciato
spesso rischiarono di
prevalere sul valore del film.
Problema che non ha corso La vita è un miracolo, quasi passato
in sordina, che ha però collezionato giudizi di comodo, da una
pubblicistica (anche specializzata) che forse non considera più "a
la page" Kusturica, e analisi assolutamente superficiali rispetto al
contesto trattato, le guerre jugoslave.
In La vita è un miracolo ci troviamo in Bosnia nel 1992, poco
prima che anche qui scoppi la guerra, altri focolai sono esplosi in
Slovenia e, in modo molto più drammatico, in Croazia. Luka,
ingegnere serbo, uomo ottimista e mite, e sua moglie Jadranka,
soprano e un po’ isterica, si sono trasferiti da Belgrado, insieme
100
al figlio Milos, giovane calciatore, in un villaggio isolato tra verdi
boschi con l'intento di trasformarlo in un luogo turistico. Abitano
in una colorata e piccola stazione, in un paesino circondato da
una
ferrovia
in
via
di
completamento,
che
sembra
un
microcosmo a parte. Ma la triste realtà non è lontana. Luka non
dà retta alle voci dello scoppio di un conflitto imminente; la
guerra civile è però alle porte e invaderà presto la vita del
villaggio. Quando suo figlio Milos, chiamato a prendere servizio
nell’esercito, è fatto prigioniero, i militari serbo-bosniaci gli
affidano in custodia un ostaggio musulmano: è Sabaha, una bella
ragazza
che
fa
l’infermiera
in
città.
Luka
finirà
per
innamorarsene.
Nella prima parte del film Kusturica si esibisce in una maniera di
se stesso, affascinante ma ripetitiva, in cui compaiono tutti gli
elementi classici della poetica del regista bosniaco: caos, balli
sfrenati, sbronze, personaggi bizzarri, musica tzigana e tanti
animali (orsi, oche, asini, cani e gatti), l’unione indissolubile tra
vita e morte, il confine labile tra realtà e sogno. E’ sicuramente
più interessante lo sviluppo successivo del film.
Ad un certo punto, la relativa quiete del villaggio viene rotta
dallo scoppio della guerra in Bosnia-Erzegovina. Kusturica decide
di affrontare meno il lato politico e concentrarsi sulle persone,
sull'amara ironia della vita. Non spiega né indaga le cause del
conflitto, ma il contesto non è puro sfondo, è assolutamente
fondamentale
nel
film.
I
due
grandi
gruppi
etnici
che
convivevano nella Bosnia orientale, serbi e musulmani, si
ritrovano su sponde opposte a fronteggiarsi.
Il caos coinvolge anche la famiglia di Luka: la moglie fugge con
un musicista ungherese, il figlio Milos, che in una delle prime
sequenze abbiamo visto impegnato in una agguerrita partita di
calcio, sfociata in un profetico scontro etnico (riferimento
101
all’incontro tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa del 13 maggio
1990 finito in guerriglia), viene chiamato al fronte. Luka rimane
solo e gli verrà affidato Sabaha, l’ostaggio da scambiare per
riottenere il figlio.
Sotto le bombe nascerà l’amore tra “diversi”, Luka e Sabaha;
durante la guerra, fratricida, che si frappone tra loro, l’unica fuga
possibile
è
nel
sogno
e
appunto
nell’amore.
Il
racconto
cinematografico è liberamente ispirato ad una storia vera,
raccontata al regista da un serbo rifugiato a Tolosa. Intanto, nel
villaggio dilagano i traffici criminali (armi e droga), testimoniando
una realtà storica, visto che durante le guerre hanno avuto un
incremento esponenziale73.
Nel corso del film si alternano farsa e tragedia. Il nostro sorriso,
non è mai liberatorio, è smorzato come davanti alla comicità di
Buster Keaton. La vita è un miracolo attinge a piene mani dal
registro del grottesco rappresentando la tragicomicità della vita
in un racconto sopra le righe, condito da forte humour nero.
Sogno e suicidio, archetipi della letteratura serba, ricorrono
spesso nel film che mescola in alcuni momenti topici realistico e
fantastico. L’asina suicida, che piange per amore e attende sulle
rotaie del treno il momento fatale, salverà alla fine Luka dalla
morte.
Lo stile di Kusturica, ormai diventato “classico”, si snoda tra le
influenze dei suoi maestri: il vitalismo e il caos surreale di Fellini,
le distanze invisibili tra sogno e realtà proprie di Vigo e i voli
fantastici impressi da Chagal (come quello finale del letto che
lievita in cielo). Estetizzante nelle inquadrature di una natura
rigogliosa e nella composizione del quadro visivo, come quando
le spalle di Luka affacciato alla finestra paiono le gobbe della
73
Cfr. P.Rumiz, Armi, droga, mafia: la guerra come affare, in “Limes”, La guerra in
Europa,. n. 1-2, 1993, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso.
102
collina o nei fotogrammi in cui la dissolvenza a nero viene
interrotta dal volto di Luka che esce dal tunnel della ferrovia.
Interpreta splendidamente Luka, Slavko Štimac, uno degli attori
più cari a Kusturica: è stato Ivan, il fratello di Marko in
Underground e l’adolescente Dino in Ti ricordi di Dolly Bell?.
Luka può essere identificato come il vettore ideale di Kusturica
all’interno del film. All’inizio non vuole capire che la guerra stia
cominciando, è un riferimento autobiografico: “Ero in Francia e
per i primi quaranta giorni non ci volevo credere. Non volevo
accettare che la guerra fosse iniziata. C'è stata un'intera
generazione di persone della ex Jugoslavia che non erano
consapevoli che questa cosa terribile fosse in atto. Luka è uno di
questi”74. Il regista si identifica anche nel suo personaggio: “Mi
piace di lui che non si butta immediatamente nell'amore. È un
tipo un po' vecchia maniera, pospone il suo legame con questa
donna al desiderio di rivedere il figlio. Quando lo vedo avvicinarsi
alle cose piano piano mi accorgo che è come se lo facessi io”75.
Alcune assonanze con il pensiero dell’autore possono essere
rintracciate, ma solo in parte, in un personaggio secondario, il
presidente del Comune, però spogliato dal carattere di politico
non
troppo
onesto.
Profondamente
jugoslavo
e
legato
a
Sarajevo, metafora della multietnicità, morirà presto, ucciso dai
cecchini, in una battuta di caccia, e in questo si avvicina alla
visione di Kusturica: “Quando è sparita la Jugoslava io sono
diventato invisibile”76, disse con disperazione d’apolide, dopo le
polemiche su Underground. “Sono vissuto – racconta Emir - in
un paese dove i miei film preferiti erano croati e i miei libri
74
Nicola Falcinella, Kusturica: la vita è un miracolo, in “Osservatorio dei Balcani”
(www.osservatoriobalcani.org), 15 giugno 2004.
75
Ibidem
76
P.Vecchi, Emir Kusturica, Gremese, Roma, 1999, p.105.
103
preferiti erano serbi”77. I suoi primi lavori sono nati nella
Sarajevo multietnica, quella stessa città che lo ha ripudiato
quando ha deciso di stare a Belgrado e a Parigi durante la guerra
e il doloroso e infinito assedio della capitale bosniaca, patito dai
suoi ex concittadini. La sua posizione, sicuramente molto
discutibile, si è rivelata, presto scomoda in un ex Jugoslavia
accecata dagli odi etnici.
Se il simbolo della manipolazione mediatica della storia e della
realtà in Underground era il cinema, strumento di propaganda
dei totalitarismi del Novecento, qui viene messa all’indice la
televisione
(quella
che
Luka
scaraventa
dalla
finestra,
informazione sia occidentale sia slava) che ormai da diversi
decenni ha preso il posto della settima arte in questo ambito. E
così è stato per le guerre jugoslave: le televisioni balcaniche
sono state esempio di vera manipolazione storica, mentre il
cinema sulla recente guerra, seppur non abbia profondamente
indagato sulle cause del conflitto (imprigionato in una visione, a
metà, tra mito e realtà), si è rivelato di livello artistico, pacifista
e non smaccatamente di una o dell’altra parte; ovviamente, gli
elementi ideologici sono presenti nelle varie opere e su questo
piano l’opera di Kusturica rimane ancora controversa.
Kusturica non ha mai girato un film storico, nel senso classico del
termine, ma i rapporti tra cinema e storia, mito e realtà, anche
in termini metacinematografici, nella riflessione sulle modalità di
messa in scena della Storia, sono tra i più intricati e interessanti
della filmografia del regista. La vita è un miracolo, non è certo il
miglior film di Kusturica, un’opera di transizione, ma in due ore e
mezza di visione la noia appare lontana.
77
G.Rinaldi, Il film e le polemiche, in “Cineforum”, n.351, gennaio/febbraio 1996.
104
3.5 Benvenuto Mr.President
Film d’esordio di Pjer Žalica, regista bosniaco con un passato
recente di documentarista negli anni dell’assedio, è l’unica opera
tra quelle analizzate che affronta il dopo guerra, la pace precaria
successiva agli accordi di Dayton.
Premiato con il Pardo d’argento nel 2003 al Festival di Locarno
Benvenuto
Mr.President
è
un
racconto
corale
dal
timbro
tragicomico di un villaggio bosniaco situato vicino alla linea di
demarcazione
tra
le
due
nuove
entità
della
Bosnia:
la
Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska.
E’ ambientato nel 1996, a Tesanj che è una piccola città
devastata dall’intolleranza etnica, dagli atti criminali e dalla
corruzione. La notizia di un’imminente visita del presidente
americano Bill Clinton (desideroso di essere il padrino del new
deal jugoslavo) lancia la comunità nel tentativo maldestro di
simulare una democrazia fittizia tra gli abitanti del luogo, sotto
l’occhio vigile e le pressioni degli osservatori internazionali, che
pretendono che il paese sia ripulito dalle attività illegali e dai
presunti terroristi e che i serbi e i musulmani collaborino. Le
prostitute si trasformano in ballerine di danze popolari, i
pompieri improvvisano una banda e il sindaco, fino a quel
momento insensibile a qualunque necessità dei cittadini, si mette
a fare le cose in grande, pur di non fare brutta figura.
Il regista utilizza gli ingredienti classici del film balcanico, ma li
mescola in una chiave originale, con uno sguardo che guarda
oltre il conflitto. Contamina dramma e commedia, realismo e
surrealismo, con quel particolare humour nero, prettamente
bosniaco, che anche nella tragedia riesce a strappare una risata.
Le influenze cinematografiche spaziano da quella dichiarata di
due film di Altman, Nashville per la storia corale e M.a.s.h. per
l'atmosfera, allo stile di Fellini e di Kusturica.
105
Nella coralità della storia, una famiglia assume il ruolo di
protagonista, quella di Zaim che non si dà pace per la morte del
figlio: lo crede vivo e lo “vede” la sera nel cortile della casa sulla
collina. L'altro figlio Faruk è un vigile del fuoco che incontra dopo
anni una vecchia fiamma rientrata, dopo essere fuggita in
Germania; subito dopo l'incontro, la ragazza incappa in una mina
inesplosa. Alla fine, Zaim, sempre più spinto dalla follia dopo
aver scoperto il cadavere del figlio, si fa esplodere nella propria
abitazione proprio mentre Clinton sta attraversando la strada
principale di Tesanj, mandando a monte tutto. Quest’ultima
sequenza
è
costruita
alternato,
che
passa
attraverso
un
simultaneamente
magistrale
dalla
montaggio
partecipazione
collettiva alla festa di un paese intero alla solitudine domestica di
un padre disperato.
Durissimo nel dramma e geniale nella descrizione dei singoli
caratteri, Žalica non enfatizza il dolore ma talvolta lo irride e lo
utilizza semplicemente come metronomo di tutta la vicenda. Il
suo uso della macchina da presa con alcune inquadrature
dall’alto, in pianta, rompe il ritmo per fare tornare lo spettatore
alla realtà. La luna compare nel primo fotogramma e viene
ricordata più volte nel corso del film, dalla colonna sonora (con la
rivisitazione “slava” di Guarda che luna di Buscaglione) alle due
prostitute che si chiedono in che anno l’uomo è sbarcato sulla
luna e rispondono nel ’93. Qualcuno guarda verso la luna, ma
qualcuno guarda dalla luna. In almeno due momenti la macchina
da presa, guarda la terra dall’alto: entrambi si riferiscono al
presidente Clinton, che qui è il simbolo dell’opportunità di uscire
dal dopoguerra, di ricostruire. La salvezza, la possibilità di una
vita normale, è lontana quanto la luna.
La
complicata
rappresentazione
della
Bosnia
nel
difficile
dopoguerra è sincera e reale e anche gli americani, a tratti un
106
po’ “macchietta” corrispondono all'immagine che hanno fra i
bosniaci.
A piangere l'ex poliziotto Zaim si ritrovano insieme uomini dei
due gruppi (i pompieri musulmani e serbi), in un finale che lascia
spazio alla speranza. I preparativi di un villaggio diviso in due
per accogliere il presidente Clinton in visita sono vanificati dalle
ferite ancora aperte della guerra e dal dolore della perdita dei
propri cari, ma un seme di convivenza è stato gettato.
Stanco di girare film sull'orrore che lo circondava, sulle uccisioni,
il sangue e le interminabili e futili discussioni su chi era il
responsabile dice il regista, desiderava fare film sulla pace “ma
ho scoperto – conclude amaro Žalica - che la pace può essere
peggiore della guerra".
“Sotto i tiri dei mortai e dei cecchini eravamo uniti, avevamo lo
scopo comune di sopravvivere, oggi ognuno va per conto suo e
vivere dignitosamente è difficile, con le divisioni che restano e la
corruzione diffusa”78.
3.6
Una
ricostruzione
storica
e
i
documentari
su
Srebrenica
Srebrenica è una cittadina della Bosnia orientale, a pochi
chilometri dal confine con la Serbia. Prima della guerra era un
centro termale e minerario ora dopo la conflitto e il massacro di
dieci anni fa si presenta come un triste agglomerato di case
senza una reale identità.
Nell’aprile del ’93 venne dichiarata “zona protetta” con una
risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, nei sui confini si
rifugiarono oltre 50 mila bosniaci di religione musulmana. Un
mese
prima
era
iniziata
un’offensiva
delle
truppe
serbo-
78
N.Falcinella, Intervista con Pjer Zalica, regista di Gori Vatra, in “Osservatorio dei
Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 21 agosto 2003.
107
bosniache nei territori circostanti, che si trasformò in lungo
assedio della città, che si protrasse fino al luglio del 1995. In
quei due anni e mezzo la popolazione rifugiata visse in condizioni
estremamente disagiate e allo stremo delle forze: mancavano
cibo e medicine, sopravvivevano solo i traffici criminali, in cui
erano
anche
implicati
anche
i
caschi
blu.
La
“comunità
internazionale” non si preoccupò di garantire livelli di vivibilità
accettabili, la presenza del contingente Unprofor (prima francese
e poi olandese), costretto al non intervento dalle disposizioni
internazionali,
garantiva
solo
che
la
città non
capitolasse
definitivamente.
A fine maggio del ’95 il Consiglio di Sicurezza propose una
riduzione delle forze di interposizione dei caschi blu in Bosnia,
una scelta che già testimoniava le ambiguità del Palazzo di Vetro
nei confronti di Srebrenica. Il 5 luglio incominciò l’attacco delle
truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic contro
l’enclave e nei giorni seguenti ci fu l’avanzata. Sfondarono la
debole linea di difesa (tra l’altro ai rifugiati erano state tolte le
armi dai caschi blu), mentre le truppe Onu non opposero
resistenza
né
si
impegnarono
in
una
reale
azione
di
interposizione. Per alcuni giorni i soldati dell’Onu promisero alla
popolazione dell’enclave un intervento dell’aviazione della Nato,
che aveva già agito in altre occasioni in Bosnia, ma a Srebrenica
non fu mai attuato.
L’11 luglio la città cadde tragicamente in mano serbo-bosniaca.
Nel frattempo, di fronte a questa situazione migliaia di persone,
maschi di età compresa tra i 14 e i 60, cercarono di fuggire
attraverso le montagne, verso Tuzla; una fuga che si trasformò
in
un’ecatombe:
le
colonne
di
uomini
vennero
attaccate
violentemente dai serbi e decimate, i cadaveri fatti scomparire in
fosse comuni. Le persone rimaste in città, donne, bambini e
108
uomini, circa tremila cercarono rifugio, ma invano, alla base
dell’Onu a Portočari. Le milizie serbo-bosniache divisero le donne
e
i
bambini
dagli
uomini
e
i
ragazzi
ritenuti
abili
al
combattimento, inseriti nella lista di coloro da eliminare. Per oltre
dieci giorni Srebrenica e i territori limitrofi furono protagonisti di
massacri, rastrellamenti, suicidi e strupri; tra le truppe di Mladić
operavano anche efferati gruppi paramilitari.
L’esito finale fu un massacro tra le sette e le diecimila vittime. Il
peggior crimine di guerre compiuto in Europa dopo la seconda
guerra mondiale. Il Tribunale Penale Internazionale dell'Aja ha
catalogato la tragedia di Srebrenica come un vero e proprio
genocidio. Ad aprile del 2005 il numero di vittime identificate e
sepolte è di 1332, su un totale di settemila corpi recuperati. Nel
2003 a Portočari è stato realizzato un immenso cimitero che
ospita le salme di oltre mille persone e, accanto, inaugurato un
museo
dedicato
al
massacro.
I
principali
responsabili
del
massacro Ratko Mladić e il presidente della repubblica Srpska
Radovan Karadžić, ricercati dal Tribunale dell’Aja, sono ancora
latitanti.
Oltre alle responsabilità individuali, di mandanti ed esecutori,
assumono un rilievo internazionale – come spiegano Bonapace e
Perino - “il ruolo delle forze dell’Onu che di fatto non reagirono,
al contrario rimasero osservatori passivi degli eventi lasciando
che il massacro si compisse in una zona definita ‘protetta’, e la
posizione della Nato che, nonostante le altisonanti dichiarazioni a
favore dei diritti umani, non intervenne”79.
All'inizio dell'estate del ’95, prima della tragedia, pareva che la
guerra in Bosnia-Erzegovina stesse per finire. Le forze in campo
cercavano a tutti i costi di raggiungere gli obbiettivi sottoscritti: i
79
William Bonapace e Maria Perino La fine dell’innocenza in W.Bonapace e M.Perino (a
cura di), Srebrenica, fine secolo: nazionalismi, intervento internazionale, società civile,
Israt, Asti, 2005.
109
tre “signori della guerra”, parafrasando la formula di Pedrag
Matvejević, ovvero il presidente della federazione jugoslava
Milošević, quello della Bosnia Izetbegović e il croato Tudjman,
con l'assenso delle potenze internazionali. Era ormai in atto il
piano di spartizione su base etnica ratificato poi a Dayton: il 51
per cento del territorio della Bosnia ai croato-musulmani e il
restante 49 per cento ai serbo-bosniaci. Unici ostacoli i quartieri
della capitale Sarajevo in mano ai serbi e le zone protette
dall'Onu,
vale
a
dire
Zepa,
Goradze,
Biach
e,
appunto,
Srebrenica, enclavi musulmane in un territorio completamente in
mano alla Repubblica Srpska.
A
Srebrenica
dell’intervento
sono
emerse
umanitario,
le
la
drammatiche
profonda
contraddizioni
inadeguatezza
delle
Nazioni unite, la realpolitik degli stati e le tragiche conseguenze
delle
politiche
identitarie
messe
in
atto
dalle
leadership
nazionaliste dell’ex Jugoslavia. Srebrenica rimane una “vergogna
incancellabile” per la comunità internazionale e l’Europa.
Diversi
documentaristi
si
sono
confrontati
con
questa
drammatica storia, ricostruita completamente solo negli ultimi
anni. Andrea Rossini, redattore dell’ “Osservatorio dei Balcani”
insostituibile portale di informazione che svolge un lavoro
collettivo di monitoraggio, ricerca ed analisi sul sud-est Europa, è
l’autore
di
due
film:
Europa,
Srebrenica
(1999)
e
Dopo
Srebrenica: la memoria, il presente (2005). Il primo, prodotto
dall’Associazione
“Ambasciata
della
democrazia
locale
a
Zavidovici” è stato girato a Vozuca, dove molte donne di
Srebrenica, che hanno perso figli e mariti, sono sfollate.
Attraverso le loro parole vengono ripercorsi l’interminabile
assedio e la caduta della città. Rossini sceglie una regia
minimale, si sofferma sui primi piani, sui volti e sugli sguardi
delle donne, opta per il bianco e nero nelle interviste realizzate
110
tutti in interni, e per il colore negli inserti filmati relativi alle
rovine dell’attuale Srebrenica. Il racconto delle donne è un flusso
ininterrotto di ricordi; con lucidità e disperazione denunciano il
comportamento ambiguo, e per certi versi complice degli
assedianti, tenuto dalle forze delle Nazioni Unite (contingente
Unprofor), che dovevano proteggere l’enclave ma assistettero
inerti al massacro. Con testimonianze drammatiche, denunciano,
infine, il brutale massacro del luglio ’95 operato dai serbi, che
quando entrarono in città si impossessarono delle divise dei
caschi blu.
Dopo Srebrenica: la memoria, il presente, uscito a dieci anni di
distanza dalla strage, è un documentario su Srebrenica oggi, che
rappresenta la tragedia dei desaparecidos sullo sfondo di un
conflitto
che
presentate
al
continua,
regista
nelle
da
memorie
ritornanti
e
verità
bosgnacchi
parallele
(bosniaci
musulmani), sfollati serbi, istituzioni religiose e autorità locali.
Struttura portante del film è l’insieme di voci di Srebrenica:
vedove e madri, istituzioni, rappresentanti delle comunità,
sfollati e rientranti. Solo loro, senza alcuna voce narrante. Una
scelta che allontana qualsiasi accenno di retorica e restituisce la
complessità della realtà. Sono oramai chiare le responsabilità
dell'eccidio di Srebrenica. Il Tribunale dell'Aja ha contribuito a
ricostruire in modo credibile e convincente quanto avvenne. Ma
quella tragedia ha influito e condizionato le esistenze di molti
cittadini bosniaci e va letta nel contesto più ampio della guerra in
Bosnia e del disfacimento della ex Jugoslavia.
Significativa l'ultima scena del documentario. Un anziano, in un
campo di sfollati: la sua voce è flebile e le mani tremano, apre
una teca, sfoglia dei documenti, sono atti di proprietà della sua
casa. "Una volta avevo della terra …" afferma. La frase si
sovrappone
inevitabilmente
con
le
parole
di
un
giovane
111
rientrante, con la sua famiglia ritornato a vivere a Srebrenica:
"Ora conta sempre di più il nazionalismo. Gli altri? Se li incontri è
meglio non guardarli ed è meglio che loro non guardino te.
Funziona così, torni a casa e ti chiudi la porta dietro” o con quelle
di una donna che racconta che ha ancora paura che Mladić e
Karadžić scendano dai boschi dove si nascondono e che accada
nuovamente qualcosa di terribile.
A Cry from the Grave (1999), è un importante documentario di
novanta minuti diretto da Leslie Woodhead, che ha il merito di
essere stati tra i primi a livello internazionale ad aver denunciato
l’orrenda carneficina, fornendo un’articolata ricostruzione dei
fatti. La pellicola è arricchita da testimonianze di chi si trovava
sul posto in quei terribili giorni, dai sopravvissuti ai soldati serbi,
dalle vittime ai mediatori di pace. Di fronte alle immagini del
genocidio e le testimonianze sorgono diverse domande: Come è
stato possibile questo genocidio? Cosa hanno fatto le truppe
dell'Onu a difesa dell'enclave? Cosa dovrebbe fare la comunità
internazionale nei confronti di questo eccidio? Può l'orrore di
questi
crimini
essere
dimenticato
in
qualche
maniera
dai
sopravvisssuti? Il film, prodotto dalla BBC, ha vinto il prestigioso
Special Jury Award all' “Amsterdam International Documentary
Film Festival”.
In occasione del decennale sono stati realizzati vari film sul
dramma della città bosniaca. Il cielo sopra Srebrenica (2005) di
Marco Della Croce e Ciro Cortellessa ripercorre la tragica vicenda
di Srebrenica, dall'assedio alla caduta, dalle esecuzioni sommarie
alle fosse comuni, visitando la città a dieci anni di distanza dai
quei giorni maledetti. Mimmo Lombezzi, giornalista e reporter, è
l’autore di 10 anni dopo: Bosnia: la vergogna d’Europa, una
testimonianza a due voci. Una musulmana di Focha torna a
rivedere l’edificio dove fu violentata e venduta come schiava
112
sessuale per mesi. Un serbo di Pasaric ci mostra il lager dove ha
vissuto tutto il tempo della guerra.
Srebrenica, voci dall’oblio
(2004) è invece il progetto audiovisivo di Luca Rosini, Alberto
Bougleux e Roberta Biagiarelli, in ricordo del massacro; i primi
due già giovani autori di Thank you people of Japan (2002) su
Mostar, Biagiarelli aveva precedentemente curato lo spettacolo
teatrale A come Srebrenica.
3.7 Gli altri film
Predrag Antonijević, originario della Jugoslavia, ma residente
negli Stati Uniti è regista di Savior (1998), ambientato durante il
conflitto bosniaco. Protagonista del film è un ufficiale americano,
che dopo aver perso moglie e figlio in un attentato di
fondamentalisti islamici a Parigi, decide di arruolarsi nella legione
straniera e sei anni dopo diventa cecchino dei serbi, per
combattere i musulmani. L’incontro con Vera, una giovane donna
incinta a causa di uno stupro etnico da parte di soldati bosniaci
musulmani,
lo
cambieranno
radicalmente,
risvegliando
quell’umanità assopita nei meandri dell’odio.
Peacemaker (1997), produzione hollywoodiana diretta Mimi
Leder, è un thriller fantapolitico dignitoso che però sfrutta
pretestuosamente la guerra in Bosnia.In Russia avviene il furto
nove testate da vendere in Iran. La reazione degli Stati Uniti è
efficiente, ma vengono recuperati soltanto otto ordigni. Il nono
arriva in Bosnia e di lì con valigia diplomatica a New York per un
attentato alla sede dell'Onu, la porta un bosniaco reso folle dalla
morte dei suoi cari, come protesta contro chi ha tollerato e a
tratti favorito la guerra nella ex Jugoslavia.
113
Liberamente ispirato a La guerra in casa80 di Luca Rastello è
Oltre confine (2002) del regista italo-svizzero Rolando Colla che
racconta la storia di un profugo bosniaco, che si prende cura di
un reduce italiano della seconda guerra mondiale. La figlia
dell’anziano coinvolta e stupita da questo comportamento,
comincia a indagare sul suo passato finché decide di partire per
la Bosnia. Nel corso del suo viaggio, in un paese dilaniato dal
conflitto, inizia ad esplorare il trauma rimosso della guerra.
Girato con un approccio semi-documentaristico è sicuramente
più riuscito nella parte bosniaca che non in quella italiana. Due
anni dopo esce Nema problema di Giancarlo Bocchi (che verrà
approfondito
in
un
capitolo
successivo),
protagonisti
due
giornalisti molto diversi tra loro.
Concludiamo con i film documentari. Calling the ghosts (1996) di
Mandy Jacobson e Karmen Jelincić pone l’attenzione sulla
violenza alle donne durante la guerra portando sugli schermi la
storia di Jadranka Cigelj and Nusreta Sivać, sopravvissute al
terribile campo di concentramento serbo di Omarska. Entrambe
musulmane (anche se sappiamo che nell’ex Jugoslavia la
religione era un fattore secondario), amiche fin dall’infanzia,
donne moderne e colte, vivevano e lavoravano a Prjedor fino al
1992. Nella primavera di quell’anno furono deportate al vicino
campo di detenzione Omarska e qui violentate e torturate,
assistendo successivamente ai ripetuti crimini nei confronti dei
prigionieri. Riuscirono a salvarsi, a differenza di molti altri, e
sono diventate testimoni di quelle atrocità. Anche grazie al film,
il Tribunale Internazionale dell’Aja ha definito nel ’96 la violenza
sessuale (sistematicamente operata dalla pulizia etnica delle
varie fazioni in guerra) come crimine contro l’umanità. Anche
Picture me an enemy (2003) di Nathalie Applewhite intreccia, su
80
Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi, Torino 1998.
114
un piano diverso, le storie intime di due giovani donne: Natasa,
serbo-croata e Tahja, bosniaco musulmana. La vulgata popolare
ma anche le semplificazioni mediatiche e politiche le vorrebbero
“nemiche” da lunga data. Le due protagoniste del film smontano
invece l’idea di una guerra etnico-religiosa, sottolineando come
la figura del “nemico” sia stata costruita artificialmente e
strumentalmente nel periodo precedente e durante il conflitto. Il
documentario è un ritratto sincero di due giovani donne che con
sensibilità e un inaspettato humour raccontano le proprie storie e
impressioni:
hanno
le
stesse
paure,
speranze
e
sogni.
Spingendosi oltre le diversità nazionali individuano le questioni
universali riguardanti la guerra e la pace.
Linea di confine (2000) scritto e diretto da Davide Ferrario, è
stato realizzato in occasione dei live che il gruppo rock Csi tenne
a Mostar nel giugno del 1998. Coadiuvato da una piccola troupe
Ferrario ha seguito per più di una settimana l’avventurosa storia
dei concerti e scoperto la città e i suoi abitanti. Mostar ha subito
danni enormi agli edifici e alle infrastrutture (è stato fatto saltare
il celebre ponte sulla Neretva, recentemente ricostruito), ma
soprattutto all’anima della città, divisa in due: musulmani a est e
croati a ovest. I Csi hanno voluto tenere due concerti, uno nella
parte occidentale ed uno in quella orientale, e, dopo numerose
peripezie dovute alle avverse condizioni metereologiche e ad una
serie di problemi politici, ci sono riusciti.
Il giovane film-maker Evan Friedman ha girato, infine, nel
dicembre del 2001 Leaving Tuzla. Se durante la guerra i cittadini
di Tuzla scelsero di vivere uniti piuttosto che vedere la loro città
divisa
da
linee
etniche,
nel
dopoguerra,
la
straordinaria
convivenza di Tuzla ha incominciato a sgretolarsi e l’unica
possibilità per i giovani di avere un futuro, è lasciare la propria
115
città, come capita ad un gruppo musicisti su cui è incentrato il
documentario.
4 B ELGRADO
E LA
S ERBIA
Belgrado, seppur sia stata colpita solo in parte direttamente dalla
guerra, la vive intensamente per tutti gli anni di conflitto. Ne
subisce i riflessi, sconta un isolamento internazionale, patisce un
governo autoritario, affronta l’arrivo in massa dei profughi dalle
zone di guerra, fino ai bombardamenti veri e propri del 1999 da
parte del contingente Nato. E’ una città cosmopolita che durante
gli anni della guerra ha cambiato volto, che ha vissuto uno stato
di inquietudine e una situazione di pressante confusione ed è
divenuta per molti uno “state of mind”81, in cui è presente
l’assillante dilemma se restare o partire.
4.1 La polveriera: Belgrade as state of mind
Il film che meglio interpreta questa condizione, l’inquietudine e il
malessere dei cittadini belgradesi, è La polveriera (Bure Baruta,
1998) di Goran Paskaljević. E lo fa attraverso una grande
metafora. Ambientato a Belgrado nel 1995 poco prima degli
accordi di Dayton (novembre ’95) intreccia casualmente in una
sola
notte
storie
individuali,
colme
di
rabbia,
follia
e
disperazione, incorniciate da un numero di cabaret. “I feel that it
81
D.Iordanova, Cinema of flames, cit., p.266.
116
is now my turn to show the current state of mind of my
people”82, spiegò il regista.
Paskaljević nato nel 1947 a Belgrado fa parte della generazione
dei cosiddetti “ragazzi di Praga”, che segue l’ “Onda nera”,
insieme a lui infatti si possono ricordare: Goran Marković e
Sdrjan Karanović, anche loro serbi, e Lordan Zafranović e Rajko
Grli, croati. Tutti studenti della prestigiosa Famu; pochi anni
dopo li avrebbero seguiti Emir Kusturica e il suo futuro direttore
della fotografia, lo sloveno Vilko Filać.
Tratto dalla pièce Bure Baruta del giovane autore macedone
Dejan Dukowski, che l'ha adattata con Paskaljević, Filip David e
Zoran Andrić, La polveriera - come si è detto - si sviluppa
all’interno di una cornice: un monologo di cabaret, che rimanda
all’origine teatrale, ma qui assume sfumature precise. Il volto di
Boris è pesantemente truccato, i fasci di luce sono radenti, la
recitazione sopra le righe, il linguaggio risulta provocatorio e
sentenzioso,
tutto
ciò
rimanda
ai
caratteri
tipici
dell’espressionismo tedesco e alle sue riletture successive. Tra
queste Paskaljević dice di essersi ispirato a Cabaret
(1972) di
Bob Fosse, per alcune analogie tra il clima dell’ultimo periodo
della Repubblica di Weimar (il film di Fosse è ambientato nel
1931, dove affiorano i prodromi del nazismo) e quello della
Serbia degli anni ‘9083.
L’attore del cabaret, che non può che chiamarsi Balkan, annuncia
all’inizio del film e contemporaneamente del suo spettacolo, che
ne vedremo delle belle.
82
Ivi, cit. p. 269.
Paskaljević motivò la sua ispirazione sostenendo che “l’atmosfera che si respira oggi a
Belgrado è quella di un paese in rapida evoluzioni verso forme di fascismo o di
nazionalcomunismo quindi assimilabile alla Germania di Weimar”. P.Vecchi, Kusturica,
Paskaliević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo, in G.Elisa Bussi e Patrick
Leach (a cura di), Schermi della dispersione, cinema, storia e identità nazionale, Lindau,
Torino, 2003, p. 316.
83
117
Si apre così un articolato ritratto notturno di Belgrado con un
pullulare di personaggi apparentemente isolati in un singolo
nucleo narrativo dei quali via via si chiariscono i rapporti. I titoli
di testa scorrono su una lunga inquadratura ravvicinata, e in
movimento, dell’asfalto di una strada urbana, illuminata dai fari
di un taxi e ritmata dalla musica di Zoran Simjanović, storico
collaboratore di Paskaljević. Sul taxi si trova Manè, un emigrante
che torna a Belgrado per ritrovare la donna che ha amato,
Natalia, ma è troppo tardi, tutto è cambiato dalla sua partenza.
Incrociano per un attimo Alex, quanto basta perché la macchina
da presa sposti l’attenzione su di lui, un giovane senza patente
che tentando un maldestro approccio con una ragazza finisce
contro
un
maggiolino
e
viene
quasi
linciato
dal
padrone
dell’automobile, che finirà per sfasciargli la casa in cui vive con il
padre. Il taxista incontra in un’osteria, Dimitri, poliziotto invalido
per le percosse subite, e gli rivela sadicamente di essere lui il
misterioso aggressore; si era vendicato dopo essere stato a sua
volta massacrato di botte dal tutore dell’ordine. Sotto la doccia di
una palestra due vecchi amici pugili si confessano i reciproci
tradimenti, finché uno non uccide l’altro e fugge su un treno,
dove, dopo aver insidiato una giovane donna vedova, si fa
saltare in aria insieme a lei, tirando la linguetta della bomba a
mano, ricordo del marito della donna, deceduto in guerra. Un
giovane arrabbiato s'impadronisce della guida di un autobus,
fermo al capolinea, mentre l’autista, un anziano professore
serbo-bosniaco (profugo di guerra) sta sorseggiando un caffè. Il
viaggio, in cui terrorizza i passeggeri, non ha lunga durata,
perché il pullman sbatte contro un contenitore della spazzatura e
poco dopo il “dirottatore” viene ucciso dall’autista, che poi
sembra
pentirsi
dell’accaduto.
Ana,
una
dei
sequestrati
sull’autobus litiga col fidanzato, morbosamente geloso, dopo che
118
gli ha rivelato di aver subito pesanti attenzioni dal giovane
squilibrato che si era impossessato del mezzo. I due vengono
rapiti dal figlio dell’autista del bus e da Topi, un losco criminale
ex-sessantottino, che violenta la ragazza davanti agli occhi del
compagno a cui obbliga di intonare un canzone patriottica. I
fidanzati riescono a liberarsi dall’aguzzino e anche il giovane
scappa, ma viene scambiato per un ladro di benzina e lapidato
durante la sua fuga. Attorno a lui le macchine prendono fuoco,
nell’ultima al quanto profetica esplosione.
E’ solo una sintesi del mosaico di distruzione, violenza e morte
che Paskaljević mette in scena, costruendo una struttura che lui
stesso ha definito “sinfonica”84 e che può ricordare America Oggi
(1993) di Robert Altman. Ma è lo stesso regista a marcare le
differenze: “Volevo parlare del modo in cui i piccoli destini di
ciascuno si incrociano. Il mio destino influenza il vostro e così di
seguito. E nessuno può sfuggire a questa spirale di violenza.
Questa costruzione è molto desueta. In America Oggi i destini
sono paralleli e non sono davvero riuniti che alla fine, dal
terremoto”85.
Come ha scritto lucidamente Paolo Vecchi “ogni individuo a
Belgrado è una carica pronta a esplodere alla minima scintilla”86.
Paskaljević sosteneva appunto commentando il film, quando
uscì, poco prima dello scoppio della “guerra vera” in Kosovo e a
Belgrado, che “oggi in Serbia ogni singola persona è una
polveriera”87, ricollegandosi così alla metafora che sottende il
film. I personaggi commettono insensate violenze, quasi rapiti da
un destino tragico e a turno possono diventare vittime e
carnefici. Le ideologie sono diventate brutali caricature di se
84
N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, in Nexus, 2003, p.20.
P.Vecchi, Belgrado, viaggio al termine della notte, in “Cineforum”, n.384.
86
P.Vecchi, Kusturica, Paskaliević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo, cit.,
p.316.
87
Ibidem
85
119
stesse, la morale si è ribaltata e prevale la biblica legge del
taglione e in pochi conservano un barlume di umanità. L’autore
non esprime giudizi morali, il suo sguardo è, sia esso fenomenico
sulla realtà contemporanea o metaforico, partecipe alla tragedia
che vive il suo popolo. “Non sono colpevole” urla il ragazzo
bosniaco sulla grata metallica mentre tenta di fuggire dal lancio
delle pietre88. “E’ colpa mia?” ripete ossessivamente il fidanzato
geloso; “Di che è la colpa?” domanda Manè a Natalia. Diviene il
refrain degli episodi finali. Delinea così l’identità di un paese
distrutto anche nell’anima.
Emerge una visione mitico-fatalistica della storia dei Balcani,
risucchiata periodicamente da guerre intestine, un dato comune
rispetto ad altre opere incentrate sul conflitto jugoslavo. Ciò non
fa comunque perdere a Paskaljević, da fiero oppositore del
regime di Milošević qual era, un approccio critico nei confronti
della
contemporaneità,
delle
conseguenze
di
un
becero
nazionalismo sulla società e alla corruzione che dilaga tra i
politici. La guerra intesa allora come destino, che può assurgere
a
simbolo
di
una
tragedia
universale,
ma
che
calza
perfettamente per i Balcani. E’ una visione che però non affronta
nel profondo i complessi problemi che hanno scatenato la guerra,
siano essi economici, politici e sociali89.
I numerosi protagonisti della pellicola si muovono dal centro alla
periferia della città e il film acquisisce a tratti la forma di un
road-movie circolare. Il vagare del taxi per le vie notturne di
Belgrado è un collante tra le diverse storie, diventa il file rouge
del film; l’inquadratura chiave della striscia divisoria dell’asfalto,
illuminata dai fari del taxi, è un elemento di stacco e continuità
88
Analizzando il film, Nevena Daković afferma, riferendosi ai personaggi (e a tutti noi):
“They (and we) to be accomplices of some sort as no one could stay with the ‘clean
hands’. The character in the last story cries, ‘I’m innocent’ yet he dies in the explosion” in
Cineatic Balkans/Balkan Genre, p.22.
89
Ivi, cit., p.21
120
nel corso del lungometraggio. Questa circolarità si riflette sulla
struttura narrativa del testo filmico: l’incastro continuo e la
sovrapposizione
dei
diversi
frammenti
di
racconto
compromettono una percezione lineare del tempo, venendo così
a
creare
una
metafora
sulla
“storia
ciclica”
dei
Balcani,
compressa nel film in meno di ventiquattro ore, che risponde
ancora una volta a quella concezione in un certo senso mitica
della storia jugoslava.
Ne La polveriera non c'è una vicenda predominante, ma
un'angoscia
incombente
che
pervade
ogni
personaggio,
situazione, inquadratura. La tensione viene allentata in alcuni
momenti dal registro dell’ironia, che si tinge di grottesco e di
sarcasmo. La cornice del cabaret assurge, appunto, ad una
funzione di distacco ironico dalla tensione delle vicende e anche
la veloce apparizione di una banda itinerante zigana che segue, a
ritmo
di
musica,
due
giovani
sposi
prima
che
salgano
sull’autobus che verrà dirottato. “Nelle situazioni disperate il riso
è l’ultima difesa” ha dichiarato il regista90.
Con la figura di Mané, l’emigrante, Paskaljević affronta uno degli
elementi caratteristici di quello che Iordanova ha definito uno
“state of mind” di Belgrado: il dilemma se stare o rimanere in
Jugoslavia durante della guerra, che ha pervaso molti intellettuali
e non solo, e il trauma degli esuli al loro ritorno. Mané è forse un
alter ego di Paskaljević che ha vissuto per un lungo periodo a
Parigi, durante gli anni del conflitto. Al suo ritorno a Belgrado,
dopo cinque anni all’estero, ritrova una società sconvolta dalla
sua stessa follia. Boris l’attore del cabaret gli confessa di aver
sbagliato a rimanere e Manè a ritornare. Cerca di riconquistare
Natalia, che ora ha un nuovo compagno, che lo ucciderà con una
90
P.Vecchi, Kusturica, Paskaliević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo, cit.
p.316.
121
badilata alla fine della notte. Quella di Mané è l’unica morte
“surreale” del film.
Il personaggio dell’emigrante di ritorno è
interpretato da Miki Manojlović, Marko in Underground; ma tutto
il cast è assolutamente degno di nota, citiamo tra gli altri Lazar
Ristovski (il pugile omicida), già il Nero, Petar Popara, nel film di
Kusturica.
La polveriera è sostenuto da un’accurata sceneggiatura che
affronta, anche con crudezza estrema, problematiche sociali
presenti nella Belgrado di metà anni Novanta. Oltre al dibattito
sull’emigrare o meno, analizza anche il fenomeno dei profughi
dalla Bosnia e la loro difficile integrazione nella metropoli
jugoslava; vivere a Belgrado assurge, inoltre, quasi a condizione
metafisica di quel periodo: “Non c'è più luce in questo paese,
solo quella dei ceri delle chiese” dice Boris a Manè, in una scena
che racchiude diversi significati politici. Paskaljević racconta il
suo paese e i suoi abitanti, mescola simboli, tematiche sociali,
metafore, realismo (in abbondanza), leggende e storia, prosegue
così la sua poetica tesa a registrare i moti dell’animo, iniziata a
metà anni settanta con Il bagnino d’inverno (1976). Interessante
è la sequenza dell’autobus in cui emergono elementi simbolici e
storici: il torpore che avvolge i passeggeri, dal quale il giovane
cerca
di
svegliarli
istericamente,
è
quello
di
un
popolo
addormentato dal fatalismo; la mancanza di memoria e il rischio
di una nuova guerra (“Nessuno ricorda niente…avete bisogno di
un’altra guerra”, urla il ragazzo); il richiamo alla battaglia di
Kosovo Poje (1389); la corsa impazzita del pullman è una
discesa verso il baratro.
La polveriera conferma come ragionare di Storia al cinema
significhi anche riflettere sulla realtà sociale contemporanea, sui
suoi conflitti pubblici e privati, sulla rappresentazione dei drammi
individuali e collettivi. La guerra e il suo carico d’odio, pur non
122
rappresentati direttamente, pervadono tutto il film; oltre che dai
dialoghi, il conflitto entra esplicitamente solo tramite la radio e le
cronache sull’intensificarsi della violenza in Kosovo e sull’avvio
delle trattative di pace. Ricordiamo infatti che è ambientato
appena prima dell’accordo di Dayton (21 novembre ’95).
“Bure Baruta (il titolo originale de La polveriera) ci racconta della
realtà jugoslava, dei suoi foschi scenari, della sua disperazione,
molto di più dei freddi resoconti di guerra; ci racconta del
conflitto ‘prima’ del conflitto”91.
Succede a volte che il cinema anticipi la storia, infatti, uno dei
nodi centrali dell’ultima ricerca di Pierre Sorlin analizza i casi in
cui la rappresentazione precede l’evento92. L’esplosione finale,
mentre il giovane bosniaco fugge dai suoi nuovi aguzzini e le
macchine cosparse di benzina incominciano ad incendiarsi,
prefigura la guerra che pochi mesi dopo l’uscita del film si
sarebbe scatenata nella realtà, in Kosovo e in Serbia.
4.2 I giovani registi e la generazione dei “ragazzi di
Praga”
Oltre a La polveriera, altri film mettono in scena lo “state of
mind” che pervade i cittadini di Belgrado. Negli anni novanta la
capitale jugoslava cambia profondamente volto. Subisce sia una
marcata emigrazione che un’altrettanto numerosa immigrazione.
Il regista Goran Markovic parla, riferendosi al 1995, di 400 mila
belgradesi che hanno lasciato la città, su una popolazione di poco
superiore al milione di abitanti, e dell’arrivo di un numero quasi
uguale di serbi dalle zone di conflitto della “Grande Serbia”
(territori della Bosnia e della Croazia)93.
91
Vito Zagarrio, Una ‘polveriera’. Il cinema contemporaneo e la storia., in “Passato e
presente”, a.XVIII (2000), n.50.
92
Cfr. Pierre Sorlin, L’immagine e l’evento, Paravia Scriptorium, Torino, 1999, p.145.
93
Cfr. D.Iordanova, Cinema of flames, cit., p.266.
123
“The ‘stay or leave’ dilemma is equally pressing for those
trapped in Belgrade”94, ha scritto Iordanova a proposito della
condizione di vita e mentale che opprimeva gli abitanti della
metropoli. Rimanere o lasciare Belgrado comportava pro e
contro. Per chi lasciava la città, poteva significare dover
ricominciare una vita da capo. Per coloro che restavano, la
situazione era ancora più complessa, oltre a subire altrettanta
pressione, stare a Belgrado significava accettare l’isolamento
internazionale, fare i conti con una città che non si riconosceva
più, invasa oltre che dai profughi, anche dai profittatori di
guerra, rischiare di essere associati al potere autoritario, vedere,
e vivere sulla propria pelle, il radicalizzarsi del nazionalismo in un
luogo che si considerava aperto e invece si ritrova imbarbarito. E’
uno stato di alienazione e di depressione che coinvolge molti
cittadini della capitale ed emerge nelle opere di diversi autori
cinematografici.
In parte riuscirà a conservarsi – come vedremo - quella vivacità
culturale
che
ha
sempre
contraddistinto
Belgrado,
magari
nascosta nei meandri o nei sotterranei della città. Lo dimostra
infatti il fervore della cinematografia serba che si sviluppò
soprattutto dalla metà degli anni Novanta. Sarà casuale, ma è un
tratto che ricorre spesso nel corso della storia, quello che le
espressioni artistiche e intellettuali traggano nuova ispirazione e
ricerca culturale dalle situazioni critiche della Storia. Così
successe in Serbia, governata per tutto lo scorso decennio da un
governo autoritario ed aggressivo, dove fermentò una cultura di
contestazione ricca e vivace.
Tra quelli che rimangono, la desolazione di Belgrado, diventa uno
stato
della
mente,
che
qualcuno
chiama
“Ghetto”,
altri
“Zombietown”, diventando così il titolo di due documentari.
94
Ibidem
124
Ghetto è il film di due giovani film-makers, Mladen Maticevic e
Ivan Markov, prodotto da B92, la radio indipendente di Belgrado
che nel gennaio del 1997 guidò la contestazione a Milošević.
Girato nel 1996 è la prima opera che focalizza la propria
attenzione sulla scena artistica e culturale di Belgrado, durante il
periodo della guerra e delle sanzioni internazionali. Va alla
scoperta di quella comunità di giovani, artisti, intellettuali e
musicisti, che resiste, o meglio sopravvive, in un’epoca di
povertà spirituale e materiale, al degrado che ha colpito la
capitale jugoslava. La macchina da presa segue il percorso di un
giovane musicista, il batterista degli “Electric Orgasm”, che vaga
per la vie della città, in un’intera giornata. Incontra musicisti
rock, fotografi, artisti, che nei sotterranei della città provano,
fanno
concerti,
organizzano
mostre
e
mettono
in
scena
performance teatrali. Qui si rifugia l’anima cosmopolita della
città. In superficie divampa la volgarità: per le strade trovi
degenerati e criminali, nazionalisti invasati e profittatori di guerra
affini al potere; persone venute soprattutto da fuori, che hanno
conquistato la città, spogliandola dell’anima dei suoi abitanti.
"Questa Belgrado non ha più niente a che vedere con la capitale
della vecchia Jugoslavia" racconta la voce-over, mentre il
protagonista del documentario scende nei sotterranei. Il corpo
estraneo e rozzo che ha invaso la città, ha cacciato l'elemento
urbano, cittadino, autentico e civilizzato di Belgrado in un
“ghetto” sotterraneo, dove conduce una battaglia eroica per
assicurarsi la semplice sopravvivenza. L’esperienza del giovane
musicista,
le
interviste
raccolte
tra
artisti
e
intellettuali
belgradesi, profondamente critiche nei confronti della politica del
regime, testimoniano
un senso di frustrazione e di delusione
generale.
125
Zombietown
(1995)
è
il
documentario
di
Mark
J.Hawker,
coproduzione jugoslava e inglese, che ha come protagonisti i
deejay della radio B92, i quali hanno fatto una scelta coraggiosa.
Rimanere a Belgrado contro ogni circostanza e lottare per
rimanere sani di mente in mezzo alla follia del reale. Nel film,
sostenuto da una ricercata colonna sonora di musica rock,
Belgrado è descritta come grigia e disperata, tagliata fuori dal
mondo e dove ogni cosa può succedere95.
Questo stato di alienazione e follia si riflette anche in alcune
opere letterarie come nel racconto The Month of Dying (1996)
dello scrittore serbo Vladimir Arsenjević e pervade una serie di
film di giovani registi jugoslavi, che ricreano attraverso il cinema
questa atmosfera sconfortante che abbraccia tutta la Serbia degli
anni Novanta. I protagonisti delle loro storie sono i giovani di
quella generazione rovinata dal conflitto, in cui sono crescenti
sentimenti di disperazione e rabbia. Nel già citato Why Did You
Leave Me? (1992). Oleg Novković indaga i devastanti effetti della
guerra in un piccolo gruppo di amici a Belgrado, coinvolti nella
battaglia di Vukovar. Sono le vittime della cosiddetta “sindrome
di Vukovar”, raccontata in un capitolo del libro di Luca Rastello
La guerra in casa96, in cui viene evidenziato il tragico ritorno da
Vukovar per molti ragazzi di leva dell’Armata popolare, dopo
aver assistito alle torture commesse dalle milizie paramilitari
serbe.
Ispirato
ad
un
romanzo
popolare
di
Slobodan
Selenić97,
Premeditated murder (Ubistvo s predumisljanjem, 1996) di
Gorćin Stojanović, vincitore del primo premio al festival “Alpe
Adria” del '97, è un film che coniuga ricerca stilistica e analisi
storica, delineando un quadro lucido della società serba durante
95
Cfr.D.Iordanova, Cinema of Flames, cit., p. 267.
Luca Rastello, La guerra in casa, cit., p. 8.
97
Cfr.D.Iordanova, Cinema of Flames, cit., p.267.
96
126
l'ultimo
conflitto
balcanico.
La
rappresentazione
dell’amore
disperato tra la studentessa Jelena e il soldato Bogdan e
parallelamente
quella
l’aristocratica
nonna
collettiva
un
di
della
dolorosa
di
Jelena,
fanno
intero
popolo,
le
storia
rivivere
cui
due
di
la
Buika,
tragedia
"anime"
sono
simboleggiate rispettivamente da Jelena e Bogdan: la prima è
quella
della
Serbia
culturalmente
vivace
e
pacifica
degli
intellettuali e studenti moderni e polemici; la seconda è quella
della Serbia arcaica, con i suoi miti e antichi valori, e l’eroismo a
volte
fanatico
e
assurdo98.
Tramite
un
frequente
uso
di
flashback, il regista crea un rapporto dialogico tra passato e
presente e tra storia collettiva ed esperienza individuale. La
ragazza non riesce a convincere Bogdan a non ripartire per il
fronte come volontario, lui vuole vendicare la famiglia uccisa dai
croati e difendere la sua patria. Pian piano crescerà in lui la
consapevolezza dell'assurdità del suo fanatismo, ma neppure tale
consapevolezza riuscirà a sottrarlo al suo destino: morirà sul
campo di battaglia.
Al centro del terzo lungometraggio di Srdjan Dragojević, The
Wounds (Rane, 1998), ci sono due adolescenti. Collocato a
Belgrado negli anni del completo disordine dal 1991 al 1996,
racconta l’ingresso nel mondo del crimine di due ragazzi, Pinki e
Svalba. Sullo sfondo si situano le vicende politiche della
Jugoslavia. Gli idoli dei due giovani sono i balordi del quartiere,
ma soprattutto gli ospiti del talk show televisivo “Pulse of the
asphalt”, dove i criminali più feroci del paese condividono le loro
storie con gli autori e il pubblico. I due provano a partecipare alla
trasmissione commettendo crimini reali, sprofondando da quel
momento nella follia totale. Alla prima persona uccisa, nel ’93,
arrivano
98
le
telecamere
della
trasmissione
guidate
Cfr. Luciano Drobilovic, Il diverso e il nuovo nel cinema balcanico, in “Fucine Mute”.
127
dall’affascinante presentatrice Lidija, che subito chiede ai due
diciassettenni di rendere più spettacolare e truce il loro omicidio,
prima di andare in onda. L’escalation di violenza prosegue per
alcuni anni, con il solito entusiasta seguito mediatico, fino alla
loro morte. Il film si conclude con il ritorno all’inquadratura
iniziale:
siamo
nel
1996,
Pinki
e
Svalba
attraversano
in
automobile una manifestazione popolare, tra le proteste della
gente. Sono diretti verso il cimitero, dove moriranno, uccisi dai
loro
stessi
proiettili.
La
vicenda
rappresentata
è,
infatti,
strutturata come un lungo flashback, dal ’91 in poi.
L’opera di Dragojević, che nel ’99 lascerà la Jugoslavia per gli
Stati
Uniti,
è
mossa
come
sempre
da
un
continuo
sperimentalismo stilistico-narrativo e da una lucida e tagliente
analisi dell’attualità socio-politica. Alcuni critici hanno rilevato
analogie tra The Wounds e Arancia meccanica (1971) di Kubrick
e L’odio (1995) di Kassovitz, o meglio con Natural Born Killer
(1994) di Oliver Stone. Ma se la polemica di Stone è rivolta al
modo irresponsabile con cui la società americana usa i media, la
tensione dissacratoria di Dragojević si esprime contro un regime
che strumentalizza i media, quello di Milošević. La struttura
narrativa multiforme ricca di flashback e di flashforward, crea
legami tra le vicende individuali dei personaggi e quelle
collettive. Il film testimonia, inoltre, il terribile impatto che hanno
avuto gli anni del conflitto su un’intera generazione.
“Wounds analyses the terrible impact of modern-day Serbian
politics on a whole generation that has been robbed of a future –
it chronicles the moral and ethical destruction as it manifests
itself in the lives of the two teenagers, as pure rage born of the
particular Serbian anomie,…inarticulate, directionless, blind”99.
99
D.Iordanova, Cinema of Flames, cit.p.268.
128
Se i giovani autori jugoslavi sono contraddistinti da un maggiore
interesse per il futuro già segnato e le vite smarrite degli
adolescenti o della loro generazione in Serbia, i registi del
“Gruppo di Praga” o affermatisi in quegli anni (metà anni
settanta), rappresentano invece il fatalismo, la passività e la
disperazione delle persone di mezza età, tutti elementi della
particolare sindrome, di cui abbiamo già discorso, “Belgrade as
state of mind”. I loro film riflettono un sentimento apocalittico e,
occasionalmente, anche una certa autocommiserazione, le stesse
emozioni che vivono molti cittadini della capitale. Ne è un
esempio Between Heaven and Hearth (Ni na nebu ni na zemlji,
1994) di Milos Radivojević, dove tre amici sono costretti ad
intraprendere azioni estreme, obbligati dalle difficili circostanze
della guerra, che li porteranno irrimediabilmente a dividersi.
Goran Marković100 in Burlesque Tragedy (Urnebesna tragedija,
1995) mette in scena un’altra metafora di questo “stato” che non
tocca solo Belgrado ma è estendibile ad altre realtà urbane della
Jugoslavia. Il regista si preoccupa di mostrare come nella
contemporanea Belgrado i tradizionali concetti di normalità e
follia
abbiano
incominciato
a
diventare
intercambiabili,
i
cosiddetti “normali” sono depressi e incapaci di agire, mentre i
“deviati” prosperano nel caos provocato dalla guerra, nei traffici
d’armi, droga e carburante. La trama del film intreccia più storie:
uno psichiatra che non è più in grado di curare i pazienti, un
libraio che incomincia a bere e a picchiare la moglie e un attore
che si spara nel bel mezzo della scena. La linea narrativa
principale è quella che racconta la chiusura forzata di un
ospedale psichiatrico di Belgrado, in cui i pazienti sono rimandati
a casa. Il film - come ha notato Iordanova – rimane troppo
100
Marković è inoltre l’autore del documentario Serbia anno zero (2001), in cui abbraccia
gli ultimi quindici anni di storia del suo paese.
129
criptico per essere compreso al di fuori della Jugoslavia. In
occidente è stato inteso come la cronaca della follia serba e non
come uno stato di insofferenza della popolazione belgradese,
venato
da
uno
“humour”
nero,
che
all’estero
pare
incomprensibile101. Un’altra pellicola, colta non in tutta la sua
interezza all’estero, è il coraggioso Marble Ass (1994) di Želimir
Žilnik, uno degli animatori dell’”Onda nera” degli anni Sessanta.
La guerra è anche a Belgrado, nonostante sia lontana dal fronte.
Merlyn e Sanela sono due travestiti, si oppongono a modo loro
alla forza brutale, dominante in quegli anni. Si prostituiscono con
i soldati di ritorno dalla battaglia, per proteggere le donne dalla
rabbia repressa dei soldati, fino all’arrivo di Johnny che rovescia
con violenza l’insolita routine.
L’unico film che è riuscito a comunicare al mondo esterno gli
effetti del malessere e della follia, causati dalla guerra, è, come
abbiamo visto, La polveriera. Goran Paskaljević è tornato a
raccontare la realtà del suo paese nel 2004 con Sogno di una
notte di mezzo inverno. Lazar (interpretato da Lazar Ristovski),
torna nell’inverno del 2004, nel suo villaggio dopo dieci anni di
carcere per aver disertato. La casa è occupata da Jasna, una
rifugiata bosniaca, e da sua figlia dodicenne autistica, Jovana.
Non ha il coraggio di mandarle via e tra loro si instaura un forte
legame, ciascuno porta con sé un bagaglio di dolore ed
emarginazione. Nel dramma di una bimba autistica il regista
ricrea la metafora di un paese: “Sentivo l’urgenza di raccontare
lo stato d’animo che si avverte oggi in Serbia, che come la
bambina autistica, vive in una sorta di autismo sociale, una
chiusura al mondo esterno, un caos dominato da sentimenti
violenti, da una parte la voglia di andare avanti, dall’altra la
permanenza di un odio mai spento. Ma forse è normale, la
101
D.Iordanova, Cinema of Flames, cit.p.268.
130
Germania ci ha messo vent’anni a curarsi le ferite della guerra e
a fare i conti con il passato”102, ha dichiarato Paskaljević.
Tra gli autori della sua generazione, anche Sdrjan Karanović
analizza la Serbia contemporanea con Sguardi d'amore (Sjaj u
ocima, 2003) presentato alla Mostra del cinema di Venezia. Si
differenzia dagli altri, disegnando una commedia surreale, dai
toni agrodolci, il cui principale riferimento è René Clair, a cui lo
stesso regista ha dedicato il film. In una Belgrado in stato
d’assedio, nella metà degli anni ’90, Labud, studente giunto nella
capitale a seguito dell'ondata di profughi, conosce Romana, una
ragazza che proviene dall'altra parte della linea etnica. I due si
innamorano, ma nella loro storia si intromettono gli spiriti del
passato, che interferiscono con la vita reale e fanno di tutto per
separarli.
Belgrado è, inoltre, location fondamentale de Il disertore (1992)
di Pavlović e di Underground (1995) di Kusturica, opere
affrontate approfonditamente in altri capitoli. Da qui parte anche
il viaggio-documentario Super8 Stories (2001) di Emir Kusturica
in compagnia della sua rock band “No-Smoking”, in una
formazione in buona parte rinnovata rispetto agli esordi nei primi
anni Ottanta a Sarajevo.
4.3 Gli altri film
Di particolare interesse, all’interno della nuova cinematografia
serba, è il cortometraggio My Country (Moja domovina, 1997) di
Milos Radović, vincitore di diversi premi internazionali, che
concentra la propria narrazione attorno ad un passaggio a livello
ferroviario, nei pressi del quale si fermano un motociclista e un
carro trainato da un cavallo; presto scoppia una violenta baruffa,
in cui vengono coinvolti altri personaggi. Il regista introduce il
102
Maria Pia Fusco, La mia Serbia disperata, in “La Repubblica”, 7 gennaio 2005, p.48.
131
breve racconto cinematografico secondo gli stilemi del cinema
western, con una serie di campi lunghi su una campagna serba,
bruciata dal grano maturo, per soffermarsi poi su un luogo
ristretto
vicino
alla
ferrovia,
dove
sprigiona
la
sua
“balcanica” tra surreale e grottesco. Radović muove
vena
un’acuta
critica alla propria società, in un film senza dialoghi ma ricco di
suoni e rumori. La contemporanea presenza di antico (la
locomotiva a vapore; il capostazione con l'orologio da tasca, la
vecchia motocicletta e il carro trainato da un asino) e di moderno
(l'automobile
sportiva
superaccessoriata
e
il
suo
ricco
proprietario) produce uno scontro violento con esiti assurdi. My
Country è una riuscita rappresentazione, in forma allegorica, di
un disagio realmente esistente nella Serbia contemporanea. “E’
una commedia che riguarda alcuni tragici eventi capitati poche
settimane fa nella Serbia contemporanea. L’assurdo è uno stile di
vita
tipico
del
mio
paese”103
ha
affermato
l’autore.
Il
cortometraggio partecipò al “Torino film festival” del 1997,
vincendo il concorso, a cui due anni prima prese parte Goran
Radovanović con Columba Urbica (1995), ambientato nel 1994 a
Belgrado. Ai piedi di una fortezza medievale, nel centro della
capitale, Jasar vive in una baracca abusiva senza acqua e
elettricità. A causa di un’inflazione spaventosa, dovuta alla
guerra e all’embargo, il prezzo dei viveri è diventato insostenibile
e per i più deboli i bidoni dell’immondizia sono diventati l’unica
fonte di sussistenza e la lotta che si scatena attorno ai rifiuti
diventa ogni giorno più spietata. Jasar la perderà, ma non la
volontà di sopravvivere.
Erano le due e sei minuti quando, nella notte del 23 aprile del
’99, venne bombardato il palazzo della radiotelevisione serba di
Belgrado (Rts) dai missili Cruise della Nato, sotto le macerie
103
La dichiarazione è inserita all’interno del catalogo del Torino film festival del 1997.
132
furono ritrovati i corpi di sedici persone, tecnici e giornalisti
dell’emittente.
Sedicipersone
–
Le
parole
negate
del
bombardamento della Tv di Belgrado (2003), è il titolo del
documentario ideato e diretto da Corrado Veneziano, regista
televisivo
e
d’Amico,
con
teatrale,
la
nonché
consulenza
docente
giuridica
all’Accademia
di
Domenico
Silvio
Gallo,
magistrato presso il Tribunale Civile di Roma . Il film dà voce alle
vittime che quella notte erano di turno nel palazzo della tv, tutte
molto giovani. Lo fa intrecciando interviste, notizie, letture (come
quella di alcuni passi dei trattati internazionali) e immagini
inedite di quella tragica notte. Sono stati coinvolti nel progetto
giornalisti e operatori della Rai e i colleghi della tv di Belgrado,
insieme ad alcuni familiari delle vittime. Le loro parole e
testimonianze si sovrappongono nel ritmato montaggio del
documentario. “Due fronti contrapposti in una professione che
come quella del cinema unisce le frontiere, quella dei giornalisti,
dei tecnici, dei cineoperatori televisivi”104. In risposte brevi si
concentrano il ricordo dei fatti, il racconto del proprio lavoro e i
problemi relativi alla libertà ed autonomia dell’informazione.
Sugli
stessi
avvenimenti
si
è
soffermato
Anatomija
bola
(Anatomia del dolore, 2000) di Janko Baljak.
Ambientato proprio in quella drammatica primavera del ’99,
quando Belgrado fu bombardata, è Zemlja istine, ljubavi i
slobode (La terra della verità, dell’amore e della libertà, 2000),
lungometraggio di fiction, di Milutin Petrović. Girato all’epoca dei
cambiamenti politici in Serbia, la pellicola offre una visione
particolare del racconto sulla guerra, che a tratti si ricollega al
precedente “state of mind” belgradese e lo universalizza. Boris
giovane
tecnico
del
montaggio,
sopravvissuto
al
104
Silvana Silvestri, Le parole perduete della tv di Belgrado, in “Alias” (supplemento de “Il
Manfesto”) , 14 maggio 2005.
133
bombardamento, da parte della Nato, dell’edificio in cui aveva
sede la televisione di Stato, giunge in un ospedale psichiatrico,
trasferito in un rifugio anti-atomico senza elettricità. Il suo
compagno di stanza è il vecchio Nebojsa, ex comunista, che
porta dentro di sé il fardello delle centinaia esecuzioni commesse
sotto il regime di Tito, che l'hanno trasformato in una specie di
pazzo che immagina di essere un personaggio del film in bianco
e nero La spada miracolosa. Il regista Petrović e lo sceneggiatore
Sasa Radojević raccontano la follia come uno stato d’animo non
solo nazionale, ma anche del mondo intero che passa da una
guerra all’altra.
Un documentario interessante è Beograd-Bar (2003). Sul treno
che collega il Danubio all’Adriatico, appunto da Belgrado a Bar,
Vuk Janić documentarista di origine bosniaca, ascolta le persone
che viaggiano, studenti e lavoratori. Per scoprire una Jugoslavia
che non c’è più, lungo una strada ferrata che unisce, ma sulla
quale si scorgono i segnali di un allontanamento crescente.
Dusan Milić ha raccontato, infine, la Serbia post-bellica e il suo
difficile passaggio alla democrazia in fiction, con Jagoda: fragole
al supermarket (2003), caratterizzato da un mix di follia,
violenza, musica, humour nero e chiare influenze kusturiciane.
Nel film Marko, un ex componente dei reparti speciali irrompe, in
tuta mimetica, nel primo supermercato in stile “americano”
aperto a Belgrado, per far giustizia alla nonna, alla quale era
stata rifiutata una confezione di fragole. L'imprevista conclusione
di questo assedio serrato, comico e grottesco, sboccherà in una
storia d'amore, inaspettata quanto mai travolgente, tra la
spaurita Fragola (Jagoda), commessa del market, e il “devoto”
nipote, Marko.
134
5 L A M ACEDONIA
E IL
K OSOVO
Se percorriamo la Serbia in direzione meridionale incontriamo
una regione essenzialmente montuosa, ricca di miniere e fiumi,
che solo dieci anni fa conoscevamo a malapena. Si tratta del
Kosovo che sul finire degli anni Novanta catalizzò l’attenzione
internazionale, in vista dell’intervento militare della Nato, per
placare la pulizia etnica in atto da parte dei serbi nei confronti
degli albanesi. Una guerra che fu definita “umanitaria” e durò 78
giorni, a dispetto della settimana scarsa prevista dall’Alleanza
Atlantica, dai risvolti complessi e poco noti.
Pur facendo ancora parte della Serbia, la provincia autonoma è
attualmente amministrata dalle Nazioni Unite. Il Kosovo confina
a sud con la Macedonia, repubblica che ottenne l’indipendenza
dall’ex-Jugoslavia nel 1993 e fu solo marginalmente coinvolta
nelle guerre jugoslave (1991-1999), parzialmente dalla guerra
del Kosovo, quando fu invasa da oltre 300 mila profughi in fuga,
ma fu protagonista di un’ultima propaggine di conflitto che si
verificò nella primavera del 2001 e fece registrare intensi scontri
tra l’etnia macedone e quella albanese.
Riuniamo i due “teatri di guerra” non solo per vicinanza
geografica o per alcune affinità di carattere storico-culturale, ma
anche perché protagonisti di un fenomeno particolare nel
rapporto interagente tra cinema e storia. Negli anni Novanta la
Storia è tornata ad irrompere nell’immaginario cinematografico
contemporaneo, con un nuovo slancio e nuove variabili rispetto
agli anni Sessanta105. Parafrasando Baudrillard106, negli scambi
simbolici
all’interno
del
sistema
dei
media,
in
particolare
105
Cfr. V.Zagarrio, Una ‘polveriera’. Il cinema contemporaneo e la storia., in “Passato e
presente”, a.XVIII (2000), n.50.
106
Si veda Jean Baudrillar, Il delitto perfetto, Cortina, Milano, 1996 e Lo scambio
simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2002.
135
audiovisivi, nell’incontrollata e continua produzione e interazione
di immagini, nella rottura dei labili confini tra realtà e finzione,
possiamo scoprire come in alcuni casi il cinema anticipi la realtà.
E’ un passo ulteriore rispetto alla nozione del cinema come
agente di storia, elaborata da Marc Ferro107; la rappresentazione
paradossalmente precede l’evento. Nella maggior parte dei casi,
come ovvio, l’evento crea l’immagine, ma può anche accadere
l’inverso. Il rapporto tra le due dimensioni si rivela rinnovato e
forte di una nuova ambiguità: fin dove arriva il vero, fino a
quando possiamo parlare di immaginario? Pierre Sorlin, che ha
dedicato
un
libro
a
questa
problematica,
ha
scritto:
“Le
immagini, rappresentano il mondo e talvolta influiscono sulle
circostanze o suggeriscono un modo di interpretare gli eventi. In
una parola, esse elaborano l’evoluzione storica, “fanno” la storia,
dei giorni che corrono così come quella scritta dagli storici”108.
Succede allora che il film Sesso e Potere di Barry Levinson
(1997),
satira
sulla
manipolazione
mediatica,
diventi
improvvisamente realistico (se non addirittura quasi reale) con
l’intervento militare in Kosovo. In esso il presidente americano
viene coinvolto in uno scandalo sessuale, quando mancano due
settimane alle elezioni presidenziali. Prima che l'incidente possa
causare danni irreparabili per la rielezione, viene convocato alla
Casa Bianca, Conrad Brean (Robert De Niro), consulente esperto
di mass media a cui viene affidato il compito di spostare
l’attenzione dell'opinione pubblica verso un altro avvenimento.
Brean coinvolge abilmente il produttore hollywoodiano Stanley
Motss
(Dustin
Hoffman).
Costruiscono
mediaticamente
un’improbabile guerra contro l’Albania, a cui gli Usa non possono
sottrarsi. Vengono girati in studio falsi servizi di finti reporter,
107
108
M.Ferro, Cinema e Storia, cit.
P.Sorlin, L’immagine e l’evento, cit., p.145.
136
inviati al fronte, ed arrivano le prime vittime americane di
guerra. Un conflitto creato al computer, dove l’immagine di una
donna
disperata
ed
in
fuga
da
un
villaggio
bombardato
commuove le platee mondiali. Al di là delle marcate analogie con
il caso Monica Levinsky (che ha coinvolto il presidente Clinton), il
film,
che
offre
un’amara
riflessione
sulle
potenzialità
manipolatorie dei media, è diventato improvvisamente attuale
con l’avvento nell’immaginario collettivo dell’operazione della
Nato in Serbia. Se confrontiamo l’immagine “virtuale” della
donna con quelle “reali” e successive dei profughi del Kosovo,
assolutamente poco virtuali, che da lì a poco avrebbero invaso gli
schermi domestici di milioni di persone, rimaniamo spiazzati per
come il cinema avesse potuto anticipare la realtà dell’oggi.
Anche Prima della pioggia (1994) di Milcho Manchevski anticipa
in un certo senso, in via indiretta, le tensioni che si sarebbero
verificate tra macedoni e albanesi in Macedonia negli anni a
venire. La Macedonia considerata, fin dallo scoppio della guerre
jugoslave, come una prossima Bosnia, così la raccontano alcuni
documentari (What about Macedonia? del ’94 e Macedonia: the
next Bosnia? del ‘95), arrivò all’indipendenza (nel settembre del
1991), unica tra le repubbliche, senza spargimento di sangue. Il
suo riconoscimento internazionale venne però più tardi, dopo
lunghe trattative tra la fine del 1993 e il 1995, a causa dei veti
da parte della Grecia, che contestava l’uso del nome Macedonia,
già utilizzato da una propria regione, arrivando a promulgare un
embargo nei confronti della piccola repubblica. In Macedonia si
erano verificate tensioni interetniche nell’autunno del 1992, ma
non si respirava quel clima di pre-guerra civile, rappresentato dal
film di Manchevski, che prese invece forma, nel 1995 (con
l’attentato al presidente della Macedonia Kiro Gligorov) e poi
drasticamente nel 2001 con gli intensi scontri tra slavomacedoni,
137
etnia maggioritaria, e gli albanesi che già nel 1998 rivendicavano
lo status di “nazione fondatrice” della Macedonia. Il mese di
marzo del 2001 fece registrare intensi conflitti a fuoco tra la
polizia macedone e la neonata Uck locale.
Scrisse Manchevski: “Mi sentivo a disagio nel collocare uomini
con i mitra nel mio film: non ce n'erano in Macedonia a
quell'epoca. Mentre scrivevo la sceneggiatura, durante la preproduzione,
le
riprese
e
il
montaggio,
una
domanda
mi
perseguitava: sto davvero ritraendo la mia terra in uno specchio
deformante? [...] Dopo che alcuni spettatori - sia in patria che
all'estero - mi chiesero perché c'erano uomini con i mitra nel
film, dissi loro che Prima della pioggia non è un documentario,
che non oserei fare un documentario su un tema cosi complesso
come la guerra nei Balcani, che esiste tensione in Macedonia ma
non uomini col mitra. Il film è una metafora, la storia potrebbe
svolgersi in qualsiasi Paese (inclusi, ma non solo, la Bosnia,
l'Irlanda del Nord, la Russia o gli Usa) e dovrebbe servire da
avvertimento,
non
da
testimonianza.
Infatti,
il
massacro
bosniaco andava avanti, ma al di là delle montagne - in
Macedonia - non un solo proiettile veniva sparato”109.
5.1 Prima della Pioggia
Prima della pioggia (Before the Rain) è il primo lungometraggio
di Machenvski, regista macedone, che aveva abitato molti anni in
America, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel ’94. Il film a
struttura circolare, con numerosi rimandi interni, è diviso in tre
capitoli, ognuno con un titolo diverso: Parole, Volti e Immagini.
Tre episodi paralleli destinati tragicamente ad incrociarsi tra loro.
109
Milcho Manchevski, Balcani di sangue non posso più raccontarli, in “Corriere della
Sera”, 29 agosto 1997.
138
Nel primo capitolo, ambientato in Macedonia, Kiril, giovane
monaco ortodosso votato al silenzio, vive in un convento sulla
riva dell’incantevole lago di Ocrida, al confine con l’Albania. Una
sera scopre che nella sua cella si è nascosta Zamira, una ragazza
albanese, braccata da un gruppo di uomini macedoni armati:
l’accusano di aver ucciso un loro “fratello”. Per proteggerla Kiril
decide di fuggire insieme a lei nella notte e rompere il voto, le
promette di raggiungere Londra, dove vive suo zio, fotoreporter
affermato. Al mattino vengono raggiunti dai parenti albanesi di
Zamira, che uccidono la ragazza. In “Volti” siamo a Londra: una
donna inglese, Anne (Katrin Cartlidge), redattrice in un’agenzia,
si incontra con Aleksander (Rade Serbedzija), l’uomo con cui ha
una relazione. Aleksander è un famoso fotografo di origine
macedone, che ha appena vinto il premio Pulitzer ed è appena
tornato dalla Bosnia, sconvolto dalla guerra e da un rimorso:
pensa di aver ucciso qualcuno anche solo con lo scatto della
macchina fotografica. Vuole tornare in Macedonia, abbandonare
per un po’ il lavoro, e chiede alla donna di seguirlo. Anne è
combattuta, a Londra ha ancora il marito con cui i rapporti sono
ormai logorati. La sera in cui gli rivela di essere incinta e di voler
divorziare, nel ristorante in cui cenano, irrompe un uomo
armato, probabilmente un serbo, che spara nel mucchio e uccide
il marito. Nel terzo episodio Alekxander, tornato in Macedonia in
cerca di quiete, si trova coinvolto invece nel conflitto fra i suoi
parenti macedoni e i vicini albanesi. Vorrebbe incontrare la
donna che ha amato in gioventù, ma ogni contatto con gli
albanesi è pressoché impossibile. Il giorno successivo, scopre
che i suoi parenti tengono sequestrata la figlia della donna, che é
Zamira. Sceglie di proteggere la ragazza e subisce la vendetta
dei propri cugini.
139
E’ difficile stabilire un rapporto cronologico tra gli episodi, perché
le azioni, soprattutto tra il primo e il secondo, tendono
parzialmente a sovrapporsi e a non coincidere perché “il cerchio
non è rotondo”. Viene così messa in crisi la circolarità della
struttura attraverso quelli che lo stesso regista ha definito
“paradossi temporali”110, ovvero le varie incongruenze che si
verificano nel film, quasi degli slittamenti nella curvatura del
tempo, che impediscono alla vicenda di ripetersi esattamente
identica nel gorgo del divenire temporale. Se, come si intuisce
alla fine, il funerale del primo episodio è quello di Aleksander,
come fa lui stesso a fotografare il corpo inerme di Zamira?
L’immagine,
che
ritrae
la
morte
della
ragazza,
si
rivela
nuovamente ambigua, funge da immagine-affezione e condiziona
imprescindibilmente la rottura di quella circolarità degli eventi
che sembrava fatale e necessaria. Alexander, dunque, può, da
morto, fotografare il decesso di Zamira, mentre Anne può
ricevere una telefonata da Kiril, ma questi non aver ancora
assistito alla morte di Zamira, e ancora Anne può avere le foto di
Alexander seppure non sia ancora partito. “Tali paradossi
squarciano davvero la barriera del tempo non per definire
l''assurdo' ma, anzi, per aprire al 'possibile', per creare dei
varchi, delle uscite e delle soluzioni. Il cinema diventa in
Manchewski
l’infinita
ipotesi
da
scrivere
e
riscrivere,
ripercorrendola, rifacendola in un gioco continuo di dettagli - di
'parole', 'volti' e 'immagini', appunto -
che spostano, fanno
slittare gli esiti, sconfinandoli nell''altrove'” 111.
Più volte nel film ritorna il motivo dell’imperfezione del cerchio,
nelle parole dell’anziano monaco “Il tempo non muore, il cerchio
non è rotondo”; in una frase simile su un muro londinese o “Il
110
Cfr. Alberto Crespi, Prima della Pioggia, in “Cineforum”, n.338, 1994.
Cristina Boracchi, Tempo lineare e circolarità: a proposito di ‘Prima della pioggia’ di M.
Manchewski, in “Comunicazione filosofica”, n.13, Sfi, aprile 2004.
111
140
tempo non aspetta; il cerchio non è rotondo”, pronunciata da un
altro personaggio. La storia non si ripete o almeno non del tutto.
Forse conta più la successione che il riannodarsi delle immagini,
testimoniando
quello
spiraglio
di
speranza,
di
cui
parla
Manchevski, che si può intravedere nella drammaticità del film.
Se alla fine la ragazza corre verso il convento, corre verso la
salvezza, visto che il fotografo è morto e non potrà scattare la
foto. Ma il regista infonde ambiguità anche in questa sequenza.
Allo stesso tempo se è un messaggio di speranza, il non ripetersi
della storia (la ragazza morta nel primo episodio potrebbe non
essere uccisa nel terzo) può contenere un messaggio d’angoscia
mass-mediologica,
come
lo
definisce
Alberto
Crespi
con
l’accezione del dubbio: “Senza foto, non c’è la morte, perché ciò
che non è testimoniato, non documentato, non esiste?”112.
Nel suo alternarsi tra la Macedonia e Londra, Manchevski dà vita
a un film degli “opposti”. Il silenzio monacale opposto al
crepitare delle mitragliatrici; la Macedonia antica e ricca di storia
che si scontra con la Londra moderna e consumistica; un
fotografo specchio della realtà, in contrapposizione all’inesorabile
crudezza della vita. Ai contrasti che la pellicola crea nell’intricato
intreccio narrativo corrispondono altrettante unioni. Sia tra i
personaggi che vivono contemporaneamente in luoghi diversi e
distanti, fisicamente o con la propria immagine fotografata, sia
perché scopriamo gradualmente come i protagonisti del film
siano, tra loro, parenti o comunque strettamente legati: Kiril è
nipote di Aleksander; Zamira è figlia della donna che il fotografo
aveva amato. Si trovano, anche a loro insaputa, su fronti opposti
durante il conflitto interetnico, come spesso è accaduto in
Jugoslavia, dove si sono fronteggiati ex-vicini, abitanti degli
stessi villaggi.
112
Alberto Crespi, Prima della Pioggia, cit.
141
Manchevski con Prima della piogga ha sviluppato un proprio stile
registico, ricco di riferimenti cinematografici. Se l’inizio del primo
episodio potrebbe far pensare all’Infanzia di Ivan (1962) di
Tarkovski, bastano pochi minuti per smontare questa prima
influenza. La sequenza in cui Kiril entra in camera e scopre
Zamira dura un minuto in cui si condensano almeno quindici tagli
di montaggio, campi esasperati, tagli di luce sui primi piani. Al
mattino arrivano i miliziani macedoni alla ricerca della ragazza, in
un’atmosfera quasi western. Si delinea così un’importante fonte
ispirativa, Sam Peckinpah, a cui Manchevski è particolarmente
legato (come si è potuto notare, tra l’altro, nel suo secondo
lungometraggio, Dust). A parte la sequenza, di cui si è detto, il
primo episodio è scandito da un ritmo più lento, in cui si
alternano campi lunghi di paesaggi lunari a scene di sottesa
violenza, rispetto al secondo ambientato a Londra, caratterizzato
da un montaggio incalzante, affine al cinema contemporaneo
nord-americano. Anche in questo capitolo pare però di scorgere,
qualcosa di inconsueto, a proposito della sequenza del ristorante
con il dialogo tra Anne e il marito: “nella forza oscura che
raggiunge la coppia quella sera sembra di sentire la precisione
fantastica e geometrica del Kieslowski di Film Rosso”113.
Convivono in Manchevski due anime diverse in bilico e senza
ansie di equilibrio: una occidentale e l’altra est-europea, non
prive di contatti e contaminazioni. Un approccio “cosmopolita”
che rispecchia il suo essere e la sua vita, quella di un uomo che
si sforza “di vivere a Skopje e di lavorare a New York”114 come
lui stesso ha dichiarato. Di certo non può stupire, se scorriamo il
suo curriculum, come invece successe, anche positivamente, a
113
114
Paolo Taggi, Prima della pioggia, in “Segnocinema”, n.71, 1995.
Alberto Crespi, Prima della pioggia,.cit.
142
Venezia nel ‘94115. Manchevski ha, infatti, vissuto e lavorato
molto negli Stati Uniti, come regista di videoclip e pubblicità. Il
carattere cosmopolita dell’opera si manifesta inoltre nella babele
linguistica del film (macedone, albanese, inglese e francese) e
nella colonna sonora che spazia dai brani inediti degli Anastasia,
gruppo macedone che mescola folk tradizionale ed elettronica,
all’hip-hop
dei
newyorkesi
Beastie
Boys
(che
risuona
nel
walkman del miliziano macedone), da Lene Hovich, cantante
americana di origine jugoslava (“Home” è il pezzo che apre il
secondo
capitolo),
a
Bob
Dylan,
citato
esplicitamente
da
Aleksander, quando a due passi da un cimitero londinese
pronuncia: “A hard rain’s gonna fall” (titolo di una delle canzoni
più politiche del cantautore).
Gli episodi intrecciati tra loro in maniera “atemporale” ricordano
Mystery Train di Jim Jarmush (1989), e si ricollegano ad alcuni
stilemi stilistico-narrativi sviluppati dal cinema contemporaneo di
cui anche Manchevski può essere considerato uno degli autori più
interessanti: Pulp fiction (1994) di Tarantino non arrivò prima,
bensì lo stesso anno di Prima della Pioggia.
L’atemporalità
richiama, inoltre, nel film una dimensione mitica, che il regista
pone in dialogo critico e simbolico con il presente e la realtà.
Nel terzo episodio, che chiude e contemporaneamente riapre il
cerchio del tempo, Aleksander tornato in Macedonia, ritrova una
realtà che non gli appartiene, che non conosceva. Non ne poteva
più di sangue e di guerra, della Bosnia e di Londra, ma scopre
che l’odio fratricida non ha risparmiato la sua terra dimenticata.
Sono con buona probabilità presenti elementi autobiografici nella
costruzione del personaggio di Aleksander. Al suo ritorno il
fotoreporter non ritrova più le sue radici, spaesato, davanti ad
una situazione che non comprende, diventa apolide, lacerato da
115
Cfr. Tulio Kezich,, “Il Corriere della Sera”, 27 Ottobre 1994.
143
un senso di colpa per aver scattato le foto di una fucilazione,
dopo aver confessato ad un militare la sua frustrazione per
essere a corto di foto sensazionali. “Sta per piovere” solo le
ultime parole che pronuncia, guardando il cielo di nuvole nere,
un’immagine che ricorre frequentemente nel film, la cui diegesi si
svolge tutto prima della pioggia, tranne le ultime inquadrature.
Quando cade finalmente la pioggia, forse catartica, anche sul
volto di Zamira in fuga verso il monastero.
Passano sette anni prima che esca il secondo film di Manchevski.
Dust (2001), meno riuscito e più confuso dell’esordio, si muove
nel tempo e nello spazio ancora con maggiore disinvoltura: dal
2000 agli inizi del secolo scorso, dall’America alla Macedonia. A
New York, alle soglie del XXI secolo, il giovane ladro Edge trova
la padrona di casa Angela, con una pistola in mano. L'anziana
signora lo costringe ad ascoltare una vecchia storia, solo così
potrà ottenere le sue antiche monete d’oro. Il racconto di Angela
inizia nel selvaggio west, dove due fratelli sono innamorati della
stessa
donna,
che
però
sceglie
Elijah,
il
minore.
Luke,
amareggiato, decide allora di cambiare vita ed arriva in
Macedonia in un clima del tutto simile a quello appena lasciato,
anche qui domina la legge del più forte . Ben presto diventa uno
spietato mercenario e partecipa agli scontri sempre più cruenti
tra le numerose bande locali. Dust è un omaggio al cinema
western, creando il primo “eastern movie” ambientato nei
Balcani. Attraverso il racconto del passato e i suoi legami con il
presente ci parla della condizione umana e della futilità della
guerra.
La cinematografia macedone dopo l’exploit di Prima della Pioggia
è rimasta un po’ fuori dalla scena, ma in questi ultimi anni ha
nuovamente
presentato
opere
interessanti.
Teona
Strugar
Mitevska, dopo essere stata in concorso al “Torino film festival”
144
del 2001 con il cortometraggio Veta (2000), ha esordito con il
suo primo lungometraggio nel 2004, How I Killed a Saint. Il film
racconta il ritorno in patria di una giovane ragazza, Viola, che
dopo un lungo periodo vissuto negli Stati Uniti, decide di tornare
in Macedonia. Al suo arrivo, trova però povertà e subbuglio. Le
forze Nato non riescono a contenere le violenze e a placare
l’atmosfera di tensione in cui vive la gente. La situazione non è
diversa a casa di Viola: il fratello minore, Kokan aspira a
diventare un terrorista e viene invischiato in traffici criminali, i
genitori sembrano dimenticare il mondo esterno, e il nonno, exmilitante, passa tutto il tempo davanti alla televisione. Quando
Konan prepara il suo primo grande attacco, la vita dei due fratelli
cambia quasi completamente. Mitevska offre uno sguardo lucido
sull’instabilità del presente in Macedonia, che vive in una sorta di
limbo infernale tra guerra e infinito dopo-guerra.
5.2 Il Kosovo sul grande schermo: tra documentario e
fiction
Dalla Macedonia passiamo al Kosovo. Per quanto riguarda la
rappresentazione cinematografica del piccolo territorio balcanico
non abbiamo un film di richiamo internazionale. Tra le opere di
fiction si distinguono Kukumi (2005) e Vento di Terra (2004)
dell’italiano Vincenzo Marra.
Kukumi è l’ultimo lavoro del regista Isa Qosja, che ha regalato al
Kosovo il primo importante premio in un festival internazionale,
gran premio speciale della giuria al Sarajevo Film Festival.
Kukumi, ambientato nei mesi successivi al trattato di Kumanovo
(10 giugno ’99) che pose fine alla guerra in Kosovo, prende il
nome da uno dei tre protagonisti che lasciano un ospedale
psichiatrico abbandonato dopo l'ingresso delle truppe Nato nella
145
provincia serba. Kukum, Mara e Hasan si ritrovano a contatto
con quelli che ritenevano "liberi", ma non sono accettati e i
pregiudizi e gli odi di prima si ripetono. La libertà non è ciò che si
immaginavano. Attorno a loro la violenza giunge ad un culmine
insopportabile, Kukum muore accidentalmente e due dei tre
amici preferiscono far rientro in manicomio.
Il film è una metafora del buco nero del Kosovo odierno.
Attraverso tre esperienze personali Qosja racconta la storia
collettiva del suo paese: le tensioni tra serbi e albanesi, la
burocrazia delle Nazioni Unite, le truppe straniere stanziate nella
provincia; sono lo scenario in cui si muovono frastornati i tre
protagonisti, coscienti che soltanto essendo uniti tra loro
riusciranno a far fronte a un mondo così radicalmente cambiato.
“Tutto il film è una metafora. La libertà c'è quando si è in grado
di aiutare e capire l'altro"116 ha dichiarato Qosja, durante la
conferenza stampa seguita alla proiezione. Gli unici che lo hanno
compreso sono i tre amici, considerati malati di mente.
Vento di Terra (2004) è il secondo lungometraggio di Vincenzo
Marra, dopo l’ottimo esordio Tornando a casa (2001). Vincenzo è
un ragazzo napoletano vive con la famiglia nel difficile quartiere
Secondigliano. Dopo la morte del padre, per evitare lo sfratto
che lascerebbe l’anziana madre in mezzo alla strada, cerca un
lavoro che non trova, si arruola allora nell’aeronautica e viene
presto assegnato alla campagna militare in Kosovo, da dove
tornerà gravemente malato per colpa dell’uranio impoverito con
il quale è venuto a contatto. Marra sceglie un punto di vista
interno alla società che racconta, attraverso uno stile asciutto e
scarno, in cui la denuncia sociale si incrocia con lo spirito del
reporter. Fa propria una sensibilità vicina al neorealismo: gira
116
Enza Roberta Petrillo Il Kosovo
(www.peacereporter.net.), 30 agosto 2005.
in
un
film,
in
“Peacereporter”
146
esclusivamente in ambienti reali e si serve di attori professionisti
e non. Napoli è poi una città ritratta in presa diretta, con i suoi
rumori, suoni, emozioni e contraddizioni in primo piano.
“Nell´ammirevole misura dei novanta minuti, Marra mette in
scena i ‘paesaggi’ umani e sociali che un emarginato di oggi si
può trovare a percorrere: la periferia degradata, la caserma con i
suoi soprusi, gli enigmi incomprensibili di un dopoguerra lontano
e assurdo. Lo fa senza alcun compiacimento: il suo stile si è
persino prosciugato. Rispetto ai film ‘medi’, quello di Marra
sembra un architrave di film, un progetto in cui tutti gli orpelli
sono stati espunti”117.
Un altro film italiano ha raccontato il Kosovo: Radio West (2004)
di Alessandro Valori. Il titolo prende il nome dalla stazione radio
dei militari italiani in missione in Kosovo. Nella pellicola un
gruppo di soldati del contingente italiano della Kfor (International
Military Force in Kosovo), in missione di pace in Kosovo, affronta
quotidianamente lo scenario disgregato e violento di una guerra
che dovrebbe essere appena finita. Girato in digitale, forte di una
fotografia sgranata e traballante, il film affronta le esperienze
personali di tre soldati, i loro drammi. Al racconto oggettivo e
partecipe della realtà, si alternano così gli sguardi soggettivi dei
personaggi sul mondo e sulla guerra. La voce narrante del dj
della radio rimanda direttamente a Good Morning Vietnam
(1987) di Barry Levinson.
Un discorso a parte merita la fiction televisiva, prodotta dalla
Rai, Soldati di pace (2003) di Claudio Bonivento, che come Radio
West si sofferma sull’operazione di “peace keepking” che vede
impegnati i soldati italiani in Kosovo. Miniserie televisiva in due
puntate (andate in onda nel giugno del 2003), segue giorno per
117
Alberto Crespi, Soffia un duro ‘Vento di Terra’ nell’ottimo film di Marra, in “L’Unità”, 22
settembre 2004.
147
giorno, le vicende dei giovani militari che rischiano la vita sia per
la minaccia di attentati, sia per risanare zone minate, e allo
stesso tempo si impegnano a ricostruire una terra distrutta ad
aiutare la popolazione martoriata. Racconta in particolare la
storia del soldato Vittorio Di Blasi che con poca convinzione, e
per denaro, firma per andare in Kosovo; qui la sua vita cambierà
e ritroverà felicità, nonostante le angosce ed i problemi che
condivide con gli altri soldati. E’ stato girato quasi interamente in
Kosovo e in Bosnia, una piccola parte in Campania vicino a
Paestum. Retorico e buonista, Soldati di pace, si fa portatore di
un’interpretazione della storia politicamente corretta, con alcuni
elementi in un certo senso propagandistici, a proposito della
missione italiana, che prima del contingente multinazionale Kfor,
ha fatto parte del discusso intervento militare della Nato contro
la Serbia.
Molti sono i documentari che hanno analizzato la situazione del
Kosovo.
Deca Fëmijët/Children Kosovo 2000 di Ferenc Moldovànyi (2002)
racconta con intensità, rigore e delicatezza come i bambini
albanesi, rom e serbi del Kosovo, rapinati dell'infanzia, siano le
vittime più indifese della guerra e dell'odio che ne è la causa e la
conseguenza. Il titolo del film è costituito da due parole che
significano bambino, in serbo e in albanese.
I dannati del Kosovo (2003) è un’inchiesta di Michel Collon e
Vanessa Stoijlkovic sulle condizioni di vita nel Kosovo postbellico. I “dannati” sono le vittime della contro pulizia etnica
perpetrata dall'Uck albanese sotto lo sguardo indifferente delle
forze militari internazionali presenti nell’area, Nato e Onu. Sono
serbi, rom, goranci, askaljia, turchi: una ricchezza di lingue e
culture
che
costituivano
il
Kosovo
multietnico.
Gli
autori
denunciano la mancanza di attenzione dei media rispetto a
148
questo
problema.
Parallelamente
il
documentario
affronta
un’analisi politica su come le guerre in Kosovo e Iraq siano
indistintamente legate al petrolio.
La
Bbc
ha
prodotto
La
caduta
di
Milošević
(2002)
un
documentario che raccoglie nuove testimonianze sulla guerra del
Kosovo. Percorre gli anni dal 1998 al 2001, attraverso interviste
ed immagini inedite: i contatti tra l’Uck e gli Stati Uniti, la
promessa
dell’indipendenza
della
regione
mai
ottenuta,
la
guerra, il caso Kosovo visto dall’occidente, il crollo del regime
serbo e l’arresto di Milošević.
Realities Kosovo/a (2005) di Eva Ciuk, regista e giornalista
triestina, dà voce alle minoranze dimenticate del Kosovo (rom,
ashkali, egiziani, gorani, turchi), che fin da prima della guerra
avevano vissuto all'ombra delle dispute, politiche e sociali, tra la
maggioranza albanese e la minoranza serba. Oltre due anni di
lavoro, trascorsi in mezzo alla gente, per ascoltare la voce dei
protagonisti di quella che è stata e per certi versi continua ad
essere una catastrofe umanitaria, nel tentativo di documentare
un quadro attendibile della situazione di disordine che ancora
regna in quella porzione di Balcani. Un documentario costruito
soltanto sulle testimonianze raccolte, senza l’intervento di una
voce-over, interamente concentrato sui fatti descritti e sulle
persone interpellate, alcune delle quali si sono rifugiate in Italia.
Interessante e articolato è il lavoro di Giancarlo Bocchi,
documentarista di guerra che al Kosovo ha dedicato tre
documentari.
In Fuga dal Kosovo (1999) un padre, una madre e due bambini
piccoli cercano scampo dalla guerra attraverso un viaggio
infernale tra frontiere e polizie, banditi e scafisti alla ricerca di
un' altra vita in un paese occidentale. Nei volti, nelle lacrime,
nelle vicissitudini della povera famiglia Hiseni, che ha dovuto
149
affrontare due guerre - quella per fuggire dal Kosovo e quella per
arrivare in Italia - si può leggere la tragedia di un intero popolo .
Protagonista di Kosovo anno zero (1999), che cita apertamente
nel titolo Germania anno zero (1948) di Rossellini, è un bambino
kosovaro di etnia albanese, cacciato dal suo villaggio dalla pulizia
etnica serba. Adem ha assistito ad una fucilazione, in cui sono
stati uccisi alcuni abitanti del villaggio e pensa che tra loro ci sia
anche suo fratello, che non trova più. Finita la guerra, torna
dall’Albania nel suo paese e fortunatamente lo ritrova, scampato
al massacro. Invece, non c’è più notizia delle quaranta persone
sequestrate nel villaggio.
Kosovo nascita e morte di una nazione (2001) descrive un Paese
dal 1998 al 2000, attraverso un mosaico di sette storie che
portano sullo schermo i drammi e le sofferenze della popolazione
kosovara di tutte le etnie, vittima della guerra, dei massacri, dei
genocidi e della manipolazione del potere e dei media. E’ un
viaggio attraverso il passato ed il presente, che svela molti fatti
sconosciuti di un conflitto che non si è mai concluso. L’immagine
del cielo invaso dai corvi segna il passaggio e il collegamento da
una storia all’altra.
Bocchi si sofferma, sulle persone; la macchina da presa registra i
traumi di una popolazione martoriata e ne raccoglie le storie.
Attraverso le loro parole e le immagini di villaggi ed edifici
religiosi distrutti, l’autore tratta più argomenti: la pulizia etnica
dei serbi contro gli albanesi, i bombardamenti della Nato e la
contropulizia etnica da parte degli albanesi, guidati dalla violenta
Uck, nei confronti di serbi (che ora vivono in eclaves), rom e
albanesi non allineati. Il film è un documento importante che
testimonia la violenza in atto tra i kosovari dopo la guerra del
’99.
150
6 LA
GUERRA TRA MITO , REALTÀ E METAFORA
Uno dei tratti fondamentali della rappresentazione delle guerre
jugoslave sul grande schermo è la particolare miscela di realtà e
mito, messa in scena dai registi sull’ultimo conflitto balcanico.
Nel capitolo affronteremo un’analisi a proposito di questa
problematica, considerando il contesto culturale, storico-politico
e cinematografico in cui le opere nascono, nonché le diverse
funzioni a cui si presta il mito, nel suo uso pubblico, artistico e
storico, e la rappresentazione filmica della storia della Jugoslavia
e
delle
varie
identità
nazionali.
Tre
film
verranno
presi
successivamente in considerazione: Pretty Village, Pretty Flame
(Lepa sela, lepo gore, 1996) di Srdjan Dragojević, Savior (1998)
di Predrag Antonijević e
Beautiful People (1999) di Jasmin
Dizdar. Sono stati girati durante gli anni successivi al conflitto
bosniaco e prodotti in differenti paesi: la pellicola di Dragojević è
una produzione jugoslava, mentre le opere di Antonijević e
Dizdar,
sono
partecipazione
rispettivamente
americana
jugoslava.
e
Tutti
tre
e
inglese,
affrontano
lo
con
stesso
soggetto: la guerra della Bosnia, considerata come paradigma
della guerra dei Balcani. Riferimenti saranno rivolti ad altri film in
particolare: Prima della pioggia (1994), La Polveriera (1998), No
man’s land (2001) e Underground (1995).
Negli anni Ottanta dopo la morte di Tito, durante una forte crisi
economica e il sorgere dei nazionalismi vi è un’ampia riscoperta
di miti popolari, da un punto di vista antropologico, etnografico e
storico. Uno dei fini, quello più strumentale, è quello politicopropagandistico esercitato da numerosi leader nazionalistici,
vedi, per esempio, i continui richiami da parte del nazionalismo
serbo al mito del re Lazar e all’eroica sconfitta subita dai serbi
cristiani contro i turchi ottomani a Kosovo Poje (Campo dei Merli)
151
nel
1389,
per
far
emergere,
artificialmente,
differenze
insormontabili ed antiche ferite tra i popoli che abitano la
Jugoslavia. Il passo è breve, anche attraverso la manipolazione
mediatica, alla costruzione del conflitto su presupposti etnici.
L’origine della guerra nei Balcani, come sarà successivamente
spiegato, non è certo etnica. Le cause sono diverse, di natura
socio-politico-economica, tra cui si distingue la volontà delle
lobby nazionalistiche al governo nelle varie repubbliche di
mantenere il potere, ma la complessità non può nemmeno
essere ridotta a quest’unica motivazione.
A cavallo tra anni Ottanta e Novanta in Jugoslavia, come nelle
mitologie politiche novecentesche si occultava quello che già il
filosofo tedesco Herder aveva definito, sul finire del Settecento, il
potenziale liberatorio e intrinsicamente illuministico del mito, il
suo potenziale utopico118. Ma il mito porta con sé anche il residuo
perturbante,
non
risolto,
terrifico
del
pensiero
che
trova
espressione per esempio nell’arte, come ha sostenuto Karl Heinz
Boher119. E’ il motore di un dibattito che prosegue da oltre due
secoli, iniziato da Hegel (il primo teorico di una “mitologia della
ragione”)120, in seno alla filosofia idealistica, che indaga la
rifunzionalizzazione sociale del mito e propone le mitologie come
discorso fondante del moderno. Questi studi e ricerche hanno
ripreso vigore dagli anni sessanta del ‘900 in poi, soprattutto in
Germania, delineando quella particolare branca dei cultural
studies, detta mitocritica. Il primo approccio interdisciplinare in
Italia sulla questione della neue Mythologie è offerto dal volume
collettivo curato da Michele Cometa Mitologie della ragione,
118
Michele Cometa, Mitocritica, in M.Cometa (a cura di), Dizionario degli studi culturali,
Meltemi, Roma, 2004, pp.290-299.
119
Ibidem
120
L’interpretazione della questione mitologica è sollevata nelle ultime righe del
manoscritto hegeliano Das älteste Systemporgramm des deutschen Idealismus ritrovato
nel 1977.
152
Letteratura e miti dal Romanticismo al Moderno121, dove le
mitologie vengono intese come quel repertorio di “fabulae” in cui
si annidano e si conservano i sogni, le speranze e le utopie
dell’umanità e in cui il non-razionale convive con la ragione.
Sono infinite le tipologie di mito e le mitologie, nonché la loro
struttura linguistica; ciò che ci interessa, in questo capitolo, è
l’interpretazione mitica della storia dei Balcani, il rapporto tra il
mito e la storia contemporanea nella rappresentazione del
conflitto e i collegamenti continui tra passato e presente, in una
relazione
quasi
meccanica
di
causa
ed
effetto,
ricorrenti
nell’immaginario balcanico. Si è delineata così un’interpretazione
della storia dei Balcani, che mescola realtà e mito, e viene intesa
come ciclica ed immersa in un tempo perdurante, dominato dal
destino. Tale visione viene riproposta in numerosi film e si
contamina
con
altri
elementi
caratteristici,
come
la
relativizzazione del dramma jugoslavo, che assurge ad un valore
universale, lo sguardo critico nei confronti della contemporaneità
(la premessa realistica è il motore di ogni opera), un rigetto
dell’isteria
nazionalistica,
che
ha
contraddistinto
il
cinema
rispetto ad altri media – come vedremo – nella sua opposizione
alla guerra. Vengono inoltre sollevate le problematiche relative
alla rappresentazione e all’auto-rappresentazione di una nazione,
o meglio delle nazioni che costituivano l’ex-Jugoslavia: la guerra
civile e le loro relazioni sono osservate dal resto del mondo (vedi
la struttura di outsider/insider, di Beautiful People e
Savior) o
sono visti dagli stessi Paesi (il caso interbalcanico di Beautiful
People), o addirittura si differenziano nelle singole e mutevoli
rappresentazioni di una nazione come in Pretty Village, Pretty
Flame. La differenziazione delle nazionalità e le corrispettive
121
M.Cometa (a cura di), Mitologie della ragione. Letteratura e miti dal Romanticismo al
moderno, Ed.Studio Tesi, Pordenone, 1989.
153
immaginazioni dell’altro, seppur presenti, non hanno comunque
un ruolo cardine nell’interpretazione filmica del conflitto, altri
sono i concetti che la compongono. Il “nemico” non è mai
un’altra nazione o gli abitanti di essa, ma è il destino impassibile,
o al più i politici corrotti e i profittatori di guerra, trasversali tra
le varie nazionalità.
Utilizziamo come riferimento teorico principale della ricerca, i
saggi di Nevena Daković, docente di Teoria del film all’Università
delle arti di Belgrado autrice di Yugoslav wars: between myth
and reailty122 e Cinematic Bakans/Balkan Genre123, mantenendoli
in dialogo con gli studi di Dina Iordanova, Božidar Zečević e della
storica bulgara Maria Todorova.
Ritornando
al
Jugoslavia,
si
contesto
noti
storico
come
i
della
media
disgregazione
abbiano
promosso
della
una
percezione assolutamente semplificata dei vari conflitti. Sono
stati spiegati come la rinascita delle eterne ed ataviche tensioni
etniche,
che
si
Un’interpretazione
sono
intensificate
costruita
dai
nelle
mezzi
di
ultime
guerre.
comunicazione
attraverso la manipolazione e disegnata dal potere politico come
il pretesto che ha fatto innescare il conflitto, durante la lunga
incubazione prima della guerra nella seconda metà degli ottanta.
E’ un’analisi, sulle origini etniche, avvallata, anche in Occidente;
ciò appaga alcuni schematismi nella percezione dei Balcani.
Nell’ex-Jugoslavia si viene, inoltre, ad ipotizzare un primo
scontro di civiltà su base religiosa, posizione molto cara al
presidente croato Franjo Tudjman, che riprende alcune tesi del
122
Il paper di Nevena Daković è stato presentato all’interno di un’articolata sessione di
studi “Media Practice and Performance Across Cultures”organizzata dall’Università del
Winsconsin-Madison,
svoltasi
nel
marzo
del
2002
http://polyglot.lss.wisc.edu/mpi/Activities/activities.htm.
123
N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, cit.
154
politologo Samuel Huntington124. In Jugoslavia il fattore religioso
è, invece, assolutamente secondario.
Durante
la
nascita
di
nuovi
stati-nazione
i
governi
delle
repubbliche enfatizzarono molto la storia nazionale. “Justifying
the latest Balkan butchery analysts and politicians revive and
reinterpret the past that explains the wars; serves as a model for
the future and inspiration for the present”125 spiega Daković. Gli
stati-nazione
costruirono
il
mito,
dalle
molte
facce,
della
nazionalità e dell'identità nazionale, che diventò lo spirito motore
di tutto. La politica nazionalista era aggressiva e sostenuta da
un uso politico e strumentale della storia, della cultura e delle
arti.
Le
argomentazioni
venivano
costantemente
svolte
a
proposito dell’eterogeneità geografica, linguistica e religiosa,
differenze
Jugoslava.
soppresse
La
artificialmente
successiva
durante
dissoluzione
della
la
federazione
Jugoslavia
fu
considerata il requisito preliminare per il ritorno all’indipendenza
storica e democratica degli stati-nazione, mentre le guerre
etniche erano imposte come il conseguente e sfortunato esito per
realizzare tale progetto. Il nazionalismo rappresentava però
anche una facciata che mascherava le altre cause, ugualmente
reali, del conflitto.
In questo clima, c’erano tutte le ragioni per immaginare una
conversione, non solo linguistica, da etica in etnica (ethos into
ethnic) nel cinema, come in tutti gli altri media. Questo
fortunatamente
non
accadde,
poiché
i
registi
ritennero
impossibile prendere una posizione, rifiutando di associarsi
124
S.Huntington sostiene che dopo la caduta del comunismo i principali conflitti nel
mondo non sarebbero stati più ideologici o economici ma di “natura culturale”, tra
appartenenti diverse civiltà, come quello tra la civiltà cristiana e quella musulmana.
Vedeva nella Bosnia il primo scontro di civiltà. Cfr. Lo scontro delle civiltà e il nuovo
ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.
125
N.Daković, Yugoslav wars: between myth and reality, cit.
155
all’isterica propaganda nazionalista, che si rivelò una trappola
creata dagli stessi mass media126.
Nella vasta produzione cinematografica sul conflitto balcanico,
l’accordo di Dayton, che mette fine alla guerra in Bosnia, segna
un punto di snodo. Prima del 1995, la rappresentazione
dell’assedio di Vukovar focalizza l’attenzione dei registi, come
simbolo dell’inferno bellico. Le storie affrontano dilemmi morali
universali o le sofferenze individuali, le personali tragedie
durante della guerra. Due strutture narrative si ripetono nei film:
il dramma del ritorno a casa e la storia d’amore impossibile tra
persone
di
etnie
diverse,
stile
“Romeo
e
Giulietta”.
Si
mantengono distanti dalla retorica nazionalista, che contrastano.
Dopo il ’95, oltre ad aumentare la produzione audiovisiva, si
consolida una visione mitico-fatalistica della storia e della guerra,
come elemento inevitabile del destino balcanico. Il presente
viene, inoltre, letto attraverso le vicende passate in un rapporto
di concausa.
Underground di Emir Kusturica, esce nel ’95, e codifica due
caratteristiche importanti del nuovo genere cinematografico:
l’utilizzo di un ventaglio di riferimenti mitologici, fatalistici,
antropologici e nazionali sulla natura e le cause del conflitto da
un lato e dall’altro una struttura narrativa, realizzata attraverso
un dialogo permanente tra passato e presente127.
Seppure i film costruiscano articolate metafore, complesse
strutture narrative e superino gli stereotipi propagandati dai
media, spesso rifuggono dalle vere cause del conflitto in questa
visione mitica della storia.
Una visione che è consolidata sia
all’interno
dei
che
all’esterno
Balcani
e
in
parte
si
può
ricongiungere all’analisi sulla loro percezione in Occidente e sulla
126
127
Ibidem
Cfr. N.Daković, La guerra sul grande schermo, cit.
156
autopercezione
degli
stessi
popoli
jugoslavi,
affrontata
nell’importante libro di Maria Todorova, Immaginando i Balcani
(2002). La storica bulgara, ora docente all’Università dell’Illinois,
smonta analiticamente l’immagine stereotipata e negativa dei
Balcani
creata
geograficamente
dalla
cultura
inscindibile
occidentale.
dall'Europa,
ma
Una
terra
culturalmente
costruita come “l'altro”128. Traccia un rapporto tra realtà e
finzione, attraverso fonti letterarie e non, che hanno contribuito
all’immagine schematica e fuorviante dei Balcani. Svela i modi in
cui
un’insidiosa
tradizione
intellettuale
è
stata
costruita,
descrivendo la penisola come il regno dell’instabilità politica e
addirittura della barbarie. Un discorso che Todorova definisce
“balcanismo” (il cui feticcio epistemologico è l’orientalismo di
Edward Said) e che affonda le radici nel XVIII secolo, ma si è
cristallizzato agli inizi del Novecento, al tempo delle guerre del
1912-13 e poi della prima guerra mondiale. Uno stereotipo che è
divenuto mito ed è stato utilizzato anche in diversi studi
accademici. E’ un’immagine che si è anche autoriflessa nei
Balcani e che nel cinema, spogliata dagli elementi di razzismo,
riemerge nella concezione mitica della Storia, dominata dal
destino di una nazione (condannata alla violenza della guerra).
L’altro elemento, quello del rapporto di conseguenza diretta e
inscindibile tra passato e presente, occupa le pagine delle
numerose “istant history” (i saggi storici che escono durante il
conflitto) sul crollo dell’ex-Jugoslavia e le argomentazioni di molti
documentari. Strutturati secondo una visione teleologica del
conflitto che Iordanova ha considerato la “trappola” dell’istant
128
I Balcani sono spesso serviti come ricettacolo delle caratteristiche negative su cui
costruire un’immagine positiva e gratificante dell’ “europeo”. Cfr. Maria Todorova,
Immaginando i Balcani, Argo, 2002, Lecce.
157
history129, che distoglie dalla complessità e dalla modernità del
nuovo conflitto.
Convenendo con il teorico del cinema jugoslavo Božidar Zečević,
non possiamo che ribadire che l’incontro dell’artista con la Storia
non muove dal desiderio di ricostruire delle scene della storia
mondiale, ma, al contrario dalla necessità di capirla e di
rappresentarla in una propria chiave creativa. Si arriva ad “un
legame paradossale tra storia e mito che è caratteristico
dell’epica e del dramma, come del resto anche di gran parte
della letteratura”130. Ciò che forse non viene attuato nelle
pellicole sull’ultimo conflitto, è quella particolare “distanza
critica” dal mito che – come nota
Zečević – il regista croato
Lordan Zafranović, uno dei membri del “gruppo di Praga”, aveva
utilizzato nell’introduzione della Storia in Okupacija y 26 slika
(L’occupazione in 26 immagini), anche quando le due categorie
interagivano reciprocamente e si compenetravano nel corso del
film. E’ ovvio che ci troviamo in un contesto diverso ed è
importante sottolinearlo: i film sulle guerre jugoslave (19911999) nascono dentro al contesto che raccontano, ovvero la
disgregazione dell’ex Jugoslavia
in quegli anni; il
film di
Zafranović è, invece, del 1978 (Arena d’oro a Pola e in concorso
a Cannes) ed è ambientato nella seconda guerra mondiale,
quindi in un contesto diverso da quello relativo alla sua
lavorazione. Il film, che ottenne i maggiori riscontri di pubblico in
Jugoslavia e in Cecoslovacchia nella stagione 1978/79, racconta
le atrocità commesse dai collaborazionisti ustascia durante
l’occupazione italiana e tedesca della città di Dubrovnik nel 1941
e fu, tra l’altro, reso famoso da una memorabile sequenza su un
autobus in cui si scatena la ferocia degli assassini.
129
D.Iordanova, Cinema of flames, cit. p. 73.
Božidar Zečević, Mito, storia e rivoluzione nel film Okupacija y 26 slika, in AA.VV.,
Iugoslavia il cinema dell’autogestione, Marsilio, Venezia, 1982.
130
158
A Belgrado, negli anni Novanta, tra i registi che rifiutano di
assecondare il discorso enfatizzato della guerra e dell’identità
nazionale (che sono la maggior parte), alcuni si rifugiano in
generi come la commedia o il melodramma. Gli autori che,
invece, scelgono di affrontare l’incandescente contemporaneità e
di rimanere all’interno di quello che sta diventando un nuove
genere: il film di guerra sul conflitto balcanico, l’immagine del
conflitto come fatalità o male inevitabile che ritorna nel corso
della storia, privilegiando storie locali, il ritorno a casa dei
soldati, o la globale tragedia umana.
Alcuni
dei
riferimenti
interpretativi
ricorrenti
nei
confronti
dell’attuale guerra, riportano la visione mitica, tristemente
ciclica, della storia della Jugoslavia: la guerra è il destino dei
Balcani; la guerra come maledizione balcanica; un conflitto
tribale in un angolo del mondo; “la guerra è come un virus” dice
il medico che diagnostica i conflitti come malattia endemica dei
Balcani (“Prima della pioggia”, di Milcho Manchevski, del 1994).
Ad
inizio
capitolo
abbiamo
visto
come
l’establishment
nazionalista utilizzi il mito in chiave politica e strumentale, il
cinema se ne serve, invece, in tutti altri termini. Anziché il mito
storico della nazionalità – spiega Daković - i film costruiscono la
mitologia cosmopolita della guerra come malvagità antica e
perenne di tutti gli ambienti multiculturali (e non soltanto alla
soglia dell’Europa)131. I Balcani (e la Jugoslavia) sono come la
polveriera che esplode regolarmente ogni cinquanta anni in una
nuova guerra, secondo regole non scritte, come riporta nel titolo
il film di Paskaljević (1998), intriso di lacerante realismo. È
impossibile fermarla, evitarla o posticiparla.
Nelle guerre jugoslave tutti o quasi sono vittime e non ci sono
vincitori o perdenti e spesso gli stessi “carnefici” possono
131
Cfr. N.Daković, Yugoslav wars: between myth and reality, cit.
159
diventare vittime. La popolazione civile viene, a volte, descritta
come “unfortunate people in the time of evil”. I film sostengono
la tesi di un umanismo essenziale, della sofferenza universale e
sono contrassegnati da una esplicita posizione pacifista. La
responsabilità e le colpevolezze sono distribuite su molte spalle,
quelle dei politici corrotti e malvagi, sui profittatori di guerra e
soprattutto sul destino prestabilito.
I film, come testi di diniego e dubbio, puntano il dito,
tragicamente e melodramaticamente, verso una gamma di forze
che vanno al di là della comprensione o del controllo dei
personaggi principali.
Il nemico non è l’altra nazione, ma il
destino scritto, che appare attraverso diverse rappresentazioni
metaforiche: dalla figura di San Nicola (Why did you leave me?
di Oleg Novkovic, 1993), ai fantasmi del passato che vivono
sottoterra (Underground, 1995), ai “dogs of war”, ovvero i
paramilitari serbi e croati che hanno devastato la città di Vukovar
(Vukovar
Poste
Restante,
di
Boro
Drasković,
1994),
fino
all’eterno campo di battaglia, nell’apoteosi finale di No man’s
land di Danis Tanović (2001), ispirato a leggende nazionali, sia
da un punto di vista antropologico sia etnografico. In Pretty
Village, Pretty Flame i protagonisti sono gente comune sotto la
morsa
di
un
destino
multiforme:
condizionamento psicologico dei media;
l’orco
delle
fiabe;
il
l’oscurità del tunnel o
quella di Slobo. Slobo, da ex gestore di un bar di campagna a
profittatore di guerra, è una versione contemporanea dell’orco
che chiaramente evoca Slobodan Milošević.
Il concetto di guerra ricorrente, perenne, viene messo in scena
non come solo come questione regionale ma come tragedia
universale. E’ la relativizzazione del luogo, in questo caso il
“cronotopo” bosniaco della guerra, una delle caratteristiche
principali che contraddistingue il discorso filmico. Sostituendo
160
nomi o luoghi, i film potrebbero descrivere anche altri conflitti
moderni. Le storie diventano così universali e portano con sé una
molteplicità di significati e una struttura stratificata, di complessa
lettura.
“The simple substitution of geographical, personal names or time
would allow the narrative to be about conflict in any other part of
the world in any decade of XXth century. The tragical perspective
of growing chronological and geographical mobility allows the
story to become universal, deeply human and of widest possible
meaning”132.
Ora analizzeremo il rapporto tra mito e realtà, che prende in
considerazione anche la tematica dell’identità nazionale, nei tre
film anticipati ad inizio capitolo.
Pretty Village, Pretty Flame (1996), secondo lungometraggio
del
regista
serbo
Srdjan
Dragojević
costituisce
una
delle
rappresentazioni più complesse della guerra in Bosnia (19921995).
Si
confronta
con
un
soggetto,
considerato
ancora
“esplosivo”, costruendo un’articolata struttura visiva e narrativa,
supportata da un’ispirata miscela di realtà e mito, caratterizzata
da uno sguardo acuto, a tratti dissacrante, sulla società e da un
uso sapiente di metafore. La storia raccontata è basata su un
evento reale della guerra bosniaca: un gruppo di soldati serbi
bloccati nel tunnel Bratsvo i Jedinstvo (nato sulla scia della
retorica titoista dell’unità e della fratellanza), nel cuore del
territorio nemico. Le scene dell’assedio sono intrecciate con le
memorie, personali e storiche,
prima della guerra e con le
vicende successive ambientate in un ospedale a Belgrado, dove
gli unici tre superstiti del gruppo serbo sono ricoverati, da qui
partono i ricordi di guerra e gioventù. Insieme delineano con
132
Ibidem
161
attenzione quattro periodi e diversi strati narrativi, passando dal
1971 al 1980 e dal 1992 al 1994, in modo non lineare.
Il film sceglie due strategie contrastanti di rappresentazione: da
una parte, la soppressione sistematica e la decostruzione delle
identità nazionali in guerra, frantuma la tesi semplificata della
guerra etnica; dall’altra, la decontaminazione della guerra
dall'etichetta di “etnico” promuove nella visione di Dragojević, il
concetto universale e mitico della guerra133. Se in Underground
uno dei personaggi conclude dicendo che, “non c’è guerra fino a
che il fratello non va contro il fratello” ed entrambi i personaggi
sono serbi, in Pretty Village, Pretty Flame, la situazione si rivela
più complessa, poiché le figure dei “fratelli” Milan e Halil, amici di
infanzia ora su fronti opposti, sono rappresentate da un serbo e
musulmano,
non
“veri”
fratelli
secondo
la
propaganda
dell’identità nazionale, che vorrebbe i serbi di Bosnia uniti nella
“Grande Serbia”. Il film mette, invece, in rilievo le somiglianze
fra serbi e musulmani. In diversi casi, i nemici in guerra
appartengono agli stessi strati sociali (l’ufficiale serbo Gvozden e
quello musulmano, compagni all’Accademia militare), usano gli
stessi stereotipi, credono nelle stesse cose, come Milan e Halil, e
sono più vicini, tra loro, che i compagni della stessa fazione. Per
Milan, alla fine l' “altro demoniaco”, il rivale, è più Slobo che
Halil. In una delle ultime sequenze, nella quale Halil e Milan si
ritrovano quasi faccia a faccia fuori dal tunnel, è impossibile
distinguerli, come serbi e musulmani: entrambi sono soldati alla
ricerca di una vendetta, pieni di rabbia per le sofferenze patite e
intrisi da un confuso rancore nazionalista, che inconsciamente li
ha penetrati, sintomo crudele della propaganda bellica, che
artificialmente li ha divisi. E’ esplicativo il dialogo relativo a
questa scena: Halil si trova nella collina sopra il tunnel, mentre
133
Ibidem
162
Milan è appena sotto, un leggero movimento di macchina li
riunisce in un’unica inquadratura, dominata dalle fiamme che
illuminano il buio della notte.
“Ci sei entrato nel tunnel!” urla Halil, “Ci sono entrato” risponde
Milan. “Perché hai incendiato la nostra bottega?” chiede Halil.
“Perché hai sgozzato mia madre?” dice l’altro. “Io non ho
sgozzato nessuno”, “Nemmeno io ho dato fuoco alla bottega”, si
rispondono. “E chi è stato? L’orco del tunnel. Che sia stato l’orco
del tunnel Milan?” dice sarcastico Halil, riferendosi all’orco di cui
da bambini avevano paura e pensavano nascosto nel tunnel,poco
prima di morire per lo scoppio di una granata. Forse non sanno
che è Slobo uno degli artefici della morte della madre di Milan,
che tra l’altro l’aveva visto durante l’incendio della casa di Halil e
della bottega, aperta dai due prima della guerra.
La guerra come costante mitologica balcanica è messa a fuoco
esplicitamente nel prologo e nell’epilogo metadiegetico, ideati
come un falso cinegiornale, il primo nel 1971 e l’altro alle soglie
del 2000. In tutti e due viene inaugurato il tunnel “di fratellanza
e di unità”, secondo il motto della ex-Yugoslavia multietnica che
univa le diverse repubbliche. Nel prologo è inquadrata la prima
inaugurazione voluta da Tito; nel finale, la ricostruzione dopo la
guerra. Ma sono chiari gli elementi di comunanza. Nella breve
sigla del documentario iniziale, intravediamo due elementi
spiazzanti: la data contrassegnata come xyz e il numero
dell'edizione, quello del diavolo, 666. Un incidente durante la
cerimonia di apertura del tunnel, nel 1971, fa presagire la
tragedia futura: il politico in doppio petto, epitome della
burocrazia del regime, si taglia il dito invece, che il nastro e il
sangue finisce a fiotti sul viso della bambina che sta accanto134.
134
Dragojević non risparmia certo allo spettatore la violenza della guerra, in tutta la sua
crudeltà, e a volte l’esagera in chiave grottesca, attraverso modalità che l’hanno fatto
163
Parallelamente, alla fine del film, durante la manifestazione per
la riapertura del tunnel, ricostruito in breve, un’immagine
analoga (il dettaglio di un dito ferito accanto al nastro) annuncia
implicitamente la futura distruzione. La storia torna così al punto
di partenza, all’alba di una nuova e potenziale guerra che verrà,
completando il cerchio storico.
“The 'brotherhood' based upon friendship, childhood, memories
is destroyed by fatal, inevitably drive for war and destruction and
only distantly by nationalism”135.
Nel 1998 è uscito Savior di Predrag Antonijević, regista di
origine jugoslava, ma residente negli Stati Uniti. Il film prodotto
da Oliver Stone e sceneggiato da Robert Orr, utilizza il
personaggio di uno straniero, un soldato mercenario, come
vettore principale, per addentrarsi nel caos balcanico. Un ufficiale
americano (Dennis Quaid), dopo l’uccisione di moglie e figlio in
un attentato di terroristi islamici a Parigi, decide, sconvolto
dall’accaduto, di arruolarsi nella legione straniera (d’ora in poi si
chiamerà Guy) e, alcuni anni dopo, consumato da sentimenti di
vendetta, finisce a fianco delle truppe serbe per combattere i
musulmani, durante il conflitto in Bosnia. La guerra e un
particolare
incontro
lo
cambieranno
profondamente,
risvegliandone l’umanità profondamente addormentata.
Attraverso il suo sguardo disorientato, seguiamo lo sviluppo
tragico della guerra. In quanto “straniero” ed incapace di
afferrare l'essenza o scoprire le radici del conflitto, giunge ad una
visione della guerra come mitica fatalità. Con questo espediente,
il regista ottiene tre scopi: normalizza ed appiattisce il discorso
accomunare a Pulp Fiction di Tarantino, sia per il sangue che scorre a fiotti, che per le
scelte e il ritmo di montaggio, nonché per i complessi incastri tra i diversi strati narrativi
che compongono l’opera. Certo ci sono analogie tra i due autori, ma anche grandi
differenze stilistiche, tematiche e d’approccio storico-culturale. In Dragojević non c’è una
vera e propria spettacolarizzazione della violenza e spesso anche nella sua esibizione, la
violenza è sempre autodistruttiva.
135
N.Daković, Yugoslav wars: between myth and reality, cit.
164
etnico, a proposito delle varie identità nazionali, arrivando ad un
umanesimo
universale;
in
secondo
luogo,
sottolinea
le
similitudini tra le esperienze di guerra nel mondo collegando
indirettamente
la
“balcanizzazione
del
mondo”
con
la
“mondializzazione dei Balcani”136; terzo, apre lo spazio a molte
rappresentazioni della guerra.
Antonijević sperimenta, in realtà, una formula narrativa già
rodata. I riferimenti cinematografici principali sono rivolti al
“thriller politico”
ambientato in situazioni di crisi nel Terzo
mondo. Per esempio, Un anno vissuto pericolosamente di Peter
Weir (1983), Sotto tiro di Roger Spottiswood (1983) e Urla del
silenzio
di
Roland
Joffe,
(1984).
Tutti
e
tre
raccontano
l’esperienza catartica di uno straniero (nei tre film si tratta di un
giornalista), che alla fine riesce a superare i travagliati problemi
personali e trova, nel paese distrutto dalla guerra, un nuovo
significato di vita. Questo modello è stato adattato alla situazione
jugoslava, in modi diversi, sia in Savior, sia in Benvenuti a
Sarajevo
di
Michael
Winterbottom
(1997),
che
affrontano
rispettivamente i viaggi, anche interiori, di un ufficiale e di un
giornalista.
La squadra di autori internazionali che firmano Savior bilancia il
discorso della guerra, dominato dalle brutalità etniche con una
filosofia dell’uguaglianza, dell’umanesimo e del cosmopolitismo.
La storia dell’ufficiale, diventato un freddo cecchino in guerra, si
intreccia casualmente con quella di Vera, una ragazza serba
incinta dopo aver subito una violenza da un gruppo di soldati
bosniaci musulmani. La sua famiglia la respinge, non vuole un
figlio della pulizia etnica, l’ufficiale decide di aiutarla. Quando
Vera viene aggredita da un serbo invasato, che la minaccia di
136
Il termine “balcanizzare”, nato in riferimento all’instabilità e alla frantumazione della
penisola Balcanica nei primi del Novecento è diventato un termine di comune uso in
campo politico e giornalistico, per indicare lo smembramento di uno stato.
165
morte, Guy lo uccide e fugge con la ragazza e il bambino appena
nato verso un territorio sicuro.
Il racconto filmico si sviluppa allora come un road-movie,
attraverso una serie di episodi in cammino verso il territorio
sicuro e, all’interno del contesto diegetico, si inserisce una
struttura melodrammatica, precisamente una combinazione di
melodramma materno e religioso.
Il percorso/viaggio esterno, reale, spaziale è parallelo a quello
interiore e psicologico. “The growing up to maturity consisting of
the gradated acts of sacrifices”137. Il sacrificio è quello della
madre per il bambino o quello dell’ufficiale americano che, grazie
alla fiducia ritrovata in sé, accetta di prendersi cura del piccolo
sopravvissuto. E’ la prova estrema d’amore, di redenzione, che
guida il racconto: il sacrificio conferma la redenzione e porta alla
salvezza. Nel finale intriso di religiosità vediamo l’ufficiale in riva
al mare con il bambino in braccio all'alba di nuovo giorno. In
quest’istante la domanda più ricorrente che si rivolge lo
spettatore è chi sia il salvatore: il bambino, l'uomo o la donna. In
un momento storico così violento, tutti possiamo essere salvatori
in attesa di essere salvati e nel caso specifico del film, le tre
figure principali si aiutano contemporaneamente a ritrovare uno
spiraglio di speranza dopo le tenebre, verso la salvezza138.
Antonijević
dall’interno,
esplora
ma
il
con
paesaggio
uno
della
sguardo
guerra
esterno,
balcanica
descrivendo
un’atmosfera, violenta, multietnica ed ipertrofica. Nel film tutti i
gruppi
militari
o
paramilitari
serbi,
musulmani
e
croati
commettono crimini tremendi contro i civili innocenti.
Un dato interessante, per la nostra ricerca, è l’alto numero di
riferimenti verbali ed iconografici che fanno rivivere gli stereotipi
137
N.Daković, Yugoslav wars: between myth and reality, cit.
“In the frenzied, aggressive world we are all saviors waiting to be saved” scrive Nevena
Daković.
138
166
della seconda guerra mondiale, in primis i nomi cetnico e
ustascia. Infatti, la possibile sovrapposizione di scene tratte dalle
due guerre (seconda guerra mondiale e conflitti degli anni '90)
conferma il tempo mitico dei Balcani. Il tempo circola, ricco di
eventi ripetuti e di “deja vu”. Allo stesso tempo, relativizzando la
guerra locale, il film tenta un parallelo con il conflitto in Medio
Oriente tra ebrei e palestinesi e sottolinea gli argomenti religiosi,
nello
scontro
tra
musulmani
e
cristiano
serbi
in
Bosnia.
Ricorrono, inoltre, nel film riferimenti alla tradizione giudaicocristiana e, in un particolare momento, Guy rivela di chiamarsi in
realtà Joshua. Si uniscono così spazialmente due guerre in realtà
ampiamente diverse, non essendo le guerre jugoslave conflitti
religiosi. E’ un processo, che comunque, al di là del profilo
ideologico,
nella
sua
intenzionalità
metaforica
ha
un
suo
significato e ricorre nei film sulla disgregazione jugoslava. Come
anticipato ad inizio capitolo, relativizzando la guerra di Bosnia,
intesa come cronotopo e paradigma delle guerre jugoslave, i film
giungono ad una “cosmopolitizzazione” e “denazionalizzazione”
sia della sindrome balcanica che dello stesso conflitto.
L'ultimo film, preso in considerazione come caso specifico,
esemplifica già nel titolo un modello di tematica multiculturale,
Beautiful
People
(1999),
confrontando
vari
membri
appartenenti a molte etnie, in diversi luoghi, occasioni e livelli.
Diretto da Jasmin Dizdar, regista bosniaco da anni a Londra,
diplomatosi anche lui alla Famu di Praga, mette in scena un
mosaico di storie, attraverso un iniziale “short cut” in cui pian
piano si delineano l’esperienze di venticinque personaggi, tutti
coinvolti nelle vicende della Bosnia, che si trovino a Londra o
nell’ex-Jugoslavia. La trama si sviluppa attraverso incontri
accidentali tra i personaggi del film, in trenta diverse location
sparse tra la capitale inglese e Srebrenica. La narrazione
167
ramificata offre una visione piuttosto schematica relativamente
al
conflitto
etnico,
inteso
come
“fatto
ricorrente”,
drammatico, nel corso della Storia, senza
seppur
un particolare
riguardo alla luogo e al tempo in cui si sviluppa. La serietà del
tema di base è presto interrotta nel film, che sceglie un registro
tragicomico per raccontare le vicende. Dizdar sceglie i toni della
commedia, attraverso una sferzante ironia, che non risparmia la
violenza della guerra. Riesce così a smantellare i potenziali
moralismi, l’eroismo e mette in crisi la retorica delll’identità
nazionale.
Chiusi nella stanza d’ospedale di Londra un croato, un serbo e un
gallese
discutono
delle
diverse
vicende
nazionalistiche,
tracciando un sottile parallelismo tra le situazioni a livello
europeo e il fenomeno della guerra etnica, debalcanizzato.
Lo spirito balcanico, considerato esotico, contamina Londra,
facendo emergere analogie con la storia britannica, che nel corso
dei secoli è stata un terreno fertile per le tensioni etniche. Tale
spirito diventa
allora ibrido e non più esotico. Nello stesso
ospedale, sboccia la storia d’amore fra Pero, bosniaco, e Portia,
figlia ribelle di una ricca famiglia conservatrice inglese, un’infinita
variazione del tema shakespeariano di “Romeo e Giulietta”. Si
sposeranno, superando il parere negativo della famiglia “tory”. Il
loro matrimonio unisce metaforicamente commedia romantica e
politica: la complessa relazione tra Balcani ed Europa giunge ad
un lieto fine, non privo di ambiguità. Durante il ricevimento
nuziale, Pero confessa il suo passato: ha ucciso senza disprezzo
e ripetutamente in guerra, ma ora si è pentito. “He repented and
became 'just like you', 'one of you' - that produces twofold
effect. It signals the ambivalence of the happy end (in the way of
168
the best Sirkian irony); the 'instability and improbability of the
peace and continuation of the conflict”139.
In entrambi gli ospedali, quello di Londra e quello di Srebrenica
(dove finisce catapultato per sbaglio il giovane tossico e
nullafacente, Griffin), i bimbi bosniaci aiutano gli inglesi nella loro
vita. Il medico inglese trova una nuova famiglia proteggendo la
coppia bosniaca e il neonato bambino (figlio anche lui di una
violenza della pulizia etnica), che viene chiamato Caos. Griffin
adottando l’orfano bosniaco diventa da figlio reietto a cittadino
modello.
La metafora principale che sottende la storia è quella di un
mondo come un ospedale, o addirittura un ospizio, in cui le vite
sono in terapia. La gamma di citazioni oltre a Shakespeare,
include riferimenti a Freaks (1932) di Browning per i toni
esagerati in un mondo capovolto e a Prima della pioggia di
Manchevski, per l’ambientazione a metà tra Londra e la
Jugoslavia.
Racconta
una
particolare
“sindrome
bosniaca”
che
porta
un'identificazione totale con la vittima. Succede ad esempio a
Jerry, reporter Bbc, che dopo l'esperienza infernale in guerra
sviluppa la “sindrome bosniaca”, e vuol farsi amputare una
gamba in un ospedale di Londra. Tutti i personaggi comunque
provano ad accettare gli altri e a cambiare se stessi.
L'origine bosniaca della guerra ha ceduto il passo ad altri
elementi rilevanti nella struttura narrativa e il film prende così la
forma di una commedia sociale, romantica e contro la guerra, dal
valore universale.
Dopo aver analizzato i film presi in esame, possiamo sintetizzare
alcune caratteristiche della rappresentazione cinematografica.
139
N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, cit.pp.22-23.
169
Delineano strategie che possono a volte rilevarsi contrastanti ma
che sottolineano la peculiarità del discorso filmico sulla guerra
dei Balcani, rispetto ad altri media o ad altre forme artistiche.
Ricorrono questi modelli: il rapporto costante tra mito e realtà,
che chiama in causa una visione fatalistica della storia balcanica;
il dialogo tra presente e passato; una relativizzazione della
guerra nell’ex-Jugoslavia, “debalcanizzata”; una posizione critica
nei confronti del nazionalismo e della guerra. La risultante
principale del connubio tra mito e realtà è la metafora, come
strumento indiretto di analisi della storia contemporanea e di
produzione simbolica e polisemica.
Il ventaglio delle argomentazioni sulla guerra spazia dalla
rappresentazione realistica e metaforica, con una decostruzione
del nazionalismo, all'immagine fatalistica del conflitto come
tragedia
universale;
dalla
suddivisione
delle
colpe
tra
i
partecipanti, che allo stesso tempo possono diventare vittime o
carnefici, fino all’idea estremizzata di una mondializzazione della
sindrome balcanica
Come si è visto, l’immagine propagandata e manipolata dai
media a proposito del conflitto balcanico, originato da insanabili
differenze
etniche
tra
i
popoli
jugoslavi,
nel
cinema
è
radicalmente sovvertita. Viene decostruito il mito eroico della
nazionalità, sottolineato invece dalle leadership nazionalistiche.
Più che la differenziazione nella rappresentazione delle varie
identità nazionali, nemiche durante il conflitto, presente seppur
in termini critici, viene messo in scena un confronto tra i diversi
stereotipi nazionali e in risalto le analogie tra le varie comunità.
Le strutture narrative dei film partono da premesse realistiche
per costruire una mitologizzazione della nazione e della guerra,
attraverso riferimenti antropologici, etnografici e culturali. La
qualificazione etnica del conflitto viene sostituita da quella
170
mitica, delineando un rapporto/scontro tra il mito della nazione e
il mito del destino140.
In Pretty Village, Pretty Flame l’esplicita classificazione del
nemico,
come
entità-nazione
diversa,
è
presente
solo
marginalmente. I musulmani, nelle sequenze dell’assedio, sono
rappresentati
sia
visivamente
sia
metaforicamente
come
“contorni” all'estremità del tunnel, figure sfocate con voci ma
senza volti, spetta al gruppo serbo-bosniaco chiuso nel tunnel
assegnarle un’identità, che si rivela molteplice.
Il passato che determina il presente e si sovrappone ad esso,
viene
raccontato
attraverso
articolate
strutture
narrative,
frammentate, circolari o multilineari. La temporalità è costituita
da più strati che viaggiano paralleli e che, in un livello superiore,
si riuniscono nella circolarità mitica del tempo. Tale percezione
temporale non ha solo radici mitologiche ma solide basi
filosofiche141. Nei film può essere simboleggiata da un intreccio
non-lineare
come
in
Pretty
Village,
Pretty
Flame
o
in
Premeditated Murder (1996) o può essere messa in dubbio in
Prima della pioggia sia dall’ambiguità della struttura narrativa sia
dalle parole di un monaco “il cerchio non è rotondo, il tempo non
ha fine”. Anche in questo caso non si tratta di linearità, ma di
una multilinearità, definita da livelli paralleli e sovrapposti. Una
tesi che Manchevski ha ribadito in Dust (2002), che rigetta una
linearità progressiva della storia (“The centuries do not follow up
each other but coexist like parallel universes”). Ne La Polveriera,
un primo livello, descrive una linearità temporale del film: in una
140
“The film narratives departing from the realistic premise of nationalist conflict inevitably
slip into to the mythologisation of the nation, envisioning of the mythical nationhood, using
the tropes of the local national mythomania. The qualification ethnic has every reason to
be replaced by mythical. Newly articulated pair myth of nation vs. myth of destiny is not
binarism but rather variation of the same mythical thing. The Gordian knot of war as
nation and war as destiny anyway is necessarily seen in mythical optiques”. N.Daković,
Yugoslav wars: between myth and reality, cit.
141
Cfr. Le tesi filosofiche di Gianbattista Vico (1688-1744).
171
notte
si
intrecciano
numerose
storie
individuali;
la
frammentazione narrativa e la sovrapposizione delle storie, i salti
temporali, costruiscono, invece, un secondo livello circolare. La
guerra diventa reincarnazione di vecchi conflitti, che si verificano
ogni cinquant’anni. Il passato viene nuovamente interpretato
sulla
base
della
sovrapposizione
contemporaneità
storico-temporale
(Underground).
si
riflette
Questa
anche
nella
concezione popolare: uno dei protagonisti del documentario Mille
giorni a Sarajevo di Giancarlo Bocchi (1995), avventurandosi per
le trincee, spiega che sembra di ritrovarsi tutto di un tratto nella
prima o nella seconda guerra mondiale e come se un secolo
avesse riunito il suo inizio e la sua fine. A Sarajevo dice “Sembra
di vivere fuori dal tempo”.
Nel
tentativo
di
debalcanizzare
il
conflitto
e
di
renderlo
cosmopolita, le immagini di caos e di dolore diventano analoghe
a tragedie simili in tutto il modo, secondo un punto di vista
interculturale che spinge gli spettatori più attenti a creare
collegamenti e parallelismi tra diverse realtà di guerra142. Nei
film prodotti sul finire degli anni Novanta e all’inizio di questo
decennio, secondo un processo graduale, si può riscontrare come
le immagini del conflitto, in particolar modo quello bosniaco,
diventino sempre più decentrate dal contesto. La guerra appena
trascorsa, può anche essere affrontata con un approccio ironico e
parodistico come in Beautiful People
La tragedia dei Balcani è raccontata attraverso un messaggio
morale, in alcuni casi la sofferenza porta a redenzione (Savior),
ma in generale dimostra la futilità e l’inutilità della guerra. Il
recente cinema jugoslavo si rivela, tout court, un’utile fonte
storica per interpretare il conflitto, basti pensare alla complessa
142
Cfr. Mette Hjort, Themes of Nation, in M.Hjort e Scott MacKenzie, “Cinema and
Nation”, Routledge Londra, 2002: p.113.
172
analisi della memoria collettiva nei suoi aspetti psicologici e
storici, che percorre tutte le opere.
Diventa
relativamente
più
confortante
una
riflessione
che
intravveda come i contrasti etnici siano tristemente condivisi in
tutto il mondo e non esclusivamente dal destino balcanico. E’ il
caso anche di No man’s land di Tanović che presenta la guerra
come un male universale, e non come un fenomeno endemico
della regione.
I Balcani in questo articolato processo interpretativo, diventano
una parte del mondo come le altre, soprattutto una parte
dell’Europa e non la sua soglia. E’ un percorso che, in chiave
metaforica si compie nei film in questo modo: il mito del destino
balcanico, nato come particolarità di una regione, diventa
universale e la guerra viene considerata come tragedia umana. E
quindi dopo aver ripreso alcuni archetipi della autopercezione dei
Balcani (la storia ciclica e mitica), messi in discussione da Maria
Todorova, gli autori cinematografici convengono indirettamente
con la storica quando sostiene che sarebbe meglio che la crisi
jugoslava fosse spiegata non più “in termini di spettri balcanici,
ma attraverso gli stessi criteri razionali che l’Occidente riserva a
se stesso”143. E’ un passo che i registi non compiono del tutto,
rimanendo ancorati ad un rapporto intrinseco tra realtà e mito,
ma relativizzandolo si pongono come nuovi osservatori, da un
punto di vista artistico, della situazione jugoslava e di quella
internazionale, mettendo in discussione la relazione strabica e
stantia tra Occidente e Balcani.
143
Maria Todorova, op.cit., p. 303.
173
7 IL
CONFLITTO VISTO DALL ’I TALIA :
“ LA
GUERRA
IN CASA ”
Prendendo spunto da La guerra in casa (1998) di Luca Rastello,
un libro di storie non di storia, non direttamente sulla guerra
nell’ex-Jugoslavia, ma su quella guerra e noi, analizziamo come
la
guerra
è
stata
osservata
e
interpretata
dagli
autori
cinematografici italiani. Un conflitto che pareva lontano, ma
distava solo poche ore dal confine italiano.
Il libro narra il rapporto tra le due sponde dell’Adriatico,
l’incontro personale, difficile e a volte fallimentare, fra chi è
coinvolto e chi osserva. Il racconto si articola sulla coppia qui-lì,
con particolare attenzione al qui144. Sviluppa un doppio punto di
vista, tra l’Italia (nel libro di Rastello, Torino) e i molteplici luoghi
della guerra nei Balcani, che si trasforma in un altro conflitto
privato “qui”. Le storie raccolte hanno tutte un versante italiano,
sia che si parli dell’ex-cecchino Darko, sia di Izmet prelevato
dalla polizia di Spalato e massacrato perché musulmano o di
Sead e Esad, fratelli e nemici, che descrivono quello che hanno
visto nei campi di sterminio in Bosnia. Tutte hanno un punto di
contatto comune, una loro origine “narrativa”: il Comitato
accoglienza profughi ex Jugoslavia di Torino, in cui l’autore è
stato coinvolto in prima persona. Accanto a storie individuali
Rastello ricostruisce significativi e controversi eventi: dall’assedio
di Vukovar a Sarajevo, con la morte rimasta impunita del
pacifista italiano Moreno Locatelli, fino a Srebrenica e ai tragici
esiti della missione “Unprofor” delle Nazioni Unite.
I film a soggetto affrontano la guerra con un doppio sguardo,
interno ed esterno al conflitto. Sono Il Toro (1994) di Carlo
144
Cfr. Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi, Torino, 1998
174
Mazzacurati, Teatro di guerra (1998) di Mario Martone, Il
Carniere (1997) di Maurizio Zaccaro, Il temporale (2002) di Gian
Vittorio Baldi, Oltre confine (2002) di Rolando Colla con la
sceneggiatura di Luca Rastello, Radio West (2004) di Alessandro
Valori, Vento di Terra (2004) di Vincenzo Marra e Nema
problema (2004) di Giancarlo Bocchi, il film maggiormente
“dentro la guerra”, rispetto a quelli citati.
Numerosi cineasti, giornalisti e reporter si sono confrontati, a
livello
documentaristico,
con
il
conflitto
jugoslavo.
Davide
Ferrario è autore di Linea di Confine (2000), un film su Mostar,
città bosniaca divisa dagli odi etnici e religiosi: da una parte i
bosniaci di etnia croato-cattolica, dall’altra i bosniaci musulmani,
separati dal fiume e dal ponte bombardato sulla Neretva.
Ferrario ha seguito con la sua troupe i concerti del gruppo rock
Csi (Consorzio Suonatori Indipendenti), che nel 1998 decisero di
suonare, tra inconvenienti e peripezie, nelle due parti di città.
Nel 1995 Marco Bechis, regista italo-argentino, ha girato un
documentario sulla guerra e sui lager in Bosnia145, in vista della
lavorazione de Il Carniere, di cui ha curato inizialmente la
sceneggiatura, ma non ha poi diretto, per disaccordi con la
produzione. Ha creato un parallelo tra l’attualità della Bosnia e la
situazione in Argentina durante la dittatura militare, venti anni
prima. Questa ricerca documentaria è poi confluita in parte in
Garage Olimpo (1998). Nel lungometraggio Bechis ha, infatti,
deciso di raccontare la Buenos Aires di fine anni Settanta e la
storia dei desaparecidos come fosse la Bosnia dei primi anni
Novanta.
145
Il documentario di Marco Bechis, a cui il regista non ha dato un titolo preciso, è stato
presentato in diverse occasioni (festival e manifestazioni), come una lunga ricerca
audiovisiva sulla guerra contemporanea, durata anni e confluita in Garage Olimpo. E’
stato proiettato durante la rassegna Cinemambiente 2004, precisamente all’interno del
convegno “L’occhio di Marte, come si comunica la guerra”, dove Bechis è stato uno dei
relatori.
175
Giancarlo Bocchi è regista, oltre che di Nema problema, di
numerosi
documentari
sul
conflitto
nei
Balcani,
che
rappresentano un nucleo di forte riflessione sul tema della guerra
contemporanea. Si è soffermato in particolare sul lungo assedio
di Sarajevo e sul Kosovo: Mille Giorni a Sarajevo (1995),
Sarajevo Terzo Millennio (1994), Diario di un assedio (1995),
Morte di un pacifista (1995), Fuga dal Kosovo (1999), Kosovo
anno zero (1999), Kosovo nascita e morte di una nazione
(2001). Sarajevo è stata al centro dell’attenzione di numerosi
documentaristi tra cui Erik Gandini che con Raja Sarajevo (1995)
ha “fotografato” il capodanno del ’94 nella città assediata,
seguendo quattro amici che nonostante la guerra tentano di
vivere una vita normale. Dieci anni dopo Roberta Ferrati e
Massimo Sciacca hanno ripercorso gli stessi luoghi in Dopo
l’assedio (2003), raccontando la realtà dell’oggi. A distanza di
una decade, è tornato in Bosnia anche Mimmo Lombezzi,
reporter, con 10 anni dopo: Bosnia: la vergogna d’Europa
(2005). Adriano Sofri, inviato a Sarajevo, oltre agli articoli scritti
per l'Unità ha girato, tra il 1994 e il ‘95 cinque documentari di
lunghezza diversa, dai venti ai cinquanta minuti, tra cui
ricordiamo I cani e i bambini di Sarajevo e La primavera di
Sarajevo.
Srebrenica è un altro luogo tragico, dove nell’estate del ’95 si
verificò il più grande massacro dalla seconda guerra mondiale. Il
cielo sopra Srebrenica (2005) di Marco Della Croce e Ciro
Cortellessa
ripercorre
le
drammatiche
vicende
dell’enclave
musulmana. Andrea Rossini, regista e giornalista (è redattore
dell’ “Osservatorio dei Balcani”), ha da poco completato Dopo
Srebrenica, la memoria e il presente (2005), mettendo a fuoco la
tragedia dei desaparecidos, sullo sfondo di un conflitto che
continua, nelle memorie e nelle verità parallele. Rossini aveva
176
già diretto nel 2001 Europa Srebrenica, dove aveva narrato
attraverso le parole delle donne sopravvissute, l’assedio e la
caduta della città.
Nel 2000 fu costituita “Unità di cooperazione creativa”, un
laboratorio di sperimentazione audiovisiva sul documentario etico
e sociale, che nel corso degli anni ha realizzato film in Europa
Orientale e in Iraq, diventando uno degli animatori del progetto
Telestreet (la rete italiana delle tv di strada). Il progetto ha visto
impegnati giovani film-maker, come Luca Rosini e Alberto
Bougleux, autori
di Thank you people of Japan
(2002), che
intreccia storie di identità, divisione religiosa e ricostruzione
sociale nella città distrutta dalla guerra, Mostar.
7.1 Nema problema (2004) di Giancarlo Bocchi
L’espressione “nema problema” è qualcosa di più del “no
problem” globalizzato e ormai asettico. “Nell’ex Jugoslavia ‘nema
problema’ è una suprema dichiarazione metafisica, pronunciata
secondo l’umor nero che governa quella terra irrimediata” ha
scritto Adriano Sofri146.
Giancarlo Bocchi, dopo essersi fatto le ossa con il documentario,
ha realizzato con Nema problema il suo primo lungometraggio di
fiction, girato completamente in Bosnia-Erzegovina, che fin dal
sottotitolo “La verità è la prima vittima della guerra” sottolinea
una delle tematiche principali del film: l’informazione in tempo di
guerra. Protagonisti del film sono infatti due giornalisti, molto
diversi tra loro.
146
Adriano Sofri, Grande intrigo a Sarajevo, in “L’Espresso”, 7 maggio 2004. Sofri ha
firmato, inoltre, un intervento all’interno del libro, G.Bocchi, A.Curà e Luigi Riva, Nema
problema, la verità è la prima vittima della guerra di (Lecce, Manni, 2004), che raccoglie
tra l’altro la sceneggiatura del film e altri due interventi dei giornalisti Ettore Mo e
Bernardo Valli.
177
Lorenzi, un inviato di guerra, si avventura con Aldo Puhar, un
interprete locale, in un territorio
conteso tra diverse fazioni in
guerra. Vuole scoprire l'identità del "Comandante Jako", ritenuto
l'autore
della sparizione di un intero convoglio di profughi. Si
aggregano a loro due giovani, Maxime, inesperto giornalista
pieno di ideali, e Sanja, ragazza del posto alla disperata ricerca
dei parenti dispersi. Lorenzi, non riuscendo a raggiungere il suo
scopo, pur di conservare immutata
la sua fama d' inviato si
inventa storie e notizie, facendo indignare Maxime, al quale
Sanja confiderà le sue verità celate. I quattro, fortunosamente
entrano a Vaku, una città assediata.
Malgrado i pericoli e le
difficoltà che hanno dovuto sopportare insieme, i quattro sono
ormai divisi da incomprensioni e sospetti. Maxime scoprirà che le
verità di Sanja non sono tali e gli hanno dato una fama
immeritata ed effimera e Lorenzi, ormai vicino al suo obiettivo, il
“Comandante
Jako”,
rimarrà
vittima
delle
sue
stesse
manipolazioni della verità.
Nema problema smonta la fiction dell’informazione attraverso la
fiction
cinematografica,
portandosi
dietro
l’autenticità
e
le
tecniche del documentario, rifiutando il compromesso o la ricerca
vana della “bella immagine”.
Il film è un viaggio, una corsa nel tempo non per fuggire, ma per
cercare. Lungo i sentieri e le menzogne della guerra, attraverso
luoghi dove l'aspetto più bestiale della storia, del mito e delle
tradizioni riaffiora prepotentemente nelle divisioni etniche e
religiose. Si fa strada una domanda: qual è la verità? Esiste
forse il diritto all’informazione?
“Ogni volta che tornavo da un paese in guerra, mi sforzavo di
spiegare come le storie, le testimonianze, le esperienze che
avevo raccolto non erano fuori dal mondo, ma erano tutte del
nostro mondo. Vedevo incredulità in quelli che non potendo più
178
rispondere, ‘non sappiamo’ sostenevano con forza che fosse
colpa loro. Giorno per giorno una realtà, anzi un'irrealtà,
bugiarda e consolatoria ci ha resi inconsapevoli complici. Cecchini
della visione. Solo oggi scopriamo che non siamo affatto lontani
da quei mondi in guerra. Vedere la verità costruita dalla
disinformazione, dalla falsificazione del sistema o da una
rimozione privata; vedere una verità mai condivisa, storica,
filosofica, ma semmai ‘rivelata’, è stato la prima intuizione per
iniziare a lavorare a questo film" ha spiegato il regista147.
Bocchi ha scelto una messa in scena scarna e asciutta, fin dalla
sceneggiatura scritta insieme al giornalista Luigi Riva, già inviato
nei Balcani, e lo scrittore Arturo Curà. Lontana da cedimenti
spettacolaristici, da concessioni al “genere” o al grottesco tipico
del cinema jugoslavo, dall’essere una replica di una visione
televisiva del mondo148. E’ un film “dentro la guerra”, senza
carrelli o dolly, perché la camera sia sempre ad altezza d’uomo.
La fotografia di Renato Tafuri è volutamente “sporca”, l’obiettivo
registra freddamente le azioni dei personaggi. La colonna sonora
è inesistente o meglio è composta dai suoni d’ambiente e dai
rumori di guerra, alcuni veri e propri. Infatti Bocchi ha utilizzato
anche i rumori registrati durante le riprese dei suoi documentari,
insieme a Tullio Arcangeli che ha curato complessivamente il
suono. Un altro elemento che non marca il discrimine fra realtà
documentaristica e fiction.
Le
influenze
cinematografiche
sono
Jori
Ivens
e
Roberto
Rossellini. La scenografia spoglia dei cespugli e delle boscaglie,
curata da Dragan Sovilli, è ispirata a Paisà, in particolare
all’episodio ambientato nel Polesine, sul delta del Po.
147
G. Bocchi, Note di regia, in G.Bocchi, A.Currà e Luigi Riva, op.cit., Lecce, Manni,
2004, pp.15-16.
148
“Non volevamo realizzare un "film di guerra" e tantomeno il ‘solito’ film sulle guerre
balcaniche” ha detto Bocchi, Ivi, cit. p.17.
179
Nema problema si sviluppa attraverso una serie di episodi
verosimili - il treno dei profughi, il bombardamento a salve della
città – che i personaggi incontrano nel loro percorso, come
sarebbe potuto
realmente accadere. “Da un lato ho pensato a
una realtà essenziale senza alcun compiacimento stilistico o
estetico e dall'altra ad una apparente linearità di racconto che
potesse rivelare la molteplicità di livelli e la complessità quasi
labirintica di quello che si voleva rappresentare”149.
E’ un film d’azione quasi senza azione. E’ impregnato di violenza,
senza che ci siano combattimenti: l’unica uccisione in diretta è
ambigua e in campo lungo. Il ritmo del film rincorre i tempi della
realtà di guerra: pause di vita quasi normale con improvvise
accelerazioni di tensione
quasi
esasperati,
drammatica. I passaggi temporali,
vengono
utilizzati
in
funzione
di
un
rafforzamento del "non detto", dell’inquietudine che cresce tra i
personaggi e ai fini di inserire nella narrazione nuovi piani di
lettura che mettono in discussione, nel corso del film, le verità
presunte, rivelando la “fiction” costruita della realtà.
Prima che con le immagini, il film si apre con un forte rumore, lo
stridore di un treno che viaggia a bassa velocità e scorgiamo al
termine della dissolvenza d’apertura. Un locomotore protetto da
alcuni sacchi di sabbia: è un treno di guerra. Avanza in un
paesaggio di campagna. Rapidi stacchi successivi mostrano i volti
di povera gente, triste ed impaurita, sono i passeggeri. I freni del
treno stridono per affrontare la curva, prima di entrare in una
galleria. All’uscita del tunnel il mezzo si ferma, salgono soldati in
tuta mimetica che con tono minaccioso intimano alle persone di
scendere. Una ragazza nascosta assiste alla scena, inquadrata in
primissimo piano, è Sanja la giovane donna che accompagnerà i
due giornalisti e l’interprete nel corso del film. Sentiamo solo
149
Ivi, cit. p.18.
180
urla, le immagini non ci vengono mostrate. Un brusco stacco ci
riporta all’esterno sui binari della ferrovia sono sparsi indumenti,
oggetti, bagagli e fagotti. Sono stati persi dai profughi, ma quello
che è successo non lo sapremo mai, possiamo solo immaginarlo,
sperando che la nostra immaginazione possieda ancora qualche
barlume di verità150.
Nella prima sequenza il film sintetizza e prefigura l’assioma
centrale del film: la verità è la prima vittima della guerra. E’ una
riflessione amara sulla verità che sembra scomparsa ferita a
morte da mille interessi, dalla “ragion di stato”, dalla propaganda
e dalla paura; sulla realtà manipolata dai media, che può passare
dalla tv ai libri di storia. I servizi televisivi e le fotografie
vogliono, inoltre, mostrarci le diversità, spesso deformate,
culturali, etniche e religiose tra noi e loro, inducendoci ad una
rassicurante e fuorviante idea di lontananza.
E’ una problematica complessa che Bocchi affronta, senza
accenno
di
retorica
o
di
tesi
prestabilita.
Si
interroga
indirettamente se sia possibile raccontare la guerra, è un
dilemma etico e gnoseologico. Non è un film urlato, è una cruda
constatazione, se si indigna lo fa in silenzio. Lo fa lavorando sui
personaggi del suo film, sui volti, la psicologia e le loro
contraddizioni.
“E’ costruito come un’improvvisazione di jazz ognuno ha il suo
momento”151 nell’intreccio narrativo. Lorenzi è un inviato italiano
quasi drogato dalla guerra, pronto ad inventare falsi scoop, vista
la ricerca infruttuosa di Jako, pur di raggiungere la prima pagina;
è interpretato da Vincent Riotta, attore inglese di origine italiane.
E’ affiancato da Zan Marolt, nato a Sarajevo (già protagonista di
Milk Way di Faruk Sokolović), nel ruolo di Aldo, interprete dai
150
Cfr. Gianni Canova, Francesco Costa (a cura di), Vedere la guerra con occhi diversi,
in “Letture”, agosto-settembre 2004.
151
Silvana Silvestri, Cecchini della verità, in “Il manifesto”, 27 aprile 2004.
181
tratti ambigui che nel colpo di scena rivela la sua vera identità
finale, svelerà infatti di essere l’inafferrabile comandante Jako.
Fabrizio Rongione, co-protagonista di Rosetta (1999) Palma d’oro
a Cannes, dà il volto a Maxime, reporter belga giovane e
idealista, ma non meno assetato di sensazionalismo e di voglia di
emergere. Labina Mitveska, che già avevamo visto in Prima della
Pioggia nei panni di Zamira, interpreta la giovane donna alla
ricerca dei parenti dispersi; vuole salvarsi ma senza rinunciare
alla sua dignità, la versione dei fatti che si inventa per Maxime è
un urlo di disperata protesta in un mare di mistificazione,
disinformazione e manipolazione. Ognuno è a caccia della propria
verità, ognuno ne darà una versione diversa e si rivelerà altro da
ciò che appare. I quattro personaggi sono legati tra loro da
piccole verità, grandi menzogne ed interessi, ciascuno usa o
cerca di usare l’altro per i propri scopi. I due reporter hanno una
visione differente della deontologia professionale, ma entrambi,
consapevolmente o meno, manipolano la realtà, nel cui stesso
fraintendimento
vengono
invischiati.
La
storia
solo
apparentemente non ha un unico protagonista perché il vero
protagonista - il comandante Jako - non si vede mai , ma regna
sovrano come il
"regista interno" alla storia. Solo alla fine si
scoprirà che lo abbiamo sempre incontrato.
Bocchi ha analizzato il conflitto jugoslavo che negli anni Novanta
ha seguito molto da vicino, mettendone in discussione le
semplificazioni mediatiche. E’ stata, però, intenzione della
squadra di autori che ha curato la sceneggiatura trasformare i
tumultuosi e aggrovigliati conflitti balcanici nella "guerra" per
definizione, senza entrare specificatamente nelle problematiche
"etniche" o strettamente legate alle particolari rivalità. La
narrazione tende ad un significato
universale, racconta lo
stravolgimento della realtà quotidiana che spesso diventa fiction.
182
“Dalla prima guerra del Golfo in poi – sottolinea il regista -, tutti i
conflitti sono identici: potrebbe essere l'Iraq, il Kosovo, non
importa. Sono tutte guerre che dietro scontri etnici e religiosi
celano un unico motivo, quello economico. Così come in Iraq”152.
I giornalisti, loro malgrado, sono parte integrante dell’apparato
bellico,
strumenti
di
comunicazione
all’interno
del
“news
management”, la gestione delle notizie imposta dalla pressione
del potere politico e militare.
Le diverse nazionalità degli attori, si riflette nella pluralità
linguistica del film (italiano, serbo-croato, inglese e francese) e
nella composizione multietnica della troupe composta da serbi,
croati e musulmani, riuniti per la prima volta dopo la guerra nella
produzione
del
film.
E’
stata
un’esperienza
importante
,
sottolineata dall’autore, visto che le riprese sono state realizzate
tutte in una zona della Bosnia del nord, non ancora pacificata,
roccaforte del criminale di guerra, latitante, Radovan Karadžić. E’
stato, infatti, girato tra Teslic e Tesanj, a ridosso della surreale
“zona di separazione” che divide le due entità bosniache. La
location del film è pressappoco la stessa di Benvenuto Mr.
President (2004) girato proprio a Tesanj.
“La verità
è la prima vittima della guerra” scrisse Arthur
Ponsonby153. “E' vero - conclude Bocchi - se non si ha il coraggio
di cercarla fuori e dentro di noi”154.
152
Gabriella Gallozzi, Nessun problema, è solo la guerra dei Balcani, in “L’Unità”, 7
maggio 2004. Nelle dichiarazioni riportate nell’articolo, Bocchi pone l’accento sulla
limitazione dei diritti civili che stiamo vivendo nell’attuale scenario mondiale, la pellicola è
un modo per rivendicare il diritto alla verità e alla giustizia
153
“When war is declared, truth is the first casualty” scrisse nel 1928, Arthur Ponsonby
politico e scrittore britannico in Falsehood in Wartime: Propaganda Lies of the First
World War (Bloomfield Books, 1991)
154
G.Bocchi, A.Curà e Luigi Riva, op.cit., p.20.
183
8 M EDIA
E GUERRA
«Per un reporter in guerra “territorio comanche” è il posto dove l’istinto ti dice
di fermare l’auto e fare marcia indietro. Il posto dove le strade sono deserte e le
case sono rovine bruciate, dove sembra sempre l’imbrunire e cammini stretto ai
muri verso gli spari che risuonano in lontananza, ascoltando il rumore dei tuoi
passi sui vetri rotti. In guerra, il suolo è sempre coperto di vetri rotti. “Territori
comanche” è là dove li senti scricchiolare sotto i tuoi scarponi e anche se non
vedi nessuno, sai che ti stanno guardando. Là dove non vedi i fucili ma i fucili
vedono te».
Arturo Perez-Reverte da Territorio
Comache155
In questo capitolo analizzeremo come il complesso rapporto tra
guerra e media sia presente e interpretato nei film di fiction e nei
documentari. Con il termine “media” consideriamo in particolare i
mezzi di informazione, quali la televisione e la stampa. Il cinema
è certo un medium, ma un medium “impuro” perché allo stesso
tempo è un’arte. Terremo comunque in considerazione la sua
fondamentale valenza di medium e nel corso della riflessione
faremo cenno alla relazione tra cinema e giornalismo.
La figura del reporter come personaggio principale della pellicola,
il sistema dei media, la manipolazione e la propaganda,
l’informazione, la ricerca della verità e la messa in scena della
realtà sono diverse problematiche ed elementi, che emergono
nello studio del cinema sulle guerre jugoslave.
155
Arturo Perez-Revert è scrittore e giornalista spagnolo; reporter di guerra in Bosnia, nel
1994 decise che era arrivato il momento di cambiare mestiere. Come fa dire al reporter
Barles, della Tv España, uno dei protagonisti del suo romanzo-verità: “è meglio essere
giovani, credere nei buoni e nei cattivi, avere gambe salde, sentirsi protagonista coinvolto
e non semplice testimone. Dai quaranta in là, in questo mestiere diventi maledettamente
vecchio”. Dal suo libro (edizione italiana: Territorio Comanche, Tropea, 1999, Milano) è
stato tratto nel 1997 un film dal titolo omonimo del regista spagnolo Gerardo Herrero.
184
Il cinema ha ben presto accolto la guerra e i temi bellici nel suo
immaginario, consegnando e conservando, nella sua infinita
memoria di celluloide, la cronaca e la rappresentazione dei
conflitti che hanno segnato il Novecento. Oltre a documentare o
a ricreare la guerra, le tecniche cinematografiche sono state
utilizzate fin dalla prima guerra mondiale per scopi militari
delineando
così
quella
“logistica
delle
percezione
militare”
teorizzata dal sociologo Paul Virilio, in cui l’approvvigionamento
di immagini diventa l’equivalente dell’approvvigionamento di
munizioni,
all’interno
di
una
guerra
moderna
in
cui
la
rappresentazione degli eventi domina la presentazione dei
fatti156.
Ciò che però ci interessa maggiormente è l’informazione in
guerra di cui il cinema fu agente principale nella prima metà del
XX secolo e poi narratore privilegiato, a posteriori, e memoria
storica. Nei primi decenni del Novecento, il cinema si offriva
come il centro principale di articolazione della storia e dei miti, in
una fase poco successiva all’inizio della seconda guerra mondiale
- ricorda Jean-Luis Comolli - “Hollywood si incaricava
della
rappresentazione pubblica del nemico nazista e dimostrava che il
cinema poteva rivaleggiare nella guerra di propaganda con i
mass media dell’epoca,stampa e radio”157, in quel periodo la
figura
del
giornalista
diventa
quella
di
un
possibile
eroe
cinematografico, d’altronde Quarto potere di Orson Welles è del
1941. Con l’avvento della televisione il cinema venne spodestato
dal ruolo di registrazione dell’attualità (i cinegiornali), nonché del
privilegio di rappresentare “i collegamenti tra gli individui e i
gruppi umani e gli eventi nel corso dei quali essi venivano
156
Cfr. Paul Virlio, Guerra e Cinema: logistica della percezione, tr.it., Lindau, Torino,
2002.
157
Jean-Louis Comolli, Destino cinematografico del giornalista, in AA.VV. (a cura di
Giorgio Gosetti e Jean-Michel Frodon), Print the Legend: cinema e giornalismo, Il
Castoro, Milano, 2005, p.179.
185
ripresi”158. Nella seconda metà dello scorso secolo il medium
televisivo acquisì il valore di strumento politico che era stato del
cinema, in termini di propaganda. La figura del reporter è
diventata
spesso,
nel
racconto
cinematografico,
vettore
insostituibile all’interno di un conflitto e la riflessione critica sul
sistema dei media è entrata saldamente nel corpus tematico dei
film. Nella contemporaneità post-moderna può anche capitare
che il cinema si riappropri degli strumenti comunicativi e
meccanismi propri del giornalismo d’inchiesta (in particolare nel
documentario), per cercare un approfondimento o magari la
fantomatica
“verità”,
annichilita
nel
blob
virtuale
ed
autoreferenziale dell’informazione televisiva.
Il cinema mette in scena i conflitti storici e umani, la possibilità o
impossibilità di raccontare la guerra e in alcuni casi svela la
costruzione dell’effimera immagine mediatica della guerra, con
esempi più o meno interessanti. Suddividiamo in quattro sezioni i
film presi in considerazione: le opere con giornalisti come
protagonisti; le pellicole che trattano i problemi legati al mondo
dei media e al loro ruolo nella società, durante la guerra; i film in
cui viene affrontata la propaganda delle televisioni jugoslave fin
dal periodo antecedente il confitto e quelli che deliberatamente
cercano
di
andare
oltre
alle
semplificazioni
dei
mezzi
di
informazione.
Nel
corso
della
storia
del
cinema
l’affascinate
figura
del
giornalista acquista più volti: reporter, cronista, militante,
detective, traditore, profittatore, provocatore, eroe. L’articolata
relazione tra il giornalismo e la finzione cinematografica può
essere riassunta in una declinazione dei differenti stati della
verità, questo perché il personaggio del giornalista si definisce
per il suo rapporto con la verità, come, in termini diversi, il
158
Ibidem
186
detective o il poliziotto si confronta costantemente con la Legge.
“Dalla fiction idealista tradizionale alla messa in discussione delle
apparenze e delle trappole dell’ideologia, il giornalista nel cinema
è stato un personaggio complesso in cerca di un’impossibile
neutralità” ha scritto Jean-François Rauger.
Consideriamo quattro film dove i reporter sono i personaggi
principali: Benvenuti a Sarajevo, Harrison’s Flowers, Prima della
Pioggia e Nema problema. La formula utilizzata è quella del
viaggio:
dall’occidente
ai
Balcani,
sottesa
o
esplicitata,
e
all’interno del teatro di guerra. Il primo impatto con il conflitto è
spiazzante e traumatico, nessuno riesce a decifrare il “caos
balcanico”.
Nel
film
di
Winterbottom,
ispirato
al
libro
autobiografico
Natasha’s Story di Michael Nicholson, due troupe occidentali
registrano l’assedio alla città di Sarajevo, una inglese e l’altra
americana. Il mondo dei giornalisti di guerra si ritrova nei locali
dell’Holiday
Inn,
è
un
mondo
di
rivalità,
concorrenza,
opportunismo, ma anche slanci di umanità. D’altronde, seppur
non venga sottolineato nel film, questa rincorsa sfrenata alle
notizie più che alla volontà di dare alla gente una conoscenza
“obiettiva” è dovuta, come ha spiegato Pierre Sorlin, al fatto che
l’informazione è una merce che si vende e si scambia come altri
prodotti e la distorsione dell’informazione oltre ai limiti imposti
da censure e propaganda è causata anche da questo motivo159.
Nel film due personalità diverse, ma anche in parte due modi
fare giornalismo, si scontrano (ritratti anche con qualche
stereotipo): l’americano Flynn, reporter-star, che vive smanie di
protagonismo e non riesce o meglio non vuole ad andarsene
dalla trappola della città (“questo posto è come un virus da cui
159
Pierre Sorlin, Immagini in movimento: guerra, cinema e televisione, in AA.VV. (a cura
di Peppino Ortoleva e Chiara Ottaviano), Guerra e Mass Media, Liguori, Napoli, 1994.
187
non riesci a liberarti”) e l’inglese Henderson che supera il
distacco iniziale (nella ricerca di scoop) e rompe il silenzio su un
orfanotrofio in pericolo, facendone una vera e propria campagna
stampa, per calamitare l’interesse dell’Occidente. Henderson
ritiene che la strategia di insistere su un fatto in particolare,
invece di abbandonarlo per dedicarsi a qualche altra notizia del
giorno sulla Bosnia, permetta al lavoro di informazione di
incidere in qualche modo sulla realtà che si sta testimoniando.
Come
abbiamo
Winterbotton
già
potuto
riattualizza
un
ribadire
in
modello
un
altro
capitolo,
cinematografico
che
riscosse una discreta fortuna nei primi anni Ottanta, ovvero il
racconto dell’esperienza catartica di uno straniero (spesso un
giornalista), che nel paese devastato dalla guerra riesce a
superare i tormentati problemi personali e riscoprire un nuovo
significato della vita. In quei casi era apportato al “thriller
politico”
ambientato
nel
Terzo
mondo
(Un
anno
vissuto
pericolosamente, Sotto tiro, Urla del silenzio), qui alla situazione
jugoslava.
Aprendo il film con le riprese autentiche della guerra, il regista si
propone
di
restituire
un
significato
a
quelle
immagini
di
repertorio, facendole ritornare di attualità, dopo essere state
neutralizzate dal grande contenitore spettacolare e rassicurante
dei mass media e della televisione in particolare.
Harrison’s Flowers, invece, si sviluppa nella seconda parte come
un road-movie di un gruppo di fotoreporter americani in mezzo
al conflitto e delinea, nel complesso del film, in modo mai
banale, la percezione del mondo occidentale di questa guerra e
la costruzione della sua immagine mediatica. Fin dai titoli di testa
Chouraqui esplicita l’interesse per i corrispondenti di guerra, una
didascalia avverte che il numero dei giornalisti morti durante le
guerre jugoslave dal 1991 al 1995 sono ben quarantotto
188
(complessivamente in tutto il decennio nei Balcani supereranno
gli ottanta).
Prima Harrison Lloyd, fotografo e premio Pulitzer, solitario inviato
dal “Newsweek” e poi la moglie Sarah, alla sua ricerca, e la
pattuglia di reporter al contatto con la guerra non possono che
dedurne la follia e l’incomprensibilità, sfatano comunque da
subito l’idea, diffusasi nei primi giorni nella redazione del giornale
newyorkese, che fossero solo “schermaglie etniche”. La Cnn non
ne parlava ancora. E quasi a voler avvalorare ciò che sostiene
provocatoriamente Ennio Remondino, uno dei principali inviati in
zone di guerra della televisione pubblica italiana, in uno dei suoi
recenti saggi, un conflitto senza immagini (dunque senza una
rappresentazione, un racconto) rischia di non esistere160. La
televisione trasforma, infatti, la guerra in un evento mediatico.
Le
guerre
jugoslave
sfuggiranno
a
questo
“pericolo”
di
invisibilità, anche la televisione americana (più che altro la Cnn),
quando già i network europei erano sul campo, si interesserà al
conflitto, e la guerra passerà ben presto dalla condizione di
unmonitored wars a monitored wars, riprendendo la distinzione
di Bruce Cummings, a seconda dello spazio che a esse viene dato
dai media161. Sfuggirà ma non del tutto, perché - come storici e
massmediologi hanno notato – si è assistito a una progressiva
sottrazione dei conflitti armati alla visibilità mediatica, anche nei
casi di vasta e ridondante informazione (anche a scapito di poche
reali notizie) come durante la prima guerra del Golfo. In
Jugoslavia l’attenzione dei media è improvvisamente scemata
con la presunta cessazione dei conflitti o nel corso della guerra si
è soffermata solo su alcuni luoghi, tralasciandone altri e, al
contempo, anche ulteriori complessità; durante la guerra in
160
Ennio Remondino, La televisione va alla guerra, Sperling & Kupfer, Milano, 2002.
Bruce Cummings, Guerra e televisione. Il ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove
strategie di guerra, tr.it., Baskerville, Bologna, 1993.
161
189
Kosovo di fronte alla mole di parole profuse, le immagini sono
state nettamente inferiori e addirittura al termine della missione
Nato è piombato il silenzio sulla drammatica situazione del
Kosovo, che è sprofondato in quella condizione di unmonitored
wars.
I reporter del film appartengono alla carta stampata, che
tradizionalmente rispetto alla televisione tende ad approfondire
maggiormente la realtà, da essa si differenzia per prerogative,
linguaggi e tempi diversi. Per di più, i protagonisti sono tutti
fotografi e le immagini possono raccontare in modo ancora più
diretto la tragedia, imprigionano in uno sguardo l’orrore che si
trovano
davanti
agli
occhi.
Ma
è
narrabile
una
guerra?
L’osservatore di un conflitto vede soltanto un piccolo settore e
non sa se è importante per l’insieme della battaglia, lo
verificherà solo alla fine della guerra. E allora come mai durante i
conflitti
l’informazione
è
così
ridondante?
Luisa
Cicognetti
fornisce tre risposte: ”La prima riguarda l’ansia di ‘sapere’ di
coloro che sono direttamente o indirettamente coinvolti, anche
se si rendono conto che l’informazione non corrisponde alla
realtà. Un secondo motivo è che l’informazione è un aspetto del
conflitto stesso: serve per sostenere la propria parte e ingannare
il nemico. Infine l’informazione è stata da molto tempo e sarà
sempre più una merce, che consente di ‘nutrire’ la stampa e le
reti televisive”162.
I fotoreporter di Harrison’s Flowers entrano nella città di Vukovar
attraverso un lungo viaggio segnato da infiniti pericoli, si
muovono senza protezioni aldilà della scritta “tv” sul fuoristrada,
non sono al seguito di truppe come i futuri embedded, e nel loro
percorso riescono ancora a trascinarsi l’alone romantico che ha
162
Cicognetti L., Servetti, Sorlin P. (a cura di), La guerra in televisione, Marsilio, Venezia,
2003, p.16.
190
caratterizzato la mitologia dell’inviato di guerra. All’interno del
gruppo si vivono contrasti, solidarietà e contraddizioni, dalla
retorica dei reporter diventati famosi “una fotografia può
imprigionare la memoria del nostro tempo" alla bulimia nevrotica
dei fotografi, non ancora consacrati e insigniti con il premio
Pulitzer,
che
scattano
ossessivamente
e
volendo
citare
Aleksander in Prima della Pioggia quasi “sparano” una seconda
volta alle vittime.
Nel film di Manchevski, Aleksander, celebre fotografo di origine
macedone, si pone interrogativi etici sul valore della fotografia di
guerra che immortala la violenza del conflitto e il dolore degli
altri. I turbamenti lo portano temporaneamente ad allontanarsi
dal suo lavoro. Tornato a Londra dalla guerra in Bosnia porta con
sé un profondo rimorso, pensa di aver ucciso con uno scatto
fotografico: ha impresso nel suo obiettivo la fucilazione di un
uomo, dopo aver confessato ad un soldato la frustrazione per
essere a corto di foto sensazionali. Ritorna nella sua terra
d’origine, in Macedonia ma ripiomba in una nuova guerra che lo
coinvolge direttamente. Come riportato nell’analisi del film, se
l’imperfezione del cerchio storico rilevata nell’ultima sequenza,
che alluderebbe ad una possibilità della Storia di non ripetersi,
contiene un messaggio positivo, allo stesso tempo la scoperta
della morte precedente di Aleksander infonde al film un
messaggio d’angoscia mass-mediologica: “Senza foto, non c’è la
morte, perché ciò che non è testimoniato, non documentato, non
esiste?”163.
Nel 1928 Arthur Ponsonby, scrittore e politico britannico, scrisse
che “La verità
163
è la prima vittima della guerra” nel saggio
Alberto Crespi, op.cit.
191
Falsehood in Wartime: Propaganda Lies of the First World War164.
La frase, entrata ormai a far parte dell’immaginario collettivo, è
l’asse centrale su cui ruota Nema problema, prima opera di
fiction del regista Giancarlo Bocchi, che attraverso le tecniche del
cinema
svela
la
messa
in
scena
della
realtà,
operata
quotidianamente dai mezzi di informazione. La verità sotterrata
dai molteplici interessi, dalla “ragion di stato”, dalla propaganda,
dal montaggio audiovisivo, dall’opportunismo e dalla paura. Tra i
quattro protagonisti in viaggio tra i territori del conflitto, alla
ricerca del comandante Jako, spiccano le figure di due giornalisti
Lorenzi e Maxime, molto diversi tra loro nella visione della
deontologia professionale. Il primo ormai freddo di fronte agli
sconvolgimenti del conflitto è pronto ad inventare falsi scoop e
finte interviste pur di comunicare qualcosa della guerra, il
secondo, giovane e idealista, alla ricerca di verità indiscutibili
anche se a sua volta bramoso di sensazionalismo, tanto da non
riconoscere se la versione del massacro del treno raccontata da
Zamira sia vera o falsa.
L’autore cerca di far emergere nella vicenda narrata un dilemma
etico e gnoseologico: se sia possibile raccontare la guerra (una
realtà che pare quasi inenarrabile) e come farlo senza cedere alle
falsificazioni, alle mistificazioni e all’artificio. “Forse, l’unico modo
per non essere complici per non diventare tutti ‘cecchini della
visione’, consiste nell’adottare quello sguardo “sghembo” che per
primo abbiamo visto in azione nel film : quella della ragazza con
i due occhi diversi che pratica sempre una doppia visione (e una
164
L’origine della celebre frase è dubbia, è sicuro invece che Ponsonby è stato il primo a
riportarla per iscritto. “In 1918 US Senator Hiram Warren Johnson is purported to have
said: The first casualty when war comes is truth. However, this was not recorded. In 1928
Arthur Ponsonby's wrote: The 'When war is declared, truth is the first casualty'.
(Falsehood in Wartime) Samuel Johnson seems to have had the first word: 'Among the
calamities of war may be jointly numbered the diminution of the love of truth, by the
falsehoods which interest dictates and credulity encourages (from The Idler, 1758)” fonte
tratta dal sito del quotidiano britannico The Guardian, www.guardian.co.uk.
192
doppia versione) su ciò che il mondo e la guerra le consentono di
vedere”165. Dietro le quinte, il riferimento numero uno dell’autore
è Egisto Corradi, figura schiva e strepitosa di inviato speciale
(lavorava per il “Corriere della Sera” ai tempi del Vietnam), uno
che la guerra non la guardava in televisione ma andava, vedeva,
capiva.
La verità è la principale vittima, perché oggi la guerra è
combattuta anzitutto sul terreno dell’informazione (oltre che
ovviamente sul fronte militare). E come scrive Mimmo Candito,
uno dei più importanti giornalisti di guerra italiani, autore di una
monumentale storia sulla professione, che fu anche di Ernest
Hemingway, I reporter di guerra: nelle “nuove guerre” più che in
passato l’informazione è diventata l’arma più importante di un
conflitto, perché il consenso dell’opinione pubblica è lo strumento
essenziale in qualsiasi operazione bellica166. Oggi un governo e i
comandi militari non dichiarerebbero una guerra se prima non
fosse stato predisposto un adeguato apparato di controllo del
flusso informativo e in fase operativa saranno sempre assistiti da
un nutrito gruppo di professionisti, ingaggiati dalle migliori
agenzie pubblicitarie, che controllino e pilotino l’attività dei
giornalisti, definendo quello che è tecnicamente chiamato news
management ovvero la gestione delle notizie, che vigila e
delimita il territorio virtuale del corrispondente. Dopo il Vietnam
(il primo conflitto ripreso dalle telecamere, in cui i media
godettero di un’indipendenza che mai più si ripropose) ogni
guerra è stato un passo in avanti nel tentativo di sottrarre libertà
ai giornalisti impegnati in prima linea, allontanandoli dal campo
di battaglia. La guerra del Golfo, la Jugoslavia e l’Afghanistan si
sono rilevate le tappe fondamentali di un processo che cela –
165
Gianni Canova, Francesco Costa (a cura di), Vedere la guerra con occhi diversi, in
“Letture”, agosto-settembre 2004.
166
Mimmo Candito, I reporter di guerra, Baldini & Castoldi, Milano, 2002, pp.595-7.
193
secondo
Candito
–
l’intento
della
censura
dietro
l’offerta
allettante di una lettura preconfezionata della cronaca del
conflitto,
televisione
che
avviene
stessa,
attraverso
ormai
i
media
modello
elettronici.
dominante
La
della
comunicazione, aggiunge un ultimo anello a questo processo di
mutazione trasformando la guerra in uno “spettacolo”.
Alla verifica del fatto che alcune parole che potrebbero sembrare
quasi eccessive così non sono, basta valutare come le tecniche di
fiction vengano utilizzate nella costruzione dell’informazione.
Marcello Walter Bruno, in un interessante saggio L’infofiction di
guerra167, spiega come un team di esperti che formano il Moc
(Media Operation Center) abbia messo appunto le strategie
comunicative per presentare all’opinione pubblica la guerra della
Nato in Kosovo, producendo una documentazione fotografica
sulle fosse comuni serbe e un video sui massacri di Kosovari,
rivolti alle televisioni. “Se dal punto di vista politico si tratta di
propaganda, dal punto di vista dei generi audiovisivi non
possiamo che parlare di fiction: non ha neanche importanza
sapere tutto sull’organizzazione del profilmico, è l’idea di regia (o
meglio di sceneggiatura, di script) che qui gioca nel ridefinire
radicalmente il concetto di informazione”168. Il giornalismo
diventa allora un ‘osservazione di secondo grado: la verità del
materiale
“documentario”
è
asserita
da
un
testo
“metadocumentario”.
La guerra mediatica è anche guerra contro i media nemici. La
notte del 23 aprile i missili della Nato bombardano la sede della
televisione di Belgrado, con un bilancio di sedici morti civili. I
serbi distruggono, invece, i siti kosovari di Radio 21 e l’edificio
167
168
M.W.Bruno, op.cit.
Ibidem
194
del quotidiano “Koha Ditore”. I reporter diventano parte in causa
del conflitto, in passato ne erano soltanto testimoni.
Sedicipersone
documentario
di
Corrado
Veneziano,
con
la
testimonianza di Ennio Remondino e la consulenza giuridica di
Domenico
Gallo,
rilette
sul
bombardamento
della
Rts,
la
televisione di stato serba, si interroga sulla ricaduta che ha avuto
sulla libertà di informazione e ricostruisce, con interviste, notizie
letture e immagini inedite, la cornice dell’evento. All’epoca dei
fatti i giornalisti e le televisioni non erano obiettivi militari, ma da
quel momento - spiega Veneziano - la troupe televisiva fu
interpretata come “figura militare da contrastare nell'atto della
sua funzione di guerra”. La Rts era considerata principale
strumento
di
propaganda
del
regime
di
Milošević.
Il
documentario dà voce alle vittime che quella notte erano di turno
nel palazzo della tv, tutte molto giovani; intreccia le parole e le
testimonianze di giornalisti e operatori della Rai a quelle dei
colleghi della tv di Belgrado, che all’epoca si trovavano su
“fronti”
opposti
(vista
la
partecipazione
diretta
dell’Italia
all’intervento militare in Kosovo).
Con Sedicipersone entriamo nella seconda sezione, prendendo in
considerazione i film che affrontano il ruolo dei media nella
società, durante la guerra. No Man’s Land di Danis Tanović
ambienta la storia rappresentata nel 1993 in Bosnia. Due soldati,
uno serbo e l’altro bosniaco, a cui si aggiunge un terzo sospeso
su una mina, rimangono intrappolati nella “terra di nessuno”.
Sopraggiungono i caschi blu dell’Onu, solo un sergente violando
gli ordini dei superiori cerca di intervenire per risolvere la
situazione. Nel frattempo giunge anche la stampa che –
appostata in attesa di uno scoop – trasforma la vicenda in uno
spettacolo mediatico internazionale. Il regista costruisce un
ritratto critico dei giornalisti non privo di satira, che però li
195
differenzia in positivo rispetto ai rappresentanti inermi delle
Nazioni Unite. I reporter ossessionati dal sensazionalismo,
cercano comunque di portare all’attenzione dell’opinione pubblica
i drammatici fatti, denunciando la passività dei caschi blu. Ha
affermato lo stesso Tanović: “I giornalisti, come noi registi,
dovrebbero avere sempre in mente l’etica. I reporter hanno fatto
molto per il conflitto jugoslavo, anche indotto l’Onu a intervenire,
come mostro nel film, ma nella maggior parte di casi è lo scoop,
il sensazionalismo che si cerca a tutti i costi. Vi faccio un
esempio. Un giorno sento in tv che era caduta una granata sul
quartire Onu, ma in quello stesso giorno erano piovute su
Sarajevo oltre 3000 bombe di cui non s’è data notizie. E’ una
questione di scelte, come sempre”169.
Veillées d'armes: Histoire du journalisme en temps de guerre di
Marcel Ophüls è il risultato di quattro viaggi del regista a
Sarajevo nel 1993. Ha intervistato corrispondenti di guerra e
giornalisti di fama mondiale (tra cui John Burns, Pulitzer del
“New York Times”) sui rapporti tra la guerra e i media. Dal
tristemente
famoso
Holiday
Inn,
Ophüls
e
gli
intervistati
analizzano come i media trattano l’attualità, comparano i diversi
modi con cui i reporter hanno documentato altre guerre e si
interrogano sulla delicata questione dell’etica professionale.
Secondo Jean-Louis Comolli, per rimediare al male fatto dalla
televisione, che lo ha distrutto, tocca al cinema far tornare a
esistere il giornalista come figura possibile e desiderabile. I
giornalisti di Ophüls “non dominano dall’altro, non manipolano le
informazioni, ma ne sono piuttosto in balia”170.
Nella Sarajevo, dimenticata dai mezzi di informazione dopo che
si ha avuta l’impressione che la guerra fosse finita, Godard
169
170
AA.VV. (a cura di Giorgio Gosetti e Jean-Michel Frodon), op.cit., p.261.
Jean-Louis Comolli, op.cit., p.181
196
rincorre i luoghi della memoria e della speranza. Il regista
francese ha dichiarato di essere andato a filmare Notre Musique
a Sarajevo, perché nessuno oggi ci va più, mentre negli anni
dell’assedio era diventato un tema obbligato di intellettuali e
artisti di ogni genere. Sarajevo, ora luogo di un conflitto
raffreddato, diventa nel corso del film per Godard il luogo ideale
per pensare ad un presente “caldissimo”: la questione israelopalestinese.
“Se
c’è
qualcuno
che
ha
mantenuto
la
consapevolezza della ‘linea orizzontale’ di cui parla Valery, questi
è proprio Godard, la cui intera opera, ormai da quindici anni,
rielabora la stessa linea del ritorno sulla storia e sulla memoria
del Ventesimo secolo per comprendere le linee spezzate del
presente di cui i media ci presentano solo segmenti sparsi”171.
La terza area è relativa ai film che hanno trattato, in modo
fortemente polemico, la propaganda operata dei media jugoslavi,
in primis serbi, fin dalla seconda metà degli anni Ottanta. La
manipolazione mediatica nell’informazione televisiva è stata uno
dei fattori scatenanti il conflitto. Fin dall’inizio della sua ascesa
politica Milošević si propose di arruolare i media per legittimare
la campagna nazionalista, i sogni della “Grande Serbia” e così il
futuro l’intervento militare, paventato nel famoso discorso di
Kosovo Poje nel giugno del 1989, per celebrare i seicento anni
dall’eroica battaglia di “Campo dei Merli”. E poi, quarto, ma non
ultimo scopo, scatenare nel popolo serbo, la paura del vicino.
Esumando e mandando in onda le montagne di teschi dei serbi
uccisi dagli ustascia, cinquant’anni prima, il video-trainning del
leader nazionalista Milošević convinse i serbi residenti nelle zone
di confine o in Croazia e Bosnia, di essere destinati, nella Croazia
di Tudjman e nella Bosnia di Izetbegović, ad un altro stermino,
171
Alain Bergala, Alla lunga, non è mai successo niente, in AA.VV. (a cura di Giorgio
Gosetti e Jean-Michel Frodon), op.cit., p.211.
197
spingendoli ad un’inevitabile rivolta armata. I fenomeni di
manipolazione mediatica e la stessa logica di strumentalizzazione
dei mezzi di informazione si sono verificati, in molti casi, anche
nelle altre repubbliche nate dalla frammentazione violenta della
ex Jugoslavia: in Croazia, dove il regime di Tudjman non si
rivelava certo meno autoritario di quello serbo neutralizzando le
voci indipendenti e in Bosnia, dove sorsero radio e televisioni
fomentate dall’odio nazionale. Riuscivano a reagire con enormi
problemi, all’omologazione imposta e all’ingerenza del potere,
alcuni media indipendenti come l’emittente B92 di Belgrado e il
quotidiano cartaceo “Oslobodjenje” di Sarajevo.
Ne Il disertore di Pavlović la guerra arriva a Belgrado attraverso
i telegiornali marcatamente propagandistici. Tempo d’amare,
dove la guerra serbo-croata viene vista dalla parte dei croati,
punta il dito contro la manipolazione mediatica della televisione
serba, che deformava inverosimilmente le notizie. Lepa sela, lepo
gore affronta tale argomento in una sequenza dai tratti surreali:
Laza vedendo la tv in un prato di campagna insieme ai parenti e
sentendo il rischio di un nuovo genocidio ustascia, decide
improvvisamente di andare a difendere con le armi la sua terra,
la Serbia. La vita è un miracolo si scaglia letteralmente contro la
disinformazione televisiva: non importa se l’apparecchio, che
Luka
scaraventa
dalla
finestra,
trasmettesse
informazione
occidentale o balcanica.
Nella quarta e ultima sezione emerge una nuova categoria, che
va oltre la controinformazione come opposizione alla propaganda
governativa. I new media forniscono la possibilità di autoinformazione e auto-documentazione. Radio B92, censurata dal
governo, continuò a trasmettere dal suo sito (la guerra in Kosovo
diventa la prima guerra in internet), alcuni anni prima i fratelli
Sead e Nihad Kreševjaković e Nedim Alikadić, dall’interno
198
dell’assedio
di
Sarajevo,
realizzarono,
all’inizio
quasi
inconsapevolmente, la base del futuro documentario Do you
remember Sarajevo?. Il film (1992-2002) è l’assemblaggio di
materiale
video
proveniente
dalla
televisione
(bosniaca
o
straniera) e, per la stragrande maggioranza, di materiale
amatoriale girato con le minicamere dalla primavera del ‘92: un
corpus
di
rappresenta
cinquecento
un
ore
enorme
di
materiale
patchwork
reso
registrato,
possibile
che
dalla
rivoluzione digitale. Ha notato Marcello W. Bruno, come già nel
1915 la Kodak italiana avesse fatto un annuncio pubblicitario in
cui affermava che ogni ufficiale e soldato avrebbe dovuto
provvedersi dell’apparecchio fotografico “Vest Pocket Kodak”, che
- come recitava il comunicato - si poteva comodamente portare
in una tasca della divisa, ma l’innovazione tecnologica non
trasformò i fanti della Grande Guerra in tanti Robert Capa172.
Con gli anni Novanta arriva invece il momento della caméra stylo
anonima e collettiva, con immagini che possono viaggiare nella
rete telematica. “La controinformazione non è più ‘guerriglia
semiologica alla Eco’ (decostruzione della testualità prodotta
dagli apparati ideologici di stato) ma produzione testuale
alternativa”173.
Accanto alle nuove forme resistono ancora i documentari che si
propongono di andare oltre la banalizzazione imposta dai mezzi
di informazione, nei casi dei registi/reporter. I lavori di Giancarlo
Bocchi lo testimoniano: eludendo qualsiasi tentazione di film a
tesi,
attraverso
la
forma
dei
“documentari
di
creazione”
costruiscono sentieri paralleli ai percorsi meno tortuosi e più
rassicuranti dei mass media, scavando nella realtà e nelle storie
172
173
Cfr. M.W.Bruno, op.cit.
Ibidem
199
quotidiane, lontane dall’ufficialità della Storia, siano esse a
Sarajevo o nel Kosovo.
Nel corso del capitolo si è intuito come fin dall’invenzione della
settima arte, cinema e giornalismo si incontrino e si raccontino a
vicenda, talvolta si facciano concorrenza. Hanno in comune la
rappresentazione della realtà, riprendendo le parole di Abbas
Kiarostami che oltre a riconoscere le analogie, ricorda un
vantaggio del cinema rispetto all’inchiesta giornalistica: “rimane
nel tempo, può usare un linguaggio più profondo, può aspirare a
non essere effimero”. Non sempre ci riesce.
Attraverso gli scritti di studiosi abbiamo presentato una visione
lucida, ma certo pessimistica, della contemporaneità e dello stato
dell’informazione. Crediamo che, al di fuori delle logiche del news
management,
possa
ancora
esistere
uno
spazio
per
un
giornalismo etico ed indipendente e gli esempi non sono così rari.
Basta scarpinare come diceva il reporter Egisto Corradi, “vedere
è essenziale e per vedere bisogna scarpinare”174.
174
Mimmo Candito, op.cit., pp. 471-2.
200
PARTE SECONDA
LE GUERRE JUGOSLAVE (1991-1999)
1 G LI ULTIMI ANNI DELLA J UGOSLAVIA E LA SUA
DISGREGAZIONE
La
dissoluzione
della
Jugoslavia
iniziò
anni
prima
che
scoppiassero le guerre, che si sarebbero protratte per tutti gli
anni Novanta. Fu una lunga incubazione che durò almeno dieci
anni, subito dopo la scomparsa del maresciallo Tito (Josip
Brosiz), figura autoritaria e carismatica che aveva governato la
Federazione Jugoslava per trentacinque anni, anche con scelte
relativamente
fortunate
come
l’
“autogestione”
territoriale
dell’economia, in contrapposizione alla pianificazione economica
centralizzata
tipica
del
modello
sovietico,
promuovendo
la
partecipazione degli operai all’organizzazione della produzione e
alla gestione delle imprese. Il sistema comunista jugoslavo,
seppur si distinguesse per alcune scelte, sia in politica estera sia
interna, dal dogmatismo del socialismo sovietico (col quale ebbe
numerosi scontri), non riuscì mai a risolvere il
problema della
democrazia, nodo essenziale per l’evoluzione dello stato.
Dopo un lungo coma, che si trasformò in una sorta di veglia
collettiva in tutto il paese, il 4 maggio del 1980 Tito morì.
“L’emozione e lo sconforto degli Jugoslavi – scrive Stefano
Bianchini175 – furono enormi. La loro sensazione immediata fu
quella di aver perso il ‘padre’, l’anziano (Stari era appunto
chiamato) secondo un modulo interpretativo di origine rurale”. La
sensazione generalizzata di insicurezza, legata anche al fatto che
175
Stefano Bianchini, La questione jugoslava, Giunti, Firenze, 1999, 134.
201
l’anno prima era morto Edvard Kardelj, il “numero due” del
regime, si inserì in un momento di disagio sul piano economico e
politico. L’improvviso aumento dei prezzi petroliferi si sommò ai
crediti internazionali che avevano fatto lievitare l’indebitamento
estero fino a 20 miliardi di dollari. Queste enormi difficoltà non
tardarono ad aggravare le tensioni tra le diverse repubbliche,
tutte gelose delle proprie prerogative. Tito era, invece, riuscito,
con la sua autorità a far convivere le diverse etnie, favorendo
l'intreccio delle persone e dei popoli in una società multietnica.
Risorsero, così, sul finire degli anni Settanta i forti sentimenti
nazionalistici dei vari gruppi etnici della Jugoslavia e, con la
morte
del
dittatore
Tito,
le
spinte
secessionistiche
delle
repubbliche, ai fini di creare stati monoetnici; si acuirono le
contrapposizioni tra i ricchi territori del nord (Slovenia e Croazia)
e le aree più depresse della federazione; si sviluppò, negli anni
Ottanta, una volontà egemonica della Serbia (con forti richiami
mitici)176,
mentre
la
Lega
dei
comunisti
precipitò
in
un’irrimediabile crisi.
La Jugoslavia era divisa in sei repubbliche autonome (Serbia,
Croazia, Slovenia, Macedonia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro) e
due regioni (Kosovo e Vojvodina). La penisola balcanica è
un’area geografica particolare, che aveva subito nel corso della
sua storia numerose dominazioni (ricordiamo le ultime, quelle
dell’Impero
Asburgico
e
dell’Impero
Ottomano),
conflitti
e
contaminazioni culturali177.
176
Il mito di San Vito, il giorno della sconfitta dei serbi cristiani contro i turchi ottomani (28
giugno 1389), ha sempre occupato un posto di rilievo nella cultura popolare serba. Fu
richiamato, in chiave politico propagandistica, dai nazionalisti del dopo Tito, per
sollecitare la riscossa del popolo celeste al fine di costruire la “Grande Serbia” che
unisse tutti i popoli serbi della Jugoslavia. Contemporaneamente si sviluppava in
Croazia, l’idea di una “Grande Croazia”, che nella prospettiva di Tudjman comportava la
conquista dell’Erzegovina, popolata da molti croati.
177
L’idea “jugoslava” come prospettiva unitaria risale alla fine del Settecento.
“La Storia dei popoli jugoslavi degli ultimi due secoli – ossia da quando la questione
nazionale è emersa come fenomeno politico moderno – non è solo Storia di conflitti, di
202
I popoli jugoslavi (letteralmente “slavi del sud”) si erano riuniti
per la prima volta sotto uno stato unitario nel dicembre del 1918
al termine della prima guerra mondiale che li vide tristemente
protagonisti. Il primo dicembre, un mese e mezzo prima
dell’inizio della Conferenza di pace a Versailles,
il principe
reggente Aleksandar proclamò la costituzione del Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni (Regno SHS). Ci vollero però quasi due
anni
prima
che
i
confini
di
tale
regno
fossero
stabiliti
definitivamente dai vari trattati di pace, dopo il conflitto bellico.
Nel 1941 gli eserciti dell’Asse occuparono la Jugoslavia (così
denominata dal 1929), che precipitò nella seconda guerra
mondiale. Invasori, nazionalisti e antifascisti si combatterono
aspramente. Nel maggio del 1945 il movimento partigiano,
protagonista di un’eroica lotta di liberazione, ebbe un capo
riconosciuto: Josip Broz, detto Tito (1892-1980).
Il 29 novembre del 1945 venne proclamata la Repubblica
federativa popolare di Jugoslavia (che nel 1963 prese il nome di
Repubblica federativa socialista di Jugoslavia), secondo un
sistema di tipo comunista. Raggruppava otto grandi gruppi etnici
(Serbi,
Sloveni,
Croati,
Musulmani,
Montenegrini,
Albanesi,
Ungheresi e Macedoni) tre religioni e quattro lingue178. La
Bosnia-Erzegovina, una sorta di Jugoslavia in piccolo con la
odi e di contrapposizioni che di tanto in tanto riemergono prepotenti per la realizzazione
del “fine ultimo”, ossia lo Stato Nazione. Essa, con pari dignità, è anche Storia di
integrazione, di aspirazioni unitarie, di consapevolezza che, per popoli tanto piccoli e da
tanti (compreso Marx) considerati ingiustamente ‘senza Storia’, la dignità e i diritti
nazionali, la ‘diversità’ e le specificità di ciascuno di essi, nonché il loro futuro economico,
sarebbero stati meglio rassicurati dalla creazione di una compagine statale più ampia
come la Jugoslavia, se non addirittura dalla Federazione balcanica. […] In definitiva,
dimenticare ‘una parte’ della Storia, solo perché oggi il nazionalismo caratterizza la prima
fase del post-comunismo balcanico, può indurre a erronee valutazioni sul passato e ad
una sostanziale incomprensione della ‘transitorietà’ (e quindi, della relatività) del
presente”. S.Bianchini, Sarajevo le radici dell’odio (Identità e destino dei popoli balcanici),
Ed. Associate, Roma, 1996, p.33.
178
Le religioni principali: ortodossa, cattolica e musulmana. Le lingue ufficiali: serbocroato, croato-serbo, macedone e sloveno.
203
coabitazione
di
tre
etnie
(musulmani,
serbi
e
croati),
fu
storicamente un confine virtuale tra Occidente e Oriente (la
Kraijna croata e il fiume Drina sono assurti spesso al simbolo di
“limes”).
Ritornando
agli
ultimi
anni
di
vita
dello
stato
jugoslavo,
dobbiamo inoltre inserire la crisi della federazione (oltre a
valutarne le cause endogene) in un contesto internazionale di
disfacimento del blocco comunista, che si verificò, nonostante i
coraggiosi tentativi
di riforma di Gorbačëv, tra i reali problemi
economici, il declino dell’ideologia comunista e il risorgere dei
nazionalismi nei paesi dell’Europa orientale. Seppur Tito avesse
rotto con Stalin nel ‘48, la Jugoslavia fino al 1990 mantenne la
struttura a partito unico e proprio in quegli anni le sorti dei due
paesi parvero unirsi nei differenti destini. Da anni era in atto un
simile
impoverimento
dell’idea
socialista
accompagnato
dal
sorgere dei nazionalismi; il processo di autodisintegrazione fu
contemporaneo. In Urss e in Juogoslavia si verificò un rigetto del
totalitarismo e del potere monopolistico dell’apparato, che in
diversi casi riuscì a conservare il potere convertendosi in
profondità al nazionalismo e palesando una superficiale adesione
alla democrazia179. Tre grandi crisi - spiega il sociologo Edgar
Morin - si intrecciarono: politica (fragilità della democrazia e
riesumazione delle vestigia del vecchio sistema, burocrazia
corrotta rimasta al potere), economica (il buco nero tra
l’economia di Stato e quella di mercato) e nazionale (il delirio
nazionalista)180. In Jugoslavia la crisi del regime a partito unico
toccò il punto più drammatico, fece saltare i precari equilibri fra
le nazionalità su cui il paese si reggeva dalla fine della seconda
179
180
Cfr.Edgar Morin, I fratricidi, Meltemi, Roma, 1997, p.63-64.
Ivi, cit., p.66.
204
guerra mondiale fino allo scontro armato e alla disgregazione
dello Stato federale.
Sono passati pochi anni dalla conclusione dell’ultimo conflitto in
Kosovo (1999), ma la conoscenza delle guerre jugoslave, anche
a causa della superficiale rappresentazione fornita dai media
occidentali, è spesso semplificata e ricca di facili luoghi comuni.
Strano, per una tragedia che si è svolta a poche ore di macchina
dall’Italia.
Le
cosiddette
guerre
dei
Balcani
sono
una
fase
storica
assolutamente complessa. Ricondurle ad odi atavici è fuorviante.
Il problema, come vedremo, non è l’appartenenza etnica, ma il
suo uso politico. La sbrigativa categoria di conflitto etnico è stata
utilizzata per spiegare o per indicare le guerre jugoslave e i
conflitti dei Grandi Laghi (Burundi, Ruanda, Congo, Zaire).
“Il conflitto etnico non è la realtà della guerra, ma piuttosto il
nome della rappresentazione pregiudiziale con cui gli osservatori
sia locali che occidentali si dispongono a fronte di un conflitto del
quale capiscono ben poco e da cui vogliono a tutti i costi sentirsi
distanti”181.
La
rappresentazione
etnica
del
conflitto
dei
Balcani
ha
mascherato problemi differenti e moderni182. L’odio etnico, anche
se presente, non deve essere ritenuto la causa scatenante della
guerra, dalla quale però viene ampiamente rinfocolato.
“Spiegare la guerra con l’odio tribale è come spiegare – ha
scritto
Paolo
Rumiz-
un
incendio
doloso
col
grado
di
infiammabilità del legno da costruzione, e non col fiammifero
181
Marco Deriu, Dizionario critico delle nuove guerre, Emi, Bologna, 2005, p.105.
Il conflitto militare jugoslavo di fine anni Novanta è espressione di culture
sostanzialmente europee. “Esso è prettamente moderno, poiché la sua natura investe le
fonti di legittimità degli Stati, i loro ordinamenti e le loro strutture; il futuro della
democrazia; la sicurezza e l’organizzazione internazionale”. S.Bianchini, La questione
jugoslava, cit. p.174.
182
205
gettato da qualcuno”183. L’odio etnico esplode solamente se
qualcuno decide di servirsene strategicamente e politicamente in
maniera sistematica; è un progetto lungo e complesso che si
sviluppa attraverso la manipolazione storica e mediatica, il
richiamo forzato ai miti nazionali, infondendo la paura del vicino
come nemico, riscoprendo antiche ferite, cavalcando i sentimenti
delle popolazioni e provocando i primi focolai di un violento
conflitto civile184.
Le guerre jugoslave vissero una lunga fase di incubazione. Alla
costruzione del conflitto, all’interno del quale si intrecciavano
interessi economici e nazionali, concorsero politici, mass media,
apparati militari e intellettuali, che crearono la teoria dell’odio
etnico e del “tribalismo”, inteso strumentalmente come principale
motore dei conflitti balcanici. I tratti più riconoscibili di questo
processo sono rintracciabili principalmente nella Serbia di fine
anni ’80 con l’ascesa al potere di Milošević, ma anche in Croazia
e in Slovenia si verificarono fenomeni simili. Nelle tre repubbliche
erano presenti mire espansionistiche (in Serbia e per certi versi
in Croazia) o secessionistiche (in Slovenia e in Croazia e
successivamente in Bosnia).
“L’imbroglio etnico è stato ampiamente utilizzato per legittimare
il conflitto, garantendo così la permanenza al potere di leadership
183
Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti, Roma, 2000, p.29.
Spiega Paolo Rumiz (Maschere per un massacro, cit., p.61) come dietro alla
preparazione della guerra ci fosse un importante piano di manipolazione e intrigo, perno
della quale erano i mass media. Un congegno complesso (principale regista è Slobodan
Milošević) di cui si possono riassumere i principali momenti: la disgregazione del vecchio
mito titoista di “fratellanza e unità”; la costruzione di un destino storico nuovo (grazie
all’apporto dei mass media); l’invocazione del leader da parte della massa in modo da
esaltare la spontaneità dell’operazione, occultandone la sofisticata regia; il risveglio
dell’aggressività attraverso la paura (mobilitando, per esempio, il ricordo di antiche ferite
e sottolineando tutte le reali o fittizie discriminazioni di una parte etnica, utilizzando la
“memoria” in chiave propagandistica), in modo tale che il “futuro aggressore” si senta
vittima; l’accensione di focolai di scontro soprattutto nelle zone più rurali, quelle più
sensibili alla causa nazionale e contemporaneamente più manipolabili, che hanno
costitutito il “materiale umano” della guerra; la teoria del tribalismo, creata ad arte dal
potere secondo i peggiori luoghi comuni che vedono i Balcani come la “terra dell’odio”.
184
206
nazionaliste senza scrupoli”185.
Risolvendo la questione etnica,
tout court, in quella nazionale e quindi in quella statuale186 si è
trovato il pretesto per scatenare guerre fratricide contro le
popolazioni civili su cui la pratica della pulizia etnica è stata
esercitata senza sosta. La guerra raggiunse livelli altissimi di
violenza soprattutto ai danni dei civili.
Il furore nazionalistico, diffusosi e andato al potere nelle varie
repubbliche187, fu anche utilizzato contro la multietnicità delle
città jugoslave e fece breccia, opportunamente, nelle zone più
rurali e chiuse della Jugoslavia, che diventarono la prima
avanguardia militare del conflitto. Si creò allora uno scontro più
sociale e culturale, che etnico, che fu notato solo da quegli
attenti
osservatori, che sfuggivano al cliché del tribalismo,
costruito invece per “esaltare” la spontaneità della guerra e
nasconderne la lunga preparazione.
La teoria della guerra etnica assolve naturalmente ad alcuni
scopi cruciali: “Innanzitutto fa credere all’irrazionalità di uno
contro i cui scopi (economici) e i cui metodi (di manipolazione)
sono invece assolutamente razionali, e dove le responsabilità di
vertice sono del tutto trasparenti; in secondo luogo, fornisce la
base
teorica
all’impossibilità
della
convivenza
e
dunque
185
G.Marcon, Dopo il Kosovo: le guerre nei Balcani e la costruzione della pace, Asterios,
Trieste, 2000, p.95.
186
Tra i principali gruppo etnici o meglio comunità che si contrapposero nelle guerra
jugoslave, dal 1991 al 1995, era diversa la percezione dello stato-nazione. Il diritto di
stato croato, legato fondamentalmente a una sovranità territoriale, si opponeva ad una
visione più etnica e comunitaria dei serbi, mentre i “musulmani” di Bosnia hanno oscillato
dopo il 1878 fra l’integrazione in un insieme più ampio (ex-Jugoslavia, blocco croato,
solidarietà musulmana) e la recente affermazione del loro stato-nazione. Josip Krulic, La
percezione dello stato nazione da parte dei croati, dei “musulmani” bosniaci e dei serbi, in
Aa.Vv., Nazioni e Nazionalismi, Asterios, Trieste, 1999, p.127.
187
Durante la guerra di smembramento della ex-Jugoslavia sostiene Edgar Morin,
nacque un nuovo sistema: “Mentre la Croazia era dominata da un partito nazionalistapopulista di stampo classico, assai poco tollerante nei confronti delle minoranze e
dell’opposizione, in Serbia si è formato un modello integrato di total-nazionalismo. E’
dunque nello Stato-nazione serbo che si è prodotta una sintesi tra il sistema d’apparato
ereditato dal comunismo – integralmente convertito al nazionalismo – e la fazione
ultranazionalista di vecchia tradizione storica. (E.Morin, op.cit., p.66)
207
all’inevitabilità della pulizia etnica; in terzo luogo, soddisfa in
pieno il bisogno di spiegazioni banali da parte dell’opinione
pubblica
internazionale”188.
I
paesi
occidentali,
a
tratti
disinteressati (per lo più nel periodo precedente ed iniziale della
guerra, quando rimasero inermi di fronte al massacro) e a tratti
interessati (soprattutto per motivi economici ed equilibri politici)
dalla lunga disgregazione della Jugoslavia, utilizzarono spesso in
termini autoassolutori la teoria dell’odio.
Diversi storici dei Balcani, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta
del Novecento, dissero che la guerra sarebbe finita in Kosovo là
dov’era iniziata. Così si esprime anche Nicole Janigro, l’autrice di
L’esplosione delle nazioni189.
E’ proprio in Kosovo che la disgregazione della Jugoslavia del
secondo dopoguerra ebbe la sua prima tappa. Nel marzo del
1981, in un clima da tempo teso in tutto il paese, la piccola
regione autonoma
della Serbia abitata in maggioranza da
albanesi aveva dato vita a manifestazioni separatiste che erano
culminate in un’aperta ribellione e in gravissimi disordini, con un
bilancio di 11 morti e oltre 250 feriti.
“Il malessere del Kosovo – scrive Giulio Marcon – veniva da
lontano. I serbi lo consideravano da sempre come propria culla
storica”190. Qui, si era svolta la battaglia di Kosovo Polje nel
1389, in cui l’esercito cristiano, guidato dal principe serbo Lazar
fu tragicamente sconfitto dai Turchi ottomani. Nacque nei villaggi
un’epopea raccontata oralmente che cantava le geste di Lazar,
eroe e martire, caduto in battaglia per difendere la cristianità
dall’invasore musulmano. Nell’Ottocento fu un tema centrale per
gli scrittori serbi e divenne presto un mito politico, ovvero un
188
P.Rumiz, Maschere per un massacro,.cit., p.76.
Scrisse Nicole Janigro “La guerra in Jugoslavia è iniziata in Kosovo e terminerà in
Kosovo, in L’esplosione delle nazioni, Feltrinelli, Milano, 1993, p.193
190
Giulio Marcon,, op.cit., p.25.
189
208
racconto riguardante il passato, che viene tramandato in una
determinata
versione
al
fine
di
giustificare
precise
scelte
politiche. La battaglia del 1389 si svolse il 28 giugno, giorno di
San Vito, che diventò una data cruciale nella storia dei Balcani,
basti pensare all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando il
28 giugno del 1914 a Sarajevo, da cui iniziò la prima guerra
mondiale.
In Kosovo, inoltre, hanno sede i più importanti monasteri e
luoghi di culto della chiesa serbo ortodossa. Nel secondo
dopoguerra la presenza della popolazione serba nella regione
autonoma era, tuttavia, progressivamente diminuita, mentre era
cresciuta la popolazione albanese.
I disordini del 1981 mettono in luce i vecchi squilibri tra nord e
sud del paese, che la politica di autogestione aveva sotto alcuni
aspetti approfondito.
Ai due estremi vi erano la Slovenia e il Kosovo. Con un tenore di
vita di 7 a 1 a vantaggio di Lubiana, dove la disoccupazione era
quasi assente mentre a Priŝtina toccava il 27%, il valore più alto
di tutta la Federazione, nonostante i massicci investimenti nelle
aree sottosviluppate stanziati dal governo centrale.
Tra la fine del 1986 e l’inizio dell’anno successivo la società
jugoslava era profondamente scossa dall’uscita di due documenti
redatti, rispettivamente, da un gruppo di intellettuali di Belgrado
e da un altro di Lubiana. Il primo scritto fu il Memorandum
firmato da alcuni membri dell’Accademia serba delle scienze e
delle arti di Belgrado, fra cui il romanziere Dobrica Čosić; il
secondo, una raccolta di sedici saggi apparsi sulla rivista slovena
“Nova Revija”, dal titolo Contributi per un programma nazionale
sloveno.
I due documenti dal contenuto nazionalista, destinati a incidere
profondamente
sull’assetto
del
Paese,
suscitarono
aspre
209
polemiche191. In quei mesi, un uomo, da qualche anno entrato in
politica, rimase in disparte: si trattava di Slobodan Milošević192, il
quale stava accrescendo il suo potere (divenne proprio allora
presidente del Partito comunista serbo) e pochi anni dopo si fece
il massimo interprete dei valori del Memorandum. Il documento
dell’Accademia di Belgrado descriveva una “Serbia vittima della
storia”. In particolare denunciava la discriminazione dei serbi in
Croazia, che avrebbero rischiato addirittura il “genocidio”. E da
qui, nasceva l’invito al popolo serbo, il “popolo celeste”, a
rialzare la testa e riunificarsi in un unico stato sovrano (la
Grande Serbia), revocando da subito l’autonomia al Kosovo,
decisa anni addietro da Tito, con il quale il Memorandum non era
assolutamente tenero.
L’atmosfera in Jugoslavia divenne sempre più tesa, con il passare
del tempo i rapporti tra il potere centrale e le diverse repubbliche
si fecero più difficili. Si svolsero manifestazioni di protesta in
Slovenia
(a
Lubiana,
capeggiate
dai
giovani
della
rivista
“Mladina”), in Kosovo (soprattutto da parte dei minatori) e in
Vojvodina; a questi ultimi due, venne revocata nel 1989 da
Milošević, da poco eletto presidente della Serbia, l’autonomia
(sancita dalla Costituzione del 1974).
In tutta la Serbia si
registrò, sul finire degli anni Ottanta, un boom editoriale delle
pubblicazioni letterarie, che dopo il Memorandum, mescolavano
folklore e nazionalismo. A Kosovo Polje, il 28 giugno del 1989, in
occasione dei 600 anni dalla battaglia contro gli Ottomani,
Milošević tenne un infuocato discorso, davanti a una folla
galvanizzata, nel quale si impegnava solennemente a difendere i
191
Il presidente della Repubblica Serba definì Ivan Stambolić il Memorandum “in
memoriam della Jugoslavia” (riportato in S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.147).
Anche la Lega dei comunisti, precipitata in una gravissima crisi e vittima di contrasti
insanabili tra i vari burocrati del partito, condannò il documento.
192
Cfr. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.144, A.Marzo Magno (a cura di), La
guerra dei dieci anni, il Saggiatore, Milano, 2001, p.35 e S.Bianchini, Sarajevo le radici
dell’odio, Identità e destino dei popoli balcanici, cit., pp.51-58.
210
Serbi dagli Albanesi e poi, facendo anche riferimenti al mito di
Lazar, non escludeva la possibilità futura di conflitti armati. La
preparazione della guerra si identificò con la scalata politica di
Milošević, che si fece campione di uno sfrenato nazionalismo, ai
fini di conservare il proprio potere, riempiendo il grande vuoto
lasciato dalle sicurezze dell’ideologia comunista193.
La
strategia
panserba
si
scontrava
però
con
le
mire
nazionalistiche delle altre repubbliche da quelle etnicamente più
complesse come la Bosnia-Erzegovina a quelle economicamente
più ricche come la Croazia e la Slovenia, che al tempo teorizzava
ancora la nascita di una Federazione asimmetrica per tutelare la
propria economia e i propri privilegi.
Tra aprile e maggio del 1990, dopo la frantumazione della Lega
dei comunisti, si svolsero le prime elezioni pluripartitiche in
Slovenia e in Croazia che videro l’affermazione dei partiti
nazionalisti e la sconfitta delle leghe dei comunisti, presentatesi
sotto altro nome. In Slovenia si affermò la coalizione Demos, che
aveva
come
priorità
di
programma
l’indipendenza
della
repubblica, certo di impostazione più moderata rispetto al partito
ultranazionalista Hdz (Comunità democratica croata), guidato da
Franjo Tudjman, che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi a
Zagabria. L’Hdz aveva sollevato fin dalla sua fondazione il
problema della revisione dei confini della repubblica, auspicando
un’annessione della Bosnia-Erzegovina alla Croazia. Nell’estate
del 1990 incominciarono gli attriti e gli scontri tra la minoranza
serba di Krajina, che ormai propagandava la propria autonomia,
e i croati.
Tra novembre e dicembre dello stesso anno si tennero le
consultazioni elettorali anche nelle altre quattro repubbliche. In
Serbia si aggiudicò le elezioni il partito socialista di Milošević,
193
Andrea Speranza, La costruzione del mito serbo del Kosovo, in Balkan, febbraio 2000.
211
nato dalla fusione della Lega e dell’Alleanza socialista. In
Montenegro vinse, senza modifica al nome del partito, la Lega
dei comunisti. In Bosnia, si verificò la situazione più complicata,
ad ottenere i maggiori consensi furono i tre partiti a carattere
etnico-nazionale: l’Hdz (collegata direttamente a Zagabria),
radicata
soprattutto
nell’Erzegovina;
l’Sda,
formazione
musulmana, di Alija Izetbegović e di Fikret Abdić; l’Sds, il partito
serbo-bosniaco guidato da Radovan Karadžić. Solo in Macedonia
il partito riformista e multietnico del premier federale Ante
Marković ottenne un buon risultato.
Il 23 dicembre 1990 si svolse in Slovenia un referendum per
l’indipendenza con il risultato di 88,2% di voti favorevoli. Da
notare che il diritto di secessione era già stato inserito nella
Costituzione slovena l’anno precedente.
Il primo ministro della Federazione jugoslava (scelto a rotazione,
tra le repubbliche, dopo la morte di Tito), appunto Marković, che
aveva sostituito Branco Mikulić, aveva sempre meno peso
politico
e
le
tentate
riforme
economiche
rimasero
come
inapplicate, soffocate dallo strapotere dei leader repubblicani di
Serbia, Slovenia e Croazia. Non fu mai accettata dalle tre
repubbliche la richiesta di Marković di elezioni pluripartitiche
jugoslave. I lunghi anni del regime di Tito, sebbene avessero
messo a tacere i nazionalismi delle varie etnie, non avevano
permesso, a causa dell’assenza di strutture democratiche, la
nascita di un’ampia società civile, matura e democratica, pronta
a difendere i valori dell’interculturalità su cui si basava tutta
l’esperienza
della
Jugoslavia;
alcuni
gruppi,
come
l’Ujdi
(Associazione per l’iniziativa democratica jugoslava), si facevano
promotori di tale sensibilità soprattutto nelle città, senza però
riuscire realmente ad incidere sull’attualità politica.
212
La Federazione degli slavi del sud si trovò così in un’irreversibile
crisi politica, dopo diversi anni di difficoltà economica, dove i
partiti ora giunti al potere, grazie anche ad un uso strumentale
dei mezzi di comunicazione di massa, a carattere etnico, erano
tutti orientati all’interesse e al bene della propria nazione o
meglio della propria etnia. “Il trionfo non era in realtà unanime e
monolitico, come quei partiti avevano voluto far credere. Esso si
basava per lo più sul consenso convinto e fanatico di una larga
minoranza, in grado tuttavia di condizionare e trainare il resto
della
nazione,
organizzazioni
nonché
religiose
sulla
collaborazione
(soprattutto
cristiane,
di
talune
cattoliche
e
ortodosse) che dopo il 1990 avevano visto crescere la possibilità
di
influire
sulla
società
attraverso
i
sistemi
educativo
e
assistenziale”.194
2 L A GUERRA IN S LOVENIA E IN C ROAZIA : 1991
Si giunse ad un punto di non ritorno nel 1991 con un clima di
“muro contro muro”, che aveva cancellato ogni margine di
compromesso. Mentre all’inizio dell’anno, i presidenti delle sei
repubbliche si riunivano in inconcludenti incontri sul futuro della
Jugoslavia, in Bosnia e in Croazia i dirigenti serbi e poi quelli
croati
dell’Erzegovina
proclamavano
la
nascita
di
regioni
autonome. Come successe in Krajina, uno dei primi focolai del
conflitto nonché uno dei nodi del contrasto tra Serbia e Croazia;
la regione croata dove risiedeva una maggioranza serba, che
decise la separazione dalla Croazia costituendo un governo a
194
S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.157.
213
Knin. La neonata Repubblica serba della Krajina (proclamata il 19
marzo 1991 e costituita formalmente a dicembre) non verrà mai
riconosciuta dalla Comunità europea. Con la vittoria, mesi prima
dell’ Hdz di Tudjman, che non rinnegava l’eredità storica del
movimento fascista ustascia, aumentò notevolmente l’ansia
separatista dei serbi, rinfocolata strumentalmente da Belgrado.
Come
ha
sottolineato
Luca
Rastello195,
la
radicalizzazione
nazionalista fece comodo sia al regime di Zagabria, in cerca di
una nuova legittimità antijugoslava, quanto a quello di Belgrado
che faceva dei cosiddetti “prećani” (i fuoriusciti, ovvero i serbi
che vivono fuori dai confini della repubblica di Serbia) il perno
della propaganda nazionalista. I primi morti della guerra si
registrarono proprio in Krajna a Plitvice, dove ha sede uno dei
più bei parchi dei Balcani, dove centinaia di turisti increduli
assisterono a furiose sparatorie tra serbi e croati, due poliziotti
croati tra le vittime. Si susseguiranno nei mesi successivi altri
scontri, tra le due etnie, a Borovo Selo (massacro di 12 poliziotti
croati) e a Zara (distruzione dei negozi “serbi”).
Nei primi mesi del 1991 si erano incontrati i presidenti di
Slovenia e Serbia, Kučan e Milošević discutendo di una possibile
separazione consensuale della Slovenia dalla Jugoslavia. Ma la
situazione del Paese diventò sempre più confusa e instabile, con
la crescita degli attriti tra i gruppi nazionali, soprattutto tra
Serbia e Croazia. Il 15 maggio il referendum per l’indipendenza
croata registrò una sonora vittoria del fronte del sì. Anche in
Macedonia vinsero, al referendum, i favorevoli all’indipendenza
della repubblica meridionale. Nello stesso mese Milošević impedì
l’elezione a presidente della federazione, che avveniva secondo
rotazione, del croato Stipe Mesić.
195
Luca Rastello, La guerra in Casa, cit., p.31.
214
Il 25 giugno i parlamenti di Slovenia e Croazia proclamarono
l’indipendenza delle due repubbliche, dando però a tale atto una
valenza
profondamente
diversa.
“Mentre
il
parlamento
di
Zagabria – abbandonato in segno di protesta dai suoi membri
serbi – si limitò ad una dichiarazione di principio, quello di
Lubiana autorizzò l’esecutivo a passare ai fatti”.196 Arrivate a
Belgrado le notizie da Lubiana e Zagabria, il parlamento federale
si riunì (privo di membri sloveni e croati) definendo illegali tali
atti e insieme al governo impartì l’ordine alle truppe del
ministero degli Interni di riprendere i controlli dei confini
internazionali con l’assistenza dell’esercito di stanza in Slovenia e
di occupare militarmente la repubblica “ribelle”.
Il 26 giugno del 1991 iniziò così la guerra civile sorprendendo in
un certo senso il gruppo dirigente sloveno che credeva di aver
raggiunto un accordo con quello serbo. La prima guerra
jugoslava, detta anche “guerra delle dogane”, fu caratterizzata
da scontri di bassa intensità, durò un mese e provocò diverse
decine di morti, soprattutto tra le file dell’Armata popolare
(l’esercito federale), dove erano arruolati numerosi giovani di
leva. I generali dell’Armata sottovalutarono la preparazione delle
truppe slovene (allertate e preparate da tempo in vista di
possibili scontri) e furono costretti alla ritirata, che avvenne a
cominiciare dal 29 luglio.
Ha scritto al riguardo Paolo Rumiz: “La guerricciola slovena – che
dà il via nel 1991 alla disintegrazione dei Balcani – è un
capolavoro di astuzia strategica e di messa in scena, e
l’esperienza fatta a Timosoara mi aiuta a prenderne atto con
relativa rapidità. Lo strappo - come si vedrà più tardi – avviene
grazie a una tacita unità d’intenti con la Serbia. Si consuma
all’insaputa della Croazia, e soprattutto dell’esercito federale, che
196
Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, Einaudi, Torino, 2002, p.40.
215
cade nel tranello della provocazione. La Slovenia non interessa a
Milošević; dietro alle sue dichiarazioni roboanti sull’integrità dei
confini, egli già lavora per ritagliare dal paese la fetta più larga
possibile di Grande Serbia, dunque il separatismo sloveno gli è
utile
a
mettere
in
mora
il
processo
e
a
schivarne
la
responsabilità. Anche per i dirigenti di Lubiana è un abile gioco
delle tre carte. Essi hanno costruito la separazione pompando la
rabbia popolare dei ‘mitteleuropei’ contro i ‘bizantini’ serbi, ma è
proprio con i bizantini che essi ai accordano per spaccare la
Federazione”197.
Molto più cruenti e tragici sono stati i conflitti successivi, che si
spostarono velocemente in Croazia. In totale sono quattro i teatri
di guerra dove, solo pochi anni fa, si svolsero i conflitti balcanici.
Dopo la Slovenia (la repubblica più settentrionale dell’exJugoslavia e quella più “omogenea” etnicamente), il secondo
teatro di guerra è quello relativo alla Slavonia orientale e
occidentale (zona a est di Zagabria bagnata dal Danubio e dalla
Sava), alla Krajina e alla Dalmazia centro-meridionale, tutti
territori croati ai confini con la Bosnia e in parte con la Serbia e il
nord del Montenegro. Il terzo teatro di guerra è quello bosniacoerzegovese (delimitato dai fiumi Sava e Drina, storica linea di
separazione fra impero d’Oriente e d’Occidente ieri, fra Serbia e
Bosnia oggi); il quarto è il Kosovo, regione autonoma della
Serbia incastonata tra Albania, Macedonia, Montenegro e Serbia.
Fin da luglio 1991 ci furono scontri in Croazia nelle zone abitate
dai serbi in Krajina e in Slavonia. Da tempo era in atto una
propaganda
condotta
da
Belgrado
tesa
a
convincere
la
popolazione serba che abitava in Croazia del “carattere genocida
del popolo croato” e del regime fascista al potere a Zagabria. Lo
storico Jože Pirjevec ha sostenuto come “a questo scopo fu
197
P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit., p.58.
216
condotta una politica rozza ma efficace a livello psicologico: si
incominciò a scoprire un gran numero di tombe collettive nelle
quali gli ustascia avevano sepolto le loro vittime durante la
seconda Guerra mondiale”198. Anche se non aveva diretta
attinenza con l’attualità trovò terreno fertile soprattutto nelle
regioni contadine meno sviluppate, ma non solo.
L’utilizzo delle fosse comuni, come strumento di propaganda, è
stato uno degli elementi più frequenti, adoperato dalle parti in
lotta nelle guerre jugoslave. Come nota Marco Deriu199 basta
richiamare alla memoria la vicenda discussa della fossa comune
di
Racak,
che
è
stata
usata
per
giustificare,
agli
occhi
dell’opinione pubblica l’intervento Nato in Kosovo contro la
Serbia di Milošević.
L’armata federale si ritirò dalla Slovenia attraverso la Croazia,
passando per la Slavonia. Dalla fine di luglio, per tutto il mese di
agosto si verificarono incidenti tra Croati e l’Armata popolare,
sempre più serbizzata. Anche in Kraijna, furono numerose le
stragi; iniziò un esodo di massa da Knin da parte dei croati, un
primo episodio di “pulizia etnica”. Il 16 agosto incominciò la
“battaglia dell’autostrada”, l’arteria tra Zagabria e Belgrado fu
interrotta. E’ ormai avviata un’altra guerra, ora in Croazia.
Il 18 agosto prese l’avvio il terribile assedio di Vukovar in
Slavonia orientale, durato tre mesi. L’esercito federale bombardò
con artiglieria pesante e incursioni aeree Vukovar e i villaggi
limitrofi, città di pianura, industrializzata multietnica e barocca.
Proprio a Vukovar l’Armata popolare jugoslava perderà ogni
credibilità di equidistanza, coincidendo sempre più con gli
interessi serbi, che la consideravano un avamposto strategico
per controllare i separatisti croati. L’esercito jugoslavo durante i
198
199
J.Pirjevec, op.cit. p.65.
M.Deriu, op.cit, p.207.
217
mesi dell’assedio segnerà molte diserzioni200, presero infatti il
sopravvento le truppe paramilitari, mercenarie, serbe, armate ed
equipaggiate da Belgrado come i reparti regolari, di Željko
Raznjatoć, alias Arkan (in turco l’intoccabile), e di Vojislav Šeŝelj,
ovvero le “tigri” e le “aquile bianche”. La difesa di Vukovar fu
invece organizzata dagli estremisti delle forze di liberazione
croate (Hos), ala militare del partito dei diritti (Hsp) di tendenza
neoustascia guidato da Dobroslav Paraga. Le truppe croate erano
comandate da Mile Dedaković, detto il falco. In un clima di
guerriglia urbana, con l’impiego costante di cecchini, a fine
assedio, le perdite umane, tra cui molti civili, saranno altissime.
Nel mese di novembre l’offensiva serba si fece sempre più
massiccia. Il 17 novembre i serbi entrarono in città travolgendo
l’ultima resistenza croata, commettendo atrocità e torture contro
la popolazione civile, i prigionieri di guerra e i feriti croati
prelevati da un ospedale (è uno dei crimini di guerra per il quale
diversi militari e paramilitari serbi sono accusati dal Tribunale
Internazionale dell’Aja: si parla di 261 persone ricoverate
nell’istituto sanitario e scomparse). Migliaia di persone furono
deportate in campi di prigionia. Il giorno dopo, i Serbi invitarono
la stampa a filmare la distruzione consumata a Vukovar, dopo la
fine dell’assedio; tutto era a portata di telecamera e di taccuino,
ma chissà perché, chi aveva convocato questa improvvisata
conferenza stampa/reportage erano proprio gli “aggressori”, ora
vincitori? Fu, infatti, l’ultima volta che capitò un fatto simile,
nella guerra dei Balcani; in tutti gli altri casi si preferì un
depistaggio nei confronti dei media o un loro uso strumentale.
Il 24 novembre fu fatto arrestare dal governo di Zagabria Mile
Dedaković, considerato da molti croati, l’eroe di Vukovar. Un
200
Nel capitolo un cecchino, del libro La guerra in casa (Einaudi 1998), Luca Rastello
racconta come fu tragico il ritorno da Vukovar per molti ragazzi di leva dell’Armata, dopo
aver assistito alle torture commesse dalle milizie paramilitari serbe.
218
fatto strano che fece pensare ad un tradimento del governo alla
causa nazionale o meglio metteva in luce alcuni accordi
sottobanco tra le dirigenze croate e serbe: lasciando la conquista
di Vukovar a Belgrado, a Zagabria sarebbero andati in cambio
alcuni territori dell’Erzegovina201.
Come vedremo in altri casi, per esempio Sarajevo, è stato colpita
Vukovar, in quanto città cosmopolita per mettere in scena
l’impossibilità di una convivenza che invece era consolidata. Per
dar sfogo a quel fantomatico pretesto etnico che aveva mosso la
guerra, che, come
si è già sottolineato, non è la causa delle
guerre
ma
jugoslave,
lo
strumento
utilizzato
dalle
lobby
nazionaliste al potere per scatenare la guerra e tutelare i propri
interessi economici e anche i traffici criminali che controllavano,
considerati da alcuni studiosi come uno dei fattori detonanti del
conflitto e del suo perdurare202. I traffici di droga e di armi, tra
cui quelli più o meno “coperti” con le industrie belliche europee,
durante la guerra raggiunsero livelli altissimi, arricchendo spesso
la criminalità organizzata. A Vukovar avevano combattuto milizie
paramilitari e mercenarie, composte per la maggior parte da
soldati reclutati tra le campagne e le montagne della Jugoslavia
(Erzegovina per i croati; Kraijna, Montenegro e le montagne
della Bosnia orientale per i serbi, rispuntano infatti i cetnici), là
dove
aveva
maggiormente
attecchito
l’indottrinamento
nazionalista degli ultimi anni, in quella società arretrata, in un
certo senso autarchica (suddivisa in “clan” secondo le regole
della “zadruga”, la comunità familiare), chiusa in sé, arroccata
201
La tesi che il governo croato avesse “venduto” Vukovar è raccontata in La linea dei
mirtilli (Editori Riuniti, Roma, 2000). Paolo Rumiz, nel capitolo Il prezzo di una cabriolet
scrive: “I rinforzi che Tudjman aveva promesso ai difensori della ‘Stalingrado croata’ non
arrivarono mai. Il ministro della Difesa Sušak li aveva dirottati sulla Dalmazia e quindi
sull’Erzegovina. Già allora Belgrado e Zagabria sapevano che la guerra in Bosnia
sarebbe stata inevitabile”.
202
P.Rumiz, Armi, droga, mafia: la guerra come affare, in “Limes”, La guerra in Europa ,
n. 1-2, 1993, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso.
219
nel proprio fervente tradizionalismo, lontana dal cosmopolitismo
urbano, che guardava con astio. Ciò porta a pensare come uno
scontro tra campagne e città (latente nella società jugoslava) sia
stato indotto e preparato dall’esterno. “Capire Vukovar significa
capire il nucleo degli eventi”203 ha affermato Rumiz, parlando del
centro urbano come di una città-laboratorio del conflitto. Infatti,
chi fu spazzata via da Vukovar è stata la borghesia produttiva e
cosmopolita sia croata che serba, più che un’etnia una classe
sociale. Lo dimostra anche la distruzione dei palazzi borghesi del
centro, mentre alcune periferie (dove risiedevano gli “inurbati)
rimasero quasi intatte.
A
metà
settembre,
l’indipendenza
che
la
però
Macedonia
non
fu
aveva
riconosciuta
proclamato
a
livello
internazionale per i veti della Grecia fino al 1993. Un mese dopo
la Bosnia-Erzegovina scelse il cammino dell’indipendenza durante
una
seduta
parlamentare
in
cui
i
rappresentati
serbi
abbandonarono l’aula, in netto disaccordo. Nei primi d’ottobre,
con violenti combattimenti attorno a Dubrovnik in Dalmazia iniziò
l’assedio della città e del suo splendido centro medievale. Il 21
novembre i serbi fecero saltare il ponte di Maslenica, Zara rimase
isolata e la dorsale adriatica tagliata in due. Solo il primo gennaio
del 1992 venne firmato un cessate il fuoco tra serbi e croati, con
la mediazione dell’Onu.
Il 18 dicembre del 1991 la Germania fu la prima a riconoscere
ufficialmente la Croazia e la Slovenia come stati indipendenti,
accelerando la decisione della comunità internazionale che solo
tre mesi prima aveva dichiarato che “nessun riconoscimento di
repubbliche indipendenti e sovrane sarebbe stato effettuato
prima di un accordo generale soddisfacente per tutti”204.
203
204
P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit. p.87.
G.Marcon, op.cit., p.84.
220
Pochi giorni dopo il premier federale Ante Marković, emarginato
e privo di qualsiasi sostegno all’estero, si dimise, decretando la
fine dell’ultimo governo jugoslavo; qualche settimana prima
aveva fatto la stessa scelta il presidente della Federazione,
Mesić.
3 L A GUERRA IN B OSNIA -E RZEGOVINA : 1992-1994
Il 15 gennaio del 1992 i dodici Paesi della Comunità europea
(Cee) riconobbero la Croazia e la Slovenia, dopo le pressioni
della Germania e del Vaticano (sollecitato dalla chiesa cattolica
croata).
Dopo le secessioni delle due repubbliche settentrionali della
Jugoslavia si aprì il fronte in Bosnia-Erzegovina. In Bosnia, a
differenza delle altre repubbliche, non esisteva una componente
etnica che rappresentasse la maggioranza assoluta del paese: i
musulmani (non in senso esplicitamente religioso) erano circa il
43% della popolazione, i serbi il 31% e i croati il 17%. Il 29
febbraio del 1992 si votò il referendum per l’indipendenza, a cui
non parteciperà per protesta la popolazione serba. Il risultato è
favorevole alla secessione.
Il 6 aprile, il giorno del riconoscimento della Comunità europea e
ventiquattro ore prima di quello degli Usa dell’indipendenza della
Bosnia205, incominciarono i bombardamenti dei serbo-bosniaci
(forti delle risorse dell’esercito federale) su Sarajevo, capitale
della repubblica. Il giorno seguente i serbi-bosniaci dichiararono
205
Fu la prima volta che gli Stati Uniti intervennero concretamente nelle guerre
jugoslave, riconoscendo contemporaneamente oltre alla Bosnia, le altre due repubbliche
secessioniste: la Croazia e la Slovenia.
221
la costituzione della nuova Republika Srpska (Repubblica Serba
di Bosnia), con capitale Pale, un comune montano a pochi
chilometri
da
Sarajevo;
presidente
dell’autoproclamata
repubblica era l’ultranazionalista Radovan Karadžić, psichiatra di
origine montenegrine.
Seguirono tre anni e mezzo di guerra con combattimenti
prolungati e atti di una ferocia senza limiti.
Nella primavera, fin da marzo, vennero inviati, su decisione del
Consiglio di Sicurezza (che pur nutriva dubbi al suo interno), i
Caschi blu dell’Onu, attraverso la missione “Unprofor” (United
Nations Protection Force), prima di stanza in Croazia e poi in
Bosnia, principalmente con il compito di assicurare l’arrivo degli
aiuti umanitari alle popolazioni segnate dalla guerra in corso.
Da aprile in poi, si susseguirono i bombardamenti su Sarajevo da
parte delle truppe serbo-bosniache, sostenute da quello che era
rimasto dell’Armata federale jugoslava, Jna. Iniziò così l’assedio
della capitale bosniaca, che durò quasi quattro anni: oltre 1300
giorni (il più lungo subito da una città nella storia moderna).
Sarajevo, città cosmopolità e multetnica, importante centro
culturale, diventerà il simbolo della guerra, colpita da attacchi
quotidiani di artiglieria pesante, con migliaia di vittime civili,
cecchini continuamente appostati, la distruzione sistematica di
interi quartieri e palazzi storici, fame e mancanza di aiuti
umanitari. Da secoli avevano sempre convissuto a Sarajevo,
definita la Gerusalemme dei Balcani, cattolici e ortodossi, ebrei e
musulmani; quella città piena di suoni, contaminazioni, colori e
contraddizioni che emerge nella prosa inquieta del premio Nobel
Ivo Andrić (1892/1975).
Nei primi giorni di scontri armati a Sarajevo ci furono diverse
manifestazioni pacifiste in cui non si contavano gli striscioni con
scritto “Possiamo vivere insieme”; il poeta bosniaco musulmano
222
Abdullah Sidran affermò: “Senza i serbi non potrei respirare;
senza i croati non potrei vivere; e senza essere me stesso non
potrei vivere con loro”206.
A Sarajevo, ha scritto Paolo Rumiz, si verificò come a Vukovar
uno scontro sociale e culturale, e non principalmente etnico: da
una parte i cittadini cosmopoliti, nella capitale assediata,
dall’altro gli abitanti delle montagne, le zone rurali e meno
progredite del paese, dove avvenne il maggiore reclutamento
militare sotto il condizionamento della retorica nazionalista. Era
così possibile trovare croati, musulmani e serbi urbani uniti nel
fondovalle, sotto assedio (a cui in alcuni casi si aggiunsero gli
ebrei sarajevesi), e sulle alture i serbi delle montagne circostanti
(nei
luoghi
dove,
si
narra,
vivessero
le
popolazioni
più
“guerriere”) nelle truppe al seguito del generale Ratko Mladić, a
cui
si
unirono
quelli
della
“nuova”
periferia
di
Sarajevo,
recentemente immigrati nella città e poco integrati nel melting
pot cosmopolita. Una contrapposizione simile avvenne anche in
territorio croato tra i dalmati costieri e gli abitanti delle Alpi
dinariche, da un lato una società aperta e multietnica, dall’altro
una comunità chiusa in sé, in una visione familistica, epica e
religiosa della vita (bacino del fondamentalismo etnico) 207.
Il 27 aprile i parlamenti di Serbia e Montenegro avevano
proclamato a loro volta la repubblica federale di Jugoslavia,
composta da Serbia e Montenegro, che non verrà riconosciuta né
dalla Cee né dagli USA.
La
Serbia
di
Slobodan
Milosević,
che
a
dicembre
verrà
riconfermato presidente, si dichiarò da subito favorevole alla
206
Ali Rabia e Lawrence Liftschultz, Why Bosnia?, Stony Creek, CT: The Pamphleteer's
Press, 1993.
207
Lo scontro socioculturale tra città e montagna, città e campagna, è raccontato da
Paolo Rumiz in Maschere per un massacro, nel capitolo La taverna di Mladen (pp.105119). Soprattutto per quanto riguarda Sarajevo ma anche altre realtà. La
contrapposizione etnica si rivela niente meno che un prodotto del conflitto balcanico non
la causa.
223
formazione della Republika Srpska, che intravedeva come primo
passo per la realizzazione dell’obiettivo della “Grande Serbia”,
collegando i territori della Bosnia orientale con quelli della
Serbia. Intento non diverso aveva la Croazia di Tudjman che
prospettava un’annessione dell’Erzegovina ai territori croati (un
progetto a volte definito “Grande Croazia”). Come già riportato,
sono ormai documentati alcuni incontri tra i due presidenti, come
quello che si tenne a Karadjordjevo il 25 marzo del 1991208,
prima dello scoppio della guerra, per stabilire una divisione della
Bosnia-Erzegovina, anche con le armi, facendo leva sui pregiudizi
dell’Occidente sui musulmani, mettendo in scena un fantomatico
“scontro di civiltà”, che secondo i due leader nazionalisti avrebbe
assecondato la spartizione. “La guerra doveva risultare uno
scontro
‘spontaneo’
tra
popolazioni
portatrici
di
civiltà
inconciliabili”209 da una parte la cristianità dei serbi ortodossi e
dei croati cattolici, dall’altra i “minacciosi” musulmani di Bosnia.
Bisogna subito sottolineare un particolare non di poco conto, i
musulmani bosniaci sono musulmani più che altro per l’anagrafe,
perché nella ex Jugoslavia il fattore religioso era secondario. Per
la scarsa osservanza, che contraddistingueva molti di loro,
venivano infatti considerati “i peggiori musulmani”. Zlatko
Dizdarević,
noto
giornalista
del
coraggioso
e
autorevole
quotidiano Oslobodjenije, che usciva nella Sarajevo assediata,
disse: “Sono stufo di dover continuamente dire alla gente che
non sono fondamentalista, che mangio prosciutto, bevo cognac e
208
Cfr. Zlatko Dizdarević, Bosnia Erzegovina 1992-1993, in Alessandro Marzo Magno (a
cura di), op.cit., p.163.
209
Guido Rampoldi in L’Occidente trovò la sua missione, quell’intervento fu una svolta
storica, “La Repubblica”, lunedì 11 luglio 2005. Avvallavano la posizione di Tudjman e
Milosevic anche gli studi del cosiddetto “culturalismo”, che vedeva nella guerra di Bosnia
il primo scontro di civiltà. Il fondatore di questa corrente, il politologo Samuel Huntington,
sosteneva che dopo la caduta del comunismo i principali conflitti nel mondo non
sarebbero stati più ideologici o economici ma di “natura culturale”, tra appartenenti
diverse civiltà, come quello tra la civiltà cristiana e quella musulmana.
224
che qui le ragazze portano la minigonna. Non siamo noi, è
l’Occidente che ci vuole islamici”210.
I musulmani di Bosnia fecero ogni tanto ricorso al termine
Bošnjaci (tradotto in italiano, bosgnacchi), per distinguersi dal
termine bosniaci, indicante tutta popolazione della Bosnia.
Il 27 maggio a Sarajevo tre granate ammazzarono almeno venti
persone in coda per il pane, ferendone 150, non lontano dal
mercato
centrale;
si
erano
fidate
della
tregua
promessa
dall’Armata e dal partito democratico serbo di Karazdić (Sds); fu
la prima grande strage di civili a Sarajevo ed ebbe un enorme
impatto
sull’opinione
pubblica
mondiale,
che
attraverso
le
immagini diffuse della televisioni, aveva colto in tutta la sua
crudezza
l’accaduto.
Il
30
maggio
l’Onu
decretò
sanzioni
economiche per la Serbia e il Montenegro, iniziò un isolamento
internazionale per la Repubblica federale di Jugoslavia.
Due
settimane
dopo
Tudjman
e
Izetbegović
firmarono
un’alleanza militare (croati e musulmani erano stati i fautori
dell’indipendenza della repubblica), in opposizione ai serbi, che
però non durò molto (formalmente solo quattro mesi): sia perché
incominciavano a girare le voci di un accordo sottobanco tra
Milosević e Tudjman, sia perché i croati di Bosnia costituirono
una comunità autonoma, denominata Herceg-Bosna (il 2 luglio).
La guerra, intanto, era esplosa in tutta la Bosnia-Erzegovina
provocando migliaia di morti e profughi.
Nel mese di agosto esplose lo scandalo dei lager serbi dopo la
pubblicazione di un reportage di Roy Gutman, corrispondente del
“Newsday”,
che
concentramento,
documentò
una
vergogna
l’orrore
dei
che
civile
la
campi
Europa
di
a
cinquant’anni dalla seconda guerra mondiale non si sarebbe mai
più aspettata all’interno dei suoi confini. Il più tristemente noto
210
La dichiarazione è riportata in P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit., p.118.
225
divenne quello di Omarska nel nord della Bosnia, vicino a Banja
Luka, nel quale 13.000 persone furono internate e almeno 5.000
ammazzate. Quelli serbi, tra cui anche il terribile campo di
prigionia
Trnopolje,
non
furono
gli
unici
campi
di
concentramento, infatti furono anche costruiti, durante la guerra
in Bosnia (1992-1995), da croati e musulmani.
Le truppe serbo-bosniache guidate da Ratko Mladić, sia regolari
che irregolari, si distinsero per massacri sistematici, stupri di
donne musulmane, cecchinaggio e azioni di pulizia etnica.
Avvantaggiati dal sostegno della Jna e da rifornimenti dalla
Serbia, conquistarono in breve il 70% del territorio della Bosnia.
La pulizia etnica fu presto generalizzata: alla fine del conflitto
oltre 2.400.000 bosniaci (musulmani, serbi e croati) avevano
lasciato le proprie case. I villaggi distrutti furono centinaia. Il
termine pulizia etnica nacque proprio in Jugoslavia211 ed è ormai
entrato nel lessico giornalistico e diplomatico; sta ad “indicare i
casi in cui un’entità politico-nazionale o un gruppo organizzato
usano la violenza (omicidi, tortura, stupri, imprigionamenti) o
l’intimidazione nei confronti di una popolazione civile non in
ragione di un particolare comportamento di quelle persone ma in
ragione della loro appartenenza a uno specifico gruppo etnico o
religioso e al fine di cacciarla da un territorio su cui si intende
affermare la propria sovranità”212.
211
“Il termine pulizia etnica è una tradizione letterale del serbo-croato etničko čisčenje e
venne usato inizialmente a partire dal 1981 dai serbi per indicare le azioni condotte dagli
albanesi kosovari nei confronti della minoranza serba per creare delle zone etnicamente
pure”. (M.Deriu, Dizionario critico delle nuove guerre, p.321). Fu ripreso nel 1992 per
qualificare gli attacchi serbi nei confronti dei musulmani bosniaci, al fine di cacciarli dai
territori dove fino allora avevano abitato. Come pratica, seppur non fosse definita con tale
termine, fu utilizzata in alcuni momenti storici nei Balcani: in precisi periodi nell’Ottocento
quando la Serbia allontanò dal proprio territorio popolazioni islamizzate, cercando invece
nei primi del ‘900 di assimilare i macedoni e, in modo molto violento, nella fase della
seconda guerra mondiale quando gli ustascia croati (creatori di uno stato “fantoccio”
nazi-fascista) sterminarono un numero imprecisato di serbi di Croazia (Michel Roux, La
“pulizia etnica”: teoria e pratica, in Aa.Vv., Nazioni e Nazionalismi, cit.p.178) .
212
M.Deriu, op.cit., p.322.
226
Ad ottobre del 1992, visto un aggravamento della situazione, il
Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose attraverso una risoluzione
il divieto di voli militari sui cieli bosniaci. L’Onu che il 13 agosto
aveva condannato le operazioni di “pulizia etnica” condotte dai
Serbi in Bosnia, aveva autorizzato le forze delle Nazioni Unite a
proteggere con le armi i convogli diretti ad aiutare la popolazione
civile. Alla fine del 1993, i soldati delle forze Onu impegnati in
Bosnia e in Croazia saranno oltre ventimila.
Premier del governo della Repubblica federale di Jugoslavia
(Serbia e Montenegro) era stato chiamato l’industriale serboamericano Milan Panić che tentò di avviare i processi di
riconoscimento reciproco tra le repubbliche jugoslave, ma per
contrasti insanabili con il presidente Milosević abbandonò (dopo
la sua sconfitta alle presidenziali) il governo e la Serbia, proprio
negli ultimi giorni del 1992. Da quel momento le relazioni tra
serbi e americane divennero sempre più tese.
All’inizio del 1993 venne presentato a Ginevra un piano di pace,
frutto della mediazione di Cyrus Vance e David Owen, in
rappresentanza dell’Onu e della Cee. Il piano Vance-Owen
prevedeva una divisione della Bosnia in 10 cantoni su base
etnica. Fu però rifiutato dai serbi di Bosnia, che avrebbero
dovuto
restituire
il
20%
di
territorio
conquistato.
Successivamente la Serbia, in grave crisi economica, cercò di
convincere Karaždić213 ad accettare il piano, ma non ebbe
riscontri positivi, segnando una prima rottura tra i due leader
serbi Milošević e appunto Karaždić.
Nota criticamente Rastello: “Quel che è evidente è che in un
contesto di guerra ancora fluido, dove a una parte favorevole alla
divisione etnica si contrappone una parte che difende le ragioni
213
A proposito della figura di Radovan Karaždić, psichiatra di origine montenegrine
(leader ultranazionalista dei serbi di Bosnia) è interessante leggere Karaždić uomo
normale, in P.Rumiz, La Linea dei Mirtilli, cit., pp. 11-20.
227
dell’unità, l’Unità Europea e le Nazioni Unite intervengono fin
dalle prime battute proponendo la spartizione”214
L’uso
delle
mappe
geografiche
sia
da
parte
dei
partiti
nazionalisti, per sostenere pretese territoriali, sia dai mediatori di
pace (anche quelli di Dayton nel 1995), in Bosnia aveva spesso
negato l’esistenza di un’identità nazionale bosniaca, preesistente,
come se nella repubblica vivessero distintamente serbi, croati e
musulmani. Mentre la distribuzione territoriale e la composizione
sociale è più complessa, dovuta anche alle diverse migrazioni
storiche. “L’idea della suddivisione di un territorio su base etnica
sorvola disinvoltamente sull’identificazione che una popolazione
può avere con il territorio stesso: essa sacrifica l’identità locale
sull’altare
di
quella
etnica
e
religiosa,
in
Bosnia
spesso
secondaria prima della guerra”215.
Il piano Vance-Owen, come detto fu rifiutato dai serbi di Bosnia e
invece
accolto
favorevolmente
dai
croati,
sia
quelli
dell’Erzegovina sia quelli al governo di Zagabria (in Bosnia era
stato
fondato,
mesi
prima,
–
insieme
alla
proclamazione
dell’Herceg Bosna - il partito nazionalista croato, Hdz, ad
immagine e somiglianza del partito-stato che governava, con lo
stesso nome, nella Repubblica Croata). Sarebbe andato ai croati
il 18% di territorio bosniaco (tre cantoni), che con le armi non
avrebbero mai potuto conquistare.
Diventarono, inoltre, sempre più palesi gli accordi spartitori fra
Tudjman
e
Milošević.
Accordi
che
ebbero
una
dura,
ma
minoritaria, opposizione interna in Croazia da parte degli
estremisti di destra dell’Hos (ala militare del partito neoustascia
di Drobloslav Paraga), che non avrebbero voluto la completa
214
L.Rastello, La guerra in casa, cit., pp.67-68.
E’ l’analisi di Luca Rastello, che spiegò inoltre come la parola bosniaco fu una parola
che per i mediatori, così come per i nazionalisti, sembrava non avere nessun significato
(Ivi., cit., p.72).
215
228
annessione della Bosnia alla Croazia, e non solo del territorio
dell’Erzegovina occidentale.
L’accantonamento del piano Vance-Owen, convinse i dirigenti
dell’Hdz di imporre con le armi ai bosniaci quanto prevedevano le
mappe dei mediatori internazionali, dichiarando illegittimo il
governo di Alja Izetbegović. Si espresse così lo stesso Tudjman,
lanciando l’ultimatum contro Sarajevo perché fossero consegnate
diverse città, tra cui Mostar che sarebbe diventata capoluogo, al
comando dell’Hvo (Consiglio Croato di difesa, ala militare
dell’Hdz) diretto da Mate Boban, fondatore dell’Herceg-Bosna.
A febbraio i croati, che stavano da tempo muovendo una
campagna
propagandistica
anti-islamica,
attaccarono
i
musulmani a Gorni Vakuf. Il 15 aprile del 1993 scadde
l’ultimatum imposto dall’Hvo al governo bosniaco di Sarajevo di
abbandonare i “cantoni croati” o di assoggettarsi al suo
comando, dichiarando illegali tutte quelle unità, presenti nella
Herceg-Bosna, che non avessero obbedito. Il giorno seguente
iniziò il terribile conflitto tra gli ex alleati. Nella mattinata del 16
aprile i croati entrano nel villaggio di Ahmič, etnicamente misto,
uccidendo a freddo tra i 100 e i 200 musulmani (tra cui anche
bambini), sorpresi nel sonno, alcuni arsi vivi. Verso maggio ci
furono gravi incidenti a Mostar; i musulmani di Mostar furono
costretti a raccogliersi nei quartieri orientali. Il 9 novembre fu
abbattuto dalle cannonate croato-erzegovesi il ponte vecchio di
Mostar, che univa le due parti della città (ricostruito nel 2005).
Dopo i serbi, anche i croati e poi i musulmani ricorsero alla
pulizia etnica. I croati nell’Erzegovina occidentale, mentre nella
Bosnia centrale furono i musulmani a circondare i croati
cacciandoli con forza verso la Croazia o l’Erzegovina, tra le
truppe bosniache arrivarono anche alcuni mujaheddin stranieri.
229
A marzo nella valle della Drina, in Bosnia orientale, le truppe
serbo-bosniache del generale Mladić avevano mosso un offensiva
contro Srebrenica. Città che subirà un tragico massacro l’ultimo
anno di guerra in Bosnia e che prima dello scoppio del conflitto
contava
quasi
40
mila
abitanti,
in
larga
maggioranza
musulmana. Era fino all’inizio del 1993 una delle poche zone
della riva destra della Drina a non essere sotto il controllo di
Mladić, che l’assediava con le sue milizie. Si erano rifugiati tra i
suoi confini migliaia di profughi, la popolazione era ormai
arrivata
alle
60
indescrivibile:
mila
unità.
senz’acqua,
La
città
elettricità
viveva
e
in
scarso
un
caos
cibo.
Il
comandante dell’Unprofor, Philippe Morrillon, arrivò a Srebrenica
l’11 marzo, pronunciò il tristemente famoso discorso: “Voi siete
sotto la protezione delle Nazioni Unite. Io non vi lascerò mai”216.
Il 19 aprile il Consiglio di Sicurezza dell’Onu decretò Sarajevo e
Srebrenica zone di sicurezza. Lo stesso succederà, il 4 maggio,
per Tuzla, Žepa, Goražde e Bihać. A fine maggio, con la
risoluzione “827”, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu istituì il
Tribunale internazionale per i crimini di guerra nell’ex-Jugoslavia,
con sede all’Aja.
A partire da luglio la situazione a Sarajevo si fece sempre più
problematica217. La città, assediata dai serbo-bosniaci, è in preda
alle scorribande della bande criminali ribelli (un duplice assedio),
quelle musulmane di Celo (Ramiz Delalić) e di Caco (Musan
Topalović), che difendono e insieme terrorizzano la popolazione,
soprattutto i serbi e i croati rimasti in città. Inoltre, gestiscono un
redditizio
mercato
nero
(armi,
droga,
prostituzione,
aiuti
umanitari), che in una città affamata non fa che arricchire gli
speculatori; loschi traffici ai quali contribuiscono tutte le parti in
216
217
A.Marzo Magno (a cura di), op.cit, p.482.
Cfr. J.Pirjevec, op. cit., pp.302-304 e p.318.
230
guerra e, scoprì un’inviata del “Guardian” a Sarajevo, anche le
Nazioni Unite.
Nel
mese
successivo,
dopo
un’inchiesta
interna,
saltarono
importanti teste ai vertici dell’Unprofor. Nell’autunno si acuì lo
scontro tra le milizie ribelli e le truppe governative di Bosnia.
Dissidi tra i musulmani ci furono anche su più larga scala, tra
Izetbegović e il suo vice Abdic, che si affiancò ai serbi cercando
di stabilire il controllo sulla sua regione di origine nell’Unska
Krajina, fra Bihać e Cazin, fondando la Regione autonoma Bosnia
occidentale (Apzb).
Il 3 ottobre perse la vita a Sarajevo Gabriele Moreno Locatelli,
volontario
dei
Beati
Costruttori
di
Pace
(organizzazione
nonviolenta italiana), ucciso durante una manifestazione pacifista
sul ponte di Vrbanja, il luogo d’incontro dei quattro poteri in
conflitto: sulla riva di “stari Grad” c’erano l’Armja governativa
(l’esercito regolare bosniaco) e i croati dell’Hvo; dall’altra parte,
Caco e, di fronte, i serbi218.
Sostituì a metà anno Cyrus Vance, Thorvald Stoltenberg, che
affiancò nel ruolo di mediatore Owen, per l’elaborazione di un
nuovo piano di pace. Gli incontri si svolsero nell’estate a Ginevra;
il nuovo piano prevedeva la divisione della Bosnia-Erzegovina in
tre entità divise su base etnica. Non andò in porto per la dura
opposizione del presidente bosniaco Izetbegović.
Un altrà zona incandescente rimaneva la Kraijna dove si
registrarono violenti scontri tra serbi e croati, sia all’inizio del
1993 sia nel mese di settembre.
La
Bosnia,
tra
l’estate
e
l’autunno
del
1993,
sembrava
risucchiata da una spirale di violenza, alimentata da tutte le tre
218
La storia di Locatelli è raccontata nelle pagine del libro La guerra in casa di Luca
Rastello (nel quarto capitolo Sul ponte pp.107-141). La dinamica non fu mai chiara,
sembrò un’esecuzione, probabilmente furono i bosniaci di Caco a sparare. La vicenda è
anche l’oggetto di un documentario di Giancarlo Bocchi, Morte di un pacifista.
231
parti in lotta, in cui era fiorente il commercio d’armi, provenienti
anche dai paesi occidentali, nonostante ci fosse un embargo
dell’Onu sulle armi per tutti i paesi in guerra. Oltre agli eserciti
regolari nell’ex-Jugoslavia erano attivi diversi gruppi paramilitari,
i
più
sanguinari,
e
non
potevano
mancare
mercenari
e
avventurieri.
Uno degli ultimi tragici avvenimenti dell’anno, come già detto, fu
il crollo del ponte di Mostar, il 9 novembre, sotto i colpi
dell’artiglieria croata. Il 16 dicembre fu riconosciuta, come stato
indipendente, dalla neo-nata Unione Europea la Macedonia, dove
si erano verificati scontri tra macedoni e albanesi.
Il 5 febbraio del 1994 una granata di mortaio cadde sul mercato
di Sarajevo uccidendo 68 persone e ferendone 197.
I responsabili erano i serbi, seppure avessero incolpato i
musulmani
di
inscenare
stragi
per
ottenere
il
consenso
occidentale. Per la prima volta intervenne la Nato che diede un
ultimatum agli assedianti: se non fossero state allontanate le
armi pesanti, ci sarebbero stati raid-aerei contro i serbobosniaci. Anche per la tempestiva opera di mediazione della
Russia le truppe di Mladić allentarono l’assedio. Si giunse ad un
cessate al fuoco nella capitale bosniaca, che però nei mesi
successivi venne ripetutamente violato. Il 28 febbraio i caccia
Nato abbatterono alcuni aerei serbo-bosniaci che avevano violato
lo spazio aereo interdetto sulla Bosnia; fu la prima azione di
guerra dalla fondazione dell’Alleanza atlantica.
Nell’ultimo periodo era aumentato l’interessamento degli Stati
Uniti,
con
l’amministrazione
Clinton.
Gli
Usa
svilupparono
un’intensa attività diplomatica, sostituendosi spesso all’Onu,
anche
con
(formando
la
collaborazione
insieme
il
di
cosiddetto
alcune
potenze
“Gruppo
di
europee
contatto”).
Convocarono a Washington, il 18 marzo del 1994, le delegazioni
232
croate e musulmane alle quali imposero la fine delle ostilità fra di
loro, che fu condivisa. In quel giorno croati e musulmani
firmarono un accordo per la creazione di una Federazione croatomusulmana in Bosnia219, che, com’era prevedibile, non fu ben
visto da Karadžić.
Alla fine del mese sul fronte croato, si giunse ad un “cessate il
fuoco” in Kraijna, che durò fino ai primi mesi del 1995. Nella
valle della Drina, quella zona a cui i serbi erano molto interessati
come primo importante passo per la Grande Serbia, infuriava
invece la guerra. I serbi-bosniaci attaccarono ad aprile l’enclave
musulmana (area protetta) di Goražde. La battaglia si protrasse
drammaticamente fino a giugno, con interventi militari della
Nato. Le numerose ingerenze degli Stati Uniti sui Balcani
suscitarono malcontenti ai vertici dell’Onu, che si sentiva
scavalcato nel suo ruolo di mediatore internazionale.
Il “Gruppo di contatto”, formato da Usa, Francia, Germania, Gran
Bretagna e Russia (l’Italia fu cooptata successivamente) elaborò
nel mese di maggio un piano di pace che assegnava ai serbi il
49%
del
territorio
e
il
51%
alla
neo-nata
Federazione
musulmano-croata. Ma l’ipotesi, presentata a luglio, fu respinta
da Karadžić, nonostante l’opinione favorevole di Belgrado che a
quel punto applicò a sua volta delle sanzioni ai serbo-bosniaci
bloccando
il
tatticamente
passaggio
di
lunga
smarcarsi
da
la
Drina.
Karadžić,
Milošević,
cercava
scaricando
ogni
responsabilità sui serbo-bosniaci. Il presidente della Repubblica
219
La costruzione di tale Federazione fu proposta dagli Usa a Tudjman il 17 febbraio del
1994. Gli fu chiesto in maniera drastica di rinunciare all’idea di spartirsi il territorio della
Bosnia con Milošević. “Tale gesto di buona volontà avrebbe spinto Washington ad
appoggiare il tentativo croato di riconquista della Krajna e ad aiutare la ripresa economica
del paese con un contributo di 500 mila dollari, sostenendone la candidatura al Consiglio
d’Europa, nonché alla Partnership for Peace” (J.Pirjevec, op.cit, p.161). In caso contrario
la Croazia sarebbe stata colpita da serie misure economiche, che il Consiglio di
Sicurezza aveva già minacciato, se non avesse ritirato le sue truppe dalla BosniaErzegovina. Inoltre c’era il pericolo che Tudjman e l’Hvo fossero considerati complici di
gravi crimini di guerra, responsabilità di cui erano convinti anche i diplomatici americani.
233
Srpska aveva, inoltre, avvalorato la sua posizione contraria al
piano del “Gruppo di contatto”, attraverso un referendum
popolare tra i serbo-bosniaci che rigettarono in massa il piano.
A fine agosto le truppe governative bosniache (musulmane) si
impossessarono
della
regione
autonoma
di
Bihać
(Apzb),
governata dal dissidente musulmano Fikret Abdić. I croati
chiusero subito l’accesso alle frontiere ai profughi provenienti
dalla Bosnia occidentale. Proprio attorno a Bihać nell’autunno si
intensificarono gli scontri tra i serbi da una parte e i musulmani e
i croati dall’altra, per il controllo del territorio. Il 23 dicembre,
dopo
le
pressioni
internazionali
e
la
mediazione
dell’ex-
presidente americano Jimmy Cater, musulmani e serbo-bosniaci
firmarono una tregua di quattro mesi.
4
LA
GUERRA
CONTINUA
NEL
1995
IN
B OSNIA -
E RZEGOVINA E IN C ROAZIA
Intanto, a Sarajevo il capodanno del 1995 fu il giorno numero
mille
dell’assedio
superando
così
primato
del
secolo
di
Leningrado.
Gli equilibri militari dell’area, nell’ultimo inverno di guerra, si
erano
invertiti:
notevolmente
rafforzato,
anche
dagli
aiuti
americani, era l’esercito croato, anche quello bosniaco si trovava
in discreta salute, mentre ormai in affanno erano le truppe
serbo-bosniache, che avevano, invece, negli anni precedenti
dimostrato la loro superiorità, grazie ai contributi della Jna e
della Serbia di Milošević.
234
All’inizio dell’anno fu respinto sia dai serbi di Kraijna con sede a
Knin, che dai croati di Tudjman220, il piano Z4, studiato dal
“Gruppo di contatto”, che avrebbe consentito il ritorno della
Kraijna alla Croazia in cambio di una larghissima autonomia alla
regione a maggioranza serba. Fu avversato dai primi in maniera
più plateale e più sottile dai secondi, che in parte sembravano
disponibili.
Ruppe la tregua un bombardamento pesante contro Tuzla il 20
marzo, che causò cinquanta morti. “Tuzla è diventata a poco a
poco ‘imbarazzante’ – scriveva l’inviato dell’ Espresso, Gigi Riva
– oltre che per i serbi anche per lo stesso governo di Sarajevo.
La sua difesa è politicamente organizzata da un sindaco, Selim
Beslagić, rappresentante del Partito socialdemocratico (erede
della Lega dei comunisti), molto amato dalla popolazione e
strenuo oppositore della logica della divisione etnica. E’ il
contraltare dello stesso Alija Izetbegović, il presidente ormai
votato alla creazione di uno stato dei musulmani”221.
Il 24 aprile il Tribunale internazionale dell’Aja rese nota
l’iscrizione nel registro dei criminali di guerra di Karadžić e di
Mladić.
Pochi giorni dopo scattò l’operazione “fulmine” che permise ai
croati di recuperare i territori della Slavonia occidentale in mano
ai serbi, con il tacito assenso di Belgrado e Washington. I serbi
stanziati in Slavonia fuggirono verso la Bosnia; ma non giunse
nessun segnale di solidarietà dalla madre patria (che sbarrò le
220
Franjo Tudjman, presidente della Croazia, è stato uno dei “Signori della guerra”
(secondo l’azzeccata definizione di Predag Matvejević che dà il titolo al libro da lui curato,
I signori della guerra, Milano, Garzanti, 1999) insieme a Milošević (il “regista” del conflitto
da Belgrado) e Izetbegović. E’ una figura dai tratti ambigui: da un lato cercava di
accreditarsi le simpatie dell’occidente, dall’altro trattava con Milošević la spartizione della
Bosnia (soprattutto nella prima parte del conflitto). Istituì in Croazia, negli anni Novanta,
un regime autoritario, negando, tra l’altro, la libertà di stampa.
221
G.Riva, Bosnia-Erzegovina 1994-1995, in A.Marzo Magno (a cura di), op.cit, p.227.
Izetbegović ha incarnato il nazionalismo musulmano bosniaco, che si è radicalizzato
dall’inizio della guerra in Bosnia, auspicando uno stato monoetnico musulmano.
235
frontiere). Ad una pulizia etnica risponde un'altra di verso
opposto: ci pensarono, infatti, le truppe di Mladić irrobustendo
gli attacchi contro i croati e i musulmani a Banja Luka. Nel
frattempo iniziò il progetto di riconquista della Krajina da parte
dei croati.
Nel mese di maggio, la tregua (poco rispettata) era ormai
dimenticata, si intensificarono le operazioni militari dei serbobosniaci a Sarajevo come nelle enclavi musulmani della Bosnia
orientale, “convinti che tra l’altro l’Occidente si sarebbe limitato a
protestare come in passato e confidando nel sostegno del
parlamento russo”222.
Il 22 maggio essi si impossessarono degli
armamenti pesanti che erano stati presi in custodia dall’Unprofor
e incominciarono a bombardare Sarajevo, fermamente convinti
che questa volta l’avrebbero presa. La Nato lanciò un ultimatum
per la restituzione degli armamenti, che non venne rispettato.
Entrarono allora in scena i caccia alleati, che bombardarono
depositi militari vicino a Pale.
La
sera
del
25 maggio
tiri
di
artiglieria
serbi
su
Tuzla
provocarono la morte di 71 persone, tutti giovani seduti ai
tavolini del cafè nella piazza centrale e 200 feriti. La notte tra il
25 e il 26 e il giorno seguente furono tra i più lunghi della
guerra. La Nato bombardò nella mattina, di nuovo, Pale; i serbobosniaci presero allora in ostaggio 48 osservatori dell’Onu,
minacciando di ucciderli se non fosse cessato il bombardamento
alleato. Le immagini dei rappresentanti dell’Onu fecero il giro del
mondo. Il 28 maggio i serbi di Kraijna abbatterono l’elicottero
dove viaggiava il ministro degli Esteri bosniaco Irfan Ljujianćik.
L’attenzione internazionale in quei giorni fu calamitata sui
Balcani, anche a Cannes, dove Emir Kusturica vinse con
Underground la Palma d’oro e il Gran premio della giuria fu
222
S.Bianchini, La questione jugoslava, cit. p.169.
236
assegnato al regista greco Theo Anghelopoulos con Lo sguardo di
Ulisse, anch’esso ambientato in parte nelle zone teatro di guerra.
Nei giorni seguenti i governi di Parigi e Londra decisero di
organizzare
una
forza
di
reazione
rapida
a
sostegno
dell’Unprofor, ormai impotente di fronte al precipitare della
situazione. Gli ostaggi Onu vennero rilasciati, probabilmente
dopo una trattativa, il 13 giugno.
A metà mese i bosniaci musulmani tentarono un’offensiva a
Sarajevo per rompere l’assedio, che però non andrà a buon fine.
Con l’inizio di luglio si fece più aggressivo l’assedio serbobosniaco alle enclavi musulmane.
Srebrenica223, come abbiamo visto, era una di quelle zone
protette dall’Onu (missione Unprofor), un’enclave musulmana
all’interno della Bosnia-Erzegovina, fin dal 1993. Una città tra le
valli e i monti della Bosnia orientale, vicino alla Drina.
Si erano rifugiati, tra i suoi confini, migliaia di profughi
musulmani, assediati dalle milizie del generale Mladić, in un caos
indescrivibile dove si moriva di fame. Nel luglio del 1995 la
morsa delle milizie serbo-bosniache (all’interno c’erano anche
efferati gruppi paramilitari, come gli Skorpions e le Tigri, e
mercenari) divenne più stretta. Il 5 luglio iniziò l’offensiva contro
la città, protetta dai caschi blu olandesi. Tra il 6 e il 9 avvenne
l’avanzata dei serbi che occuparono un avamposto dell’Onu,
prendendo in ostaggio una ventina di soldati olandesi. I rifugiati
cercarono salvezza nella base Onu a Portočari.
L’11 luglio, mentre i Caschi blu convincevano i musulmani ad
arrendersi garantendo un intervento della Nato (che non arrivò
mai), le truppe serbo-bosniache occuparono con forza la zona
protetta. Iniziarono rastrellamenti (perché secondo Mladić a
223
Sui drammatici avvenimenti di Srebrenica si veda, W.Bonapace, Maria Perino (a cura
di), Srebrenica, fine secolo – Nazionalismi, intervento internazionale, società civile, Israt,
Asti, 2005.
237
Srebrenica si nascondevano i “terroristi” musulmani), stupri,
uccisioni e massacri. Le donne e i bambini vennero divisi dagli
uomini che furono imprigionati e poi uccisi. Si verificarono fughe
di massa verso Tuzla e non si contarono i suicidi. Il 13 luglio in
cambio degli ostaggi, i caschi blu olandesi consegnarono 5 mila
civili che erano ancora rifugiati nella base, molti, che tentarono
di scappare tra i boschi, furono giustiziati dai serbi.
Si parla di 8000 morti (bosniaci musulmani dai 14 ai 70 anni),
sepolti in fosse comuni e molti ancora non rinvenuti: il più
grande massacro in Europa, dopo la fine della seconda guerra
mondiale.
Tutto avvenne sotto lo sguardo indifferente dei militari dell’Onu,
che nulla fecero per proteggere la popolazione. E’ vero non
avevano l’autorizzazione a sparare, ma non attuarono nessuna
azione per tutelare i rifugiati di Srebrenica. Pensare che il
generale francese Philippe Morillon dell’Unprofor, due anni prima
aveva assicurato di proteggere la popolazione!
La verità è che Srebrenica fu abbandonata da tutti224. Fu anche
abbandonata dallo stesso Izetbegović, presidente musulmano
della Bosnia. Fu una sconfitta per la comunità internazionale che
nulla fece per fermare il massacro.
Di Ratko Mladić e di Radovan Karadžić leader ultranazionalista
dei serbo-bosniaci, principali imputati del massacro, che assunse
le dimensioni di un genocidio, si sono perse le tracce negli anni
224
Qualche giorno prima dell’11 luglio il comandante francese dell’Unprofor Bernard
Janvier si lasciò sfuggire una battuta illuminante: “Messieurs vous n’ avez donc pas
compris que je dois être débarrassé de ces enclacves?”. Signori non avete ancora capito
che qualcuno deve togliermi dai piedi queste enclaves. (P.Rumiz, Maschere per un
massacro, cit. p.25). Rumiz ha inoltre precisato: “Già all’inizio dell’anno il piano di
spartizione – che poi diverrà il piano di Clinton – è stato messo a punto dal cosiddetto
gruppo di contatto delle cinque grandi potenze. Esso assegna Srebrenica ai serbi”.
(Ibidem). E così che il 6 luglio Mladić si sente pienamente autorizzato a risolvere la
questione.
“In fondo, non è una situazione nuova. E’ dall’inizio della guerra – ha scritto il giornalista–
che i geniali piani di spartizione – le cosiddette mappe etniche – sfornati dagli occidentali
autorizzano anziché impedire i massacri in Bosnia”. (Ibidem)
238
successivi. Li cerca senza successo il Tribunale internazionale
dell’Aja.
A dieci anni dal massacro la riconciliazione, però, a Srebrenica,
che ora si trova nella Republika Srpska (entità serba di Bosnia),
è ancora lontana. Nella città “fantasma” sono rientrati circa
quattromila musulmani, gli altri seimila residenti sono serbi (gli
abitanti
prima
della
guerra
erano
quasi
quarantamila).
L’anniversario del 2005 ha avuto un’eco sui media internazionali,
era presente per la prima volta presente il presidente della
Serbia Boris Tadić. I serbi-bosniaci hanno invece commemorato il
giorno seguente, nella vicina Bratunac, i loro morti uccisi nel
1993 dalle milizie musulmane di Naser Orić, nei dintorni di
Srebrenica.
Finito lo strazio di Srebrenica, iniziò un’altra offensiva dei serbobosniaci contro l’enclave di Žepa, 17 mila abitanti a ridosso della
Drina, tra il 15 e il 25 luglio. Come prassi, furono divisi gli uomini
dalle donne per la deportazione. Ma stavolta, pochi erano gli
uomini. La maggior parte si era rifugiata nelle montagne attorno
alla città per resistere ai serbi. La città fu messa a ferro e fuoco e
solo il 25 luglio cadde saldamente in mano serba.
Ad inizio agosto i croati diedero il via all’operazione “Tempesta”
(Oluja in serbo-croato) per la riconquista della Krajina, in mano
ai secessionisti serbi225. Durerà solo quattro giorni dal 4 al 7
agosto. L’esercito croato, addestrato da esperti americani,
appoggiato dal “Quinto corpo bosniaco”, circondò la regione,
dirigendosi verso Knin, muovendosi, a colpi di artiglieria pesante,
all’interno di un territorio montagnoso coperto da foreste
inestricabili. In meno di quarantotto ore, travolgendo anche le
forze
di
interposizione
Onu
che
proteggevano
la
zona,
conquistarono la capitale della Krajina. Un fiume di 200 mila
225
Cfr. Giacomo Scotti, Croazia, Operazione Tempesta, Gamberetti, Roma, 1996.
239
serbi, vittime ora della pulizia etnica croata, incominciò a fuggire
dai territori conquistati nel 1991, verso la Bosnia settentrionale e
la Serbia. Una marea di profughi privi di tutto, spesso anche di
acqua e di cibo; si segnalarono episodi di violenza contro le
colonne di profughi. Su sollecitazione del mediatore Ue, Carl
Bidt, fu avviato un ponte aereo per i profughi. Una sorpresa
attese però i fuggiaschi: la Serbia aveva chiuso le frontiere,
un'altra prova degli accordi segreti tra Tudjman e Milošević. Loro
erano la seconda ondata, quella stracciona. Gli arricchiti, i
profittatori di guerra, ben informati, erano partiti da Knin in
tempo, diretti verso Belgrado. Si sentirono, come se fossero stati
usati da quella Serbia, la madre patria, per cui avevano
combattuto e che pochi anni fa li aveva infatuati circa un
imminente pericolo croato226.
Nella Bosnia settentrionale ci fu una nuova pulizia etnica, contro i
pochi musulmani e croati rimasti, per far posto ai profughi in
arrivo. Nei mesi successivi i croati, nei territori “liberati” della
Krajina scateneranno una vera e propria caccia al serbo, che
però non ebbe risalto mediatico. Così, dopo quattrocent’anni non
c’era più nessun serbo nella Krajina.
L’escalation complessiva di violenza, che si era verificata (con
l’apice di Srebrenica) portò, a metà agosto, il commissario Onu
per i diritti umani nell’ex-Jugoslavia, Tadeus Mazowiecki, a
dimettersi dal suo incarico, in forte dissenso con l’operato delle
Nazioni Unite e dei paesi occidentali: erano rimaste inascoltate le
sue denunce sugli orrori perpetrati durante il conflitto e, le ultime
critiche, sull’incapacità dell’Occidente ad assumersi le proprie
responsabilità nei confronti della guerra, in particolare per la
mancata difesa delle aree dichiarate protette dall’Onu.
226
Cfr. P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit., pp.160-161.
240
A fine agosto tornò la paura a Sarajevo, quando cinque granate
colpirono nuovamente il mercato di Sarajevo, provocando la
morte di 39 persone e il ferimento di 89. La provenienza era
probabilmente serba, seppur si affermasse che fossero state
lanciate dall’esercito bosniaco. In risposta, due giorni dopo iniziò
un raid aereo della Nato contro le postazioni serbe nelle aree di
Sarajevo, Tuzla e Goražde, che si ripeterono a fasi alterne fino a
metà settembre. Nei bombardamenti Nato, come si saprà come
certezza alla fine del 2000, furono impiegati proiettili anticarro di
uranio impoverito227.
Nel frattempo gli eserciti musulmano e croato diedero il via ad
un’offensiva in Bosnia centrale che lì portò il 18 settembre alle
porte
di
Banja
Luka,
che
si
trovava
in
una
situazione
assolutamente complicata: era invasa dai profughi serbi che
erano arrivati dalla Kraijna e toccata da vicino dal lancio di missili
americani, a lunga gittata Tomahawk, contro le contraeree
serbo-bosniache. L’Onu intimò loro di fermarsi, ma potevano
essere
soddisfatti:
avevano
appena
conquistato
quel
51%
previsto dagli accordi firmati, dieci giorni prima, alla conferenza
di pace di Ginevra, primo passo verso gli incontri di Dayton.
I serbi-bosniaci, fortemente colpiti dai bombardamenti Nato,
accettarono di ritirare l’artiglieria pesante da Sarajevo e di
formare una delegazione congiunta con i serbi di Serbia per le
trattative di pace.
Il 12 ottobre entrò in vigore il “cessate il fuoco”, raggiunto grazie
alla mediazione di Richard Holbrooke, diplomatico inviato nei
Balcani dall’amministrazione Clinton.
Nel mese di novembre si svolgeranno a Dayton228, una base
militare dell’Ohio (località scelta dagli americani), i colloqui di
227
228
Cfr. A. Marzo Magno (a cura di), op.cit., p.245.
Cfr. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.170.
241
pace a cui presero parte le delegazioni delle tre parti in causa,
capeggiate da Milošević, Tudjman e Izetbegović. La discussione
tra i vari rappresentati fu molto tesa e si protrasse per alcune
settimane, solo dopo forti pressioni degli Stati Uniti, i reali
mediatori degli incontri, fu firmato, il 21 novembre, un comune
accordo
e
la
cessazione
delle
ostilità.
Il
trattato
fu
poi
solennemente ratificato a Parigi, il 14 dicembre del 1995.
L’accordo di Dayton prevedeva che la Bosnia rimanesse uno
stato unitario, costituito da due entità: la federazione di BosniaErzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba (Srpska),
con fortissime autonomie e una propria costituzione, nonché la
possibilità di stabilire rapporti privilegiati la prima con la Croazia
e la seconda con la Serbia e il diritto di formare due eserciti. La
divisione territoriale ricalcava quella stabilita dal “Gruppo di
contatto” (51% alla Federazione e 49% alla Republika Srpska).
La Bosnia avrebbe avuto un governo centrale, una presidenza
collegiale, un parlamento con due camere in cui le garanzie dei
gruppi etnici erano assai simili a quelle in vigore ai tempi di Tito.
Si dovevano presto svolgere le elezioni politiche per eleggere i
rappresentati istituzionali. Nessun criminale di guerra (leggi
Karadžić e Mladić) avrebbe potuto svolgere una funzione
pubblica. Il trattato prevedeva inoltre la riunificazione della
capitale della Bosnia, Sarajevo. La Nato aveva il compito di
sorvegliare l’applicazione del trattato per un anno con una
propria presenza militare.
Con la ratifica degli accordi di pace si concluse formalmente il
conflitto che in Bosnia durava dal 1992 e aveva provocato oltre
200 mila morti (cifra che sale a 300 mila se valutiamo il bilancio
complessivo di tutte le guerre jugoslave), 3 milioni tra profughi e
rifugiati e un numero indefinito di feriti. Fu revocato l’embargo
242
contro la Federazione Jugoslava. L’assedio di Sarajevo terminò
realmente solo nel febbraio del 1996.
La firma di pace, fu salutata con entusiasmo dalla stampa
mondiale, ma lasciava insoluti diversi problemi.
L’accordo di Dayton non è stato di certo risolutore; pose fine ai
combattimenti ma non costruì una pace duratura: l’unità si è
dimostrata più che altro di facciata e l’integrazione e la
convivenza tra le due entità è stata in questi anni inesistente.
Nella sua marcata incertezza tra primato della cittadinanza e
primato
dell’etnia,
dando
la
priorità
a
quest’ultima,
ha
indirettamente avvallato la pulizia etnica applicata dai tre
contendenti durante il conflitto, consolidando così i leader
nazionalisti al potere, trasformatisi da un momento all’altro da
“signori della guerra” a garanti della pace.
Il trattato di Dayton è stato un cedimento alla risoluzione
spartitoria di Milošević e Tudjman nonché - nota Rumiz - “un
riconoscimento implicito del principio della separazione etnica
come strumento di pacificazione”229.
I nazionalisti hanno tentato di sedimentare, in tutti gli anni
novanta,
nelle
coscienze
un’idea
distorta
di
democrazia,
sostenendo che essa è possibile solo in società omogenee. E così
all’antica parola greca “demos” (popolo), essi hanno sostituito
l’ethnos (etnia). Dalla democrazia si rischia così di passare
all’etnocrazia.230
Al di fuori della storia ufficiale emergono altre storie, che
ottengono scarsa visibilità, ma sono fondamentali per il futuro di
un paese dilaniato dalla guerra.
Sono quelle che vedono
protagonista una fascia della società civile che ha rifiutato di
schierarsi per l’uno o per l’altro nazionalismo, per la Grande
229
230
P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit., p.159.
Cfr. S.Bianchini, La questione Jugoslava, cit., p.181.
243
Serbia, per la Grande Croazia o per lo stato bosgnacco di
Izetbegović.
A Sarajevo, Belgrado, Tuzla e in altre realtà (come anche
successivamente in Kosovo) sono emersi diversi episodi di
resistenza
civile,
gruppi
di
persone
o
singoli
che
hanno
manifestato il loro forte dissenso alla degenerazione di un
sistema, alla violenza delirante, al fanatismo etnico. Aiutando o
prestando soccorso ai potenziali nemici (così ritratti dalla
propaganda), disobbedendo ai comandi militari o semplicemente
scendendo in piazza sotto le bombe a protestare. Pagando anche
con la propria vita: civili e militari. Si sono verificati casi di
soldati che si sono opposti all’ordine di uccidere un proprio
concittadino o di stuprare le donne o di persone comuni che
fornivano aiuti ai detenuti dei campi di concentramento. Parliamo
di tutti coloro che hanno rifiutato le semplificazioni etniche
artificialmente create dal delirio nazionalista. Le schematizzazioni
dei mass media certo non permettono tali approfondimenti,
volenti o nolenti, e spesso la ricerca storica segue il triste
percorso dell’ufficialità, della diplomazia (anche quando si è
trattato dei “signori della guerra”) e del conteggio delle bombe.
Svetlana
Broz
combattente
ha
riportato
dell’Armata
la
vicenda
bosniaca,
che
raccontata
difendeva
da
un
Sarajevo
durante l’assedio dell’esercito serbo-bosniaco231. Le prime linee
delle due fazioni distavano solo cinquanta metri l’una dall’altra,
chiunque tirava fuori la testa poteva rimanere ucciso. “Una
mattina – narra l’ex soldato - si udì una voce maschile che
sorprese tutti quanti: ‘Ehi, ragazzi, giochiamo a calcio sul prato!’.
Pensavamo fosse una provocazione ma ci rassicurarono con le
parole: ‘Noi non vogliamo spararvi. Questa è una guerra
231
Svetlana Broz è cardiologa, direttrice dell’Ong “Gariwo” di Sarajevo e pubblicista.
S.Broz, Partite di calcio, in Srebrenica, fine secolo (a cura di W.Bonapace e Maria
Perino), Israt, Asti, 2005, pp.181-182.
244
insensata dove noi non vogliamo partecipare attivamente. Se
avete paura dite soltanto che neanche voi ci sparerete e noi
usciremo fuori dalla trincea’. Uscirono per primi”232. Giocarono
quotidianamente con loro per due settimane. “Se qualcuno
avesse potuto vederci quei giorni probabilmente avrebbe pensato
che non eravamo normali. Oggi mi sembra invece che eravamo
più normali della maggioranza”. Dopo quasi quindici giorni di
partite di calcio, una sera i serbo-bosniaci comunicarono alla
trincea nemica che alla mattina sarebbero ritornati a casa per
due settimane e al loro posto sarebbe arrivato un altro gruppo di
militari, provenienti dall’altra parte della Bosnia, avvertirono così
gli altri dei rischi: “State attenti, loro probabilmente non
vorranno giocare a calcio con voi ma spareranno. Se non starete
attenti, con chi giocheremo a calcio tra due settimane?”. Appena
se ne andarono, capitò tutto quello che avevano previsto. Nelle
due settimane successive era impossibile tirar fuori la testa dalla
trincea: i nuovi soldati sparavano in continuazione. Conclude,
l’ex soldato dell’Armata BiH: “Sono stato ferito sei volte durante
la guerra dalle schegge delle granate, ma non dimenticherò mai
il gruppo di soldati con i quali abbiamo giocato a calcio per quasi
un anno, due settimane al mese, mentre erano nella trincea
nemica”.
232
Ibidem
245
5 L A GUERRA IN K OSOVO : 1989-1999
Il conflitto in Kosovo, apparentemente breve, non cominciò il 24
marzo del 1999 con il primo missile lanciato dalla Nato. La
guerra era iniziata molti anni prima, almeno dieci233, e tuttora la
situazione
nella
regione
balcanica
non
è
completamente
pacificata.
Il Kosovo234, come già scritto, è una provincia situata nel sud
della Repubblica di Serbia con una superficie di 10.877 chilometri
quadrati e una popolazione che fino al 1998 contava due milioni
e centomila abitanti, in maggioranza albanese (circa l’87%), una
minoranza serba che raggiunge il 10% (in forte diminuzione negli
ultimi decenni passando dal 18,4% del 1971 al 10% del 1991), a
cui si aggiunge un’esigua percentuale composta da turchi,
macedoni e rom, 3%.
Il Kosovo era, ed è, un’area arretrata rispetto alle altre
repubbliche della ex Jugoslavia, una delle più povere della
Federazione; proprio per questo, nel secondo dopoguerra fu al
centro di piani di investimento e di aiuti federali che cercarono di
valorizzare le materie prime e i giacimenti di piombo, magnesio e
zinco, situati intorno all’area di Mitrovica.
Il regime comunista di Tito coniugò una continua e attenta
vigilanza poliziesca con significative aperture, sul piano politico e
culturale, verso gli Albanesi. La loro lingua fu riconosciuta come
una delle lingue nazionali della Jugoslavia. Nel 1974, la terza
riforma della Costituzione jugoslava definì il Kosovo un territorio
amministrativo autonomo all’interno della Repubblica Serba. “Era
233
E’ una guerra diluita nel tempo, cominciata anni prima diventando guerra “vera” solo
nel 1999 come spiega Marco Ventura in Come nasce una guerra da A. Marzo Magno (a
cura di), op.cit., p.285.
234
I serbi chiamano la regione “Kòsovo e Metohija” o Kosmet (dal greco metoh, bene
ecclesiastico, riferito ai possedimenti dei monasteri serbo-ortodossi) e gli albanesi invece
“Kosòva”. La versione italianizzata è Kossovo;
il termine internazionale mutato
dall’inglese, che utilizzo in queste pagine, è Kosovo.
246
‘quasi’ una repubblica: aveva una propria costituzione e pari
rappresentanza, come le altre repubbliche in tutte le strutture
federali. L’unico diritto di cui era priva, poiché l’etnia albanese in
Jugoslavia era considerata una minoranza e non un popolo
costitutivo, era quello della secessione della Federazione”235.
La situazione cambiò radicalmente dopo la morte di Tito. Prima
scoppiarono le proteste degli studenti a Pristina nel 1981, che
chiedevano migliori condizioni di vita, sedate nel sangue.
Aumentarono, nel corso del decennio, le tensioni tra le due etnie
principali. Gli jugo-albanesi migliorarono i rapporti con il governo
di Tirana e in una parte degli abitanti si diffuse la convinzione
secondo cui l’egualitarismo stalinista, imposto dal dittatore
albanese Enver Hoxha, fosse assai più efficace e meno ingiusto
delle differenze sociali ed economiche vissute in Jugoslavia. Era
un falso mito che però esercitò una sensibile attrazione nelle
aree più arretrate della provincia, consolidando quell’idea di
“Grande Albania”236 che diventerà uno dei cavalli di battaglia del
futuro esercito di liberazione Uck.
I serbi del Kosovo avevano, invece, visto crollare, in parte per
ragioni
demografiche
in
parte
a
causa
delle
modifiche
costituzionali, l’egemonia da loro esercitata fino a quel momento
nel governo della regione. Lo scoprirsi minoranza in un’area
ritenuta la culla storica della cultura serba e ortodossa costituì un
vero shock, che si intrecciò con le voci, in parte vere e in parte
false, di una volontà discriminatoria a loro danno da parte degli
albanesi, interessati – secondo tale interpretazione – a favorire
l’emigrazione della popolazione slava allo scopo di creare
omogeneità etnica in Kosovo e rendere inevitabile la secessione.
Slobodan Milošević si fece paladino dei serbi discriminati con una
235
236
G.Marcon, op.cit., p.26
L’unificazione degli albanesi in un unico stato.
247
campagna
propagandistica,
organizzando
manifestazioni
e
costruendo su questa mobilitazione il suo consenso; è storico il
suo furente e applaudito discorso, tenuto a Kosovo Poje (dove si
svolse la battaglia di “Campo dei Merli”) nel giugno del 1989 per
celebrare i seicento anni dalla famosa battaglia, sui possibili
scontri armati che avrebbero coinvolto il popolo serbo. Era stata
da poco revocata alla provincia la sua autonomia (insieme a
quella della Vojvodina), eliminando così la necessità dell’assenso
delle assemblee elettive delle province autonome su questioni
che le riguardavano. L’approvazione del parlamento di Pristina
(necessaria per l’ultima volta) fu ottenuta con brogli e violenze e
con i carri armati fuori dall’aula. Vi furono violenti scontri che
provocarono ventiquattro morti. La lingua albanese non fu più
riconosciuta per gli atti ufficiali e furono varate leggi per favorire
l’immigrazione di cittadini serbi nella regione. I delegati albanesi
dell’Assemblea,
istituzionale,
si
a
cui
venne
riunirono
fuori
vietato
dal
l’ingresso
palazzo
nella
sede
approvando
la
risoluzione a favore di un Kosovo definito “entità paritaria e
indipendente nell’ambito della federazione jugoslava”237. In
risposta il parlamento serbo sciolse l’Assemblea e il governo del
Kosovo, mantenendo solo un rappresentante fantoccio, come in
Vojvodina.
Il 7 settembre del 1990 i deputati albanesi approvarono la nuova
costituzione del Kosovo, ma solo un anno dopo, in seguito ad un
referendum clandestino per l’indipendenza della provincia, fu
dichiarata la nascita della Repubblica del Kosovo. Nel maggio del
1992 un plebiscito incoronò Ibrahim Rugova, leader degli
albanesi del Kosovo, a presidente della neo-nata repubblica,
ovviamente non riconosciuta. Rugova, poeta, critico e storico
della letteratura, era a capo della Lega Democratica Kosovara
237
M.Ventura in Come nasce una guerra da A. Marzo Magno (a cura di), op.cit., p.302.
248
(LdK), aveva invitato nei primi anni Novanta il suo popolo alla
resistenza passiva contro la repressione poliziesca, organizzata
dal
governo
nazionalista
di
Belgrado
nei
confronti
della
popolazione albanese. La scelta della nonviolenza, ai fini di
evitare un bagno di sangue come successe in Bosnia, attraverso
il boicottaggio delle istituzioni serbe, portò alla creazione di una
vera e propria struttura albanese parallela ai poteri serbi: si
designarono deputati, si istituirono scuole dalle elementari
all'università. Gli albanesi all'estero incominciarono a fornire
finanziamenti regolari. Intanto si svilupparono piccole imprese
private, agricole e commerciali.
Fino al ’95, il problema del Kosovo passò in secondo piano
rispetto agli avvenimenti della guerra in Croazia e in BosniaErzegovina.
Dopo gli accordi di Dayton, che avevano deluso le speranze degli
albanesi di vedervi inserita qualche disposizione a loro favore e
riacceso l’interesse serbo per il Kosovo, ripresero i disordini tra
irredentisti albanesi e forze di polizia serbe.
Il patto diplomatico, stipulato tra i responsabili del conflitto,
premiava proprio costoro238. Tutto ciò aveva provocato profonde
ripercussioni in Kosovo: le strategie della resistenza nonviolenta
e
dello
“stato
parallelo”,
promosse
dal
presidente
dell’autoproclamata repubblica del Kosovo Ibrahim Rugova sin
dal 1991, furono presto messe in discussione.
Nella notte tra il 20 e il 21 aprile 1996 uno studente, Armed
Daci, fu ucciso da un serbo. Seguì una manifestazione spontanea
di
protesta,
dettata
dall’esasperazione
di
una
popolazione
sottoposta da anni alla repressione serba. Pochi giorni dopo
scattarono attentati terroristici contro civili e militari serbi
(cinque morti). Le azioni furono rivendicate da una formazione
238
Cfr. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.175.
249
fino allora sconosciuta l’Uck239 (Esercito di liberazione del
Kosovo). Iniziò, allora, una strategia di guerra, da parte dell’Uck
capeggiato da Hasim Thaci, che non mancò di colpire anche gli
albanesi sospettati di atteggiamenti non pregiudizialmente antiserbi e divise la società kosovora tra chi ancora sosteneva il
moderato Rugova e chi invece era deluso per gli scarsi frutti
ottenuti dalla sua politica.
Nello stesso tempo, si svolsero le elezioni in Bosnia dove il 14
settembre 1996 i partiti nazionalisti ottennero una vittoria
schiacciante.
A
Zagabria,
invece,
Tudjman
aveva
bloccato
l’elezione del sindaco dell’opposizione, benché avesse vinto alle
amministrative, mentre calava il silenzio da parte dei paesi
occidentali.
Una situazione simile si verificò pure a Belgrado, dove Milošević
non riconobbe la validità delle elezioni amministrative, che si
erano svolte il 17 novembre e avevano sancito la vittoria della
coalizione di opposizione “Zajedno”.
Contro tutte le attese, dilagò una protesta di piazza e alla fine
Milošević dovette accettare il risultato elettorale. In Montenegro
fu eletto presidente della repubblica Djukanović, che entrò in
contrasto con il presidente serbo. Nell’insieme, questi eventi
causarono un indebolimento generale del potere di Milošević.
In Bosnia, la clamorosa rottura nella Repubblica Srpska tra
Bikjana Plausić e Radovan Karadžić portò ad elezioni anticipate e
alla designazione di un premier non nazionalista; la conseguenza
fu che si aprisse un timido dialogo tra le due parti del paese.
239
In albanese Ushtria Clirimtare e Kosoves. Nasce nel 1993, come braccio armato
dell’Lpk, il Movimento popolare del Kosovo. Si differenzia da subito, dall’Ldk per la
diversa percezione geopolitica di un Kosovo che comprende rispetto ai territori della
provincia, aree del Montenegro, piccole zone della Serbia e altre della Macedonia; una
sorta di “Grande Kosovo” da unire magari all’Albania. Tale movimento scrisse sulle
proprie bandiere lo slogan “Kosovo indipendente” ma anche quello di “Grande Albania”.
250
Intanto l’azione, svolta dal Tribunale dell’Aja contro i crimini di
guerra
nella
ex
Jugoslavia,
aveva
incoraggiato
le
prime
confessioni pubbliche di azione nefande commesse tanto dai
serbi, quanto dai croati e, anche, dai musulmani. L’idea di una
corresponsabilità da parte dei propri dirigenti nazionalisti negli
orrori del conflitto provocò uno shock tra la popolazione civile,
soprattutto tra i bosniaci e i croati, che portò a rafforzare le
opposizioni240.
Ma il clima cambiò precipitosamente. In Albania, lo Stato era al
collasso e in seguito al fallimento delle “piramidi” finanziarie, il
presidente Sali Berisha, nella primavera del ’97, si dovette
dimettere. Ci fu un saccheggio dei depositi militari e molte armi
penetrano in Kosovo, dove aumentarono gli attentati del gruppo
paramilitare Uck e, di conseguenza, la repressione della forze di
polizia serbe. Milošević tornò, allora, a far leva sul sentimento
nazionalistico operando abilmente per dividere la coalizione
d’opposizione. Fatos Nano, socialista e oppositore del governo
Berisha, diventò il nuovo presidente dell’Albania. Nel meeting fra
i paesi balcanici proposto dalla Grecia, ci fu un colloquio tra il
presidente serbo e Nano, il quale chiese il rispetto dei diritti
umani in Kosovo, riconoscendone però l’appartenenza alla
Serbia.
Nonostante la
ripresa di positive relazioni diplomatiche la
situazione peggiorò. In Kosovo si consumò uno scontro politico
tra Rugova e Adem Demaqi, detto “il Mandela dei Balcani”
(uscito dal carcere nel 1990): a separarli due diverse strategie
da seguire, Demaqi era, infatti, favorevole alla lotta armata.
L’Uck intanto cresceva politicamente e militarmente, attingendo
dalla delusione verso la politica “attendista” di Rugova.
240
Cfr. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit. p.175.
251
Il 28 novembre 1997 è una data importante perché per la prima
volta fanno la loro apparizione pubblica i guerriglieri dell’Uck, tra
la folla dei funerali di Halit Gecaj, un insegnante ucciso da un
poliziotto serbo. Avevano il volto coperto e l’uniforme, sulle loro
tute mimetiche spuntò l’aquila nera a due teste su fondo rosso,
lo stemma dell’Albania. Seguendo l’esempio dei guerriglieri
dell’Ira, uno di loro giurò
bandiere
comparirono
davanti alla tomba aperta. Sulle
ben
presto
le
scritte
“Kosovo
indipendente” e “Grande Albania”. Dalla metà del ’96 al febbraio
’98 l’Uck aveva provocato circa cento incidenti241 senza subire
gravi perdite; la sua politica divenne sempre più aggressiva,
soprattutto nella zona di Drenica (a nord-ovest di Pristina),
dando ulteriore incremento all’endemica fuga dei serbi dal
Kosovo che il regime di Milošević cercava di frenare fin dal 1989.
La fuga
si sommava alla pulizia etnica operata dai serbi nei
confronti degli albanesi kosovari, che ingrandivano sempre più le
fila dei profughi, già diverse decine di migliaia.
Tra il 28 febbraio e il 5 marzo 1998 si svolse tragicamente la
prima vera battaglia tra l’Uck e forze della polizia serba. Il primo
marzo fu una data chiave per comprendere la guerra del Kosovo.
La guerriglia dell’Uck uccise due poliziotti serbi e poco dopo, in
risposta, i serbi uccisero una ventina di civili albanesi. Una
settimana dopo, la polizia serba decise di attaccare il comune di
Drenica, roccaforte dell’Uck: i morti furono oltre 80 (anche donne
e bambini), tra cui Adem Jashari, uno dei capi storici dell’Esercito
di liberazione del Kosovo.
La spirale di violenza che si innescò fu drammatica, andò avanti
per settimane in un’alternanza di repressione poliziesca e
provocazioni dell’Uck, che ricevette aiuti dall’Albania, dove aveva
241
Cfr. J.Pirjevec, op.cit., p.563.
252
attivato dei campi di addestramento, e dai traffici illeciti (armi e
droga in particolare).
Il massacro di Drenica e i continui scontri in Kosovo sollevarono
l’attenzione
dell’opinione
pubblica
mondiale
e
sollecitarono
l’intervento del “Gruppo di Contatto”, formato da Usa, Gran
Bretagna, Francia, Germania, Russia e Italia, che elaborò un
primo piano di azione condannando la repressione della polizia
serba e gli attentati, definiti terroristici, dell’Uck, intimando al
governo serbo di allontanare le forze speciali dal territorio della
provincia al più presto.
Nella primavera in Kosovo ci furono le elezioni clandestine,
tollerate da Belgrado ma boicottate dall’opposizione kosovara,
che videro la nuova vittoria di Rugova, il quale continuava a
condannare le azioni dell’Uck, riuscendo anche a costruire per
breve tempo (era la prima volta che la sua politica prendeva
risvolti esplicitamente militari) un movimento militare rivale
(Fark), con il consenso degli Americani, che prendesse il
comando della resistenza.
Il tentativo fallì, perché il gruppo confluì presto nell’Uck, che in
alcuni casi eliminò fisicamente i capi della Fark (Forze armate
della Repubblica Kosovara).
Belgrado indisse, invece, un referendum per chiedere alla
popolazione se ritenesse necessarie mediazioni di paesi stranieri
nelle
faccende
ovviamente,
interne,
contraria.
come
il
Rinfrancato
Kosovo.
da
un
La
risposta
nuovo
fu,
appoggio
popolare, Milošević inviò truppe fresche nella provincia, che
permisero l’assalto della cittadina di Dečani, sede di uno dei più
famosi monasteri serbi, e costrinse i kosovari, di etnia albanese,
a darsi alla fuga nelle vicine Macedonia e Albania e in
Montenegro, che al momento rivendicava un posizione critica nei
253
confronti del presidente serbo, che, ricordo, è di origine
montenegrina.
La
preoccupazione
internazionale
per
il
Kosovo
aumentò
notevolmente e la pressione diplomatica costrinse il leader serbo
ad intavolare un negoziato con Rugova, attraverso la mediazione
dell’inviato americano Richard Holbrooke, uno degli artefici
dell’accordo di Dayton, nonostante il recente referendum l’avesse
proibito. Gli incontri di maggio non portano a nulla di risolutivo.
Attraverso l’intervento della Russia, nazione tradizionalmente
“amica” della Serbia, voluto dagli altri membri del Gruppo di
contatto (che intanto avevano bloccato ogni volo aereo per
Belgrado), Milošević, ad inizio estate, accettò l’ingresso di
osservatori internazionale, che poterono verificare le costanti
violazioni dei diritti umani nei confronti degli albanesi, e la
riduzione dell’intervento delle forze serbe nei confronti dei
guerriglieri dell’Uck.
Questi ultimi, acquisivano sempre maggior ruolo politico, che
presto fu riconosciuto dagli Stati Uniti (solo alcuni mesi prima li
consideravano terroristi). Avviarono rapporti con la Nato e l'Onu
e attraverso una propria propaganda (parlando anche di fosse
comuni inesistenti) cercarono di far diventare il Kosovo una
priorità mondiale.
In un clima di guerra civile, settembre fu un mese di tragici
scontri, in cui l’Uck si trovò in grave difficoltà e i profughi
albanesi aumentarono esponenzialmente, cacciati dalle proprie
case dalle truppe serbe; anche lo stesso Uck metteva in fuga la
popolazione serba del Kosovo dai territori “liberati”.
Il 23, il Consiglio di sicurezza dell’Onu chiese la cessazione delle
ostilità, in caso contrario sarebbero state prese altre misure per
ottenere la pace. Gli Usa incominciarono a mostrare il pugno
duro verso il governo di Belgrado, soprattutto con il segretario di
254
stato, Madeleine Albright, una delle più accese sostenitrici del
futuro attacco Nato alla Serbia.
Dopo il coinvolgimento della Nato sul finire della guerra bosniaca,
prese sempre più piede il progetto di riforma dell’Alleanza
atlantica (in elaborazione fin dai primissimi anni novanta), che
modificava il suo ruolo strategico a livello internazionale,
oltrepassando se necessario le questioni relative al diritto
internazionale e il parere del Consiglio di sicurezza.
Dopo il crollo del muro di Berlino “la Nato deve trasformarsi in
un’alleanza politica su basi militari”242 sosteneva Ivo H. Daalder,
già consigliere della Casa Bianca per i Balcani, un’Alleanza che si
confronti con i problemi di instabilità fuori dall’area degli aderenti
al patto atlantico. Un progetto che metteva in reale crisi il ruolo
dell’Onu, quasi delegittimata, dall’interventismo Nato, basato
sulla dottrina dell’ “unipolarismo”243.
A fine settembre, si aggravò il problema dei profughi kosovari,
almeno 200 mila, a seguito delle repressioni della polizia serba
(ormai un vero e proprio piccolo esercito), che culminarono
nell’uccisione di venti albanesi a Gornje Obrinje. Le immagini di
donne, uomini e bambini, costretti ad abbandonare le loro case,
piombarono sui teleschermi di tutto il mondo.
L’8 ottobre l’Uck dopo aver subito diverse sconfitte, annunciò
una tregua unilaterale.
Intanto, si profilò un probabile intervento militare della Nato
(approvato dall’Alleanza già a metà ottobre) nei confronti della
Serbia; un’intensa campagna mediatica negli Stati Uniti contro
Milošević e i serbi ne preparò il terreno.
Richard Holbrooke, in missione diplomatica per conto del Gruppo
di contatto e in polemica con l’intransigente Albright, tentò
242
243
Ivi, cit., p.571
Ibidem
255
un’ultima
mediazione
con
il
“vožd”
(condottiero)
serbo,
chiedendo la fine dell’offensiva nel Kosovo e il ritiro delle forze
serbe (parziale), la libertà di accesso agli operatori internazionali,
la cooperazione con il Tribunale dell’Aia, il ritorno dei fuggiaschi
nelle proprie case e l’inizio di una soluzione negoziata secondo il
piano Hill che prevedeva un’amministrazione trilaterale, serbaalbanese-internazionale,
apparentemente
accettò
della
l’accordo.
provincia244.
Milošević
Il
fu
13
ottobre
dato
l’annuncio dell’ingresso di duemila osservatori Osce, disarmati, in
Kosovo. Nello stesso giorno la Nato emise l’Activation Order
concedendo ai serbi quattro giorni per conformarsi alle decisioni
in caso contrario sarebbero iniziati i raid aerei. L’intervento
militare fu rimandato perché gli atti principali della trattativa,
l’ingresso dei verificatori Osce (Ksm, Kosovo verification mission)
e il ritiro delle truppe furono attuati. Anche se a dir la verità le
forze serbe non furono mai ritirate completamente se non nel
capoluogo
Pristina,
e
neanche
un
mese
e
mezzo
dopo
cominciarono a rifluire militari serbi in Kosovo, in palese
contraddizione rispetto gli accordi firmati con Holbrooke.
Nei mesi d’autunno il rapporto tra Usa e Uck, ormai legittimato
come fondamentale interlocutore, si fece più stretto.
A metà dicembre, ripresero gli scontri tra le forze serbe (regolari
e speciali) e l’Uck, che si distinse in azioni terroristiche contro i
civili (come a Peć, sei giovani serbi uccisi in un attentato nei
pressi di un bar) e militari serbi e, a volte, anche nei confronti di
albanesi non allineati. L’esercito di liberazione, che non era stato
coinvolto nell’accordo di ottobre, puntava “ad accentuare la
situazione di tensione e di violenza nel paese e a provare la
reazione serba”245 che non tardò ad arrivare, - sostiene Giulio
244
245
Ivi, cit. p.572-573.
G.Marcon, op.cit., p.37.
256
Marcon – “ai fini di costringere la Nato e gli Usa a intervenire a
loro fianco”246. Tutto ciò non faceva altro che far precipitare la
situazione.
Il 15 e il 16 gennaio 1999 segnarono una svolta nella storia del
Kosovo. Si verificò il 15 nel comune di Račak, nel Kosovo
centrale, un massacro di 45 albanesi, uccisi a colpi di mitra e poi
mutilati, scoperto il giorno dopo. La strage, a tratti controversa
per quanto riguardava gli autori, innescò il pilota automatico
verso l’intervento militare. Non si fece scrupoli l’osservatore
William Walker, voluto personalmente dalla Albright, impegnato
già in precedenza in America Latina (dove fu anche ambasciatore
per gli Usa a EL Salvador), in vicende piuttosto oscure come
l’assassinio dell’arcivescovo Romero247. Walker, che guidava la
missione Osce, senza aspettare l’esito delle indagini, accusò
immediamente i serbi, che da parte loro sostennero invece l’idea
che dietro alla strage di Racak ci fosse una messa in scena e che
i 45 albanesi, presunti civili, non fossero altro che miliziani
dell’Uck morti in combattimento. Nemmeno le analisi scientifiche
sui corpi delle vittime, che subirono pressioni da ambo le parti,
portarono ad una soluzione della tragedia. Walker, venne
dichiarato “persona non grata” dal governo di Belgrado e invitato
a lasciare la Serbia; grazie all’intercessione di alcuni mediatori,
l’espulsione rientrò e fu sospesa.
246
Ibidem
La figura di Walker è descritta in A.Marzo Magno (a cura di), La guerra dei dieci anni
(pag.339) e ulteriori informazioni possono essere ricavate in J.Pirjevec, Le guerre
jugoslave, p.582. E’ uscito sull’autorevole rivista di geopolitica “Limes” all’interno del
numero speciale Kosovo: l’Italia è in guerra (1999) un articolo dal titolo Come gli
americani hanno sabotato la missione Osce, che oltre a ritrarre la figura del
capomissione Walker esamina le varie vicende dei verificatori internazionali che
avrebbero dovuto vegliare sull’applicazione dell’accordo Holbrooke-Milošević in Kosovo.
“Americani e britannici - sostiene l’articolo hanno usato l’Osce a sostegno dell’Uck,
emarginando italiani, francesi e tedeschi”. Al seguito della pubblicazione di tale articolo
“anonimo” (uscito firmato dallo pseudonimo “Ulisse) la redazione di “Limes” è stata
oggetto di una misteriosa incursione notturna durante la quale sono stati sottratti due
hard disk dai computer della rivista.
247
257
Il “mistero” del massacro di Račak248 (dove tristemente persero
la vite decine di persone), che non toglie certo le colpe ai serbi,
fu usato come pretesto da parte degli americani per l’inizio
dell’attacco aereo.
Come ho già avuto modo di ricordare, la scoperta di fosse
comuni (a Racak i corpi furono trovati ammassati l’uno all’altro)
nelle
guerre
jugoslave
e
più
in
generale
nei
conflitti
contemporanei attira particolarmente l’attenzione dell’opinione
pubblica internazionale, “per cui l’attribuzione o la scoperta di
una fossa comune – come nota Marco Deriu – rappresenta una
partita ‘politica’ piuttosto importante”249. Così è stato anche per
la strage di Račak utilizzata agli occhi dell’opinione pubblica per
giustificare agli occhi dell’opinione pubblica l’intervento Nato in
Kosovo.
Dopo la strage di Račak, l’accordo tra Milošević e Holbrooke era
ormai senza valore. La maggior parte degli osservatori Osce
venne ritirata e lasciò il Kosovo: si trattava di un chiaro segnale
dell’imminente attacco Nato.
La
pressione
statunitense
andava
in
quella
direzione.
La
mediazione e la pressione francese portarono alla convocazione
da parte del Gruppo di contatto di un negoziato che si svolse, in
due fasi, nel castello di Rambouillet nei pressi Parigi, tra il
febbraio e il marzo del ‘99. Alcune novità sostanziali lo
differenziavano dai negoziati precedenti: le trattative avvenivano
attraverso colloqui diretti, sotto la conduzione, e non solo il
patrocinio, della diplomazia occidentale, un po’ in “stile Dayton”.
248
La vicenda di Račak è riportata sulle pagine di La guerra dei dieci anni (p.331-33); in
un capitolo dell’importante testo di Pirjevec Le guerre jugoslave (p.583 e 587) e nel libro
inchiesta di Enrico Vigna Kosovo ‘liberato’ (La città del sole, 2003, Napoli). Se Pirjevec
pende più per una responsabilità serba sulla strage, Vigna smonta questa tesi
paragonando l’episodio Racak ai fasulli massacri di Timisoara, dei quali si è realmente e
storicamente verificato il carattere fittizio e propagandistico. La messa in scena di
Timisoara è raccontata ottimamente nelle pagine di Maschere per un massacro di
P.Rumiz (p.51-60).
249
M.Deriu, op.cit., p.207.
258
Inoltre per la prima volta all’interno della delegazione kosovara
albanese erano presenti esponenti dell’Uck, tra cui Hashim Thaci
(Il serpente), insieme ad altri rappresentanti delle varie aree
politiche dell’irredentismo kosovaro; c’era ovviamente Rugova,
che però non era più l’unico leader del Kosovo, riconosciuto
internazionalmente. La terza novità era la connessione diretta tra
i risultati del negoziato e l’intervento della Nato: se la trattative
fossero fallite a causa della Serbia, la Nato sarebbe intervenuta
con la forza senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
Un’anomalia fuori dal diritto internazionale: “Rambouillet si
sarebbe
di
fatto
dimostrato
un
ultimatum,
più
che
un
negoziato”250.
All’interno del Gruppo di contatto c’erano posizioni diverse ma
prevalse l’interventismo degli Usa, appoggiato dai britannici, fu
scavalcata la proposta francese di chiedere l’autorizzazione al
Consiglio di Sicurezza, poco ascoltati gli italiani e isolati i russi.
Incominciò, invece, a prendere piede il concetto ambiguo di
“nuovo umanitarismo militare”, secondo la formulazione di
Ulriche Beck251 o di “guerra umanitaria”; concetto che è stato
fortemente attaccato dal linguista Noam Chomsky, coscienza
critica dell’America, che ha analizzato le ipocrisie dell’intervento
nel recente saggio Il nuovo umanitarismo militare: lezioni dal
Kosovo252 (edito da Asterios, Trieste, 2000).
La prima sessione di lavori della Conferenza, aperta il 6 febbraio
dal presidente francese Jacques Chirac, che si protrasse per tutto
il mese, fallì.
250
G.Marcon, op.cit., p.39.
Cfr. M.Ventura. op.cit., p.325.
252
Chomsky ricorda che l’America, così sensibile alla causa dei kosovari (salvo trovarsi
dopo l’intervento di fronte a una catastrofe umanitaria peggiore di quella che voleva
impedire), non mostra la stessa sensibilità nei confronti dei curdi e in passato non l’ha
mostrata nelle aree in cui i mercenari e la polizia dei regimi non comunisti in America
Latina hanno usato il terrorismo di stato contro oppositori, dissidenti e ribelli.
251
259
Il documento proposto dai mediatori presentava tre punti
principali: il cessate il fuoco, un periodo transitorio di tre anni in
cui il Kosovo, pur sempre soggetto alla sovranità jugoslava,
sarebbe passato sotto la tutela Nato e avrebbe avuto la garanzia
di un autogoverno. Dopodiché si sarebbe svolta una conferenza
internazionale per stabilire lo status della provincia. Le due parti
in trattativa si trovarono in disaccordo: da una parte i serbi non
accettavano lo stanziamento di truppe Nato nel proprio territorio,
continuando a considerare il Kosovo come una faccenda interna;
dall’altra parte, gli albanesi non vedevano nel documento
sufficienti garanzie per la futura indipendenza del Kosovo.
Emersero
anche
differenze
tra
l’impostazione
europea
e
americana. La strategia statunitense era “ di portare gli albanesi
alla firma di un’intesa, i serbi al prevedibile rifiuto, e prenderne
quindi atto per poter finalmente cominciare a bombardare i
serbi”253. Se gli europei erano più propensi a cercare fino
all’ultimo
l’accordo
con
i
serbi,
gli
americani
miravano
all’isolamento di Milošević e a stringere un accordo con l’Uck, che
fino all’ultimo i diplomatici di Belgrado non riconoscevano come
forza belligerante.
Visto il fallimento di questa prima tornata di trattative, fu
riconvocata un’ultima Conferenza il 15 marzo a Parigi. Nel tempo
trascorso dalla conclusione dell’ultimo incontro (23 febbraio) il
Dipartimento di Stato americano convocò gli esponenti dell’Uck a
Washington per convincerli a firmare l’accordo. Dopo un serie di
scambi epistolari e incontri, in cui si spese personalmente
Madeleine Albright, i rappresentati dell’Uck furono persuasi ad
accettare un testo che avrebbe permesso loro di avviare un
percorso verso l’indipendenza, sulla base di un passaggio
ambiguo riportato sul documento che definiva la soluzione finale
253
M.Ventura, op.cit.,p.336.
260
per il Kosovo “sulla base della volontà della popolazione”. Gli Usa
fornivano garanzie all’Uck per l’organizzazione di un referendum
futuro, mentre il Gruppo di contatto si atteneva all’impegno
formale (stabilito a Rambouillet) di preservare l’integrità del
territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia.
Il 18 marzo Thaci firmò il documento, su cui era d’accordo anche
il resto dei delegati albanesi, dopo che si assicurò che i serbi,
presenti con il ministro degli esteri Milutinović, non avrebbero
firmato. Nel testo era, infatti, presente il diritto della Nato di
extraterritorialità in Serbia e Montenegro, che Belgrado non
avrebbe mai potuto accettare; inoltre si decretava, oltre allo
statuto di autonomia di tre anni per il Kosovo, una graduale
smilitarizzazione
dell’Uck,
che
però
mirava
principalmente
all’indipendenza, come risultato sottointeso alla trattativa. Per gli
Usa, la contrarietà dei serbi a sottoscrivere il trattato di
Rambouillet costituì la prova che Milošević non intendesse
mediare alcunché, costringendo così i partner europei a eliminare
ogni remora all’avvio dei raid aerei.
Pochi giorni dopo scoppiò la guerra in Kosovo, dopo che fallì
anche l’ultimo tentativo di Holbrooke a Belgrado. Senza ottenere
il
consenso
del
Consiglio
di
Sicurezza
dell’Onu
(a
causa
dell’opposizione della Russia, che non parteciperà nemmeno alla
ratifica degli accordi a Parigi, e della Cina), il 24 marzo, la Nato
iniziò i bombardamenti sulla Serbia. Javier Solana, segretario
generale della Nato, aveva infatti autorizzato l’Operazione “Allied
Force”. Con questa decisione l’Alleanza Atlantica, dopo un
cinquantennio, si impegnò per la prima volta in un’azione
offensiva, attaccando uno stato sovrano e violando al contempo
la sua costituzione e la stessa “Carta” dell’Onu. Autorevoli
261
commentatori in Italia sostennero, sui due maggiori quotidiani, la
legittimità di questo intervento militare254.
Il governo di Belgrado aveva, nel frattempo, inviato dopo il
fallimento delle trattative di Rambuillet e Parigi, 40 mila soldati
in Kosovo.
Oltre alla prima motivazione ufficiale, ovvero che Milošević non
avesse firmato gli accordi, si affiancò un’altra giustificazione
all’intervento militare: impedire la massiccia pulizia etnica che i
serbi stavano perpetrando. In seguito, si aggiunse un altro
obiettivo scalzare il leader serbo dal potere.
I raid aerei della Nato scatenarono una violenta repressione dei
serbi contro la popolazione albanese del Kosovo. E’ difficile
pensare che i vertici Nato non sapessero che i bombardamenti
avrebbero innescato una drammatica spirale di violenza. Molti
analisti, tra cui Chomsky, affermano che questo era voluto per
poter giustificare successivamente in modo più convincente
l’intervento
Nato.
Che
gli
strateghi
dell’Alleanza
atlantica
sapessero dei gravi rischi, che avrebbe causato l’intervento
254
Per Paolo Galimberti possedeva “una sua ragione etica fin dall’inizio” (“La
Repubblica”, 5 giugno ‘99); Ennio Carretto l’aveva definito “prima e forse l’ultima mossa
per un obbligo morale’ (“Corriere della Sera”, 11 giugno ’99); Adriano Sofri lo descrisse
come “l’impiego di una forza internazionale a difesa delle vittime e del diritto” (“La
Repubblica”, 4 giugno), derivante per Miriam Maffai “dall’impegno ad assumere come
propria frontiera la difesa dei diritti umani, fino al rischio ed alla responsabilità della
guerra” (“La Repubblica”, 23 giugno). Andrè Glucksman scrisse: “le forze della Nato
manifestano la volontà occidentale”, ovvero una volontà “democratica, basata sul rifiuto
del crimine di massa” (“La Repubblica”, 20 maggio 1999). Ernesto Galli Della Loggia, più
cauto, aveva osservato che “è difficile pensare che esso sia motivato principalmente
(sottolineo, principalmente) da ragioni umanitarie” (“Corriere della Sera”, 20 aprile). Piero
Ostellino notò che se “il genocidio “selettivo”’ e ‘la “pulizia etnica”, “giustificano
ampiamente l’intervento militare della Nato”, tuttavia, “da soli, non lo spiegano”, perché ci
sono in gioco “corposi interessi geopolitici e geostrategici, non meno pressanti e legittimi
della tutela del diritto umanitario” (“Corriere della Sera”, 6 aprile 1999). Angelo
Panebianco, mosso da maggiore realismo, scrisse che sono “le percezioni dei leader
occidentali” e “le complesse mediazioni all’interno del blocco euro-atlantico a decidere, di
volta in volta, che cosa è nel suo interesse (e in quello del mondo) e che cosa no”, e sono
proprio queste “percezioni” e queste “mediazioni” ad aver prodotto “la decisione di colpire
Milošević una volta stabilito che non era nell’interesse dell’Occidente subire
passivamente, dopo la Bosnia, una nuova pulizia etnica nel cuore dell’Europa” (“Corriere
della Sera”, 24 maggio). Le seguenti dichiarazioni sono tratte dall’analisi di Raffaele
Mastrolonardo Mastrolonardo E., Etica e geopolitica: confronto tra editorialisti, “Gli
argomenti umani” (www.gliargomentiumani.com), agosto 2000.
262
militare, è un dato di fatto. Fu, infatti, una preoccupazione
mossa dall’Italia255 durante le trattative in seno al Gruppo di
contatto prima dell’attacco, che però nulla fece per opporsi
all’intervento.
Nei primi giorni di guerra gli aerei militari Nato (americani in
maggioranza, poi inglesi, francesi, tedeschi, italiani e anche
spagnoli) vennero impiegati in bombardamenti di strutture
militari e contraeree serbe in Kosovo, in Serbia e nella lontana
Vojvodina. La Rfj ruppe da subito le relazioni diplomatiche con i
principali paesi della Nato (Italia esclusa).
Contemporaneamente Milošević diede il via all’operazione “Ferro
di cavallo” ,
intensificando
la
pulizia
etnica.
Iniziarono
bombardamenti
sistematici sui villaggi, deportazioni di massa, stragi sommarie,
rastrellamenti ed espulsioni. Si formarono sulle strade del
Kosovo colonne infinite di profughi in fuga verso la Macedonia e
l’Albania. Un piano di violenta repressione ed aggressione, molto
probabilmente già predisposto da diversi mesi, in continuità con
la politica ultranazionalista di Milošević che per tutti gli anni
Novanta
aveva
spinto
ad
un’emigrazione
forzata
della
popolazione albanese del Kosovo. Si sviluppò così una guerra
parallela a quella tecnologica combattuta dalla Nato, che si
intrecciò e si sommò all’altra, più rudimentale, a terra: il tutto a
danno dei civili.
Tra i vertici della Nato, prima dei bombardamenti, era diffusa
l’idea che l’intervento militare sarebbe stato risolto in pochi
255
Nel libro intervista a Chomsky Due ore di lucidità (Baldini&Castoldi, Milano, 2003)
viene riportato che l’allora presidente del consiglio italiano Massimo D’Alema, recandosi a
Washington (il 5 marzo), valutò il rischio di migliaia di profughi in caso di bombardamenti.
Pose la domanda a Sandy Berger, consigliere per la sicurezza nazionale di Clinton, è
raccontato nel libro di G.Marcon (op.cit., p.42): “State valutando lo scenario peggiore,
cioè l’ipotesi che mentre noi lanciamo una campagna di bombardamenti i serbi scatenino
una pulizia etnica senza precedenti?” chiese D’Alema; “Continueremo a bombardare”
rispose Berger.
263
giorni, con una capitolazione veloce del governo di Belgrado,
data l’enorme superiorità militare. Presto cominciarono a capire
che il conflitto si sarebbe protratto più del previsto e che
Milošević non si sarebbe arreso facilmente. Dopo una settimana
di raid aerei la Nato passò alla fase che estese gli attacchi alla
truppe serbe a terra e non solo alle attrezzature, ai mezzi e alle
postazioni.
Con l’intensificazione, aumentarono anche quelli che furono
definiti con un pessimo eufemismo “danni collaterali”, ovvero le
vittime civili dei raid aerei. Le cosiddette “bombe intelligenti” si
rivelarono meno precise del previsto e tra l’altro furono solo il 35
per cento del munizionamento che fece spesso ricorso a bombe
più convenzionali, che colpivano a caso.
A terra intanto scoppiò la “bomba umana” dei profughi albanesi,
incalzati dal terrore serbo. Scappavano verso i paesi vicini,
moltissimi senza né cibo né acqua. L’Alto commissariato per i
rifugiati dell’Onu, dopo i primi dieci giorni di guerra stimò 260
mila sfollati all’interno del Kosovo, e 200 mila tra Albania e
Macedonia.
Un
importante
di
esodo
una
dalle
proporzioni
popolazione
europea
vastissime,
dal
il
più
1945,
che
riguarderà, alla fine della guerra, quasi un milione di persone.
Sono immagini che fanno il giro del mondo, attraverso i network
televisivi. L’esodo dei kosovari, diede anche origine a numerose
critiche, all’indirizzo della Nato e in particolare degli Stati Uniti,
accusati di aver peggiorato, e non migliorato, la situazione nei
Balcani, causando una nuova e devastante pulizia etnica. In
Italia e in Germania si formarono i maggiori movimenti pacifisti
che chiedevano lo stop ai bombardamenti, anche nelle città
serbe si crearono ampi gruppi di manifestanti per la pace. Ci
vollero due settimane prima che la macchina delle organizzazioni
264
di
volontariato
si
mettesse
concretamente
in
moto,
per
affrontare la catastrofe umanitaria256.
La gente scappava dalla pulizia etnica serba, ma anche dalle
bombe
della
Nato.
Le
due
diverse
propagande,
serba
e
occidentale, diedero più o meno importanza (fino alla negazione
dei fatti), a seconda dei propri interessi strategici, alle feroci
violenze contro gli albanesi del Kosovo (le tv di Belgrado) e alle
stragi di civili causati dai bombardamenti dell’Alleanza atlantica
(l’informazione, allineata, nei paesi Nato). Tutte e due forti di un
“news management”: una strategia dell’informazione pianificata
insieme ai vertici militari, studiata mesi prima per ottenere il
consenso dell’opinione pubblica, di fronte ai vari interventi di
guerra.
Nei primi giorni d’aprile un missile Nato provocò 17 morti civili ad
Aleksinac, cittadina serba; due giorni dopo, il 7 aprile, un altro
colpì un’area residenziale di Priština uccidendo 12 persone. Il 12
aprile un aereo Nato fece 55 vittime su treno a Grdelica.
Due
giorni dopo, durante l’attacco di un ponte ferroviario nella Serbia
meridionale, le bombe Nato colpirono un convoglio di profughi
kosovari a Djakovica, 75 morti.
Anche la città di Belgrado dal 3 aprile finì sotto i bombardamenti.
Ad inizio aprile, Milošević aveva obbligato Rugova, del quale
all’inizio delle ostilità si erano perse le tracce, ad incontrarlo a
Belgrado, utilizzando a livello propagandistico l’accaduto. Gli
chiese di registrare un messaggio per chiedere la cessazione dei
raid aerei Nato, senza far riferimento alla pulizia etnica che
colpiva il suo popolo. Come lui stesso affermerà successivamente
agiva sotto la pressione del leader serbo. Ma ciò bastò perché si
innescasse una polemica in campo kosovaro, probabilmente uno
dei fini del “vožd” di Belgrado. L’Uck condannò le parole di
256
Cfr. J.Pirjevic, op.cit, p.612.
265
Rugova, escludendo qualche giorno dopo i rappresentanti del Ldk
dal governo formato da Thaci. Il 5 maggio, Milošević permise a
Rugova di raggiungere in aereo Roma. Qui l’esponente kosovaro
cercò di riaffermare la sua leadership, dichiarando l’appoggio
all’azione della Nato ma condannando l’Uck come gruppo
terrorista257.
Intanto l’Uck, che sosteneva fortemente le operazioni della Nato,
seppur
mal
equipaggiata
(ma
ricevette
rifornimenti
dall’Alleanza), infliggeva attacchi a terra all’Armata jugoslava,
che era affiancata dalle più crudeli truppe paramilitari, come le
“Tigri” di Arkan, che si macchiarono di stupri, torture e massacri
ai danni degli albanesi del Kosovo.
La Rfj chiuse, nella seconda settimana di aprile, i valichi di
frontiera tra il Kosovo e l’Albania, costringendo masse di profughi
a tornare sui loro passi. Nei giorni successivi si verificarono
scontri armati tra forze serbe e albanesi al confine. Il 17 aprile la
Federazione
jugoslava
ruppe
le
relazioni
diplomatiche
con
l’Albania. Oltre che in campo kosovaro c’erano contrasti “interni”
anche in campo jugoslavo, con le dure critiche effettuate dal
presidente montenegrino Djukanovic a Milošević, che marcava
sempre più le differenze con la Serbia.
La guerra proseguì con l'intensificarsi dei bombardamenti Nato,
che toccarono i civili. In Europa occidentale intanto aumentava il
“partito” di coloro che si dichiaravano contrari ai raid, chiedendo
la cessazione immediata di una guerra definita ingiustamente
“umanitaria”. La conferma di un portavoce dell’Alleanza, resa
pubblica il 20 aprile, che alcune munizioni lanciate nel Kosovo
contenevano uranio impoverito, uno scarto dell’industria nucleare
257
Ivi, cit., p.614.
266
fortemente
tossico,
suscitò
ulteriori
preoccupazioni258.
La
propaganda serba fece un uso accorto di queste informazioni.
“Ciò rese piuttosto nervosi – scrive lo storico Jože Pirjevec - i
manipolatori dell’opinione pubblica in seno alla Nato, che
consideravano da tempo la loro bestia nera, la stazione televisiva
di Belgrado”259. Per sbarazzarsi di una voce inopportuna fu
organizzato un attacco
contro il palazzo della tv di stato, nel
centro di Belgrado, dove il 23 aprile, perirono sedici dipendenti
dell’emittente, tra giornalisti e tecnici, in quel momento al
lavoro260.
Mentre i vertici della Nato discutevano sull’eventualità di un
intervento
da
terra,
parallelamente
si
muoveva
l’azione
diplomatica per risolvere il problema kosovaro, con in primo
piano tedeschi e russi (che precedentemente gli Usa avevano
sistematicamente tenuto fuori dalla crisi), che dal 14 aprile
ebbero
come
rappresentante
speciale
nei
Balcani,
Viktor
Černomyrdin.
Oltre a colpire la residenza di Milošević, le maggiori infrastrutture
(tra cui ponti e raffinerie, causando gravi blackout dell’elettricità)
e alcuni palazzi di stato, le bombe Nato fecero fuoco sui civili, il
primo maggio a Priština (47 morti) e il 7 maggio a Niš, colpito un
ospedale
e
il
mercato
(20
morti).
“Danni
collaterali”
si
verificarono anche a Košari in un accampamento di profughi
kosovari (87 morti). L’arma area, nonostante avesse distrutto
l’economia jugoslava, non sembrava in grado di risolvere il
conflitto; si fece strada la via diplomatica, più volte osteggiata
dagli americani, promossa dai russi, tentata dal Vaticano e
258
L’uranio impoverito sospetto per la sua radioattività di essere la causa della “sindrome
del Golfo” era già stato usato negli ultimi anni della guerra in Bosnia (Cfr. J.Pirjevec,
op.ci.., p.626).
259
J.Pirjevec, op.cit., p.526.
260
L’attacco alla tv è raccontato nel documentario di Corrado Veneziano Sedicipersone:
le parole negate del bombardamento della tv di Belgrado.
267
timidamente proposta dalla Germania e dall’Italia che il 16
maggio sostenne un’iniziativa in favore della sospensione dei
bombardamenti, che però non fu accettata. Nelle città serbe e
kosovare la normalità della vita era sconvolta: l’erogazione
dell’energia elettrica e dell’acqua fu interrotta e aumentarono a
dismisura i prezzi dei generi di prima necessità anche la
disoccupazione crebbe radicalmente. La guerra si era trasformata
in un’ingente catastrofe umanitaria.
Il conflitto continuò fino ai primi di giugno del 1999, dopo 78
giorni di bombardamenti, con il picco di raid aerei raggiunto il 27
maggio261, lo stesso giorno in cui il Tribunale internazionale
dell’Aja emise un mandato di comparizione contro Milošević,
accusato di crimini di guerra contro l’umanità, insieme a quattro
suoi collaboratori.
Sotto l’incalzare delle bombe Nato che colpivano inesorabilmente
bersagli civili e militari senza trovare ormai alcun tipo di
opposizione, Milošević si decise, il 28 maggio attraverso la
mediazione di Černomyrdin, ad accettare le proposte formulate
dai Paesi membri del G8262. L’intesa prevedeva: il ritiro delle
forze
serbe
dal
Kosovo;
la
presenza
di
forze
armate
internazionali, sotto il mandato dell’Onu e con significativo ruolo
della Nato; il ritorno dei profughi e l’amministrazione provvisoria
del Kosovo; forme di autonomia e autogoverno della regione
all’interno
della
Federazione
jugoslava;
la
smilitarizzazione
dell’Uck.
L’accordo di pace fu stipulato solo nei primi di giugno, dopo
ancora giorni di bombardamenti. Il 3 giugno, il parlamento serbo
accettò il piano di pace, dopo la missione positiva dei mediatori
261
Cfr. J.Pirjevec, op.cit., p.633.
Ivi, cit., p.637, I retroscena raccontano che uno dei motivi dell’accettazione da parte
del leader serbo, era un accordo segreto con i russi per la riconquista di Pristina, che
però non avvenne.
262
268
Černomyrdin e Martti Ahtisaari, diplomatico finlandese nominato
dall’Unione Europea. Il 10 giugno fu il giorno del “cessate il
fuoco” con la firma dell’accordo di pace tecnico-militare a
Kumanovo in Macedonia. Venne poi votata dal Consiglio di
Sicurezza dell’Onu una risoluzione che fissava i compiti della
missione militare multinazionale in Kosovo, denominata Kfor
(International Military Force in Kosovo), di cui facevano parte i
paesi della Nato e la Russia. Il Kosovo fu diviso in cinque grandi
aeree affidate alle varie componenti.
Si concluse una guerra di difficile lettura, l’ultimo tragico conflitto
del Novecento. Con un pesante bilancio di distruzione, morti e
feriti, molti di più di quelli previsti per una guerra definita
impropriamente umanitaria (sono duemila i morti tra i civili);
notti e giorni di bombardamenti aerei Nato continui; scuole e
ospedali distrutti; villaggi rasi al suolo; pulizia etnica da parte
delle milizie di Milošević a terra che causò 900 mila profughi
kosovari, la cui maggioranza tornò nelle case nei mesi successivi
anche attraverso un piano di rientro profughi sotto l’egida Onu.
Dicevamo, una guerra di difficile lettura, perché presenta delle
novità rispetto ai conflitti del Novecento. La prima a fregiarsi del
titolo di “guerra umanitaria”, una guerra per i diritti dell’uomo263.
Attraverso questo “pretesto” morale, la Nato non si è sentita in
dovere di ricevere un mandato dell’Onu, rivelando una prima
illegittimità dal punto di vista del diritto internazionale264. Inoltre,
263
L’evento bellico del Kosovo “ha definitivamente consacrato la prassi dell’interventismo
umanitario, assumendo nel modo più esplicito la motivazione umanitaria come justa
causa belli. In questo caso la Nato ha ritenuto che l’uso della forza internazionale per
motivazioni umanitarie fosse legittima non soltanto in opposizione al principio di non
ingerenza nella domestic jurisdiction di uno Stato sovrano, ma anche in contrasto con la
Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale. Nel frattempo il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite aveva creato ad hoc un Tribunale penale internazionale per
la ex–Jugoslavia, dotato di primazia giurisdizionale rispetto ai Tribunali nazionali operanti
nella regione” (Danilo Zolo, Diritto internazionale e “guerra umanitaria”, in Giano. Pace
ambiente problemi globali, numero 37, gennaio-aprile 2001).
264
Ugo Villani, ordinario di diritto, in La guerra del Kosovo e il c.d. diritto di “intervento
umanitario”, capitolo di Se dici guerra umanitaria (a cura di Corrado Veneziano, e
269
nelle guerre del secolo appena passato, i meccanismi elementari
delle
operazioni
belliche
–
attacco/difesa,
azione/reazione,
amico/nemico – erano sempre stati facilmente riconoscibili. In
questo caso, invece, gli aerei della Nato bombardavano le città
serbe senza incontrare resistenza e le truppe serbe, a loro volta,
deportavano e uccidevano i civili albanesi. “Due scenari per la
stessa guerra: quello del cielo, con i serbi esposti come vittime
inermi alle bombe e ai missili che piovevano da una straripante
macchina bellica, quello a terra, con gli albanesi vittime
altrettanto inermi delle violenze serbe”
265
.
Con l’entrata della forza multinazionale Kfor, il Kosovo è
diventato di fatto un protettorato internazionale indipendente
dalla Serbia. Punti importanti dell’accordo di pace non sono stati
attuati, tra tutti il disarmo dell’Uck, sempre dilazionato e mai
completato. L’Uck è stato trasformato in una sorta di guardia
civile, Kosovo Corps266. La forza multinazionale di pace Kfor non
è riuscita ad impedire la pulizia etnica al contrario, innescatasi
appena dopo il cessate il fuoco, questa volta praticata dagli
albanesi contro i serbi. Con i militari dell’Uck in testa, sono
iniziate rappresaglie e violenze nei confronti dei civili serbi,
continuate per anni. Secondo l’Osservatorio di Milano267, tra la
metà di giugno e la fine di settembre 1999, sono fuggiti dal
Kosovo 200 mila serbi, a cui si aggiungono in un drammatico
bilancio oltre trecento morti serbi (vittime della rappresaglia
albanese), numerose chiese e monasteri ortodossi distrutti;
inoltre sono stati cacciati dalle loro abitazioni diverse migliaia di
rom e altrettanti albanesi “collaborazionisti”, in totale altri 50
Domenico Gallo), Besa, Lecce, 2005, ricostruisce la creazione dell’ ”evento bellico”: le
contraddizioni con la Carta dell’Onu, il tranello di Rambouillet, la tragica regressione di
principi e patti di convivenza.
265
Giovanni.De Luna e altri, Codice storia, Paravia, Torino, 2000, p.398.
266
Cfr. G.Marcon, op.cit., p.45
267
“Il manifesto”, 30 settembre 1999
270
mila civili. Nei primi anni del duemila hanno continuato a vivere
in Serbia circa quarantamila serbi268, per lo più protetti in enclavi
dalla forza multinazionale. “La convivenza o comunque la
binazionalità
della
comunità
–
scrive
Giulio
Marcon,
già
presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà - è stata
definitivamente distrutta”269.
Il ritrovamento di fosse comuni in Kosovo da parte del Kfor,
arricchirono il faldone delle accuse a Milošević, che nell’aprile
2001 venne arrestato, dopo esser stato sfiduciato dalla chiesa
serba ortodossa e aver perso le elezioni l’anno precedente. E’
comparso la prima davanti al Tribunale dell’Aja, a Scheveningen,
nel febbraio 2002 imputato per i crimini di guerra e contro
l’umanità in Bosnia, in Croazia e in Kosovo. Tra i capi di accusa
anche
la
gravissima
imputazione
per
genocidio
in
Bosnia
(Srebrenica).
Termina con la guerra in Kosovo, un conflitto su cui hanno
influito significativi interessi internazionali di natura geopolitica
ed economica, sia a livello internazionale sia locale270. La Nato ha
recitato una parte di assoluta protagonista, scopo dell’azione
militare era stato il futuro del suo stesso ruolo: “E per questo
penso che la sorte della Nato sia la vera ragione del suo
intervento”271 ha sostenuto lo storico inglese Hobsbawm. Una
268
Tommaso Di Francesco, Pulizia etnica infinita e boicottaggio, in “Il manifesto”, 23
ottobre, 2004. Un interessante reportage sulla condizione della popolazione serba in
Kosovo dopo la guerra, dal titolo Serbi in gabbia, è uscito sul supplemento di La
Repubblica, D, 16 ottobre 2004.
269
G.Marcon, op.cit., p.45. A proposito di “binazionalità” e non completa convivenza,
propongo ciò che ha scritto lo stesso Marcon (op.cit., p.27) ; spesso molti hanno tracciato
un parallelo tra la situazione della Bosnia Erzegovina e quella del Kosovo: “tale paragone
può limitarsi agli effetti devastanti della guerra e all’origine – nazionalista ed etnicista del
conflitto. Non può sicuramente riferirsi alla situazione di convivenza e di mescolanza:
questa esisteva tra le popolazioni bosniache, mentre mancava largamente tra la
popolazione albanese e quella serba”. Mentre in Bosnia la mescolanza tra etnie era più
che assoldata (esisteva inoltre un’identità nazionale “bosniaca” che durante la guerra è
stata negata, sia dagli ultranazionalisti serbi e croati, sia dagli studi poco approfonditi sul
conflitto), in Kosovo erano molto rari i matrimoni misti.
270
Cfr. G.Marcon, op.cit., p.46
271
Eric J. Hobsbawm, Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Bari, 1999, p.p.21.
271
guerra definita dall’Alleanza atlantica una “vittoria”; ma così non
è stata, poiché non ha fatto altro che incrementare violenza in un
territorio
già
ampiamente
provato.
L’intervento
voluto
fortemente dagli Stati Uniti, ha rafforzato l’egemonia americana
a livello internazionale; gli Usa non hanno insistito sulla via
diplomatica quando essa ancora era praticabile, come nella
“messa
in
scena”
di
Rambouillet.
Per
quali
motivi
c’era
“l’urgenza” di questa guerra? Per ragioni “morali” o “umanitarie”
diceva la Nato. Sia Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde
Diplomatique, sia Noam Chomsky272, sostengono che di fronte ad
apparenti buoni propositi si celano marcate ipocrisie. Non vi
sarebbero
altrettante
ragioni
“morali”
per
intervenire,
per
esempio, nel Kurdistan, dove il governo di Ankara ha praticato
un’intensa pulizia etnica e messo in atto una guerra con decine di
migliaia di morti?
Le ragioni non sono state morali, ma politiche ed economiche. Il
conflitto in Kosovo si è inserito in un ampio piano strategico
dell’Alleanza, che ha ridisegnato il proprio ruolo a livello mondiale
e nello specifico caso del Kosovo si proponeva di affermare la
presenza Nato nell’area balcanica e nell’Europa centro-orientale,
a livello economico e militare, con gli Stati Uniti in posizione di
supremazia politica rispetto all’Europa e alla Russia, allargando
così la comunità delle “nazioni democratiche” e il mercato
globalizzato occidentale. La Serbia, al di là del suo violento
ultranazionalismo, è stata intesa come un ostacolo perché
rifiutava
di
adottare
il
modello
neoliberista
imposto
dalla
globalizzazione, a differenza della Turchia o di Israele273.
272
Nel suo libro Il nuovo umanitarismo militare, cit., Chomsky si pone una domanda
iniziale se “quest'umanitarismo è guidato da interessi di potere o da reali preoccupazioni
umanitarie?” L’autore smonta attraverso un’articolata analisi le “ragioni umanitarie” della
guerra.
273
Ignacio Ramonet, Guerra nei Balcani: lo scempio, in “Le monde diplomatique”,
maggio, 1999.
272
Con la fine del conflitto in Kosovo, si chiudono in una situazione
comunque ancora instabile le guerre che per dieci anni hanno
investito e distrutto l’ex Jugoslavia, che per tanti fattori, benché
avessero alcune similarità con conflitti del passato, sono state
individuate
da
paradigmatico
Mary
di
Kaldor
“nuove
come
guerre”274,
caso
anche
emblematico
per
i
e
fattori
“identitari” che le hanno segnate. Un’ultima propaggine di
conflitto si è verificata in Macedonia, nel 2001 con scontri tra
l’esercito macedone e gli albanesi dell’Uck locale.
274
Mary Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci,
Roma, 2001.
273
PARTE TERZA
EMIR KUSTURICA E LA STORIA DELL’ EX JUGOSLAVIA
UNDERGROUND
“Con Underground credo di aver accettato tutte le sfide possibili
(formali, umane, storiche, politiche) al punto da sentirmi
fisicamente sull’orlo di un baratro”275. Così, dopo l’uscita del film
nelle sale, Emir Kusturica (Sarajevo, 1954) si rivolge al critico
francese Michel Ciment, che ha raccolto la testimonianza del
regista sulla rivista di cinema “Positif”.
Underground è, infatti, un film complesso anche controverso, il
cui testo si correla, più che mai, al contesto storico e sociale:
divincolandosi da un approccio mimetico, ripiomba nella fragile
situazione politica dell’ex Jugoslavia della metà degli anni
Novanta.
E’ un’opera dal carattere metalinguistico che pone in discussione
la messa in scena della storia e investe l’attualità incandescente
della guerra dei Balcani, con le vittime civili, i bombardamenti
indiscriminati, l’interesse/disinteresse dell’Occidente, i trafficanti
d’armi e gli speculatori. La pellicola si struttura come una
metafora totale, riflessione – di volta in volta eccessiva,
disperata viscerale, - che abbraccia cinquant’anni di storia
jugoslava (dal 1941 al 1991), ricreando attraverso il sotterraneo
del film, in cui vive rifugiato un nutrito gruppo di persone, l’
“inganno titoista” che sottrasse per decenni un paese dal flusso
della storia, con il pretesto del pericolo di un’aggressione sia
275
Cfr. AA.VV., Emir Kusturica, “Garage”, n.14, Paravia /Scriptorium, Torino, 1999, p.12.
274
dell’Occidente capitalista che dell’Unione Sovietica e attraverso la
continua manipolazione della realtà e dell’informazione.
Ha vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes, il 28 maggio del
1995, lo stesso giorno in cui i serbi di Kraijna abbattono
l’elicottero del ministro degli Esteri bosniaco Irfan Ljujiancik e
pochi giorni dalla strage di Tuzla (26 maggio) in Bosnia, dove
una granata serbo-bosniaca ha ucciso più di settanta giovani,
che si trovavano nella piazza centrale della città.
In un clima surriscaldato dalle fiamme della guerra, Underground
è accolto dalle letture più disparate, suscitando un’accesa
polemica che si è protratta per mesi sui media europei e spesso
ha rischiato di prevalere sul valore del film.
Il
quinto
lungometraggio
di
Kusturica
affronta
diverse
problematiche, oggetto di questa ricerca, in particolare la
rappresentazione della guerra e della storia nel cinema. Di
notevole interesse e non di semplice analisi, per la stratificazione
semantica e simbolica che acquisiscono, è l’uso delle categorie
realtà e finzione, ridefinite e contaminate nella fantasmagoria
surrealista dell’immaginario di Kusturica.
Il soggetto del film prende spunto da un dramma di Dusan
Kovačević (diventato pièce teatrale), scritto una ventina di anni
prima, nel quale un gruppo di persone vengono costrette a
vivere in una cantina da un personaggio, che nasconde i
cambiamenti avvenuti in superficie.
“Vent’anni fa scrissi la storia di un uomo che era riuscito a tenere
nascosti per molti anni nello scantinato di casa alcuni suoi
familiari dicendo loro che la guerra non era ancora finita”.
Racconta lo sceneggiatore e drammaturgo serbo Kovacević, nato
a Sabac nel 1948.
Kusturica, in collaborazione con lo stesso Kovacević, stravolge il
soggetto originale (del dramma rimase solo la situazione
275
iniziale), sviluppando una sceneggiatura complessa e stratificata,
la cui stesura si protrae per tutta la lavorazione, durata quasi
quindici mesi (dal 5 novembre 1993 al 31 gennaio 1995). Il film
nel corso delle riprese, svolte tra Praga, Belgrado e Sofia, vede
aumentare le previsioni di budget e il numero delle case
produttrici impegnate nel progetto: la tedesca Pandora Film (che
aveva acquistato i diritti della storia di Kovacevic), la francese
Ciby 2000, l’ungherese Novo Film, le serbe Komuna e Ptc, la
ceca Mediarex/Etic e la bulgara Tchapline Films. Un progetto,
sviluppatosi come un Apocalypse Now all’europea, in cui le
possenti dimensioni della macchina-cinema hanno portato la
messa in scena a superare ambiguamente la “finzione” per
giungere ad una perversa ri-creazione della realtà: la realtà della
guerra passata e presente.
Le riprese procedono tra alti e bassi, attorno alle imponenti
scenografie di Miljen Kljavović (trentamila metri quadri di set),
con momenti drammatici che a tratti sembrano riflettere il caos
protagonista
del
film:
litigi
tra
attori,
scimmie
riottose,
depressioni continue dell’autore, negativi che spariscono, zingari
che minacciano di fuggire appena ottenuta la paga, senza
dimenticare il tragico “fuoricampo” della realtà, con il precipitare
della situazione in Bosnia. Quattro giorni dopo l’inizio delle
riprese i croati distruggono il ponte di Mostar, il 5 febbraio del
1994, 68 civili muoiono nella prima strage al mercato di
Sarajevo; il 10 maggio dello stesso anno a Washington vengono
firmati gli accordi per la creazione della federazione croatamusulmana in Bosnia Erzegovina, contraltare della Repubblica
Serba di Bosnia; nei mesi successivi si susseguono le tensioni tra
serbi e macedoni e tra quest’ultimi e la popolazione albanese,
residente nei pressi di Skopje.
276
Il materiale sovrabbondante girato da Kusturica confluisce nel
primo montaggio di 5 ore e 40 minuti, che, scremato, verrà
ridotto alle 3 ore e 12 della copia di Cannes e alle 2 ore e 47
dell’edizione uscita sugli schermi di tutto il mondo (la versione
discussa in queste pagine).
Underground è diviso in tre parti più il prologo, pilastri di un
intricato intreccio narrativo.
Prologo. Belgrado, 6 aprile 1941. Marko Dren e il suo amico
Nero festeggiano l’ammissione al partito di quest’ultimo, inseguiti
da una banda zigana.
Prima Parte: La guerra. All’alba,
mentre il fratello di Marko,
Ivan, sta dando da mangiare agli animali dello zoo, incomincia il
bombardamento nazista su Belgrado. Marko impegnato con una
prostituta sembra eccitarsi per l’insolito evento. Nel frattempo
Nero fa colazione inveendo conto i “porci fascisti figli di troia”,
fino a quando un elefante fuggito dallo zoo arpiona con la
proboscide le sue scarpe dalla finestra. Nero, tra le proteste della
moglie, esce di casa per raggiungere l’amante Natalija. Inizia, in
questo momento l’irresistibile ascesa di Marko Dren, ambiguo
poeta comunista, che nasconde nella cantina della casa paterna
diversi rifugiati politici, ai quali si aggiunge Ivan con in braccio lo
scimpanzé Soni. Nel sotterraneo Vera, moglie di Nero, muore
dando alla luce un bambino, Jovan. Tre anni dopo, Marko e Nero,
che nel frattempo portano avanti attività politiche e criminose,
festeggiano il compleanno di Jovan. Vanno poi insieme a teatro,
dove recita Natalija, ora amante di Franz ufficiale tedesco. I due
irrompono sul palcoscenico: Nero spara a Franz e rapisce
Natalija.
Insieme si nascondono su un battello ancorato al
Danubio, dove Marko approfitta della temporanea assenza di
Nero per corteggiare Natalija. Franz, salvato dal giubbotto anti-
277
proiettili fa circondare il battello, arresta Nero e si riprende
Natalija, mentre Marko riesce a fuggire. Nero resiste alle torture
dei tedeschi e viene liberato da Marko, travestitosi da medico.
Nella fuga Nero viene ferito dallo scoppio di una bomba a mano e
poi ricoverato da Marko nel sotterraneo. Pasqua 1944: dopo i
duri bombardamenti tedeschi, Belgrado subisce quelli degli
alleati. Poi finalmente arriva la pace. Marko, che intanto ha
sposato Natalija, è festeggiato come un eroe nazionale.
Seconda parte: Guerra Fredda. Siamo nel 1961. Marko e
Natalija inaugurano il monumento a Nero (dato per morto). A
Nero e a tutti gli altri nascosti nel sotterraneo (dove il tempo è
ritardato artificiosamente) Marko ha fatto credere che la guerra
in superficie non sia finita, così da far continuare la fabbricazione
delle armi, con le quali accresce la sua fortuna. Jovan, figlio del
Nero, che ha ormai vent’anni, si sposa. Durante il matrimonio,
tra i rimorsi di Natalija e i progetti di “resistenza” di Nero, lo
scimpanzé Soni entra nel carro armato costruito dai rifugiati e fa
partire alcuni colpi di cannone che aprono una breccia nelle
pareti. Nero e Jovan ritornano in superficie conviti a combattere i
tedeschi e piombano nel bel mezzo delle riprese di un film sulle
gesta del Nero e di Marko, durante la Resistenza jugoslava.
Pensando di essere al centro della guerriglia vera, Nero spara
all’impazzata seminando il panico tra la troupe. Fuggono lungo il
Danubio, dove Jovan annega nelle acque raggiungendo la
moglie, suicidatasi nel pozzo del sotterraneo. Nel 1980 Tito
muore.
Terza parte: La Guerra. Siamo nel 1991. Ivan, internato in un
ospedale psichiatrico di Berlino, fugge dall’Istituto attraverso i
sotterranei che collegano le città europee ed arriva in Jugoslavia,
proprio nel bel mezzo del conflitto che sta dilaniando l’ex
repubblica degli slavi del sud. Apprende l’inganno di suo fratello
278
e ritrovatolo, nella veste di trafficante d’armi, lo bastona e poi si
impicca. Nero si trova alla testa di un commando serbo ed ordina
(senza conoscere il nome delle vittime) l’uccisione di Marko e
Natalija, quando scopre l’identità segue la sorte del figlio
annegandosi. Nero si ritroverà insieme a tutti personaggi sulla
riva di un fiume a festeggiare le nozze di Jovan. La terra sotto i
loro piedi si allontana dalla riva e parte galleggiando nella
corrente.
1 A NALISI DEL FILM
Concepito come una grande allegoria, il film è diviso in tre atti
come un’opera teatrale, ognuno scandito da una guerra: la
seconda guerra mondiale, la guerra fredda e la recente guerra
balcanica.
Le tre parti non hanno pari lunghezza ed eguale tono; la prima,
preceduta dal prologo, è la più lunga e surreale, mentre l’ultima,
quella relativa alla cosiddetta “guerra dei Balcani”, si allontana
dalla “cronaca” con immagini di alto valore simbolico (il
crocefisso
rovesciato,
il
fuoco
dappertutto,
la
chiesa
semidistrutta e l’accesso ai sotterranei delle menzogne europee
proprio accanto al Reichstag berlinese).
La metafora della storia dell’ex-Jugoslavia e delle sue colossali
bugie, rappresentata dal sotterraneo, è l’architettura del film,
che mescola realismo e surrealismo, in dosi differenti e senza
pretese di scientificità storica. Sulla scia di questo meccanismo
ogni situazione diegetica viene spinta sopra le righe. Kusturica,
che si appropria del registro del grottesco, dichiara, nel libro
scritto sul film da lui e da Serge Grünberg, che ha scelto la
chiave ironica proprio per proteggersi “dalla trappola di un
279
umanesimo di parte”276, sottolineando in altra occasione che ci
teneva a non essere implicato politicamente nel conflitto,
volendo mantenere distanza e obiettività.
Non spetta a noi definire la credibilità di queste affermazioni; del
risvolto politico del film, materia spinosa, e delle polemiche
successive, se ne discuterà in un altro paragrafo.
Schematizzando, il film parla del grande inganno mediante il
quale Tito aveva sottratto dal flusso della storia un intero paese,
controllandolo
ed
insieme
ostacolandone
la
crescita
socioculturale. La sua strategia era consistita, da un lato, nel
tenerlo sotto la costante minaccia di una guerra mai finita, della
possibilità di aggressione da parte sia dell’Occidente capitalista
che
dell’Oriente
comunista;
dall’altro,
nell’indottrinarlo
ideologicamente, con la manipolazione della realtà attraverso
l’informazione (e il cinema); in sostanza, con un universo fittizio,
accettato come l’unico possibile dai “sudditi”.
La metafora di Kusturica potrebbe essere allargata ad allegoria di
tutto il socialismo reale, seppur lo stesso regista precisi che Tito
era “uno stalinista che per sopravvivere era diventato antistalinista”277. Nella terza parte di Underground la struttura
simbolica si espande all’Occidente, proprio prima dell’epilogo
(dove uno scampolo di terra, dalla forma simile alla Jugoslavia, si
allontana dalla riva con sopra tutti i personaggi del film), chiama
in causa, attraverso il sotterraneo groviglio di comunicazione, le
connivenze Est-Ovest, da Yalta in poi. Queste hanno innervato
una sorta di consociativismo ante litteram, tanto più forte quanto
più la propaganda di ciascuna parte tendeva a rimarcare
differenze e contrapposizioni.
276
277
Kusturica E., Grünberg S., C’era una volta Underground, Il Castoro, Milano, 1995.
P. Vecchi, Emir Kusturica, Roma, Gremese, 1999, p.92.
280
Kusturica esibisce un pessimismo cosmico insieme astorico e
legato a contingenti tragedie nazionali. In questa struttura
colossale e barocca, quale è il film, la mistificazione passa
attraverso i mezzi efficaci e “volgari” del cinema, l’arte di nodale
importanza nei totalitarismi del Novecento. Il sotterraneo è
progettato da Marko come un set di film, una messa in scena
creata da un regista “sadico” per sottrarre il tempo storico ai
reclusi e sfruttarli per scopi personali. Il cinema diventa simbolo,
diretto
e
indiretto,
della
manipolazione
del
reale
anche
all’esterno, con il set, tanto decantato da Marko e Natalija, sulle
gesta di Nero, trasformato come un martire, eroe della seconda
guerra mondiale. Anche i filmati d’epoca, dai quali i protagonisti
del film entrano ed escono (sovrimpressioni ottiche), sono usati
come mezzo per significare la manipolazione storica: mettono
essi stessi in evidenza la loro natura di trucco, sono colorati e
storicamente impossibili. I rapporti tra “realtà e finzione”, uno
dei punti di questa ricerca, verranno approfonditi in seguito.
L’opera di Kusturica, come abbiamo sottolineato ha una cornice
storica, che va dalla seconda guerra mondiale, con i partigiani
comunisti Nero e Marko, fino alla recente guerra civile; il film ha,
però, prima di tutto un’importante logica interna, in cui i fatti
storici
non
sono
numerosi.
Essa
si
struttura
sugli
ultimi
cinquant’anni jugoslavi e riporta in luce, nell’ultima parte, le
contraddizioni di una società con la guerra interetnica degli anni
Novanta. Lo fa con un approccio venato da alcune sfumature
autorazzistiche, “come a sostenere che le genti balcaniche siano
una genia a parte, incapace di vivere senza massacrarsi, truffare
e
tradire”278.
Posizione,
certamente
comoda
all’Occidente,
criticata e sollevata da due intellettuali acuti e profondi come
278
Cfr. U.Rossi, “Presente e Passato”, “Segnocinema”, numero 74, 1995, p.63.
281
Slavoj Žižek, filosofo sloveno, e Dina Iordanova, storica del
cinema ed esperta di cultura e media dei Balcani.
Il film, nella poetica “dell’eccesso della messa in scena, definita
da una recitazione sopra le righe e da un dinamismo insistente
della macchina da presa, riesce a porsi come un’imponente
rappresentazione genealogica ed escatologica di una nazione che
fu e che ora non è più”279.
Underground è un film sulla realtà e sulle illusioni spaziotemporali di un Paese. In ogni atto il meccanismo narrativo e
visivo appare quello della sovrapposizione di spazi, persone e
interessi. Inoltre è un’articolata riflessione sulle vicende dell’exJugoslava e sui rapporti tra cinema e storia, ma da una posizione
assolutamente personale, ecco perché possiamo definirla anche
un’autoriflessione culturale, cinematografica e kusturiciana. Dal
casting alle musiche, dai riferimenti cinematografici al cameo del
regista, dalle levitazioni di personaggi ai voli delle oche,
Kusturica parla della sua Jugoslavia e del suo cinema preferito,
ma non per vanità o autocontemplazione, perché come riportato
qualche riga sopra rispetto alla scelta della “chiave ironica”,
Kusturica,
sballottato
da
forti
pressioni
politiche
perché
prendesse una posizione nazionalista (lui si è definito “un regista
jugoslavo di Sarajevo”280), ha preferito una via personale,
sicuramente controversa, ma la propria.
Lo spiazzamento creato dal confine labile tra realtà, finzione e
fantasia che pervade il film, lo si avverte fin dall’inizio.
Underground si apre con una dedica e inizia come una fiaba
moderna: “Ai nostri padri e ai loro figli. C’era una volta un
paese…e la sua capitale era Belgrado. 6 aprile 1941…”.
279
Il critico Giorgio Bertellini definisce in modo preciso la poetica di Underground (Emir
Kustirica, Il Castoro, Milano 1996, p.91).
280
Ivi, cit., p.11.
282
E
come
nella
fiaba
i
personaggi
hanno
caratteristiche
archetipiche, spesso sono individuazioni di comunità sociali o
etniche. Kusturica con spirito “bachtiniano” ha parlato della storia
dell’ex-Jugoslavia come di un carnevale nero, “in cui Caino prova
a fare il Demiurgo, manipolando e sorvegliando Abele per mezzo
secolo”281; in cui lo stato di guerra non si è mai interrotto per
meglio controllare il popolo slavo. Il progetto filmico del regista
bosniaco si avvicina molto alla definizione di carnevale data dal
teorico
russo
Michail
Bachtin:
“una
forma
di
spettacolo
sincretistica” (che unifica e sintetizza componenti diverse ed
eterogenee); “una forma molto, complessa e polimorfa”282, che
usa un suo linguaggio particolare, insieme simbolico e concreto.
Tra registri stilistici e codici linguistici diversi, il grottesco è
sicuramente uno dei predominanti nella poetica kusturiciana.
L’avvicinamento tra comico e drammatico, con l’utilizzo della
parodia e dell’ironia, è proprio di quell’approccio che caratterizzò
il teatro del primo Novecento e fu, indirettamente, oggetto del
saggio di Pirandello sull’Umorismo (1908), con il concetto di
“sentimento del contrario”, proprio dell’umorismo, che ci spinge
a
trovare
nel
comico
il
tragico,
attraverso
la
riflessione.
Umorismo e grottesco possiamo infatti considerarli sinonimi, non
essendo al tempo di Pirandello ancora diffuso il termine
“grottesco”283.
Questa commistione stilistica, che contraddistigue tutto il testo
filmico, è già percepibile nelle prime due sequenze. Il film, come
sopra spiegato, si apre con tre didascalie (”C’era una volta un
paese…Belgrado. 6 aprile 1941”) introducendo lo spettatore in un
universo quasi fantastico, in cui ben presto la Storia si
contaminerà con il Mito, la farsa con la tragedia. Scorrono i titoli
281
Ivi, cit., p.91.
M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968.
283
Cfr. G.Livio, Storia del Teatro e dello Spettacolo, Torino, Paravia, 1995.
282
283
di testa, il proemio inizia con un carrello a precedere su una
banda zigana, la musica, una delle componenti diegetiche
fondamentali
del
testo,
diventa
subito
protagonista;
nella
seconda inquadratura, l’ombra su un muro di un calesse seguito
dalla banda musicale, fornisce qualche informazione in più sulla
situazione iniziale. A bordo del calesse ci sono due amici Marko
Dren e Peter Popara detto “il Nero”, che festeggiano, allegri e
ubriachi, l’ammissione di quest’ultimo al partito comunista. Fra
banconote e bottiglie di brandy gettate in aria, risa isteriche i
due tornano a casa. Il primo piano di Nero capovolto si alterna
all’immagine della banda e del suo incedere obbligato dietro al
calesse; partono colpi dalla pistola del Nero verso più punti,
persino verso la fanfara. Entrano in una porta di Belgrado mentre
la cinepresa li segue con un carrello laterale. Stacco di
montaggio, un movimento di macchina sposta, sfruttando la
trasparenza di una finestra, il punto di vista dall’esterno
all’interno dove una radio diffonde il notiziario del mattino di
“Radio Belgrado”. Il vivace corteo passa davanti allo zoo gestito
da Ivan, il fratello zoppo e balbuziente di Marko, fino ad arrivare
sotto
la
casa
di
Nero.
La
musica
si
interrompe,
esce
dall’abitazione Vera, la moglie di Nero, arrabbiata con il marito
per l’ora tarda del suo ritorno, rimprovera Marko per aver iscritto
Nero al partito. La banda procede al via di Marko che, dopo aver
accompagnato l’amico, si dirige verso una piazzetta sempre al
ritmo incessante di “Kalasnjikov” (brano composta da Goran
Bregovic, autore delle musiche) suonato dalla fanfara zigana. Qui
incontra una prostituta e scappa a casa con lei.
Nel proemio avvertiamo già la compresenza di poli opposti: vita
e
morte,
allegria
e
spasimo;
e
qualche
primo
segnale
dell’interessante rapporto tra Storia e Mito.
284
La sequenza iniziale del primo atto, ispirata ad un fatto storico il
bombardamento tedesco di Belgrado, il 7 aprile del 1941, è
caratterizzata da una complessità formale, da un ben congegnato
ritmo dell’intreccio narrativo e da un’articolata commistione di
registri stilistici.
Dopo la didascalia “La guerra”, troviamo Marko, nel suo boudoir,
intento a calibrare l’angolazione dello specchio, un raccordo di
sguardo lega l’immagine a quella della prostituta, conosciuta
nella nottata, che si lava nella vasca da bagno, frammenti che
sembrano tratti da un film di Fellini.
E’ l’alba e Ivan, da buon guardiano dello zoo, seguito dalla
macchina da presa con un carrello laterale (che sottolinea la
complessiva dinamicità della messa in scena), sta incominciando
a servire la colazione agli animali. Ma c’è qualcosa di strano
nell’ambiente, tigri, orsi, uccelli e scimmie sembrano nervosi.
Sono i primi avvertimenti che sta per succedere qualcosa di
tragico. Anche Ivan è sempre più teso; attraverso un primo
piano del giovane, con angolazione dal basso verso l’alto, si
scorge, sopra il volto spaventato di Ivan, l’arrivo dei primi aerei
dell’aviazione nazista. Lo zoo si trasforma presto in una giungla;
immagini documentarie dei bombardamenti si alternano a quelle
degli animali che scappano o vengono uccisi dalle bombe. Un’oca
punzecchia una tigre che, provocata, l’azzanna; lo spettatore
conosce i danni umani e le distruzioni di un attacco ad una città
attraverso la morte di una scimmia: la mamma di Soni (la
scimmietta che accompagnerà Ivan per tutto il film), a cui Ivan,
disperato, chiude gli occhi tristi e insanguinati.
La costruzione drammatica della prima parte della sequenza è
stratificata: quella che sembrerebbe una mattina come le altre si
rivela presto diversa e tragica, i primi sintomi arrivano dagli
animali: dalla tigre in gabbia, dagli uccelli che volano come
285
impazziti nella voliera, dagli ululati che si propagano per lo zoo;
l’avvertimento
quindi
è
prima
sonoro
poi
visivo
(sia
i
comportamenti nervosi degli animali, sia il volto spaventato di
Ivan).
Ma il tono tragico dell’evento non dura molto. Marko, che
avevamo lasciato in compagnia della prostituta incomincia ad
eccitarsi solo all’arrivo dei bombardamenti, mentre lei vorrebbe
scappare. Egualmente beffarda è la reazione di Nero che, seduto
a tavola, continua a mangiare nonostante le deflagrazioni, si alza
solo quando un elefante dello zoo che vaga per la città gli ruba le
scarpe lasciate sul davanzale e quando il lampadario gli piomba
nel piatto. Uscirà poi di casa per “andare a difendere il suo Paese
dai criminali nazisti” o, meglio, come gli rimprovera la moglie a
trovare l’amante, l’attrice Natalija. All’esterno vagano liberi gli
animali dello zoo, Nero viene incluso otticamente in filmati di
repertorio.
In tutta la sequenza due dimensioni si intrecciano: da un lato, ci
sono la violenza e la brutalità del reale (le bombe che cadono dal
cielo, le case distrutte, gli animali agonizzanti), dall’altro l’ironia
e il gioco della surreale invasione degli animali nella città. E’ una
sorta di carta d’identità dell’opera, con la sua particolare
commistione
di
registri
stilistici
diversi.
Troviamo,
infatti,
immagini documentarie (gli Heinkel 111 che sganciano il loro
carico di morte su Belgrado) e immagini di finzione, commedia
(Vera che accusa Nero di tradirla) e dramma (Ivan in lacrime per
la morte degli animali), sesso (Marko con la prostituta) e
slapstick (il Nero che taglia il filo elettrico con i denti)284.
L’apice del tono luttuoso, ma anche farsesco viene raggiunto
nelle ultime scene; nella replica mitizzata del matrimonio di
284
Cfr. G.Alonge, Lo schermo bugiardo. Intorno alla rappresentazione della Storia in
Underground, in AA.VV. Emir Kusturica, “Garage” n.14, Torino, Paravia /Scriptorium,
1999, p.132.
286
Jovan all’aperto, ai bordi del Danubio dove si realizza l’eterno
ritorno della Storia.
A un pubblico occidentale, Underground mostra innanzitutto la
propria diversità culturale: un paganesimo beffardo delle azioni e
dei sentimenti ritmato per tre ore dalle cadenze dionisiache della
musica zigana.
Molti personaggi, riprendendo Serge Grünberg285, presentano
una psicologia etologica, come se fossero mossi unicamente da
istinti e passioni. Questa caratteristica, il trasporto emotivo
(stereotipicamente montenegrino) è propria di Nero e segna la
principale differenza tra il suo personaggio e quello di Marko,
cinico
e
manipolatore.
Nero
ha
un
approccio
fideistico
all’ideologia marxista, l’ideologia diventa religione primitiva
riassumibile nel motto, più volte scandito da Petar Popara, “Porci
fascisti figli di troia”; di fronte alla doppiezza dell’amico, ha la
scusante di un’animalità incontrollata. Marko incarna quella
generazione di dirigenti politici jugoslavi, antitetici all’idea di
democrazia. Il rapporto tra Nero e Marko, straordinariamente
interpretati da Miki Manojlovic e Lazar Ristovski, è stretto e
dipendente: Nero è il signore del sottosuolo, ma su di lui regna
l’amico
crudele.
Entrambi
necessitano
l’uno
dell’altro,
per
mantenere viva la loro autorità286. Nei due personaggi vivono le
due anime dell’emotività balcanica, quella truffata e quella
imbrogliona. Marko, non è solo l’orribile tiranno che tiene in
pugno il sotterraneo, è anche un grande seduttore, con alcuni
tratti goffi ed esilaranti. Nero, il peggiore dei genitori possibili, è
reso grande e innocente dai suoi tre amori disperati, perduti: la
Jugoslavia, la bella Natalija e il figlio Jovan.
285
286
E. Kusuturica, S. Grünberg, op.cit.
Cfr. il testo di G. Bertellini, op cit., p.97.
287
Natalija, amante e fonte di litigio furibondo tra i due amici, è un
personaggio meno definibile: assomiglia forse al potere, nelle
sue finzioni codificate (fa l’attrice teatrale sotto qualsiasi regime
politico), nei rimandi sovietici (declama in russo durante il
banchetto matrimoniale), nella sua ambiguità complessiva dai
risvolti perversi (giochi erotici sadomasochistici con Marko),
caparbi e imprevedibili.
Ivan è l’unico personaggio in un certo senso positivo, incarna
l’idiota dostoevskijano. Non compie gesti eroici, tenta più volte il
suicidio, rimane onesto e umanamente vulnerabile. La sua
esistenza va di pari passo con quella della scimmia Soni; subisce
per decenni le angherie e gli inganni del fratello Marko, che alla
fine del film uccide a bastonate nel tragico episodio ispirato alla
guerra recente. Nel surreale finale sull’isola, Ivan, guarito dalla
balbuzie e dalla zoppìa, pronuncia le parole di speranza su cui si
chiude il film ma non la storia: “In questo posto abbiamo
costruito nuove case con i tetti rossi, e dei comignoli su cui
faranno il nido le cicogne, con le porte sempre aperte agli ospiti,
e saremo grati alla nuova terra che ci nutre, e al sole che ci
riscalda, e ai campi fioriti che ci ricordano cilim (tappeti, nda)
colorati della nostra patria. Con dolore, con tristezza e con gioia
ricorderemo la nostra terra, quando racconteremo ai nostri figli
storie che cominciano come fiabe: c’era una volta un paese…”.
Underground si sviluppa su un tessuto intertestuale ricco di
riferimenti e citazioni, che abbraccia arti e media, cultura alta e
popolare. Il sotterraneo dove Marko rinchiude le persone evoca
illustri
precedenti
letterari,
Dostoevskij
(Le
memorie
del
sottosuolo) e Kafka (La tana), e cinematografici, Metropolis
(1926) di Fritz Lang, citato esplicitamente nel vecchio che sposta
le lancette dell’orologio, anche se il finale conciliatorio proposto
da Thea von Harbou, moglie di Lang, non appartiene al bagaglio
288
“filosofico” di Kusturica. La costruzione del “sotterraneo”, come
elemento metaforico cardine, richiama anche – come ha scritto
Slavoj Zizek287 - il vecchio tema fiabesco dei nani diligenti (in
genere controllati da un mago malvagio), che di notte quando la
gente dorme riemergono dal loro nascondiglio ed eseguono i
propri compiti, come per esempio rimettere in ordine le case
delle persone o preparare da mangiare, così la gente troverà il
lavoro magicamente già fatto al risveglio. Marko è in un certo
senso il “padrone”, il grande manipolatore di coloro che sono
rinchiusi nella cantina di suo nonno, resi schiavi ed isolati dal
mondo per produrre armi. Lui è l’unico mediatore tra il
sotterraneo e il mondo pubblico. Il “sotterraneo” di Kusturica è
l’ultima incarnazione di questo tema fiabesco che si tramanda
fino a noi a partire da L’oro del Reno di Richard Wagner
(i
Nibelunghi che lavorano nelle miniere sotterranee guidate dal
loro crudele signore, il nano Alberich) fino a Metropolis di Fritz
Lang, dove gli operai schiavizzati vivono e lavorano nelle
profondità, sotto la superficie della terra.
Troviamo nel testo filmico altri rimandi cinematografici, per
esempio a Vigo di L’Atalante (nelle sequenze subacquee, come in
quella dell’incontro nelle acque del Danubio tra Jovan e la
giovane moglie), regista a cui Kusturica si sente particolarmente
vicino. Scorriamo nelle immagini del film, la sensibilità e lo stile
felliniano nell’ambientazione surreal-popolare, i riferimenti a
Tarkovskij nell’uso dell’acqua e del fuoco o del cavallo bianco e
del volo delle oche ad enfatizzare il culmine della tragedia, e a
Chaplin nel Marko che corre. Collegamenti intertestuali più sottili
sono invece a Werner Herzog per Ballata di Stroszek (1977): la
carrozzella in fiamme che gira intorno al Cristo capovolto ricorda
il finale dell’opera di Herzog; alla concezione d’arte totale di
287
S.Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma, 2004, p.94.
289
Luchino Visconti, Gesamtkunstwerk; e, come ci fa notare il critico
Paolo Vecchi, due similitudini interessanti, con il Lubitsch di
Vogliamo Vivere (1942), per la commedia applicata ad un tema
serio e con il Kubrick del Dottor Stranamore (1964) “per il piglio
rabelaisiano con cui affronta la tragedia”288.
Ai soggetti della pittura di Chagal (in particolare le spose)
Kusturica si avvicina nella sequenza del matrimonio di Jovan,
quando la sposa Jelena entra in scena sospesa in aria, “volante”.
Nella sequenza del bombardamento dello zoo le figurazioni
simboliche di Hyeronimus Bosch paiono intrecciarsi con la
limpidezza dello sguardo di un documentarista come Humphrey
Jennings, e in particolare con The Eighty Days del 1944 sui
bombardamenti
tedeschi,
dove
il
regista
inglese
arriva
all’autonomia dell’immagine dalle parole, unico elemento sonoro
che si concede sono i rumori d’ambiente.
Come già accennato, sono numerose anche le citazioni letterarie,
oltre a Dostoevskij e Kafka, La macchina del tempo di Herbert G.
Wells, uno dei capolavori della letteratura di fantascienza scritto
nel 1895 dove i Morlock, una delle due strane popolazioni che
abitano
il
mondo
del
futuro,
allevano
e
ghermiscono
gli
aggraziati e flebili Eloi, divorandoli. E se Jovan assomiglia molto
al Ciaula pirandelliano (Novelle per un anno - 1922), tutta la
situazione richiama il Mito della caverna, che introduce il settimo
libro della Repubblica di Platone. Si è anche scritto che fa
pensare a Alice nel paese delle meraviglie, riscritto da Kafka con
Bosch, come scenografo, e Francis Bacon, direttore della
fotografia; altri rimandi pertinenti sono al realismo fantastico
della narrativa latino-americana, come nei romanzi di Garcìa
Marquez. Kusturica, in un incontro pubblico coordinato dal critico
cinematografico Tullio Masoni, svoltosi il 6 febbraio 1999, al
288
P.Vecchi, Emir Kusturica, cit., p.96.
290
teatro Valli di Reggio Emilia, ha spiegato: “L’obiettivo più
significativo che ho raggiunto nelle mie opere è il gioco che
intrattengo con una sorta di realismo magico, però partendo
sempre dal neorealismo”289. Molto deve all’opera e al pensiero di
Ivo Andrić (1892-1975), autore bosniaco di fama mondiale
(premio Nobel per la letteratura nel 1961) a cui Kusturica si lega
per l’ampia struttura narrativa, per la coralità dell’impianto, per i
richiami all’epica e per una concezione
dell’esistenza
con
profonde radici pagane290.
Il complesso sottotesto di Underground è composto anche da
uno stretto rapporto intermediale: l’uso dei cinegiornali, di
materiale d’epoca e la voce della radio, da dove venne diffusa
quasi per caso il 18 agosto 1941, Lili Marleen che nel film viene
proposta in diversi momenti.
Il brano Lili Marleen, musicato da Norbert Shultze nel 1937, fu
un fenomeno non solo musicale, ma anche un simbolo della
fragile vita del soldato, che segnò profondamente il corso della
seconda guerra mondiale. Trasmessa da Radio Belgrado, la
stazione radiofonica messa in piedi dai nazisti nella Jugoslavia
occupata, fece il giro del mondo e venne tradotta in quasi tutte
le lingue dei paesi in guerra.
Il testo pieno di nostalgia, che era stato scritto dal poeta Hans
Leip nel 1915, mentre era in procinto di partire per il fronte dei
Carpazi (prima guerra mondiale), aveva infastidito Goebbels, il
ministro nazista della propaganda.
289
“Incontro con il regista” (a cura di Sandra Campanini) in AA.VV., Emir Kusturica,
Garage n.14, Torino, Paravia /Scriptorium, 1999, p.21.
290
I due artisti sono uniti dalla considerazione degli “elementi primordiali di acqua e
fuoco, dalla rapsodia (o dalla sarabanda) come struttura portante della narrazione,
dall’imponenza della visione storica, dalle motivazioni etologiche prima che psicologiche
nel comportamento dei singoli personaggi, da un (ir)realismo in cui sono frequenti le
intrusioni del magico accettate come parte integrante del quotidiano”. P.Vecchi, Emir
Kusturica, cit., p.9.
291
Lo riteneva inadatto a mantenere alto il morale della popolazione
tedesca e delle truppe al fronte. Malinconica, poco marziale, la
canzone mal si sposava con le volontà belliche del Terzo Reich.
La versione diffusa da Radio Belgrado era quella registrata l'anno
precedente in Germania dalla canzonettista Lale Andersen e
accolta
con
freddezza
dal
pubblico
tedesco.
Proprio
il
boicottaggio nazista diventò la fortuna del brano.
Il destino delle scorte invendute della produzione discografica
tedesca era, infatti, quello di alimentare le emittenti radiofoniche
degli stati occupati dai nazisti o di arricchire i pacchi dono per gli
ufficiali impegnati al fronte.
Lili Marlene, insieme ad altri dischi invenduti in Germania, era
così finita a Radio Belgrado, una delle più potenti stazioni
radiofoniche dell'epoca, per questo motivo caratterizza le scene
principali del film Underground.
La voce di Lale Andersen arrivò così ovunque, conquistando il
cuore dei soldati di tutte le bandiere, che passarono gli anni della
loro giovinezza tra violenze e stenti.
Ritornando
al
carattere
intermediale
del
testo
filmico,
il
complesso degli elementi-media utilizzati sfugge alla semplice
esigenza di contestualizzazione.
Ci troviamo di fronte alla
manipolazione del reale che il regime applica e Kusturica
ripropone in chiave metalinguistica, quando per esempio i
personaggi,
attraverso
ad
una
particolare
strategia
dello
spiazzamento, “entrano” letteralmente negli spezzoni, con un
procedimento che chiama in causa Forrest Gump di Robert
Zemeckis, uscito in sala l’anno precedente ad Underground. Nella
sequenza dei funerali di Tito (costruita interamente con filmati di
repertorio) è ancora più incisiva, su un piano di riflessione
storico-politica, la “manipolazione” effettuata da Kusturica.
292
Se, forse, in parte può richiamare Uccellacci e uccellini di Pasolini
(1966) e Sovversivi (1967) dei fratelli Taviani, dove venivano
utilizzate
le
immagini
dei
funerali
di
Palmiro
Togliatti,
Underground si distanzia, attraverso la colonna sonora, dalla
ritualità di un passaggio epocale, come quello rappresentato dai
tre autori italiani. In Kusturica
Lili Marleen, che aveva
accompagnato l’ingresso delle truppe tedesche nei Balcani, fa da
sottofondo irriverente ai funerali del presidente jugoslavo,
portando in analogia i regimi totalitari del Novecento e il loro
carattere manipolatorio nei confronti della realtà. Fenomeno e
processo manipolativo messo alla berlina da Kusturica e al
contempo esaltato ironicamente nel film, come analizzato negli
esempi citati o in altri “raddoppi della finzione”, come le
intrusioni di Nero nel set a lui dedicato (intitolato La primavera
arriva su un cavallo bianco) dove viene sbeffeggiato con tono
parodistico il regista di regime Veljko Bulajic e il suo “verismo”
ipocrita. La menzogna diventata realtà storica (di cui Marko è
uno dei massimi artefici) viene scambiata per tale da Nero,
rinchiuso per decenni nel sotterraneo e appena ricomparso in
superficie, che uccide l’attore che fa la parte di Franz.
In Underground, oltre a riferimenti e citazioni, più o meno
espliciti, c’è anche lo stesso Kusturica che parla dei suoi film
passati:
nei
pesci
freccia,
nelle
ossessioni
ipnotiche
del
socialismo e in quelle autoipnotiche della solitudine e della
diversità,
nei
bianchi
veli
nuziali,
nei
tentativi
di
autoimpiccagione di Ivan che ricordano quelli di Ankitza (Papà è
in viaggio d’affari), Pehran (Il tempo dei gitani) e Grace (Arizona
Dream).
Nel film, non casualmente, compaiono alcuni attori fondamentali
della filmografia del regista bosniaco, partendo da Predrag Miki
Manojlović (Marko), che già avevamo visto in Papà è in viaggio
293
d’affari e rivedremo in Gatto nero gatto bianco; e poi troviamo
Slavko Štimac, che interpreta Ivan, già Dino in Ti ricordi di Dolly
Bell?; Mirjana Karanović (Vera), Sena in Papà è in viaggio
d’affari; Bora Torodović, Golub il capobanda, che nel Tempo dei
gitani incarnava Ahmed Dzida; Davor Dujmović (Bata, il fratello
paralitico di Natalija), Perhan protagonista del Tempo dei gitani.
Sul finire entra in scena lo stesso Kusturica, con il cameo del
contrabbandiere d’armi e droga che rimprovera a Marko di non
capire più il linguaggio slavo della guerra, per essere stato
troppo a lungo all’estero (riferimento autobiografico).
Il discorso storico già retroscena delle esperienze individuali in Ti
ricordi di Dolly Bell? (1981) e Papà è in viaggio d’affari (1985)
viene qui perfezionato. Il cinema di Kusturica abbandona
quell’equilibrio tra commedia e dramma tipico del Tempo dei
gitani, o meglio trascende l’esperienza precedente, verso un
epos straniante, non canonico, ironico e kusturiciano.
L’autore affronta di petto il genere grottesco ed esaspera il
cinema
provocatorio
di
altri
registi
dell’ex-Jugoslavia,
da
Jakubisko a Dusan Makaveiev. Il suo stile è riconoscibile, basta
pensare all’incipit di Il tempo dei gitani (1989), per ritrovarvi il
nucleo
espressivo
di
Underground.
Kusturica
è
riuscito
a
rimanere se stesso, come nota Ermanno Comuzio su Cineforum,
nonostante “un’operazione colossale e cosmopolita, formula che
di solito partorisce creature più deformi che portentose”291.
In tutta la filmografia di Kusturica, disseminata di sogni e
sognatori, la dimensione onirica va di pari passo con la vita
attiva e la veglia dei personaggi. Realtà e sogno sono contigui e
spesso si contaminano nello spazio filmico, in modo difficilmente
districabile.
291
Comuzio E., Underground, “Cineforum”, n.351, gennaio/febbraio 1996.
294
Il sogno, come ha detto Kusturica, “veste la vita”292.
I suoi personaggi sembrano vivere in un mondo sospeso,
galleggiando tra i confini labili e indistinguibili tra ciò che
realmente è sogno e ciò che non è, come il re Prospero de La
tempesta di Shakespeare. E come abbiamo accennato prima,
rimanda ai personaggi della pittura di Chagall, avvolti in una
atmosfera onirica. I due artisti, il regista di Sarajevo e il pittore
ebreo di Vitebsk, condividono l’affinità e l’attenzione al mondo
popolare, “semplice e persino infantile nelle sue espressioni, un
mondo in cui la componente etnica è molto forte, e da cui
l’artista si sente sradicato fisicamente, ma a cui è saldamente
ancorato attraverso il ricordo e la memoria”293. Costruiscono i
loro sogni portando negli occhi e nel cuore le immagini e i colori
della loro terra, una terra ancora una volta sognata e non
pienamente vissuta.
La messa in scena di Kusturica prende forma in uno spettacolo
“surrealpopolare”294 in cui gli esseri umani, gli animali, le feste e
il cielo convivono vivacemente. Uomini e animali condividono la
sfera onirica e la realtà, vivono quasi in simbiosi; il rapporto più
stretto è quello tra Ivan e i suoi animali, tra cui Soni la scimmia.
Nello zoo patiscono l’odio umano, morendo tragicamente sotto le
bombe e sono allegoria della condizione umana, imprigionata
dalla guerra. Gli animali sono testimoni muti del degrado e del
disordine esistenziale in cui vivono i personaggi; simboleggiano
l’alternarsi tra vita e morte, un elemento della poetica di
Kusturica.
292
“Il sogno è ciò che preserva la vita. Si possono cercare delle spiegazioni storiche,
sociologiche, psicologiche alle questioni fondamentali dell’uomo, non si troveranno mai
delle risposte definitive. Perché non esistono risposte definitive. Siamo spinti a
razionalizzare ogni cosa, ma sono i sogni che vestono le nostre vite”. Afferma Emir
Kusturica nel Castoro, a lui dedicato, di Giorgio Bertellini.
293
Con queste parole Mariolina Diana descrive un parallelo tra i due artisti in Uno
spettacolo surrealpopolare, saggio raccolto in AA.VV., Emir Kusturica, cit., p.57.
294
Ibidem
295
Anche il volo, in cielo o in acqua, è sempre presente nei suoi
film. Il volo è spesso una continuazione della vita. La morte
viene vissuta non come fine, ma come cambiamento; spiccare il
volo significa lasciare la pesantezza terrena per acquistare una
diversa e liberatoria leggerezza. Nella pellicola il volo dei
personaggi avviene in acqua. La sposa di Jovan, defunta, nuota e
sembra rivivere, in cammino verso un'altra dimensione, verso
un’isola felice. Come Jean Vigo in L’Atalante (1934), l’autore
bosniaco mette la sua sposa in acqua per dar forma al suo sogno
e alla sua utopia: un amore felice e sereno, lontano dai conflitti e
dall’asperità dell’esistenza quotidiana.
La levitazione è una concezione di cinema per Kusturica: “Il
cinema deve sollevarci, strapparci alla pesantezza della Terra”. E
aggiunge: “la levitazione è una bella metafora della spiritualità,
dell’arte e del modo in cui bisogna trattare il proprio pubblico”295.
I quadri di Chagall e un film come Andrei Rublev (1966) di
Tarkovskij, per prendere in considerazione due riferimenti
cardine dell’arte di Kusturica, sono pieni di voli. Il volo viene
infatti considerato una delle metafore più frequenti nella cultura
russa.
Accanto alle nozze e ai voli ci compaiono frequentemente feste,
spettacoli popolari e banchetti nuziali. Nel banchetto allestito nel
sotterraneo per celebrare le nozze di Jovan, l’atmosfera festosa,
nel momento in cui le verità recondite vengono svelate, diventa
concitata e drammatica. Al contrario nel festa finale sull’isola,
che si stacca dalla terra, i personaggi, che si trovavano nella
realtà impegnati in guerre fratricide e odi personali, festeggiano
gioiosamente la pace (apparente) raggiunta.
Sono frequenti nel cinema di Kusturica inquadrature stracolme di
oggetti e di personaggi, in una messa in scena che si basa
295
G. Bertellini, op.cit., p.17.
296
spesso su un principio di accumulazione, disordinato e tipico del
popolo gitano, soprattutto nei riti e nelle cerimonie dal carattere
surreale. In Underground moltiplica i centri di interesse nel
quadro filmico, come già facevano in pittura Bruguel e Bosch o
altri
esponenti
riempimento
della
dello
pittura
spazio
si
naive.
In
alcuni
contrappone
la
momenti
al
desolazione
ambientale, come nell’ultima parte del film, dove i personaggi si
ritrovano all’inizio degli anni novanta in uno spazio distrutto dalla
guerra in corso, in un’atmosfera tragica e funebre.
Underground è anche l’ultimo film di Kusturica in collaborazione
con il musicista e compositore Goran Bregović, e seppur nelle
varie vicissitudini e incomprensioni, segna uno dei momenti più
alti del loro sodalizio.
Goran Bregović, bosniaco figlio di padre croato e madre serba
(un vero jugoslavo, potremmo dire), nasce a Sarajevo nel 1950,
quattro anni prima di Kusturica. I due autori appartengono,
dunque, alla stessa generazione e provengono dallo stesso
ambiente culturale; la loro collaborazione occupa un posto di
primo piano nella carriera di Kusturica e riguarda tre film: il
Tempo dei gitani (1989), Arizona Dream (1993) e Underground
(1995). Sono tre opere che hanno avuto un ottimo successo
internazionale, di critica e di pubblico, e oltre alle affinità
artistiche tra Kusturica e Bregovic e la passione per il rock, sono
importanti per la ricerca sviluppata nel rapporto tra immagini e
musica.
Bregović abbandona giovanissimo il conservatorio “liberando” la
sua spiccata sensibilità rock, con i “Bejelo Dugme” (Bottone
bianco) diventerà, nel periodo tardo comunista (dalla metà degli
anni Settanta in poi) la più grande rock star jugoslava,
infondendo nelle giovani generazioni uno stile di vita alternativo.
L’incontro con Kusturica avverrà durante la metà degli anni
297
Ottanta, anche se si erano già conosciuti in età giovanile quando
Emir suonava il basso in un gruppo punk. Da quel momento
Bregović si occupò di musiche da film, da autodidatta ma curioso
come sempre in pochi anni divenne uno dei più apprezzati e
originali autori di colonne sonore. Il suo stile è ormai un tratto
caratteristico della musica e del cinema balcanici, una miscela di
rock, musica classica, folk balcanico, musica religiosa e cultura
gitana.
L’originalità
di
Bregovic
è
quella
di
aver
saputo
attualizzare e modernizzare la musica balcanica, portandola al
successo internazionale attraverso la trilogia cinematografica con
Kusturica.
Ma veniamo ad Underground, Bregović si è affidato nella
registrazione delle musiche zigane a due orchestre la “Slobadan
Salijević Orchestra” (l’orchestra gitana che segue ovunque i
protagonisti) e la “Boban Marković Orchestra” (quella che suona
nel caffè-biliardo, ritrovo della mala). Si tratta di musica
diegetica, che entra nel racconto, non solo musicalmente, come
quando il capobanda spara all’impazzata all’arrivo sul battello dei
tedeschi e uccide uno dei suoi. Le musiche della fanfara zigana,
sono tra le protagoniste indiscusse del film. Si tratta di frenetici
balli tradizionali della regione del Cocek, polke e tanghi dai
precisi ritmi asimettrici, che hanno stretti legami con la cultura
orientale e sono considerate le danze per eccellenza dei gitani296.
La musica prende vita nelle emozioni dei personaggi, nessuno la
può fermare, come lo scorrere degli eventi e l’incedere del carro
iniziale con Marko e Nero, inseguiti dalla fanfara che suona il
brano
Kalasnjkov,
una
marcetta
velocissima
e
ossessiva
composta da Bregovic, ripetuta diverse volte nel film; “proviene
da un tema ungherese per tromba sul quale ho inventato la
296
Cfr. D. De Gaetano, La musica per matrimoni e funerali di Goran Bregovic” in AA.VV.,
Emir Kusturica, cit., pp.67-73.
298
melodia della strofa e del ritornello e un testo ironico sull’uso
delle armi”297 afferma il compositore.
Come sopra riportato, nella scena del battello, dove si celebra il
matrimonio di Natalija e Nero, la musica ha un ruolo di primo
piano, non ci sono invitati oltre ai musicisti che suonano
ininterrottamente per quasi venti minuti. La “Slobadan Salijevic
Orchestra” esegue Mesecina, di cui lo stesso Kusturica ha scritto
il testo, danza di riconciliazione e simbolo dell’amicizia tra Nero,
Marko e Natalija. All’interno della cabina ubriachi e felici, i tre si
abbracciano e cantano di un mondo capovolto (“la luna a
mezzogiorno” e “il sole a mezzanotte”), mentre dagli oblò si
vedono i musicisti suonare a testa in giù. Ma la felicità è solo
illusoria e viene sorpresa dalla catastrofe: la barca viene
circondata dai tedeschi, Natalija fugge e Nero viene arrestato.
Mesecina viene riproposta nella sequenza del matrimonio di
Jovan, quando i tre amici, Nero, Natalija e Marko, si ritrovano
abbracciati a cantare (il regista ricompone la stessa inquadratura
della scena del battello).
La fanfara, oltre a rincorrere i due protagonisti nel corso del film,
è intimamente legata alla comunità reclusa nel sottosuolo;
l’orchestra segue, infatti, gli abitanti fin sotto terra diventando
fonte di intrattenimento ed essenza della tradizione slava. In
superficie, dove il tempo scorre più veloce, all’insaputa della
comunità che vive nello scantinato del nonno di Marko, l’unica
musica possibile proviene dai giradischi e dalla radio e quando
tutti
escono
dal
sotterraneo
e
si
immergono
nei
rumori
frastornanti del quotidiano e della guerra la fanfara smette di
suonare. “In una terra così devastata, ha ancora senso – si
chiede Domenico De Gaetano, autore di un saggio sulla relazione
tra la musica di Bregović e i film di Kusturica – una musica che è
297
Ibidem
299
paziente fusione di secoli di stili e culture diverse?”298. Solo
nell’epilogo surreale del film i musicisti tornano a suonare,
sull’isola al matrimonio di Jovan.
Underground segna la fine del sodalizio artistico tra i due autori
bosniaci, anche a causa di una polemica sulla reale titolarità della
colonna sonora del lungometraggio. Kusturica ha insistito che la
colonna sonora è stata composta da brani di musica tradizionale,
selezionati da lui e da Dusa Kovacevic, e arrangiati da Bregović;
mentre il musicista ha ribadito più volte la propria autonomia di
compositore, anche quando ha riscritto o orchestrato brani
tradizionali.
2 R ECONSTRUCTION : C INEMA E S TORIA IN U NDER GROUND
Nel corso della sua carriera artistica Kusturica quasi non muta il
suo rapporto viscerale con il senso e la forza dell’immagine
cinematografica. Non l’ha mai intesa come fedele e naturale
rappresentazione
della
realtà,
“ma come
ironica,
invettiva
talvolta, amara esplorazione di scontri storico-culturali”299.
Anche in Underground mantiene lo stesso approccio poetico alla
materia, che qui
è rappresentata dalla Storia sul grande
schermo.
Riprendendo le teorie di Marc Ferro, storico degli Annales, in
“Cinéma et Histoire”, che analizzano le diverse tipologia di
scrittura filmica della storia (considerando il cinema come uno
298
299
Ibidem
G.Bertellini, op. cit., p. 102.
300
dei perni del sistema di rappresentazioni del mondo), possiamo
ricondurre Underground alla categoria di reconstruction, ovvero
la rielaborazione creativa magari scorretta della realtà dei fatti,
capace di elaborare un discorso penetrante degli stessi. Diversa
dalla reconstruction è la reconstitution, la semplice rievocazione
filologicamente corretta di un avvenimento storico, ciò che
soddisfarebbe una qualunque critica positivista, “ma – sottolinea
Ferro – sarebbe un sacrilegio proporre tale critica di un’opera
d’arte”300.
Osservando come la finzione cinematografica e romanzesca siano
modi di far storia, Ferro sostiene che in tale approccio sia
“relativamente più facile esprimersi senza falsificare, tuttavia
trascrivendo la storia attraverso la narrazione, il cineasta
procede allo stesso modo di altri romanzieri dello scritto, non del
cinema. La parte specificatamente filmica dell’approccio storico
resta sempre la stessa, poiché la trama del racconto filmico, la
diegesi, è sempre non filmica”301.
L’analisi di Ferro permette di affrontare con maggiore cognizione
di
causa
il
tema
della
rappresentazione
della
Storia
in
Underground.
“Il film di Kusturica – sostiene Giaime Alonge in un saggio su tale
argomento – si presenta come un testo complesso e composito,
che oscilla tra Storia e Mito, tra dramma e fiaba, un testo che
mette in scena la Storia e che al contempo ragiona sulle modalità
di questa messinscena” 302.
Il
regista
bosniaco
nel
raccontare
cinquant’anni
di
storia
jugoslava ha scelto una rappresentazione metaforica, grottesca,
mitica, dai tratti a volte pantagruelici e fiabeschi, rifiutando la
300
M. Ferro, Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980.
Cfr. M. Ferro, Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 159.
302
Cfr. G. Alonge, Lo schermo bugiardo. Intorno alla rappresentazione della Storia in
Underground, cit., p.131.
301
301
mimesi del reale, rielaborando la storia, secondo l’idea di
reconstruction, quasi come se fosse una favola.
Nel
sotterraneo,
dai
richiami
platonici
(la
caverna
della
Repubblica), la Storia si sviluppa davanti agli occhi dei reclusi in
modo menzognero. Come nella Jugoslavia di Tito, coloro che
vivono sotto terra, sono immersi in un mondo apparente e falso,
che nel film viene creato, o meglio messo in scena, da Marko, il
demiurgo malvagio e regista della finzione creata nella cantina
del nonno. Addirittura per convincerli che la guerra con i nazisti
sia ancora in corso diffonde nei locali del sotterraneo una colonna
sonora che raccoglie la voce di Hitler, Lili Marleen e rumori
“classici” della guerra, come la sirena della difesa anti-aerea.
Il discorso qui si fa metacinematografico, denunciando come il
cinema sia stato il maggior strumento della propaganda dei
regimi del Novecento. Se il progetto di Marko, all’atto pratico,
richiama intellettualmente la messa in scena cinematografica
(audiovisiva),
nella
sequenza
della
lavorazione
del
film
il
riferimento diventa, invece, esplicito. Un film di regime sul cui
set piombano Marko e Jovan riemersi dal sotterraneo, un’opera
che cerca apparentemente la mimesi ma non fa altro che
ampliare la falsificazione ideologica del regime comunista.
Kusturica
sottolinea
falsificazione
della
simulazione”303.
“la
verità
centralità
attraverso
della
la
questione
duplicazione
della
e
la
Nel film sulle gesta di Nero, che si struttura
come una parodia delle opere cinematografiche “naturalistiche”
del regime titoista, gli attori che interpretano i personaggi della
resistenza slava sono identici a quelli reali, ma la diegesi è
completamente diversa dal reale svolgimento dei fatti. Anche
Marko rimane in dubbio sulla somiglianza degli attori e a
proposito dell’ufficiale nazista Franz, chiede: “Lui è il vero Franz
303
Ivi, cit. pp. 132-133.
302
o soltanto un attore?”. Il cinema perciò non si limita a registrare
la
Storia,
ma
ne
è
parte
attiva,
contribuendo
alla
sua
falsificazione.
Un altro esempio di lettura metacinematografica lo troviamo in
una delle discese nel sotterraneo di Marko, mentre i reclusi sono
impegnati a guardare un cinegiornale, credendo che la guerra
non sia ancora finita. In tale caso, spiega Giaime Alonge, sono il
montaggio (elemento cardine del linguaggio cinematografico) e il
commento “over” a ordinare le immagini del ripiegamento
dell’esercito russo di fronte all’avanzata tedesca, fornendo loro
un senso.
Marko, il “metteur en scène” ossessionato dal controllo sugli
altri, si presenta come l’archetipo dell’intellettuale di un regime
totalitario del Novecento; anche la componente sadomasochistica
della sessualità di Marko, nei rapporti con Natalija, accentua la
descrizione del personaggio, caratterizzato da un’intrinseca
violenza. Nella sequenza del bombardamento di Belgrado Marko
è a letto con una prostituta, ma si eccita solo all’arrivo
dell’aviazione nazista.
Con l’inserimento dei protagonisti, nelle sequenze di cinegiornali
e di repertorio e in espliciti errori di montaggio, Kusturica svela
ulteriormente la manipolazione attraverso il più importante
mezzo di comunicazione di massa del novecento, appunto il
cinema.
Le
sovrimpressioni
ottiche
di
immagini
sono
chiaramente
artificiali: Marko, Natalija e Nero sono “veri” nell’universo
diegetico del film, ma allo stesso, entrando nelle “immagini
storiche”, mettono in evidenza la loro natura di trucco. La
grammatica cinematografica viene ignorata, per evidenziarne la
falsità, quando Marko e Natalija ballano accanto a Tito: il
movimento della coppia da sinistra a destra è ripetuto due volte.
303
Come fece l’“Onda Nera”, l’avanguardia cinematografica dei primi
anni sessanta guidata da Makavejev, Pavlovic e Djordevic, che
sviluppò un movimento antidogmatico di rappresentazione del
reale,
in
contrapposizione
propagandistico
del
al
cinema
realismo
precedente,
ideologico
anche
e
Kusturica
sottolinea come il cinema, anche quello del vero, è sempre una
rielaborazione di un dato fenomenico: Cultura anziché Natura.
Nell’analisi del film, sottolineando il carattere intermediale di
Underground, si segnala la sequenza dei funerali di Tito. In
questo particolare passo si fa accesa, e anche a tratti beffarda, la
riflessione storico-critica di Kusturica sul passato jugoslavo. La
strategia dello spiazzamento, che l’autore rende propria quando i
personaggi entrano nelle sequenze di repertorio, raggiunge
l’acme emotivo in questa scena; i funerali del presidente della
Repubblica federativa di Jugoslavia sono accompagnati da un
sonoro extradiegetico: la stessa Lili Marleen che ha illustrato
l’avanzata delle truppe tedesche lungo la penisola balcanica. Le
due sequenze del film, seppur di contenuto diverso, hanno una
costruzione
stilistica
simile:
rappresentano
un
viaggio
e
soprattutto hanno lo stesso motivo musicale. Kusturica cercando
e
creando,
attraverso
un’analogia tra le
un’operazione
formale
e
linguistica,
due sequenze pone in uguaglianza i
totalitarismi del Novecento, nonostante le nette differenze
ideologiche.
manipolatorie
Allo
del
stesso
tempo
montaggio
mostra
audiovisivo
le
che
potenzialità
determina
il
significato delle immagini.
Un parallelo è d’obbligo con una celebre sequenza del cinema
italiano i cui significati però sono antitetici a quella di Kusturica.
In Uccellacci Uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini le immagini
documentarie
dei
funerali
di
Togliatti
sono
un
omaggio
commosso al movimento operaio italiano e al partito comunista
304
italiano, il più grande dell’occidente e nel suo corso storico anche
il più indipendente dall’Unione Sovietica. Le scene di repertorio
del funerale di Tito, nel maggio del 1980, in Underground sono
cariche di un’ironia graffiante, fin dalla didascalia iniziale che
afferma “Con la misteriosa scomparsa di Marko Dren, sembra
svanire anche la formula segreta della Jugoslavia di Tito. Lo
stesso Tito, addolorato per la scomparsa dell’amico, si ammala
gravemente e venti anni più tardi muore”. La commistione tra
realtà e fiction è spiazzante, opposta a qualsiasi approccio
mimetico del reale, anzi come spesso si è ribadito sceglie una via
personale e metaforica, un’interpretazione e riflessione sulla
storia, non storicistica ma estetica.
Racconta Kusturica: “Questa storia è nata nella mia sofferenza
personale. Sono stato una vittima del comunismo, e so che le
uniche cose buone che c’erano nel comunismo erano i suoi stessi
sbagli. I quali furono numerosi: dal calcio al cinema. Convivendo
con questi errori, sono stato ingannato perché non ho compreso
l’evoluzione della Storia. Una Storia senza logica, perché non c’è
nessuna logica nel fatto che un Paese si distrugga quando
l’Europa marcia verso l’integrazione. Stampati sulla mia pelle ho i
segni di questo film che ormai incarna la mia integrità. Io stesso
sono stato vittima della propaganda. […] Durante le riprese ho
perso il padre e la mia casa di Sarajevo è stata distrutta. […]
Tutto ciò mi ha molto segnato, e questo fu un peso troppo grave
per le mie spalle. Ma gli slavi, me compreso, hanno la capacità di
rispondere alla sofferenza con un’energia inattesa. Ho spesso
anche pensato che la via più facile non è sempre quella da
prendere. E’ per questo che i miei film sono quello che sono. Non
si inseriscono come Forrest Gump, nella storia dell’edonismo. Se
avessi voluto essere più popolare avrei potuto sventolare la
bandiera della nuova Bosnia. Ho preferito, invece, seguire una
305
via mia, personale. Ed è per questo che non posso tornare nel
mio Paese, dove sono considerato un nemico”304.
Durante
la
primitivismo
guerre
Jugoslave,
poetico”
di
Emir
tra
il
1991
Kusturica,
e
il
1999,
sostiene
“il
Giorgio
Bertellini, si è fatto “osceno”. Il regista di Sarajevo ha messo a
fuoco alcune inedite articolazioni tra figura e sfondo, ovvero il
rapporto controverso di alcuni personaggi con la Storia che
cambia.
“Kusturica
è
ossessionato
dalle
situazioni
di
(dis)adattamento, personale o etnico, in cui un personaggio,
fisicamente o generazionalmente in transito, è opposto ad un
contesto sociale e culturale estraneo, ostile e mistificante”305. La
vera “attrazione” sono i personaggi e gli animali, ecco il perché
della quasi totale assenza di effetti speciali. Nel grottesco
kusturiciano, i protagonisti animano un’etnia pagana e “premoderna”, costituita da cerimonie e riti collettivi come matrimoni
e banchetti, ossessionata dal valore di realtà dei sogni e dal
contatto diretto con la morte, cercata nei vari tentativi di suicidio
(Ivan in Underground), ricca di emozioni opposte e comicità
diffusa. Far volare spose per aria o sott’acqua non è solo una
pagana passione cinefila, “è anche un discorso sull’uomo, sul suo
corpo e sull’unità culturale del suo essere”306. Kusturica in
Underground, come in Ti ricordi di Dolly Bell? o in Arizona Dream
passando per il Tempo dei Gitani e Papà e in viaggio d’affari,
sceglie dei personaggi che rivelano tutto di se stessi attraverso
una corporeità istintuale e impudica. Secondo Bertellini, tale
posizione, troppo umana, in tempo di guerra è divenuta
ideologicamente inattuale, tatticamente indifendibile e, persino,
perversa.
304
Cfr. G. Bertellini, op. cit, pp. 16-17.
Ivi, cit. p. 102.
306
Ibidem
305
306
Il critico si riferisce ovviamente alle polemiche che hanno accolto
e seguito la lavorazione del film (vedi paragrafo successivo). Il
testo filmico di Kusturica si inserisce infatti in un contesto
convulso come quello della guerra dei Balcani, che viene
rappresentata nella terza parte del film.
Come se la guerra in Jugoslavia non fosse mai finita, ci troviamo
all’inizio dell’ultimo atto a Berlino nel 1992, dove Ivan (dato per
morto dal 1941) spera di trovare la sua scimmia Soni. Lo
psichiatra che lo ha in cura rivela ad Ivan che Marko e la moglie
sono ricercati dall’Interpol. Ivan, disperato, decide di tornare in
Jugoslavia, un paese che però si sta sfaldando. Attraversa i
sotterranei e le gallerie che collegano l’Europa partendo dal
Reichstag, il parlamento tedesco. E’ la prima immagine simbolica
di un capitolo per nulla cronachistico. Ivan trova la via per
arrivare in Bosnia, ma non in Jugoslavia che come gli rivela un
casco blu, ridendo, “non esiste più”. Tra le gallerie ritrova Soni.
Uscito da un pozzo, sbuca in un villaggio della Slavonia, regione
della Croazia, una delle prime zone colpite dalla guerra. Il paese
è assediato dall’esercito privato di Nero; case e chiese son
distrutte e i commercianti d’armi paiono protetti dall’esercito
delle Nazione Unite. Ivan, il vettore narrativo della prima parte
del terzo atto, scopre Marko sulla sedia a rotelle a trattare con
un faccendiere locale, interpretato da Emir Kusturica in uno dei
suoi classici “cameo”. Ivan, riconosciutolo, lo insulta e in uno
scenario apocalittico (dove il crocefisso è rovesciato), lo ferisce a
morte. Ivan si impicca. Nero e i suoi soldati entrano in paese e
uccidono i prigionieri (ustacia, cetnici e caschi blu) e poi Marko e
Natalija. La guerra balcanica pare un caos che ha rapito coloro
che poco tempo prima convivevano vicino e ora si trovano su
fronti opposti. Alle domande di un comandante dell’Onu, che
chiede informazioni su comandi e gerarchie “chiare e distinte”,
307
Nero risponde con pugni e insulti e fugge nel sotterraneo
all’insperabile ricerca del figlio Jovan.
La terza parte del film evita un approccio strettamente legato
alla cronaca, Kusturica sceglie una rappresentazione fortemente
simbolica
della
contemporanea
situazione
jugoslava,
con
personaggi quasi stereotipici, inseriti in una spazialità tragica ed
allegorica. Nel continuum guerresco che pervade il film l’autore
evidenzia, implicitamente, le analogie tra la seconda guerra
mondiale e le guerre jugoslave degli anni Novanta: le zone di
maggior
conflitto
sono
simili
(la
Bosnia),
nonché
alcune
motivazioni che portarono alla guerra (il nazionalismo). Quella di
Kusturica è, inoltre,
un’interpretazione della storia dei Balcani
con tratti mitici; forse, una lacuna del film è quella di non
indagare le vere cause del recente conflitto ma di restituirle ad
una visione fatalistica dei Balcani: una terra in cui, ciclicamente,
le guerre si scatenano con forme quasi “tribali”.
Underground si presenta come una riflessione sul cinema e sul
rapporto che la settima arte ha con la Storia, ragionando sulle
possibilità di rappresentazione e messa in scena di quest’ultima.
“Il giudizio che ne emerge è pesante: lungi dall’essere una
finestra
aperta
sul
mondo,
il
film
è
un
dispositivo
di
mistificazione, uno strumento di inganno in mano ai dittatori,
uno specchio magico che ci mostra delle ombre che, in virtù della
loro sorprendente rassomiglianza con la realtà, siamo portati a
scambiare per entità concrete”307.
307
Cfr. G. Alonge, Lo schermo bugiardo. Intorno alla rappresentazione della Storia in
Underground, cit., p. 136.
308
3 T RA MITO E REALTÀ
La grande metafora che struttura il film intreccia Mito e Storia,
attingendo
dall’immaginario
jugoslavo,
creando
un
testo
polisemico, con la capacità di parlare lingue diverse a pubblici
diversi. E’ una caratteristica del discorso epico che, come rivela
Luca Rastello308 (autore del libro La guerra in casa), Kusturica
utilizza in Underground in connessione con il registro dell’ironia.
Il film offre, dunque, un significato alla comunità entro cui nasce
(jugoslava) e a cui in prima istanza si rivolge, e un significato
totalmente diverso, a volte persino contraddittorio con il primo,
all’esterno. Le polemiche, successive alla vittoria a Cannes nel
1995, furono aspre e le reazioni degli spettatori di lingua serbocroata, sicuramente più emotive (vista la guerra in corso) e in
grado di interpretare più facilmente il lato mitico-letterario del
film, molto differenti da quelle del pubblico occidentale, che mise
maggiormente l’accento sull’ironia dell’opera.
Immaginario collettivo, tradizioni locali, narrazioni orali e codici
linguistici millenari dei popoli balcanici costituiscono la
traccia
culturale che sottende il racconto filmico di Marko e Nero. Nel
lungometraggio sono svariati i riferimenti alla letteratura, alla
tradizione e alla mitologia degli slavi del sud.
In greco “mythos” significava racconto, in questa accezione il
termine era usato nei poemi omerici; in seguito con il sorgere del
pensiero filosofico ebbe una sfumatura spregiativa. Il mito non
sarebbe che una favola, capace di distogliere l’uomo dalla
conoscenza razionale.
Ma già lo stesso Platone, pur critico, lo
usò, affidandogli la funzione di comunicare, tramite un racconto
allusivo, la verità. Inoltre, il mito si dimostra in grado di proporre
308
Cfr. Luca Rastello, “Che cosa mi stai facendo amico?” A proposito di Underground in
AA.VV, Emir Kusturica, cit. p.123.
309
in forma immaginosa i grandi temi della vita umana, a cui ci si
può accostare per immagini, metafore
e simboli. In pratica,
anche oggi ci interroga sulla nostra identità.
La scelta di Kusturica è di “ballare” col mito. Una posizione
coerente con l’eredità epica della grande letteratura serba, ricca
di narrazioni orali e canti popolari. Però c’è un particolare da non
sottovalutare: durante la lavorazione e l’uscita del film, ci
troviamo in un contesto complesso e drammatico, quello delle
guerre degli anni Novanta: “di questi tempi il mito è il mito
nazionale e l’epos è arma politica”309.
La firma degli accordi di Dayton (per quanto controversi),
ratificati
a
Parigi
notevolmente,
il
anche
14
dicembre
positivamente,
del
1995,
sulla
ha
influito
cinematografia
balcanica. Underground, un affresco ricco sia dal punto di vista
narrativo che visuale, “indefinibile sia sul piano politico che
ideologico”310, fu premiato a Cannes lo stesso anno della firma di
Dayton. Questo film, sostiene Nevena Daković docente di Teoria
del film all’Università di Belgrado, codifica due caratteristiche
importanti di questo nuovo genere cinematografico: l’utilizzo di
una serie di riferimenti mitologici, fatalistici, antropologici e
nazionali sulla natura e le cause del conflitto; la strutturazione
narrativa attraverso un dialogo continuo tra il presente ed il
passato.
Il rapporto con i miti slavi è molto profondo nella poetica di
Kusturica, fin dagli anni Ottanta quando fu fondatore del
movimento teatrale dei new primitives, straordinaria fucina di
talenti grotteschi. L’idea dei neoprimitivi era quello di creare
personaggi
stereotipici
fino
ad
esasperarli
a
caricature
309
Ivi, cit, p.124.
L’affermazione è inserita in un interessante articolo di Nevena Daković, La guerra sul
grande schermo: filmografia della disgregazione jugoslava, per il settimanale belgradese
“Vreme”, pubblicato da “Il Corriere dei Balcani” (10 aprile 2004) e tradotto anche
dall’Osservatorio sui Balcani il 16 aprile del 2004.
310
310
intollerabili, che individuassero i tic, le sfumature, l’ideologia che
i nuovi movimenti nazionalisti jugoslavi propagandavano e
andavano definendo. Nella bizzarra compagnia teatrale dei Top
Lista Nadrealista (L’hit parade dei surrealisti) che metteva in
scena, sotto i fuochi della guerra, la farsa politica sottesa alla
carneficina, Kusturica, figlio di musulmani, aveva scelto la
macchietta del serbo nazionalista, con barbone e coccarda,
mettendo
in
quell’avventura
nacquero
resistenza
ridicolo
creativa,
esperienze
di
i
quanti,
nuovi
paladini
innervata
artistiche
negli
di
capaci
anni
di
del
popolo.
sarcasmo
di
dare
guerra,
e
Da
ironia,
nerbo
alla
rifiutavano
l’omologazione ad un credo religioso o ad un’identità nazionale.
Venendo
ad
Underground
ed
analizzando
i
personaggi
protagonisti notiamo che Petar il “Nero” e Marko non sono in
effetti individui, ma archetipi di un’intera comunità, secondo i
canoni dell’epica popolare e delle sue tracce nella letteratura
colta serba. Il soprannome di Petar Popara, “Nero”, ricorda
Karadjordje (kara in turco significa nero), “Giorgio il Nero”
(1762-1817), il contadino che si fece re e guidò l’insurrezione
contro i turchi, incarnando la rinascita nazionale e la ritrovata
dignità collettiva della gente serba.
“I due caratteri maschili su cui si appoggia l’intera vicenda
rappresentano limpidamente due exempla dell’immagine eroica
depositata nei secoli dai cantari di gesta e riesumata con vigore
dalla nuova onda di opere letterarie di taglio epico che hanno
accompagnato negli anni Ottanta la rinascita dello spirito
nazionalista serbo”311. Si tratta di opere come Il libro di Milutin di
Banko Popovic, che fu adottato da Slobodan Miloŝević come
bandiera culturale, o i romanzi di Pavić, Cosić, Drasković.
311
Cfr. Luca Rastello, Che cosa mi stai facendo amico?” A proposito di Underground.,
cit., p.125.
311
Scrittori che hanno padri nobili come Ivo Andrić (scrittore che
Kusturica sente molto vicino), nobel per la letteratura nel 1961 e
autore de Il ponte sulla Drina, o Milos Crnjanski di Migrazioni, dei
quali però tendono a ridurne la complessità per accostarsi ai
canti orali dei villaggi. I protagonisti di questa letteratura sono
eroi imperfetti, violenti ma teneri, votati alla sconfitta ma dalla
grande passione nazionalistica, che incarnano lo spirito di un
popolo. Sono pronti a morire e a uccidere in nome della sacra
amicizia maschile, come Nero e Marko che nelle prime battute
del prologo scambiano le seguenti battute: “Ti ammazzo amico”,
dice Nero, “Cosa fai amico?” domanda Marko, “Ti ammazzo, vi
ammazzo
tutti”
risponde
Nero,
ubriaco
sul
calesse.
Rappresentano due figure classiche del popolo serbo: quella
cosmopolita e corrotta (Marko) e quella pura e perdente (Nero).
La sconfitta è un elemento organico, quindi non casuale per
Petar, nell’eroe serbo; un archetipico le cui radici affondando nel
mito politico della battaglia del Campo dei Merli, combattuta il 28
giugno del 1389, il giorno di San Vito, che nella storia jugoslava
riveste un posto decisivo e centrale: l’attentato di Sarajevo, che
scatena l’inizio della prima guerra mondiale, avviene, infatti, il 28
giugno del 1914. In quel particolare giorno del 1389, attorno al
quale si sviluppa l’importante ciclo epico del Kosovo, i Turchi
travolsero le armate cristiane del principe serbo Lazar e
stabilirono il proprio dominio sulla regione del Kosovo per circa
mezzo millennio. Un destino tragico per i Serbi, che come narra
la leggenda scelsero la sconfitta per ergersi a martiri in difesa del
cristianesimo. Il mito fu ripreso strumentalmente dal nazionalista
serbo
Slobodan
Miloŝević
contro
la
popolazione
kosovara,
indicando il Campo dei Merli come luogo sacro dell’identità
nazionale.
312
In Petar Popara, mito nazionale (maschile e maschilista) rivivono
i miti di Lazar e di Karadjordje, il “Nero” appunto; Petar
impersonifica colui che è “vincitore di tutte le guerre e sconfitto
di tutte le paci”, riprendendo la celebre frase di uno scrittore
tutt’altro che eccelso, come Dobrica Cosic, che nel 1992 divenne
presidente della Federazione Serbo-Montenegrina.
L’acqua nel film è l’elemento simbolico in cui si compie il
passaggio tra morte e vita, alludendo alla rinascita ultraterrena
del popolo celeste (topos ricorrente nelle Migrazioni di Milos
Crnjanski).
“Kusturica non allude: enuncia i cardini del bagaglio mitico, a lui
ben noto, su cui si fonda la tradizione letteraria serba, e solo in
seconda battuta, la subcultura nazionalista. E’ questo ancora e
prima ancora delle indicazioni esplicite di simpatia verso una
parte
in
conflitto,
a
suscitare
le
reazioni
degli
spettatori
jugoslavi. Entusiasti i serbi, inorriditi i bosniaci, gli albanesi, molti
croati. Ma tutti per la stessa ragione”312.
La vena mitopoietica, improbabile, della Jugoslavia di Tito viene
messa in scena dal regista bosniaco sia nell’orazione di Marko
per l’inaugurazione del monumento dedicato a Nero, spacciato
per defunto, sia nella sequenza di “cinema nel cinema”, in cui
viene ricreato un set per il film sulle gesta di Nero. Gli attori in
questa scena recitano più parti creando una babele di linguaggi e
metalinguaggi. La verità storica sbandierata sul set del film non è
altro che artificiale e si intreccia con miti solo apparenti.
Nel finale dell’opera, le parole e i ruoli si confondono, piombano
pure sulla scena, tra soldati cetnici, trafficanti d’armi come Marko
e caschi blu, i partigiani: come se il conflitto in Croazia (19911992) fosse identico alla lotta di liberazione del 1945. Ma le
immagini crude, nella cacofonia di voci, sono macigni per un
312
Ivi., p.127.
313
pubblico in grado di decifrarle (per esempio, per appartenenza
alla stessa comunità del regista).
Nell’epilogo
possiamo
chiarire
meglio
il
valore
polisemico
dell’epos, uno dei registri principali di Underground, che, come
spiegato, permette diverse interpretazioni e più significati di un
testo filmico, in base al contesto in cui viviamo e al nostro
background culturale.
Nero
si
getta
nel
pozzo
incontrando
sott’acqua
gli
altri
personaggi, compresa la banda musicale. L’acqua restituisce vita
ai morti e su un’isola che si stacca dalla terraferma la vita
riprende come un tempo, ma con maggiore felicità. Una lettura
“dall’interno” evidenzia come un paese ritrovi la sua purezza
separandosi dalla terra-madre, facendosi isola dopo l’inganno di
un’unità imposta e fasulla. “Metafora limpidissima di una nazione
che si stacca da un agglomerato artificiale per ritrovare se
stessa”,313 così è interpretata dal pubblico ex-jugoslavo. Per gli
spettatori occidentali (tra i quali ha ottenuto spesso riscontri
entusiastici) il film viene a volte letto come un canto nostalgico
rivolto alla grande Jugoslavia, in cui vivono genti, che ci
sembrano lontane, ancora un po’ selvagge, ma molto vitali.
Come abbiamo visto, possono sfuggirci, nel corso del racconto
cinematografico, dettagli che il pubblico ex-jugoslavo coglie,
come la figura di Mustafa, l’unico musulmano del film (altra
individuazione
smascherato
di
e
comunità),
preso
a
calci
ritratto
dai
come
due
un
trafficante,
protagonisti
serbi;
sicuramente non un elemento conciliante in un periodo di guerra
(il 1995 è l’anno dell’orrore di Srebrenica e Zepa).
La complessità del film e il suo carattere epico viene colto dal
critico Ermanno Comuzio che lo definisce come una “rapsodia”,
nella sua doppia significazione di poema epico (“cucitura di canti”
313
Ivi, cit., p.129.
314
nell’etimo) e di composizione musicale di forma libera, di
carattere virtuosistico e brillante, fondata su pagine di origine
popolare. “Kusturica firma una commedia epica di lunghezza
fluviale,
anzi
rappresentativa,
danubiana,
e
abbracciando
di
soverchiante
cinquant’anni
ricchezza
di
vita
e
preoccupandosi meno della coerenza dei passaggi che della
vivacità
immediata
delirante
e
racconto”314.
del
visionario,
che
opera
Un
per
film
magmatico,
addizione
nel
caos
ragionato, visivo e sonoro, che crea. Comuzio riscontra una
vicinanza alla forma del circo, ci sono sia animali che clowns,
infatti lo stesso Kusturica spesso ha considerato il cinema più
vicino ad un brano musicale o uno spettacolo circense, che ad
un’opera letteraria. Una posizione che lo accomuna a Federico
Fellini, che considerava il cinema molto somigliante al circo, che
il regista italiano definiva come un miscuglio di tecnica, di
precisione e d'improvvisazione. Proprio mentre si svolge lo
spettacolo
già
provato
e
riprovato,
si
rischia
veramente
qualcosa; cioè vale a dire che, nello stesso tempo, si vive.
4 R EALTÀ E FINZIONE : TRA SURREALISMO , DOPPIO ,
VERO E MANIPOLAZIONE
Il confine indefinito tra le dimensioni del sogno e della realtà è
un elemento chiave della letteratura serba, nonché un tratto
distintivo della poetica di Kusturica. Nel contesto linguistico
stratificato del film si mescolano le categorie realtà e finzione,
314
E.Comuzio, Underground, “Cineforum”, n.351, gennaio – febbraio 1996, p.53.
315
storia e fantastico. Possiamo affermare, sulla base degli ultimi
studi di semiologia degli audiovisivi315, che finzione e realtà,
campi spesso indagati distintamente dai teorici, sono ben lungi
dall’essere “continenti separati da oceani”.
Si cercherà di affrontare il rapporto tra realtà e finzione
soprattutto attraverso la sequenza in cui Nero e Jovan irrompono
sul set del film-omaggio alla Resistenza partigiana, all’interno
della quale le due dimensioni si intrecciano in un contesto
assolutamente surreale. E’ una relazione, allo stesso tempo
articolata e sottile, che, come affermato poco sopra, coinvolge
diverse categorie e altrettante tematiche: il doppio, il vero, la
manipolazione mediatica, la falsificazione storica e la dimensione
ludica. Seppure Underground non sia riconducibile all’idea
classica di film storico il rapporto tra cinema e realtà storica è
sicuramente uno dei più interessanti nello studio dell’opera.
Come spiegato in un paragrafo precedente, la complessità del
testo filmico è definita anche dalla continua oscillazione tra Storia
e Mito, dramma e fiaba; le prime didascalie ci immergono in un
universo fantastico che mantiene però ambivalenti relazioni con
la Storia.
In una pellicola, opera di finzione, non tutto è fittizio: una
cospicua quantità di informazioni rimandano al mondo in cui
viviamo e nello specifico caso di Underground alla storia della exJugoslavia.
Il critico letterario e semiologo francese Gèrard Genette oppone
nel racconto di finzione, il fattuale e il fittizio316, dividendo ciò
che dipende dall’invenzione da ciò che si riferisce a luoghi e fatti
reali, distinzione che non pregiudica la difficoltà che si può
trovare, talvolta, a distinguerli uno dall’altro.
315
In riferimento al recente ed interessante saggio di F.Jost, Realtà/Finzione. L’impero
del falso, Milano, Il Castoro, 2003.
316
G.Genette, Finzione e dizione, Pratiche, Parma, 1994.
316
Alcune sequenze prima della scena che prenderemo in esame, in
cui Nero assiste e invade il film che ritrae le sue gesta
(scambiandolo per la realtà), vi è un episodio che introduce la
lavorazione del film dal titolo enfatico La primavera arriva su un
cavallo bianco. Una sera Marko e Natalja, divenuti nel fattempo
“eroi nazionali” visitano il set del film ispirato alle vicende della
Resistenza, mitizzate e spesso inventate. L’incontro con gli attori
che interpretano loro stessi al tempo del conflitto, identici ai due
originali
(sono
infatti
gli
stessi
attori,
solo
ringiovaniti
nell’aspetto), provoca spaesamento nella coppia e un ulteriore
livello di finzione nel film. Marko è costretto ad inscenare un
sentito
abbraccio
con
l’attore-sosia
che
impersona
Nero,
diventato a sua insaputa eroe e martire della guerra contro il
nazismo. La simulazione di Marko è perfetta: come se realmente
vedesse l’amico, che tutti credono scomparso anni prima.
La vicenda rappresentata dal film di regime non è corrispondente
al vero, è un falso; l’inganno protrattosi per troppo tempo è
divenuto ormai realtà storica. La pretesa mimetica della messa in
scena pretende però che gli attori siano uguali ai personaggi che
avrebbero dovuta viverla. Gli stessi Natalija e Marko rimangono
in dubbio di fronte agli intepreti: “Franz – si chiede Marko – è il
vero o soltanto l’attore?”. Questo esempio
esemplifica il tema
del doppio che, come nota Giaime Alonge, insieme a quello della
mise en abîme “ritornano in tutto il testo, dalla scena del teatro,
all’iterazione delle stesse battute (“Dico quello che sta dicendo
tutta la città”, affermano prima Vera e poi Natalija), delle stesse
situazioni (il Nero che scopre Marko e Natalija intenti a flirtare,
Natalija legata alla schiena del Nero; Ivan che si impicca), degli
stessi gesti (Marko che si sfila l’orologio)”317.
317
Cfr. G. Alonge, op.cit., p. 133.
317
La sequenza della concitata intrusione sul set di Nero inizia con
un long take, sviluppato attraverso un complesso movimento di
macchina con la gru, che segue le riprese del film di regime. Il
regista sul set introduce la scena: “Siamo arrivati allo storico
momento in cui, nel lontano anno 1944, i criminali nazisti
assassinarono vigliaccamente il nostro eroe nazionale Petar
Popara, detto il Nero”. Kusturica con un montaggio alternato ci
porta a seguire Jovan e Nero che da poco riaffiorati in superficie
si trovano a navigare un fiume e poi sbarcare ai bordi del set
cinematografico. Padre e figlio inquadrati in primo piano, tra gli
arbusti, sgranano gli occhi di fronte alle immagini “di guerra” che
hanno davanti: per Nero il conflitto non sembra mai finito (“In
quindici anni non è cambiato niente” dice al figlio), per Jovan la
realtà che si trova davanti è una novità prorompente, allo stesso
tempo entusiasmante e traumatica, che però non riesce a
decodificare (scambia la luna per il sole e un cervo per un
cavallo), dopo aver vissuto per tutta la vita in quella sorta di
“caverna platonica” che era il sotterraneo del nonno di Marko. Si
avvicinano al set a carponi, mentre udiamo la voce off del
regista, incensante e retorico, che, oltre a pretendere la massima
verità dal film che sta girando, richiede agli attori naturalezza e
totale immedesimazione. Inizia la ripresa della fucilazione di
Petar Popara con accanto l’ufficiale Franz. Nero, che assiste alla
scena con Jovan, non riconosce la finzione cinematografica e
additando, come collaborazionista il regista, spara al tenente
Franz–attore (scambiandolo per il vero), uccidendolo. Il regista
non si accorge di quello che capita sul set o forse si lascia
trascinare dalla potente iniezione di “realismo” apportata dal
“vero” Nero nel suo film ed esclama, entusiasta per la caduta e
morte “fuori copione” di Franz, a Nero-attore di continuare così,
sempre più naturale. L’attore inneggia al Partito Comunista
318
Jugoslavo. Irrompono sulla scena, a bordo di un’automobile,
Nero e Jovan, che sparano all’impazzata, creando panico e caos,
facendo fuggire a gambe levate attori e tecnici.
La sequenza propone quella commistione di diversi registri
stilistici che avevamo già colto nell’analisi della scena del
bombardamento dello zoo di Belgrado, si contaminano dramma e
commedia, grottesco e slapstick (l’attore-Nero che fugge, legato
ad un palo, in mare).
La scena è ricca di spunti utili alla nostra ricerca, perché le
relazioni di corrispondenza tra realtà e finzione sono stratificate e
si confondono in una dimensione propriamente surreale che, tra i
fumi, le nebbie e le luci del set e della notte, ricorda alcuni
momenti delle opere di Fellini (8 e mezzo, Amarcord, Il Casanova
di Fellini). La dimensione surreale agisce da collante, creando un
unicum tra realtà e finzione, storia e sogno.
Underground si sviluppa attorno ad una struttura finzionale, che
ha una sua coerenza interna ed intreccia elementi fattuali e
fittizi. Il “film nel film”, con marcate credenziali “realiste”, ci
spinge
a
mettere
in
discussione
le
realtà
e
le
finzioni
rappresentate nel complesso.
La primavera arriva su un cavallo bianco, nella sua esibizione
“realista”, vuole rappresentare il vero, illustrandolo. Ma i fatti
trattati si sono svolti in modo completamente diverso. La
finzione, nella messa in scena dell’inganno storico, si raddoppia.
Tale finzione cinematografica viene però percepita da Nero,
rimasto chiuso per vent’anni (“ridotti” a quindici per gli abitanti
del sotterraneo), come la realtà. L’impostura subita per due
decenni, “assorbendolo come lector in fabula , gli impedisce di
riconoscere
le
insopportabili
e
improbabili
drammaturgie
319
“naturaliste” dei registi di genere”318. Pensa realmente di
combattere l’infinita guerra con i nazisti.
Non solo Nero, ma tutti i personaggi del film rincorrono la realtà
o
credono
di
viverla;
sono
solo
marionette
di
una
rappresentazione, che ha smarrito la sua essenza. La storia
vissuta dai personaggi in superficie o nel sotterraneo, seppur
discordante, è manipolata mediaticamente dal regime.
Il “processo manipolativo” viene messo all’indice da Kusturica nel
film, attraverso l’ironia. Registro linguistico che chiama in causa
alcune interessanti riflessioni di Francois Jost, studioso di cinema
e televisione, riportate nel saggio Realtà/Finzione. L’impero del
falso. Citando Genette, Jost afferma che l’ironia agisce come
“un’antifrasi fattuale”, il falso prende l’aspetto del vero mettendo
in gioco uno di quei procedimenti che si presta ad ulteriori
fraintendimenti319. L’utilizzo dell’ironia riguarda quella che Jost
definisce la dimensione ludica del “mondo della finzione”, un
mondo che non è opposto ma in continua relazione con la realtà.
Attraverso l’ironia (e l’antifrasi) Kusturica smonta la falsificazione
storica operata dal regime titoista e la manipolazione operata dai
mezzi
di
comunicazione
di
massa,
come
il
cinema,
nel
Novecento.
La falsificazione storica, all’interno della diegesi e soprattutto
nella sequenza del set cinematografico, è evidente, percettibile
come d’altronde i trucchi utilizzati per realizzare le entrate e le
uscite di Marko e Nero dai filmati d’epoca, nella prima parte del
film. Le sovrimpressioni ottiche, molto contrastate a livello di
colorazione fotografica, mettono in chiara luce la loro evidenza di
trucco, questi ulteriori “raddoppi della finzione” sono “veri”
nell’universo diegetico del film, ma storicamente impossibili.
318
319
Cfr. Giorgio Bertellini, op.cit., p.95.
F.Jost, Realtà/Finzione. L’impero del falso, Milano, Il Castoro, 2003, p.65.
320
Ritorniamo alla sequenza che abbiamo analizzato, “il film nel
film” è
per
un’accesa critica di Kusturica al cinema di regime che,
decenni,
trasfigurata
ha
e
propagandato
un
passato
in
Jugoslavia
mitizzato,
come
una
nel
realtà
kolossal
fantastorico e celebrativo La primavera arriva su un cavallo
bianco, dal titolo parodico e sferzante.
“Sono stato allevato con questo tipo di film e vi esprimo il mio
odio per quelli che li hanno realizzati”320 spiega senza diplomazia
Kusturica.
Il “metteur en scène” di regime è ispirato ad uno dei cineasti
dell’epoca
di
Tito,
Veljko
(Grande)
Bulajic,
riconoscibile
nell’omino con basco, sciarpa ed occhiali che va istericamente
alla
ricerca
del
vero
più
vero.
Bulajic
(1923),
il
regista
sbeffeggiato da Kusturica, studiò in Italia durante la stagione
neorealista, fece l’assistente di De Sica e, tornato in patria,
ossessionò il cinema jugoslavo con i suoi drammi “veri”,
“semplici” e “popolari”, come Raz (La guerra, 1960), Kozara
(Kozara, l’ultimo comandante, 1962) e Bitka na Neretvi (La
Battaglia della Neretva, 1969).
Il rapporto tra realtà e finzione, come abbiamo cercato di
sostenere, è un nodo tematico fondamentale nell’analisi del film
di
Kusturica.
consideriamo
Scostandoci
anche
la
dalla
lunga
finzione
lavorazione,
cinematografica
le
imponenti
scenografie di Miljen Kljavović e l’aumento esponenziale del
budget
del
film:
Underground
si
è
sviluppato
come
un
Apocalypse Now all’europea. Come ha notato Giorgio Bertellini le
possenti dimensioni della macchina-cinema hanno reso quasi
letterale l’esercizio della rappresentazione cinematografica come
“produzione di realtà”, e non solo come metafora artistica321.
320
321
P.Vecchi, Emir Kusturica., cit. p.95.
Cfr. G.Bertellini, op.cit., p.84.
321
Sfogliando
i
numeri
dell’impegno
produttivo
coinvolto,
Underground supera ambiguamente la “finzione” della messa in
scena per giungere a una perversa ri-creazione della realtà e
della guerra.
5 L E P OLEMICHE
Dopo la vittoria della Palma d’oro nella quarantottesima edizione
del Festival di Cannes, si scatenarono polemiche molto accese
intorno al film. Per mesi sui giornali europei, soprattutto in
Francia e in Bosnia e in seconda battuta in Italia, si alternarono
opinionisti d’ogni genere a commentare Underground, con
interventi che spesso esulavano dal testo filmico. La maggior
parte, volenti o nolenti, ad esprimere una lettura ideologica del
film, tacciandolo di essere un esempio artistico di propaganda
filo-serba. Una polemica spesso pretestuosa e poco analitica, che
a tratti prevalse sul valore indiscutibile dell’opera.
Come anticipato nell’introduzione di capitolo, la vittoria a Cannes
e l’uscita del film in sala, si inseriscono in una situazione sociopolitica molto convulsa.
Il lungometraggio trionfa al Festival, il 28 maggio del 1995. Da
circa un mese si è fatta più serrata la lotta per il controllo della
Krajina tra Serbi e Croati. Poco più a sud il conflitto in BosniaErzegovina diventa molto tragico: il 26 maggio è il giorno del
massacro di Tuzla; tiri di artiglieria serba centrano un nutrito
gruppo di giovani, facendo 73 morti, dai 3 ai 31 anni.
A Cannes, la giuria guidata da Jeanne Moreau, e composta tra gli
altri da Gianni Amelio, spinta anche da una lettura politica ed
emozionale del film tributò il massimo premio al lavoro di
322
Kusturica, per l’importante valore estetico e civile. Presto
scaturirono le polemiche che si protrassero per mesi in parallelo
agli sviluppi della guerra in ex Jugoslavia.
Il primo ad intervenire fu il filosofo Alain Finkielkraut in prima
pagina su “Le Monde”, del 2 giugno 1995322, con un articolo dal
titolo L’impostura Kusturica. Finkielkraut è un intellettuale
pubblico molto noto, oltre che per i suoi interventi sulla carta
stampata anche per le frequenti apparizioni radio-televisive.
L’intellettuale francese sintetizzò Underground come un’opera
filoserba, che riscriveva la Storia dei Balcani da un punto di vista
analogo a quello dei nazionalisti di Miloŝević. Definì il film come
la
“versione
post-moderna,
scapigliata,
intrigante,
americanizzata e girata a Belgrado della propaganda serba più
bugiarda. Il diavolo stesso non avrebbe potuto concepire un
oltraggio altrettanto crudele alla Bosnia né un epilogo altrettanto
grottesco
alla
frivolezza
e
all’incompetenza
occidentali”323.
Finkielkraut, seppur lo commentasse, non aveva visto il film,
probabilmente considerando la visione qualcosa di superfluo; e
non era l’unico tra gli editorialisti che affrontarono il “caso”
Kusturica. Implicitamente, nell’articolo, il filosofo parigino aveva
messo a confronto due forme un po’ banali di nazionalismo, nella
sua schematizzazione manichea, uno buono e uno cattivo. Quello
positivo che definisce un’identità nazionale insieme alle “alterità”
circostanti
(Sloveni
costruisce
un
e
valore
Croati),
nazionale
quello
contro
negativo
le
che
invece
“alterità”
vicine,
aggredendole (la Serbia).
Si accodò a Finkielkraut un altro “noveau philosophe” Bernard
Henry-Lèvy, autore sull’argomento del documentario Bosna!
(1994). Dalle colonne del settimanale “Le Point” azzardò un
322
323
G.Rinaldi, Il film e le polemiche, “Cineforum” 351, gennaio – febbraio 1996, p.55.
G. Bertellini, op.cit., p. 6.
323
parallelo tra Kusturica e Céline. “La storia della letteratura è
piena di scrittori antisemiti, fascisti, stalinisti che ciò nonostante
erano
anche
grandi
artisti.
Nell’incoronare
questo
autore
(Kusturica nda) la giuria avrebbe dovuto sapere di trovarsi nelle
stessa situazione di chi nel 1938 avesse incoronato, poniamo
Céline”324.
I
giornalisti,
inviati
in
quel
periodo
a
Sarajevo,
non
dimenticarono mai tra i loro pezzi uno sul caso “Kusturica”:
qualcuno si rammaricava che il regista non avesse voluto, essere
nel suo esilio volontario, uno dei massimi difensori di Sarajevo,
assediata dai Serbi di Bosnia; altri rimproverarono il solito
millantato filoserbismo. Per filologia, dobbiamo ricordare che i
servizi e i commenti provenivano tutti dalla zona bosniaca di
Sarajevo, che in quei lunghi mesi era divisa in due, e non da
quella serba, dove forse le interpretazioni potevano essere
opposte.
Anche in Italia la situazione non fu molto diversa, Enzo Bettiza,
riprendendo l’accusa contro il film tratteggiata da Finkielkraut,
firmò su “La Stampa” un duro attacco contro Kusturica. Bettiza
premise di non aver visto il film, ma di saperne abbastanza dalle
recensioni e dai racconti di coloro che l’avevano visto e dalle
conferenze stampa del regista. Si sentì di poter concludere che
“Kusturica è un gemello estetico del Quisling bosniaco Fikrit
Abdić, che combattè a fianco dei serbi contro i bosniaci nella
sacca di Bihac”325.
Un altro elemento di polemica fu quello relativo ai finanziamenti
del film. Underground, una coproduzione maggioritaria francese,
sembra abbia beneficiato del sostegno della televisione serba e
di
324
325
un’altra
società
serba,
in
violazione
dei
regolamenti
G.Rinaldi, Il film e le polemiche, cit, p.55.
G.Bertellini, op.cit., p. 7.
324
internazionali, e in particolare dell’embargo cui era sottoposta la
Serbia. Zlatko Dizdarević, scrittore e giornalista di Oslobodjenje
(l’eroico quotidiano pubblicato nella Sarajevo assediata), in un
intervento su “La Repubblica”, che non entrava nel merito del
film, accusò Kusturica di aver accettato capitali serbi per la
produzione del lungometraggio. Rimproverava al regista “di
essersene andato da Sarajevo e di non aver speso una sola
parola per la causa dei musulmani”326, di non aver mai smesso di
collaborare con il festival di Belgrado e di aver rilasciato
interviste pro Miloŝević.
Sui quotidiani italiani solo Roberto Silvestri de “Il manifesto”,
Lietta Tornabuoni de “La Stampa” e Gianluigi Melega de “L’Unità”
denunciarono la faziosità e la gratuità degli interventi.
Più interessanti altre prese di posizione “interne” da parte di
intellettuali
dell’ex-jugoslavi,
avevano visto e analizzato,
che
effettivamente
il
film
lo
come Stanko Cerović collaboratore
di “Monitor”, il settimanale radicale anti Miloŝević stampato in
Montenegro. L’articolo pubblicato sulla rivista slava il 12 giugno
del 1995 fu riportato, leggermente ampliato, sul periodico
anglossassone “Bosnia Report”. L’intervento si distinse dal
recente fumo polemico per serietà critica e chiarezza. Cerović
(tra l’altro affiliato alla radio francese RFI), pur non essendo un
critico o uno storico di cinema, metteva in luce alcuni aspetti
della costruzione narrativa e stilistica altrimenti invisibili a un
pubblico non balcanico. Delineò alcune precise osservazioni: “Se
Kusturica non è vittima di un’ispirazione estetica sbagliata,
perché mette a capo della rivoluzione la tipica coppia di eroi
popolari belgradesi, cioè un serbo e un montenegrino, che – nel
mito e nell’orgoglio nazionalista serbo – fanno a pugni e
326
P. Vecchi, Emir Kusturica, cit. p.101.
325
all’amore
meglio
montenegrino
di
sostenne
altro?”327.
chiunque
che
i
Il
protagonisti
giornalista
del
film
rappresentassero lo stereotipo dell’eroe serbo e incarnassero
quell’instancabile “vitalismo genetico”, che contraddistingueva la
loro superiorità, in un certo senso, etnica.
“Perché – si domandò ancora Cerović – i due trafficanti impostori
devono proprio essere un musulmano e un croato? E perché, fra
i filmati di repertorio, insieme a quelli che denunciano Zagabria e
Maribor (e non Maburgo come riportato dall’edizione italiana),
Kusturica non inserisce le riprese della distruzione di Vukovar o
quelle in cui Belgrado saluta trionfalmente i carri armati in
partenza per la Slovenia e la Croazia nell’estate del 1991?”.
Nell’articolo si interroga ancora come mai il regista bosniaco di
Sarajevo parli della guerra come un “terremoto etnico e sociale”,
quando – secondo Cerović – lui sapeva che fu preparata nei
dettagli dai generali di Belgrado, e infine, si chiede perché
Kusturica si faccia fotografare in compagnia del direttore della
televisione di Belgrado, Milorad Vukelić, noto manipolatore della
propaganda nazionalista serba.
Se le riflessioni di Cerović possono esser considerate legittime e
analitiche, bisogna comunque notare che lo scrittore non entra
nel merito della architettura del film, ovvero l’estesa metafora
del comunismo come sotterraneo o caverna, volta anche ad
indagare le cause del conflitto degli anni Novanta, né riconosca
l’humour nerissimo di Kusturica. Inoltre, se è indiscutibile che la
Jugoslavia “mitica” di Kusturica sia, per lo più, popolata da
individui che ballano e bevono al suono della musica zigana, è
necessario sottolineare che sia Marko che Nero non sono
propriamente eroi; sono rappresentati anche come truffatori,
donnaioli e non così patriottici.
327
G. Bertellini, op.cit., p.8.
326
“La follia carnevalesca e bachtiniana dei loro bagordi, infatti, non
li riscatta come figure da ammirare: i due forsennati sono
moralmente indifferenti e apatici”328, precisa Giorgio Bertellini
portando come esempio la figura di Nero: se sorridiamo quando
si fa scoppiare una bomba addosso, possiamo solo compiangere
il suo destino di padre alla ricerca perenne del figlio, lasciato
distrattamente annegare trent’anni prima. La goffaggine dei
protagonisti di Underground li rende spaventevoli per il potere
che esercitano sopra e sotto terra.
Mentre continuano le polemiche, la precaria situazione nell’exJugoslavia si evolve. A luglio, avviene il massacro di Srebrenica,
enclave musulmana, ad opera dei serbi di Bosnia guidati dal
presidente Karaždić e dal generale Mladić; si conteranno diverse
migliaia di vittime in uno dei peggiori crimini del Novecento.
Nell’agosto del 1995 i croati riconquistano la regione della
Krajina, qualche settimana dopo ha tristemente luogo la seconda
strage del mercato di Sarajevo. A fine agosto, la Nato dà il via
all’operazione “Deliberate Force” bombardando posizioni serbe in
Bosnia. Il 21 novembre con la mediazione degli Stati Uniti viene
firmato l’accordo di Dayton, una base militare nell’Ohio. Un
accordo tra Bosnia, Croazia e Serbia di cessazione di ostilità,
ratificato a Parigi il 14 dicembre seguente. L’accordo di Dayton
non ha comunque costituito una risposta risolutiva al conflitto,
perché principalmente “incerto fra primato della cittadinanza e
primato dell’etnia”329; la Bosnia – Erzegovina, in cui convivevano
tre etnie, fu divisa in due entità con fortissime autonomie: la
Federazione
di
Bosnia-Erzegovina
(croato-musulmana)
e
la
Repubblica Serba (Srpska).
328
329
Ivi, cit., p. 93.
S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.174.
327
Col passare del tempo (il film uscì in Italia nell’inverno del 1995)
le analisi si fecero relativamente più distese, anche se nessuno
dei prestigiosi intellettuali intervenuti a caldo corresse il tiro delle
accuse.
Kusturica,
che
non
aveva
immediatamente
risposto
alle
polemiche, scrisse in ottobre una lettera, pubblicata da “Le
Monde”, in cui affrontò con marcato sarcasmo le critiche mosse
in primis dal filosofo Finkielkraut. Più pacatamente aveva
espresso sulle colonne dell’”International Herald Tribune” la sua
posizione politico-emotiva il 6-7 maggio del 1995, prima della
presentazione del film. “La Jugoslavia multietnica – affermò - è
stata distrutta per fare una Bosnia multietinica. E’ una cosa priva
di
senso
per
chiunque
ami
la
Jugoslavia
come
paese
multiculturale. Sono vissuto in un paese dove i miei film preferiti
erano croati e i miei libri preferiti erano serbi. I miei film sono
nati nell’atmosfera di una Sarajevo realmente multietnica. Ora
debbo diventare qualcuno il cui cuore batte unicamente per la
Bosnia o l’Erzegovina. Non ho niente contro, ma non mi sento di
poterlo
diventare
perché
sono
profondamente
jugoslavo
dentro”330. E’ una visione panjugoslava, multietnica affine a
quella che Ivo Andrić impresse nelle pagine del romanzo Il ponte
sulla Drina.
Dichiararsi jugoslavo in una fase di complessi e intricati odi etnici
tra i popoli e nei momenti in cui la sua Bosnia è rimasta
assediata dalle forze militari dell’ex-armata di Tito è una
posizione assolutamente scomoda, che per alcuni è stata letta
ambiguamente come una presa di posizione filoserba, quando gli
stessi serbi, con l’ansia della Grande Serbia, sono stati i fautori di
uno dei più intensi nazionalismi sviluppatisi negli anni Ottanta.
L’ultima sequenza in cui un lembo di terra, con la forma della
330
G.Rinaldi, Il film e le polemiche, cit., p.56.
328
Jugoslavia, si stacca dalla terraferma, è un riferimento al suo
Paese che non c’è più; più che un sentimento di nostalgia è quasi
un manifesto funebre. Nelle dichiarazioni riportate sul “Castoro”
dedicato al regista si legge, infatti, “Il fatto di aver vissuto in un
Paese e di accorgersi che non esiste più, rappresenta per me una
perdita irreparabile. Underground non è un film nostalgico, è un
necrologio. Sono io ad essere nostalgico! Non ho più sentimenti
nazionali. Prima ero jugoslavo e mi trovavo bene tra le nostre
differenze religiose e culturali. Sono come i gitani del mio film.
Non mi resta che il cinema. Come diceva Marilyn Monroe: io
abito nei miei film”331.
Kusturica, amareggiato dalle polemiche, non ci stette ad essere
accomunato alla figura di Miloŝević, anzi dichiarò di essere contro
il suo sistema. Su “Liberation”, il 25 ottobre dello stesso anno,
intervenne: “Nessuno evidentemente può giustificare quello che i
Serbi hanno fatto in Bosnia: questo è un primo piano, come in un
film. Ma questo è troppo fragoroso perché non si debba guardare
lo sfondo, cioè la storia. La Bosnia multietnica è il mio massimo
desiderio: ma i serbi non vogliono, e neppure i croati e i
musulmani. Non mi identifico più con niente. Mi posso solo
definire jugoslavo, il che costituisce ancora uno dei miei
atteggiamenti
non
politicamente
corretti”332.
Nelle
sue
enunciazioni condannò inoltre la criminalizzazione mediatica,
acritica, dei Serbi, con una posizione non lontana da quella
sostenuta dallo scrittore drammaturgo austriaco Peter Handke
(in Un viaggio d’inverno ovvero giustizia per la Serbia, Einaudi,
1996), spiegando anche che, caso strano, furono proprio gli
331
La dichiarazione di Kusturica è raccolta, tra altre, nel primo capitolo (pag. 19) del
Castoro a lui dedicato, curato da Bertellini, a proposito del rapporto “cinema e
nazionalità”.
332
G.Rinaldi, Il film e le polemiche, cit., p.56.
329
estremisti di quell’etnia ad attaccarlo dopo Papà è in viaggio
d’affari.
A bordo di un traghetto, da Corfù a Otranto, di ritorno da un
concerto improvvisato con la sua band “No-smoking”, Kusturica
raccontò a Paolo Rumiz, inviato speciale de “La Repubblica”: “In
troppi pretendono che io sia ideologicamente contro qualcuno e
qualche cosa. Ma io mi rifiuto di essere unilaterale. Non sono
contro nessuno; nemmeno contro l’America che ha bombardato il
mio paese. Io dò risposte complesse perché questa guerra, se si
vuole essere onesti è complessa. La colpa non sta da una parte
sola; certe cause partono da molto lontano. Ma quando lo dico,
subito mi saltano addosso, dicono che sono per Miloŝević. E’
pazzesco l’Occidente sta diventando manicheo come il vecchio
comunismo”333.
Il regista rivendicò la sua libertà intellettuale, poetica, e la
distanza dall’attualità politica, che non è il centro del film,
occupato
invece
da
una
visionaria
metafora
degli
ultimi
cinquant’anni di storia jugoslava. Una Jugoslavia privata per
decenni di libertà e di verità storica, impegnata in una continua
lotta contro il nazismo e il fascismo anche quando erano già stati
sconfitti; un paese sommerso pronto a riaffiorare in superficie
per riesplodere con tutte le sue contraddizioni.
Jacques Almaric , editorialista di “Liberation”, lodò Kusturica per
“una formidabile autopsia” del socialismo reale.
Giorgio Rinaldi su “Cineforum”334 notò, criticando le pretestuose
polemiche, come la scelta del lirismo (uno dei registri del film)
potesse condurre ad alcune semplificazioni: l’attribuzione della
resistenza contro i nazifascismi solo ai Serbi, l’identificazione dei
333
L’intervento di Kusturica è riportato all’interno di Maschere per un massacro di Paolo
Rumiz (Editori Riuniti, 2000), giornalista e scrittore triestino, nel capitolo Le bombe
celesti.
334
G.Rinaldi, Il film e le polemiche, cit., p.57
330
tedeschi del 1941 con quelli che hanno unificato la Germania e il
sospetto che dietro i Caschi blu si nascondano trafficanti d’armi.
“Ma si tratta di osservazioni marginali e non esclusive della
propaganda serba. Come non è propaganda serba la nostalgia di
una Jugoslavia multietnica che impregna il film. Il cui limite
principale politicamente parlando e nel mostrare la guerra come
il risultato della follia dei popoli e, forse, nella fredda distanza di
fronte alla sofferenza che si traduce in un rifiuto, quasi in
un’incapacità di compassione”335.
Per completezza riportiamo due giudizi su Kusturica da parte di
suoi
concittadini
e,
forse,
ex-amici.
Abdulah
Sidran,
sceneggiatore di Papà è in viaggio d’affari, definì l’atteggiamento
di Kusturica, “un suicidio politico”336, perché i bosniaci lo
ritenevano un rinnegato, un ribelle, come Knut Hansun al quale il
popolo aveva restituito i libri da lui scritti perché collaborò con i
nazisti. Lo scrittore e saggista Marko Veŝović lo dipinse come
“uno studente modello che ha superato tutti gli esami da vero
serbo con il massimo dei voti” salvo poi concludere “che era un
uomo straordinariamente onesto. E veramente intelligente anche
se un po’ alla contadina, nonostante fosse un sarajevese
nato”337.
Sono, invece, più articolate alcune interpretazioni dall’”interno”.
Dina Iordanova, storica del cinema esperta dei Balcani, analizza
il film nel suo saggio Cinema of Flames mettendo in luce gli
elementi propagandistici dell’opera e le diverse letture a cui si
presta, dall’esterno e dall’interno dell’ex-Jugoslavia; inoltre,
sostiene
che
l’amoralità
dei
suoi
personaggi
supporta
335
Ibidem
P.Vecchi, Emir Kusturica, cit., p.102
337
Lo scrittore e saggista Marko Veŝović nel racconto Un uomo onesto, inserito in Chiedo
scusa se vi parlo di Sarajevo (Sperling&Kupfer, 1996) parla di Emir Kusturica senza mai
citarlo espressamente, scrivendo che il nome della persona a cui si riferisce “potrebbe
benissimo essere usato per indicare quella sottospecie di peste che oggigiorno ha
attaccato il popolo serbo”.
336
331
“l’argomento primordialista”338 dell’immoralità o del primitivismo
innato dei Balcani.
Su questa tematica si sofferma anche il filosofo e sociologo
sloveno Slavoj Žižek: “I Balcani sono l'inconscio più segreto
dell'Europa. Da qui nasce la questione da me più volte
affrontata: dove cominciano i Balcani. La risposta è sempre la
stessa: nel giardino del vicino. Per i Serbi iniziano in Albania e
così via fino ad arrivare alla perfetta Gran Bretagna per la quale i
Balcani
sono
l'intero
continente
europeo.
Kusturica
con
Underground lo conferma. Il film non presenta i Balcani, ma la
loro immagine fantasmatica, un luogo dove la gente beve, fa
sesso, mangia, uccide; è la ‘fantasia’ occidentale dei Balcani.
Kusturica soddisfa la richiesta di ‘primitivismo’ dello spettatore
occidentale. Atteggiamento che ritroviamo, generalizzato, tra gli
stessi serbi, bosniaci e anche sloveni. Anche il nazionalismo
serbo sembra uno show teatrale. Il sociologo tedesco Ulrich Beck
lo definirebbe ‘nazionalismo riflessivo’. L'occidente "civilizzato" si
è ostinato per anni a prendere sul serio la stupida storia delle
passioni etniche; mostrandosi così incapace di capire cos'era
veramente in atto nei Balcani: un processo politico, un conflitto
di
potere”339.
In
un
capitolo
del
suo
libro
L’epidemia
dell’immaginario, intitolato “La poesia della pulizia etnica”, Žižek
spiega che attraverso il particolare auto-distanziamento attuato
nel film, in chiave ironica, si sviluppi quella cinica ideologia
postmoderna, che lo porta, involontariamente, a rappresentare il
fantasmatico
retroscena
“apolitico”
della
pulizia
etnica
(in
particolare dei serbi, sostiene) e della crudeltà in guerra in exJugoslavia340.
338
Cfr. D.Iordanova, Cinema of Flames, balcan film, culture and the media,cit., p.111.
Elisabetta D’Erme, L’underground della politica, intervista al filosofo Žižek, il
Manifesto, 10 aprile 2001.
340
Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma, 2004, pp.94-96.
339
332
La docente universitaria belgradese Nevena Daković descrive,
invece, Underground come “un affresco ricco sia dal punto di
vista narrativo che visuale, indefinibile sia dal punto di vista
politico
che
ideologico”341,
dall’alto
valore
estetico
e
che
condensa i due poli della filmografia di guerra balcanica: il mito e
la realtà.
Al di fuori dalle polemiche non bisogna dimenticare l’importanza
artistica di Underground, un film visionario che rimane un’opera
di fantasia ma guarda alla Storia e al presente, in termini estetici
e metaforici. Underground è, come abbiamo compreso, un’opera
politicamente controversa. In ogni analisi non si dovrebbe mai
smarrire l’attenzione al testo filmico, trascurata invece in molte
delle polemiche. L’interesse del film non riguarda solo l’exJugoslavia, ma nell’affrontare “la manipolazione dei popoli”342
tocca una problematica, purtroppo, universale, che va oltre i
confini della Serbia o della Bosnia.
341
La breve analisi è tratta dall’articolo di Nevena Daković dal titolo La guerra sul grande
schermo: filmografia della disgregazione jugoslava, cit.
342
G.Rinaldi, I film e le polemiche, cit, p.57.
333
Scheda film
Regia:
Emir
Kusturica;
soggetto:
Dusan
Kovačević;
Sceneggiatura: Dusan Kovačević, Emir Kusturica; fotografia:
Vilko
Filać;
musica:
Goran
Bregović;
montaggio:
Branka
Čeperac; scenografia: Miljen Kliaković ”Kreka”; costumi Nebojsa
Lipanović; suono: Marko Rodić; effetti speciali: Petar Živković,
Roman Tudžaroff, Martin Kilhanek, Jaroslav Štolba.
Interpreti: Predrag Miki Manojlović (Marko), Lazar Ristovski
(Petar Popara detto “Nero”), Mirjana Joković (Natalija), Slavko
Štimac (Ivan), Ernst Stötzner (Franz), Srdan Todorović (Jovan),
Mirjana
Karanović
(Vera),
Milena
Pavlović
(Jelena),
Bata
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