quadro istituzionale e possibili scenari di sviluppo in Europa

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quadro istituzionale e possibili scenari di sviluppo in Europa
IL MUSEO
ARCHEOLOGICO: QUADRO ISTITUZIONALE E POSSIBILI SCENARI DI
SVILUPPO IN EUROPA
Si può dire che il quadro istituzionale oggi vigente in Italia non conosce, almeno per lo Stato, la fattispecie di Museo: di esso non vi è traccia nella
fondamentale, e mai a sufficienza lodata, legge n.1089 del 1.6.1939, né nel
D.P.R. 805 del 2.12.1975, istitutivo dell’organizzazione del Ministero per i
Beni Culturali e Ambientali. Su apparenti eccezioni contenute in quest’ultimo torneremo fra breve.
Cerchiamo di intendere per quale motivo il concetto di museo non sia
compreso nelle legge 1089. Questo fondamentale testo è, finora, l’ultimo nel
tempo di una serie legislativa che si struttura per la prima volta nel chirografo di Pio VII Chiaramonti emanato nel 1802, al quale fece seguito, nel 1820,
l’editto del Cardinale Camerlengo Bartolomeo Pacca. I provvedimenti pontifici, come gran parte dei precedenti e dei seguenti emanati da quasi tutti gli
Stati pre-unitari, miravano a regolamentare il ritrovamento di oggetti di antichità e le azioni conseguenti, come il restauro, la documentazione, i passaggi di proprietà, sia tra privati sia tra privati e Stato, l’esportazione. A tal fine
si istituivano strutture, più o meno fisse, più o meno professionali, incaricate
di far osservare questi stessi provvedimenti: cioè di verificare che gli oggetti
rinvenuti non venissero o distrutti o esportati 1.
Solamente nel Regno delle Due Sicilie all’attuazione della procedura
di controllo prevista appare attivo il Museo di Napoli. In quanto, l’Accademia Ercolanese è incaricata di valutare il pregio e l’interesse di quanto si
rinviene, così da decidere se lo Stato, salva la disponibilità finanziaria, dovesse, o meno, acquistare i reperti per conservarli nel Museo. Il ruolo del Museo
è quello di terminale, per così dire, della procedura di tutela: non si hanno
previsioni per il suo funzionamento specifico, in quanto il personale assegnato, oltre ad essere responsabile di Pompei, svolge funzioni che oggi chiameremmo territoriali 2.
In generale, si può dire che le leggi pre-unitarie, normando lo status
(1) In generale cfr. A. EMILIANI, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni
Artistici e Culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, 2a ed., Bologna 1996; P.G. GUZZO,
Antico e archeologia, Bologna 1993.
(2) M. BENCIVENNI, R. DALLA NEGRA, P. GRIFONI, Monumenti ed istituzioni 1, Firenze
1986.
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giuridico dei ritrovamenti per mezzo delle diverse strutture allo scopo istituite, o incaricate (come accade per tutte le diverse Accademie che preesistevano), non prevedevano uno specifico Museo, in quanto esso veniva considerato come uno strumento per l’applicazione delle norme, e quindi il suo funzionamento e la sua organizzazione venivano lasciati alle cure delle strutture.
A questo aspetto normativo fa da supporto lo stadio di avanzamento
che avevano raggiunto, dalla fine del XVIII secolo alla metà del XIX secolo,
sia lo studio della storia dell’arte antica sia la conseguente organizzazione dei
principali musei: a cominciare dai Musei Vaticani.
In maniera schematica, si può dire che al Museo erano destinate le
statue, le epigrafi, i sarcofagi, in quanto documenti utili allo studio sia della
storia dell’arte sia dell’epigrafia. Dei restanti reperti da scavo (o, piuttosto,
da ritrovamenti), monete, cammei, pietre incise ricevevano attenzione, per
lo più dall’angolo di vista antiquario e documentario, mentre le restanti classi di produzione venivano, per lo più, abbandonate. È chiaro a tutti che tale
scala di priorità e d’attenzione variava da zona a zona: vasi italioti a figure
rosse constano nella collezione del padovano Marco Benavides fin dal ’500;
le urne in alabastro di Volterra vengono raccolte dall’abate Guarnacci, e così
via. Ma, di certo, la gerarchia generale d’interesse è quella indicata: e su di
essa si formano e si ampliano i musei fra XVIII e XIX secolo.
La composizione dei musei italiani non differisce sostanzialmente da
quella dei musei delle capitali europee: la conquista di Roma da parte dei
Piemontesi comporta l’istituzione del Museo Nazionale Romano, che nasconde a fatica l’intenzione sia di contrapporsi alla tradizionale fama dei Musei
Vaticani sia di rappresentare, anche in questa materia, la raggiunta immagine
di potenza del nuovo Regno d’Italia 3.
Non erano mancate proposte per ristrutturare il sistema museale che
si veniva formando. Già nel 1808 il marchese Michele Arditi, Direttore Generale del Real Museo di Napoli, aveva proposto di istituire, in ognuna delle
provincie nelle quali si divideva il Regno, un museo che raccogliesse le antichità ritrovate nelle rispettive provincie. Arditi, oltre alla maggior efficacia
nel proteggere i ritrovamenti, indicava due scopi: avvicinare le popolazioni
alla conoscenza, e quindi al rispetto, delle antichità e della storia locale; provocare motivi d’interesse, decentrati rispetto alla capitale, per i turisti che già
allora si recavano nel Regno, ma per lo più solo a Napoli e a Pompei, così
anche da incrementare le opportunità di reddito. La proposta di Arditi, avanzata durante il periodo francese, non avanzò di un passo 4.
(3) AA. VV., Dagli scavi al Museo. Come da ritrovamenti archeologici si costruisce il
Museo, Venezia 1984.
(4) A. MILANESE, Il piano Arditi del 1808 sui musei provinciali: centro e periferia nella
tutela in ‘Magna Grecia’, in I Greci in Occidente. La Magna Grecia nelle collezioni del Museo
Archeologico di Napoli, a cura di S. De Caro, M. Borriello, Napoli 1996, pp. 275-280.
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Anche Giuseppe Fiorelli, primo Direttore Generale per le Antichità e
Belle Arti, propose che i principali luoghi di scavo fossero dotati di un museo
che raccogliesse ed esponesse al pubblico i reperti di quel sito 5. L’iniziativa di
Fiorelli si sviluppò progressivamente, in parallelo con il crescere e l’articolarsi delle Soprintendenze.
Una delle tappe principali è costituita dall’istituzione del Museo Archeologico Nazionale di Taranto, fondato nel 1888: il suo scopo era di raccogliere i reperti che si mettevano in luce a seguito dei lavori necessari per la
costruzione dell’Arsenale Militare e di tutti i servizi ad esso collegati. Il Museo
era gestito da un Ispettore agli Scavi, che fu all’inizio Luigi Viola, dipendente
direttamente dalla Direzione Generale di Roma. Il suo compito era di ordinare
nel Museo quanto poteva recuperare da quell’enorme modifica territoriale ed
ambientale provocata dalla costruzione dell’Arsenale, del canale navigabile,
della progressiva estensione dell’abitato cittadino ad Est di quest’ultimo, cioè
sull’agorà della città greca, sulla città romana e sulle necropoli greche 6.
Le vicende attraversate dal Museo di Taranto illustrano chiaramente
la particolarità italiana, nei confronti degli altri Paesi europei con esclusione
della Grecia, nel campo dei musei archeologici. La ricchezza di documenti
storici conservati nel territorio ha fatto sì che la principale preoccupazione
delle istituzioni si volgesse a normare i ritrovamenti. In ciò, dal corso del
XIX secolo, procedendo in parallelo, anche se sempre con un sensibile ritardo, con l’avanzamento delle esigenze metodologiche dello scavo archeologico. Il “museo” era considerato, se posso così esprimermi, sia con l’iniziale
maiuscola sia con quella minuscola.
Alla prima categoria appartenevano i musei storici, o quelli istituiti per
motivi di prestigio, sia di ordine generale sia in aree particolari, come quello già
ricordato di Taranto o quello di Reggio Calabria, inaugurato nel 1931.
Alla seconda categoria appartenevano i musei, per così dire, di Fiorelli:
talvolta, com’è il caso di quello di Licenza presso Roma, in condominio con
la Provincia, anche per la persistente competenza di questa istituzione nella
tutela del patrimonio culturale.
Ma, come già accennato, su tutti i musei si stendeva l’ufficio Soprintendenza, al quale faceva capo la responsabilità dello scavo, del controllo dei
ritrovamenti nel territorio, in definitiva quella che noi oggi chiamiamo tutela. Una tale conformazione organizzativa trae, come si è anticipato, ragion
d’essere dalla conformazione storica del territorio italiano, sul quale si sono
formate, sviluppate, succedute innumerevoli culture, le cui produzioni materiali
sono state accumulate, e dimenticate fino alla scoperta, nel territorio stesso.
Nulla di simile, almeno per quantità se non per interesse avvertito nel
(5) G. FIORELLI, Relazione a S. E. il Ministro per la Pubblica Istruzione, Roma 1883.
(6) AA. VV., Il Museo di Taranto. Cento anni di archeologia, Taranto 1988.
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XIX secolo, si verificava negli altri Stati europei. È pur vero che fin dal XVII
secolo si scavavano e si raccoglievano sia reperti preistorici sia prodotti antichi non classici, in specie germanici e scandinavi: ma questi, per lo più, confluivano come curiosità nelle Wunderkammer 7. È anche vero che si veniva
strutturando, e sempre più si sviluppò nella seconda metà del XVIII secolo,
un filone d’interesse e di studio per i reperti antichi non classici, in Francia
come in Inghilterra e perfino negli Stati Uniti resisi indipendenti: reperti che
venivano utilizzati anche come dimostrazione delle antiche radici dei diversi
Stati nazionali, che si andavano affrancando dai regimi non costituzionali
precedenti. Ma questo filone di “archeologia indigena”, se così la posso definire, rimase generalmente subordinato all’interesse nutrito per l’archeologia
classica: nei segni materiali della quale i diversi governanti identificavano
ancora una continuità con i simboli del potere, imperiale romano per lo più,
che avevano appreso dalla lettura degli antichi scrittori 8.
Come eccezione, si può ricordare lo scavo voluto da Napoleone III ad
Alesia, alla ricerca di Vercingetorige e dei suoi Galli, che eroicamente resistettero alle legioni romane di Cesare. E, sulla stessa sintonia, l’istituzione
del museo di St. Germain-en-Laye, dedicato alle Antiquités Nationales.
Fra l’Italia e l’Europa, dal XIX secolo e poi nel corso di questo secolo,
si apre e sempre più si divarica un solco nel campo dei musei.
Nei Paesi europei si rafforzano e si ampliano i grandi musei, per così
dire universali, per lo più localizzati nelle rispettive capitali: a Berlino, Parigi,
Londra, Madrid. In essi si raccolgono reperti come simboli sia di cultura sia,
principalmente, di potenza: dai marmi Elgin all’altare di Pergamo.
Accanto ad essi, ma molto in ombra, si hanno musei decentrati, quasi
in assoluto rivolti alle antichità locali. La strutturazione degli uffici di tutela
territoriale è generalmente tardiva e rilassata: e sempre distinta dall’amministrazione e dalla direzione dei musei principali 9.
Solo molto di recente la Spagna ha collegato alcuni musei alle sue Soprintendenze.
In Italia, invece, l’istituzione dominante è la Soprintendenza, la quale
è responsabile sia del territorio sia dei musei, non importa se grandi o piccoli, che si trovano nello stesso territorio di competenza.
Il museo, quindi, senza essere ricordato come tale nella legge 1089/39
viene a costituire uno strumento della Soprintendenza, la quale si organizza
in funzione di una effettiva efficacia della sua azione di tutela, sfruttando
tutti gli strumenti presenti nella propria disponibilità. E quindi anche i mu-
(7) A. SCHNAPP, Storia dell’archeologia, Torino 1995 (trad. ital.); J. MALINA, Z. VASICEK,
Archeologia. Storia, problemi, metodi, Milano 1997.
(8) G. PUCCI, Il passato prossimo, Roma 1993.
(9) L. BOBBIO, Le politiche dei Beni Culturali in Europa, Bologna 1992.
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sei: quelli esistenti e quelli dei quali propone una nuova istituzione.
Proprio in quanto strumenti organizzativi, i musei sono ricordati, come
si è anticipato, nel D. P. R. 805 del 1975: la cui previsione si rivolge appunto
all’organizzazione dell’allora neonato Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, gemmato dal Ministero della Pubblica Istruzione e da quello degli
Interni, limitatamente agli archivi. E, quindi, i musei archeologici sono menzionati fra le competenze formali delle Soprintendenze Archeologiche, insieme
agli scavi. In tal modo viene sancito, per la prima volta a quanto mi consta in un
testo di legge, questa particolarità italiana, dei musei non separati dalle Soprintendenze, ma anch’essi strumentali, come appunto gli scavi, alla tutela.
Il D.P.R. 805 nomina espressamente altri tre musei archeologici: il
Museo Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini a Roma; il Museo Egizio di
Torino; il Museo Nazionale di Arte Orientale a Roma. Questi istituti vengono, coerentemente, istituiti in Soprintendenze Speciali: rimane quindi confermata la preminenza, sia pure dichiarativa, della Soprintendenza. I compiti
di tali Soprintendenze Speciali sono, infatti, duplici: curare sia i rispettivi
musei sia le eventuali procedure derivanti dall’applicazione della legge 1089/
39 nei riguardi di materiali, o di situazioni, afferenti allo specialistico campo
di competenza.
Per i Musei Egizio e di Arte Orientale applicazioni del genere riguardano: importazione ed esportazione; acquisti e donazioni; valutazioni e vincoli di collezioni private; perizie giudiziarie. Più articolato il ruolo della Soprintendenza Speciale del Museo Pigorini, in specie sul versante preistorico,
in quanto quello etnografico è assimilabile a quello degli altri due musei. La
Soprintendenza Speciale può, infatti, realizzare interventi di scavo in situazioni di competenza sull’intero territorio nazionale, previo accordo con la
Soprintendenza locale. In quest’ultimo caso, ritorna lo stretto collegamento
tra ufficio, museo e territorio, sia pure nella definita accezione cronologica e
culturale di competenza.
È forse da spendere qualche parola sulle origini di queste Soprintendenze Speciali. Le prime due derivano da patrimoni collezionistici e museali
originatisi, ovviamente, fuori dall’Italia: ma radicati nella tradizione culturale del nostro Paese, sia pure a seguito di differenti vicende.
La collezione egizia di Torino godeva di autonomia e rilevanza già prima dell’Unità, sotto la dinastia sabauda: forse anche perché il territorio di
quel Regno era piuttosto avaro di ritrovamenti archeologici consoni al gusto
e all’interesse allora dominanti. Il primo nucleo è costituito dalla collezione
Drovetti, acquistata dal re Carlo Felice nel 1824; ad esso si aggiungono i
risultati di numerose campagne di scavo compiute in Egitto dallo Schiaparelli,
ad iniziare dal 1903 10.
(10) M. PETRICIOLI, Archeologia e Mare Nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia 1898/1943, Roma 1990.
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Ben più recente è il Museo Nazionale di Arte Orientale, istituito nel
1957 a seguito di una convenzione tra il Ministero della Pubblica Istruzione
e l’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente (Is.M.E.O.), che conduceva, e
conduce, ripetute campagne di scavo in Oriente.
Il Museo Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini fu istituito nel 1875,
con lo scopo di documentare le civiltà italiche precedenti sia ai Greci sia ai
Romani: conformemente alla metodologia di quell’epoca, i materiali preistorici e protostorici venivano studiati anche raffrontandoli alle documentazioni etnografiche. Il Museo fu voluto, e diretto all’inizio, da Luigi Pigorini,
parmense (in onore del quale trasse l’attuale denominazione). Lo scopo originario del Museo era anche quello di valorizzare un campo di ricerca, che
rapidamente si espanse nelle cattedre universitarie, che si volle concorrenziale ed alternativo all’archeologia classica. Un ruolo di appoggio all’influsso
che Pigorini svolse nell’ambiente, sia della Direzione Generale sia delle Università, derivò dalla sua teoria interpretativa delle terremare, nelle quali, che
si volevano diffuse dalla pianura padana fino allo Scoglio del Tonno presso
Taranto, si prefigurava l’unificazione piemontese dell’Italia 11.
Quindi, per la sua specifica origine e per la forte impronta derivante
dalla personalità dominante del suo fondatore, la Soprintendenza Speciale
del Pigorini rappresenta un quid medium nel panorama istituzionale delle
Soprintendenze in Italia. Per il nostro argomento sembra importante sottolineare che il Museo venne, almeno all’origine, utilizzato come terminale di
una rete di conoscenze ed attività, anche di scavo, in atto su tutta l’estensione
del Paese: nel Museo si conservano, infatti, materiali di confronto provenienti da tutte le regioni italiane. Esso, quindi, se può considerarsi un Museo,
nazionale in quanto completo, della fase preistorica in Italia, fu tuttavia al
contempo partecipe della ricerca e dello scavo sui diversi territori: caratteristica non propria dei musei delle capitali europee, se non forse, ma senza
partecipazione diretta, del British Museum. Il paragone che pare più pertinente è costituito dal già ricordato Musée des Antiquités Nationales. In tempi recenti la Soprintendenza Speciale del Pigorini ha ridotto le proprie attività territoriali e rivolto maggiore attenzione alla gestione e valorizzazione delle
collezioni museali.
Ad oggi, la situazione credo sia da tutti conosciuta: a quanto si è progressivamente venuto strutturando nel tempo, e che finora si è rapidamente
schematizzato, in tempi recentissimi si sono apportati tentativi di riforma e
di rinnovamento.
Per quanto riguarda i tentativi di riforma, l’iniziativa è stata assunta
dall’allora (1995) Ministro per i Beni Culturali e Ambientali Antonio Paolucci.
(11) R. PERONI, Preistoria e protostoria. La vicenda degli studi in Italia, in AA. VV., Le
vie della preistoria, Roma 1992, pp. 9-70.
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Prima con un disegno di legge, successivamente con un decreto amministrativo, Paolucci ha proposto di rendere autonomi dalle rispettive Soprintendenze alcuni fra i maggiori musei d’arte. Nella prospettiva di queste proposte, ambedue non giunte a perfezione, il rendere autonomi Brera, Uffizi, le
Gallerie di Roma, Capodimonte avrebbe voluto costituire un primo passo,
che avrebbe dovuto proseguire con il Museo Archeologico Nazionale di Napoli e con il Museo Nazionale Romano. È quindi giustificato, in questa sede,
tentare di analizzare i moventi delle proposte Paolucci, che pure prendevano
le mosse dai musei d’arte.
Scontando una, non sempre accettata dagli amici storici dell’arte, separazione fra musei d’arte e tutela territoriale, un elemento forte nelle proposte Paolucci era costituita dal confronto con i principali musei, d’arte ma
non solo, quindi anche archeologici, europei e statunitensi. Confronto che,
per quanto riguarda snellezza di gestione, definizione dello staff tecnico di
direzione, valorizzazione e promozione, redditività economica, vede clamorosamente perdenti i musei italiani, a prescindere dall’interesse storico-culturale delle rispettive collezioni.
L’esito del confronto sembrava costituire ulteriore elemento di rafforzamento nel proporre l’autonomia anche a seguito della recentemente intervenuta emanazione della legge 4/93, meglio nota, credo, con il nome del suo
proponente, pro-tempore Ministro per i Beni Culturali e Ambientali, Alberto Ronchey. Per quanto ci riguarda, questa legge, acriticamente osannata dagli appartenenti alla stessa cerchia professionale, o corporazione, alla quale
appartiene il Ronchey, istituiva la possibilità di offrire in licitazione privata la
gestione dei cosiddetti servizi aggiuntivi all’interno degli istituti, cioè musei,
monumenti, scavi, archivi e biblioteche, del Ministero per i Beni Culturali e
Ambientali. L’unica innovazione della legge 4/93, oltre ad istituire un apposito ufficio presso il Gabinetto del Ministro, è che i proventi da ciò derivanti
sono destinati al bilancio del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali,
anziché, come in precedenza, al Ministero delle Finanze. Comunque, questa
legge ha inteso direzionare verso la produttività economica un ramo delle
attività degli istituti: obiettivo che è sicuramente condivisibile, anche se pare
attendere una più ampia sperimentazione.
Ritornando all’assunto principale, sia le proposte Paolucci sia la legge
4/93 hanno messo in moto una linea di tendenza, mirante a separare gli istituti che godono di maggior afflusso di visitatori, e quindi di più generale
interesse, da tutte le altre attività, sia di tutela territoriale sia di museografia
diffusa, le quali, invece, si svolgono per così dire nell’ombra, o che riescono
a raggiungere solamente cerchie localizzate di fruitori. È ben evidente, almeno nelle intenzioni del soprintendente Paolucci, che la tendenza avrebbe dovuto progressivamente allargarsi a tutto il sistema dei Beni Culturali italiano,
anche nelle zone più “ingrate”. Tale strategia appare molto meno sicura nelle
intenzioni del Ronchey, e dei suoi proseliti: tanto che ne è derivato, nella
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Bassanini 2 del 1997, un articolo che prevede la divisione fra i compiti di
tutela e quelli di valorizzazione. Al di dentro di queste astratte definizioni, si
legge con chiarezza che “tutela” significa l’attività territoriale che, imponendo vincoli e limitazioni alla trasformazione del territorio, non produce possibilità di reddito (anzi: è accusata di impedirle), mentre “valorizzazione” si
riferisce alla gestione ed all’indotto dei musei, dei monumenti, delle aree
archeologiche.
Si consuma, in questo articolo, l’ambiguità del termine “valorizzazione” che Ranuccio Bianchi Bandinelli aveva già denunciato nel 1974 12.
Tale pericolosa dicotomia si aggrava in quanto la Bassanini 2 prevede
che le attività di “valorizzazione” possono essere delegate dallo Stato alle
Regioni, Provincie e Comuni e da questi anche ai privati.
Ora è ben chiaro che la gestione e l’organizzazione dell’indotto, cioè
di tutto quanto può essere derivato dall’esistenza di un Bene Culturale fruito,
devono essere campo precipuo e riservato dell’iniziativa privata imprenditoriale. Credo che la lezione storica derivante dal crollo del Muro di Berlino
abbia finito di imporsi, o di convincere anche i più testardi statalisti che non
è né opportuno né conveniente che lo Stato vesta i panni di imprenditore
globalizzante. Ma da questo a spezzettare una procedura che non è completa, e neanche coerente, se non unisce la conoscenza alla tutela e alla valorizzazione ce ne corre.
Anche se viviamo in una fase istituzionale di modificazione profonda,
non sembra che le esperienze regionalistiche in Sicilia si debbano considerare
un modello. La strada che sembra preferibile è quella di riformare ab imis
fundamentis il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e le Soprintendenze, trasformandoli in snelli, e molto professionalizzati, uffici tecnici, a servizio di chiunque abbia interesse ai Beni Culturali, con il compito di predisporre progetti, mirati alla conoscenza alla tutela alla valorizzazione. Tali progetti
potrebbero poi essere realizzati da chiunque ne sia interessato (quindi anche le
Regioni, ma anche i privati), riservando ovviamente il controllo di qualità, sia in
corso d’opera sia al termine della realizzazione, alle riformate Soprintendenze.
Ulteriore elemento di cauta riflessione rispetto alle linee di tendenza
alle quali si è accennato è la conformazione, lo spessore storico, la capillare
diffusione del patrimonio culturale italiano, e quindi anche di quello archeologico. Separare per decreto “la polpa dall’osso” appare errore metodologico irreparabile, ed inversione ingiustificata rispetto ad una tradizione, culturale, scientifica e gestionale, che è sempre stata attenta ai valori di contesto,
anche territoriale. È questa tradizione che costituisce una particolarità italiana nel concerto europeo: e che non si vede per quale motivo deve essere
(12) R. BIANCHI BANDINELLI, AA. BB. AA., BB. CC. L’Italia storica e artistica allo sbaraglio,
Bari 1974.
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abbandonata per rincorrere modelli nati e sviluppati in contesti del tutto
differenti.
La forza di richiamo di questi modelli stranieri, il cui punto di supposta universale validità è nella presunta autonomia finanziaria, esercita il suo
profondo fascino sui nostri orecchianti. È stato, tuttavia, dimostrato da Pietro A. Valentino che nessuna istituzione museale, neanche il mitico
Metropolitan Museum of Arts di New York, riesce ad essere realmente autosufficiente dal punto di vista finanziario. Ciò è a dire che gli utili ricavati dal
ristorante, dal merchandising, dalla libreria (o bookshop) non sono sufficienti, da soli, a garantire il funzionamento dell’istituzione, e tanto meno il suo
ampliamento 13. Continuano, quindi, ad essere essenziali per mantenere il
generale livello di gestione raggiunto dal Metropolitan i contributi esterni:
lì, com’è noto, costituiti da doni e contributi da parte di privati.
Altra cosa, del tutto diversa, è modificare il vigente sistema di organizzazione, dei musei ma anche delle Soprintendenze. Si è appena accennato a
come si dovrebbero riformare gli obiettivi di queste ultime, in specie in un
quadro istituzionale che tende a ridurre il peso dello Stato centrale negli
interventi diretti.
«La riforma dell’assetto giuridico-istituzionale pare infatti solamente
una premessa necessaria, ma non sufficiente, per operare un mutamento effettivo del modo di porsi dei nostri istituti nei confronti del pubblico e per
migliorare l’utilizzo e la gestione economica delle risorse». Così sintetizza
una linea di un recente, approfondito ed utile saggio di Silvia Bagdadli 14.
La flessibilità di organizzazione di un museo è una seconda linea di
questo stesso saggio: e, infatti, «non esistono in linea di principio assetti migliori di altri nella gestione della cultura» così che «i diversi operatori – pubblico, privato e privato non profit – possono concorrere, ciascuno negli ambiti più propri, in una logica di partenariato piuttosto che di sostituzione, al
miglioramento effettivo dell’offerta. Tale considerazione assume rilevanza
anche maggiore in Italia, dove la disomogeneità del territorio suggerisce di
valutare caso per caso le forme più appropriate di gestione» 15.
La lunghezza della citazione significa, anche, una convinta adesione a
quanto argomentato dalla Bagdadli, in specie in quanto essa parte da un’esperienza e da una metodologia del tutto diverse da quelle possedute dal sottoscritto. E in questa consonanza, appare assai significativo il ricordare la “disomogeneità del territorio”.
La riserva che, tuttavia, sembra opportuno avanzare deriva dall’aver
(13) P.A. VALENTINO, Gli ingranaggi delle ‘Macchine del tempo’: la struttura economica
delle organizzazioni museali, in L’immagine e la memoria. Indagine sulla struttura del Museo
in Italia e nel mondo, a cura di P. A. Valentino, Roma 1992, pp. 127-156.
(14) S. BAGDADLI, Il Museo come azienda, Milano 1997, p. 207.
(15) Ibidem, p. 208.
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accentuato lo studio sull’istituto “museo”: proprio come in questo ciclo di
lezioni. Nel quale, l’aggiunta “parchi archeologici”, in fondo, rimanda comunque al museo, in quanto ambedue istituti che offrono sì conoscenza, ed
anche tutela, ma sono separati, più o meno rigidamente, dal contesto territoriale, almeno agli occhi della maggior parte dei visitatori.
A me pare che la tradizione italiana dell’archeologia territoriale, dei
contesti comprensoriali, non possa e non debba essere abbandonata, e neanche relegata in serie B di fronte alle meravigliose macchine dei vagheggiati
musei “all’americana”. Lo sforzo, di fantasia e di intelligenza, che occorre
compiere, anche per contribuire con specifiche particolarità alla costruzione
di un’Europa migliore dell’attuale e non livellatrice in basso, dev’essere rivolto a modernizzare la prassi e il metodo dell’archeologia italiana.
L’attenzione rivolta ai musei, anche quella condivisibile della Bagdadli
e di Valentino, dev’essere considerata esclusivamente un primo tassello di
presa di coscienza: al quale dev’essere, con sollecitudine, aggiunto il successivo che si rivolge al sistema delle attività sul territorio.
Il caso concreto di sperimentazione è costituito dalla recentemente
deliberata autonomia della Soprintendenza Archeologica di Pompei (legge n.
352 del 17.10.1997). Questa comprende in sé sia aree archeologiche di eccezionale richiamo turistico sia lembi di territorio ignorati da tutti, anche se
non dalla camorra.
L’esperimento da compiere dovrà riguardare il come far convivere, in
maniera attiva e produttiva, due sistemi di gestione del tutto differenti fra
loro: uno che si rivolge a “musei”, sia pure all’aperto; l’altro che si rivolge ad
un territorio storico non diverso, basilarmente, da un qualsiasi altro comprensorio italiano.
Tralasciamo di commentare le ambiguità, le incertezze, le parzialità
del testo della legge 352/97: a cominciare dalla persistenza di gestione tradizionale del personale, per finire, non a caso, con l’accentuazione che favorisce l’applicazione della legge 4/93. Viene previsto, tuttavia, uno strumento
che potrebbe funzionare nella direzione indicata: un comitato di consultazione con i sindaci della circoscrizione della Soprintendenza, al cui interno
scambiare informazioni e concordare progetti comuni.
L’attività futura della Soprintendenza di Pompei avrà l’onere di sperimentare un possibile, nuovo modello “all’italiana”, che caratterizzi, sulle specifiche reali del territorio storico, un altrimenti imperante modello di museo,
che si vorrebbe importare più o meno senza adattamenti dall’estero, e quindi
affatto adatto alla realtà italiana.
È prevedibile che il primo campo di studio che si porrà a Pompei riguarderà una possibile migliore organizzazione delle risorse professionali:
anche se non ci si nasconde il pesantissimo vincolo costituito dalla mancata
innovazione al riguardo contenuta nella legge 352/97. Ma, come è ben noto,
l’organizzazione è funzionale alla scelta degli obiettivi: i quali, coerentemen74
te a quanto fin qui detto, non potranno essere altro che collegare strettamente le punte emerse dell’iceberg alla parte sommersa. Fuor di metafora, i visitatori di Pompei dovranno essere almeno informati ed invogliati a visitare il
resto: da Ercolano a Stabia, dal museo di Boscoreale alla villa di Terzigno.
Così da dare concretezza alla particolarità italiana del territorio storico.
Per realizzare tutto ciò, contrario sia all’inveterata abitudine dei tour
operators di puntare solo sul sicuro, sia all’oggettiva carenza di ricettività ed
attrezzatura turistica d’accoglienza di quella zona, è necessario che il lavoro
sia svolto non dalla Soprintendenza. Quest’ultima dovrà assicurare conservazione e fruibilità del patrimonio, oltre al perfetto funzionamento di ogni
nodo della rete archeologica distesa sul territorio: ma non dovrà certo costruire alberghi, gestire ristoranti, affittare pullman, organizzare gruppi guidati, informare i potenziali fruitori da Tokyo a Los Angeles, da Toronto a
Sydney.
Un indotto del genere, oggi sicuramente utopico ma non per questo
impossibile, dovrebbe interessare sia gli Enti Locali sia i privati imprenditori:
e costituire la verifica concreta che un modello italiano di “museo”, latamente inteso, è possibile, tanto da non costringerci ad adottare ut sic quello dominante in Europa.
Non mi nascondo le difficoltà di un progetto del genere, in specie in
una realtà socio-culturale come quella dell’hinterland partenopeo. Ma questa reale difficoltà non mi riduce ad accontentarmi di un imprestito puro e
semplice: non solo siamo il Paese che per primo, in Europa, si è dato un
servizio pubblico per le Antichità e Belle Arti, ma è dal nostro territorio che
i musei europei si sono alimentati per gran parte dei rispettivi patrimoni.
È forse giunto il tempo di rinverdire questa ormai lontana preminenza.
PIER GIOVANNI GUZZO*
* Soprintendenza Archeologica di Pompei, Via Villa dei Misteri 2, 80045 Pompei,
Napoli.
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