mercoledì 12 settembre 2001

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mercoledì 12 settembre 2001
IL FOGLIO
REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE: LARGO CORSIA DEI SERVI 3 - 20122 - MILANO
ANNO VI NUMERO 251
Parla Berlusconi
“La libertà occidentale
deve essere protetta:
Italia al fianco degli Usa”
Il premier giudica il grande disordine
mondiale dopo gli attacchi al cuore
del mondo libero. Pena per le vittime
“Vi racconto l’ansia di Bush”
Roma. Silvio Berlusconi ieri nel primo pomeriggio non riusciva a staccare gli occhi
dalla Cnn, ad Arcore, e martoriava il telefono in contatto con Palazzo Chigi, con la Farnesina, con la Difesa e con alcune delle maggiori cancellerie europee, ma poi è salito su
quell’aereo che aspettava in pista e ha raggiunto Roma: “Provo una grande pena per le
vittime innocenti di New York e di Washington, per i passeggeri degli aerei-bomba, per
le paure e le umiliazioni inferte dal terrorismo più spietato a tutti noi, uomini liberi e
pacifici. Il World Trade Center è il simbolo
della libertà internazionale dei commerci,
una bandiera sulla linea d’orizzonte di una
delle città più libere e operose del mondo:
essere stati costretti ad assistere al crollo
delle Torri Gemelle è tremendo, una battaglia perduta la cui eco rimbomberà per una
o due generazioni. Lo stesso vale per il Pentagono, l’edificio in cui è custodita gran parte della nostra sicurezza, un architrave necessario all’ordine e all’equilibrio del mondo. Ma in questa guerra per la pace e per
l’ordine internazionale, e vorrei che questo
fosse chiaro a tutti in
Italia, noi siamo e
restiamo i più forti.
La libertà occidentale deve essere e sarà
protetta con il più
assoluto rigore, con
una fermezza che
non potrà mai dimenticare e perdonare: l’Italia è al
fianco degli Stati
Uniti e del presidente George W. Bush
nella caccia ai colSILVIO BERLUSCONI
pevoli di questo immane disastro, nell’identificazione delle responsabilità a qualunque livello esse si collochino”.
Berlusconi sa essere freddo, ma non nasconde le emozioni sotto la maschera della
razionalità. Dice che “l’amministrazione
americana vive da tempo sotto la cappa di
piombo di una strana inquietudine per l’attività degli Stati-canaglia, i rough-States, e il
presidente Bush, con parole ferme e severe,
trasmetteva quest’ansia agli alleati e a noi
stessi, nelle riunioni del G8 e nel successivo, caloroso incontro di Roma. Sotto l’ottimismo americano, questa straordinaria manifestazione della coscienza civile di quella
grande società, fermentava una preoccupazione, evidentemente suffragata dalle istituzioni preposte all’informazione e alla sicurezza. Non è affatto un caso se, a partire
dalla campagna elettorale repubblicana
per finire con i primi cento giorni della presidenza eletta, l’obiettivo dichiarato è stato
lo ‘scudo’, l’approntamento di un sistema di
tutela collettiva contro la proliferazione terroristica di armamenti e altri mezzi e piani
di offesa. Negli ultimi dieci anni, quelli che
ci separano dal crollo del muro di Berlino,
tutto è cambiato, e la grande questione globale che abbiamo di fronte sta nel come difendersi in un’epoca in cui l’equilibrio mondiale non è più fondato sul bilanciamento
bipolare della guerra fredda; come garantire la sicurezza dell’Occidente, che è poi la
premessa della pace e del massimo livello
realizzabile di giustizia nel mondo intero”.
“Anche i sordi ora devono ascoltare”
Berlusconi conosce le resistenze e le
inerzie burocratiche frapposte a una piena
assunzione di responsabilità in Occidente.
Non desidera alimentare alcuna polemica,
ma dice con l’aria di chi fa sul serio: “Ora
che si è visto quali ferite può aprire nel corpo della grande democrazia americana, e
dunque nel cuore del mondo libero, il terrorismo sponsorizzato dagli Stati-canaglia,
anche i sordi cominceranno a intendere, anche i ciechi a vedere. Almeno lo spero, e
non risparmierò alcuno sforzo, con Renato
Ruggiero e Antonio Martino, perché l’Europa faccia suo fino in fondo l’impegno comune a difendere a ogni costo la sicurezza dei
cittadini. Questa sicurezza è impossibile in
un mondo in cui la pace non sia protetta
dall’intelligenza degli uomini e dalla forza
dei giusti: questo è il vero problema”.
Si coglie nel paese un forte disorientamento. La gente sa che è difficile difendersi dalla combinazione del terrorismo di Stato e del fanatismo fondamentalista, dall’uso
infernale del dottrinarismo religioso. Ma
che i kamikaze potessero osare fino a quel
punto era imprevedibile, era fino a ieri pura fantascienza. “E’ così - ci dice Berlusconi
- tuttavia sarebbe assurdo disperare, bisogna sapere che ce la faremo, come ha detto
il presidente Ciampi. L’America ieri è sembrata come non mai fragile, vulnerabile, ma
chi la conosce bene sa quali siano le risorse civili, di unità e solidarietà politica, che
la tengono insieme da oltre due secoli. Sappiamo che alla lunga il coraggio dei giusti,
la ricchezza intellettuale e scientifica racchiusa nelle teconologie, e una giusta politica di rigore contro il terrorismo, avrà partita vinta. Voglio che gli italiani questo lo
tengano a mente, nel loro intimo”.
quotidiano
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DIRETTORE GIULIANO FERRARA
La Giornata
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In Italia
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Nel mondo
CIAMPI AGLI STATI UNITI: “L’ITALIA
IN LUTTO E’ AL VOSTRO FIANCO”. Il presidente della Repubblica ha invitato la “comunità internazionale a rispondere compatta a questi atti esecrandi”. Silvio Berlusconi a Bush: “Sono sconvolto, dobbiamo
lottare contro questi mostruosi criminali,
che hanno dimostrato uno spregio vile e
brutale della vita umana”. Il Parlamento ha
sospeso i lavori, al ministero dell’Interno si
è riunito il Comitato nazionale per l’ordine
pubblico, mentre la Farnesina ha allertato
l’unità di crisi. Ieri è stato convocato il Consiglio dei ministri, oggi il governo riferirà
alla Camera. Francesco Rutelli: “L’Ulivo
esprime solidarietà e amicizia verso il popolo e la democrazia degli Stati Uniti”. Renato Ruggiero, ministro degli Esteri: “E’
una grande tragedia, una pagina della storia del mondo che cambia”. Il ministro della Difesa, Antonio Martino: “Adotteremo
misure per garantire la sicurezza dei cittadini delle sedi diplomatiche e delle infrastrutture militari”. Il vicepremier Gianfranco Fini: “C’è un codice d’allarme intermedio negli obiettivi sensibili che potrebbero essere sottoposti ad attacchi in Italia”.
Giorgio La Malfa, segretario del Pri: “Una
dichiarazione di guerra”. I Ds hanno annullato il confronto tra i candidati per organizzare un corteo contro il terrorismo.
Stato di allerta nelle basi Nato e negli aeroporti: l’Alitalia ha deciso di far rientrare
i voli in partenza per gli Usa, mentre quattro aerei sono stati fatti atterrare in Canada. Eurocontrol, la struttura che da Bruxelles coordina il traffico aereo in Europa, ha
vietato il decollo di tutti i voli in partenza
per gli Stati Uniti. Rafforzate le misure di
sicurezza nell’ambasciata americana a Roma e nel consolato a Milano. Giuliano Amato dice: “A tanto non arriverebbe neppure
la fantasia del cinema”.
ATTACCO TERRORISTICO AGLI USA:
DISTRUTTO IL WORLD TRADE CENTER,
colpito il Pentagono. La polizia di New
York: “Migliaia di morti”. Ieri mattina, alle
9, un Boeing 767 delle American Airlines dirottato a Boston si è schiantato contro una
delle Torri Gemelle. Dopo 18 minuti, un secondo aereo, sempre dirottato a Boston, ha
centrato l’altra. Un’esplosione ha fatto crollare prima un grattacielo e poi l’altro. A Washington, intanto, un terzo aereo si è schiantato su una pista di atterraggio del Pentagono: distrutto un centro logistico dell’esercito. Più tardi un quarto aereo, partito da
Newark e diretto a San Francisco, è precipitato a Pittsburgh, in Pennsylvania. Panico
in tutti gli Stati Uniti: evacuata Manhattan,
sgomberati la Casa Bianca, il Dipartimento
di Stato, tutti i palazzi governativi e decine
di grattacieli. Bloccato il traffico aereo e ferroviario. Chiuse le frontiere con Canada e
Messico. Ieri sera mancava ancora una stima attendibile sul numero dei morti e dei
feriti: nel World Trade Center lavorano più
di 50 mila persone, sui primi due aerei dirottati c’erano a bordo 165 passeggeri. Rudolf Giuliani, sindaco di New York: “Il numero delle vittime è enorme”. Migliaia di
persone ricoverate negli ospedali di New
York. “Manca sangue”, dicono i medici.
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Unicredit: “No a Commerzbank”. La banca italiana si è ritirata dalle trattative per la
fusione: “Investimento troppo rischioso”.
Giulio Tremonti, ministro dell’Economia:
“Sono contro la Tobin Tax”.
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Il sindaco di Pozzuoli: “Non siamo pronti al
vertice Nato, l’organizzazione è a zero per
colpa del governo che ci ha avvisati troppo
tardi”. Rosa Russo Iervolino, sindaco di Napoli: “Non me la sento di parlare del vertice dopo quello che è successo in Usa”.
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G8, interrogato il carabiniere che sparò a
Carlo Giuliani. “Ho agito per difendere la
mia vita e quella del mio commilitone” ha
detto Mario Placanica dopo il colloquio con
il pm Silvio Franz. Donato Bruno, presidente del comitato d’indagine parlamentare: “Il
capo della polizia non ha responsabilità”.
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Si dimette Lorenzo Pellicioli, presidente
del Cda di Seat Pagine Gialle.
La7 come la Cnn: diventerà la prima rete
italiana interamente dedicata alle notizie.
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George Bush: “E’ una tragedia nazionale”.
Il presidente degli Stati Uniti, ieri mattina
in Florida, ha parlato in televisione pochi
minuti dopo l’attacco al World Trade Center. Poi ha preso l’Air Force One diretto in
Louisiana. Più tardi ha detto: “Prenderemo
i responsabili”. Colin Powell, in visita a Lima, è immediatamente ripartito per Washington: “Lo spirito della democrazia non
morirà mai, i terroristi non distruggeranno
le nostre convinzioni”. Il generale Wesley
Clark: “Solo Bin Laden è capace di organizzare un attacco simile”. George Robertson,
segretario della Nato: “Serve un fronte
mondiale contro il terrorismo”. Vladimir
Putin: “Piena solidarietà agli Stati Uniti”.
Romano Prodi: “Sono inorridito”. Giovanni
Paolo II: “Un attacco inumano”.
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I talebani: “Osama Bin Laden non c’entra,
condanniamo gli attentati”. Lo ha detto
l’ambasciatore degli integralisti islamici in
Pakistan, Abdul Salam Zaif. Poco dopo l’attacco alle Torri Gemelle, una televisione di
Abu Dhabi ha annunciato una rivendicazione del Fronte democratico per la liberazione della Palestina. “Non è vero, non siamo stati noi”, ha smentito l’organizzazione
palestinese. Yasser Arafat: “Sono scioccato,
condanno fermamente gli attentati”. La
Jihad: “Washington paga il prezzo della sua
politica in Medio Oriente”. Migliaia di palestinesi in festa a Ramallah e Gerusalemme
est: “A morte gli Stati Uniti”. La Giordania:
“Un vile attacco, una tragedia inaudita”. Eli
Camon, esperto israeliano di terrorismo:
“C’è stata una grande falla nel lavoro dei
servizi segreti americani”.
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Sirchia: “Esami per i medici ogni cinque o
dieci anni”. Secondo la proposta del ministro della Salute, “chi non si aggiorna non
potrà più lavorare”.
Crollano le borse europee. Milano e Parigi
hanno perso oltre il 7 per cento, Francoforte più del 6, Londra oltre il 5. Chiusa Wall
Street. Su il prezzo del petrolio.
La Giornata è realizzata in collaborazione con Chilometri
Questo numero è stato chiuso in redazione alle 19,45
Le parole di Barney
Con gli occhi sbarrati e pervasi da doloroso stupore di fronte alle immagini del
World Trade Center
e del Pentagono, non
possiamo tuttavia
non chiederci, per
scorrettezza, cosa ne
avrebbe pensato il povero Barney. Bene.
Il povero Barney, sarà stato il Mac Callan,
avrebbe forse pensato: a quel pecoraio di
Bin Laden, in mezzo alle sue montagne,
mai e poi mai sarebbe venuto in mente di
combinare un simile casino se qualche
Totally unnecessary production del cazzo
non l’avesse menata e rimenata, una settimana sì e quell’altra pure, sui grattacieli messi a fuoco, frantumati e fatti
esplodere da coglioni del genere di Bruce Willis. L’idea gli dev’essere venuta così. Adesso, e senza con ciò voler dare per
forza ragione a quelle cassandre di Baget
Bozzo e di Guzzanti, una cosa va detta.
Che se quelli della Cia acchiappano Bin
il pecoraio col suo gruppazzo di amici e li
portano una mezz’oretta nella caserma di
Bolzaneto, certo che neanche questo andrebbe mai fatto, ma bisognerebbe anche
ammettere che un po’ se la sono andata a
cercare.
S come Sacco: “Ho un
sacco da fare”. (p. 260)
S come Sempre, come
Scherzare: “Sempre a
scherzare”. (p. 56)
S come Solo: “Solo non è
la parola”. (p. 322)
S come Smettere: “Se
proprio non riesci a smettere vai almeno a fumare”. (p. 174)
S come Sempre, come Sono, S come Stato, S come Spaventosa: “ Sono sempre stato
una spaventosa testa di cazzo”. (p. 324)
S come Set: “Risultato, crisi di pianto e
fuga dal set”. (p. 379)
S come Sparì: “Un pomeriggio sparì per
tre ore”. (p. 168)
S come Se, come Settantun: “Se fosse vivo… avrebbe settantun anni”. (p. 134)
S come Soldo: “Paga tu il conto, non ho
un soldo”. (p. 122)
S come Svolgono, come Supposta: “Le interviste si svolgono in una supposta biblioteca”. (p. 303)
S come Seduta, come Sfilata: “Si è seduta
sul bordo del letto e si è sfilata le mutandine”. (p. 209)
S come Solo, come Sbattermi: “Vorresti
solo sbattermi fuori a calci”. (p. 85)
S come Sera: “Una sera di queste”. (p. 91)
MERCOLEDÌ 12 SETTEMBRE 2001 - L.1500
Foggy Bottom
Attacco all’America
La Jihad dei cieli
Sconcerto e prima analisi
dell’intelligence americana
(e israeliana) sugli attentati
Cnn, NY One e Fox news
raccontano in diretta tv
un giorno sotto assedio
Il piano aereo di Bin Laden
e le (deboli) smentite dei talebani
Come cresce una rete terrorista
A Foggy Bottom hanno visto alla Cnn il primo aereo finire contro la prima delle torri
gemelle di New York. Poi hanno udito un
botto dalle parti del Pentagono: un terzo aereo. Infine un’esplosione sotto il palazzo del
Dipartimento di Stato. Morti, feriti, fumo a
New York e a Washington. Anche Casa Bianca e Tesoro evacuati. La gente scappava dagli uffici. Qualcuno nella sala operativa nei
sotterranei di Foggy Bottom ha detto: “Questa è la Pearl Harbor del 2000”. Il sottosegretario Armitage ha informato nei dettagli il
generale Colin Powell, in viaggio in Sud
America. La prima accusa, inevitabile, convincente, logica, è stata rivolta dall’intelligence contro Osama Bin Laden e i suoi. Da
mesi i servizi segreti sapevano che il superterrorista si riorganizzava, soprattutto in Libano e in Palestina. Ma nessuno alla Cia, alla Dia, al Pentagono immaginava un’azione
così criminale e perfetta nella sua tecnica.
L’intelligence americana, e occidentale, ha
fallito in pieno. Solo il Mossad, nelle settimane scorse, avvertiva della possibile esportazione in Occidente del terrorismo medioorientale. Secondo i calcoli degli esperti di
intelligence almeno 200 persone addestrate
hanno partecipato all’operazione militare
contro gli Stati Uniti. Come sono sfuggiti ai
controlli? Questo è l’interrogativo che George W. Bush ha posto a George Tenet della Cia
e ai generali del Pentagono. L’America si interroga sulle responsabilità della mancata
prevenzione. “Ma come dopo Pearl Harbor
l’America si riorganizzerà e vincerà”, dicono
i commentatori militari alla tv. In serata il
Pentagono ha attivato i piani di intervento
contro l’Afghanistan per colpire Bin Laden.
Ma chissà quando l’azione sarà decisa. Arrivano le prime dettagliate analisi da Israele.
Si accenna al coinvolgimento di una potenza
straniera, protettrice del terrorismo islamico, alla complicità di ambasciate a Washington e New York, di kamikaze addestrati alla
guida di aerei civili.
New York. America under attack, ci mette un po’ anche la Cnn a decidere di piazzare uno dei suoi famosi occhielli, ma come
vuoi chiamarlo se non così quel che ti passa davanti agli occhi. L’aereo si butta sul tetto della Torre di nord, sono le otto e quarantadue minuti, sono entrati già quasi tutti negli uffici. Nessuno capisce niente. Alle
nove arriva il secondo aereo, e si infila nel
mezzo della Torre di sud, come un coltello
nella torta. Il fumo comincia ad allargarsi a
fungo, erano già partiti i primi ascensori per
il piano 107, piattaforma di osservazione, la
vista più bella della città. America sotto attacco, nessuno ha più dubbi, quando la Cnn
inquadra il Pentagono a Washington, un buco al centro, fumo che esce anche da lì. La
confusione sotto le Torri è terribile, soffocano i vigili del fuoco, poi la macchina dei
soccorsi parte, ma lentamente. Cinquantamila persone almeno stanno dentro e le vedi da lontano, macchie che sventolano vestiti come richiesta di aiuto. Il giornalista
della Cnn riesce a fare una telefonata in
uno dei cinquecento uffici, non si capisce il
nome, e quello dall’altra parte risponde
“stiamo morendo”. Le torri crollano, prima
una, mezz’ora dopo l’altra. Si sfarinano, si
fumano come una sigaretta, non sembra terribile, quando fanno esplodere vecchi edifici fa lo stesso effetto. Non ci sono più, le
due torri che si vedevano quasi da qualunque parte di Manhattan, di Brooklyn, del
New Jersey, belle e sfrontate, le più alte anche quando furono superate dal grattacielo
Sears di Chicago. C’è una libreria Rizzoli, le
palme nella caffetteria, il parcheggio e la
fermata del metrò che furono colpiti nell’altro attentato, quello del ’93. Se sei in grana vai al Windows on the world, finestre sul
mondo, ristorante, e soprattutto buon cocktail bar, sempre al piano 107. Vengono i parenti, imprechi un po’, poi ce li porti. Non ce
li porti più.
George Bush era a parlare in una scuola
in Florida, dice due parole, sembra un attacco terroristico, risponderemo, e parte.
Tutti dicono che va a New York, e la cronista
di Cnn ogni tanto dice che dovrebbe atterrare da un momento all’altro, ma non è così.
Chiudono gli aeroporti, i ponti e i tunnel che
portano in città, staccano le comunicazioni
telefoniche con l’estero, il Bellevue Hospital, poco lontano, diventa il quartier generale di soccorso. Il dottor Steven Stern sta invece al St. Vincent Hospital nel Village, dice
che “stanno arrivando centinaia di persone
bruciate dalla testa ai piedi”. Un altro testimone, cronista della Reuter, spiega che tutta lower Manhattan è ricoperta di polvere
fumosa, due centimetri almeno. Non si riesce a capire quanta gente riesce a uscire viva e con i suoi piedi, quanta esce in barella,
a quante persone i soccorsi sono riusciti ad
arrivare. Poche, dice l’inviata di NY One, la
televisione locale, non possono entrare, dopo il crollo il pericolo vero, per i vivi, è diventata la fuga di gas. Si sa che un aereo è
un 767 delle American Airlines, in viaggio
da Boston a Los Angeles, l’altro un United,
era partito da Washington e doveva andare
a Los Angeles, sono le due compagnie più
importanti del paese. Un altro American
Airlines è caduto sul Pentagono, cominciano ad arrivare notizie confuse di altri aerei
scomparsi dal controllo delle città di partenza e arrivo. Cinque, sei, uno di sicuro si
schianta in un bosco vicino a Pittsburgh, andava da Newark a San Francisco, tutti dicono che è stato il pilota a ribellarsi, ai sequestratori, che è riuscito a schiantarsi lì invece
che su qualche obiettivo. Altri dicono che
sono stati caccia ad abbatterlo.
Milano. Uno degli innumerevoli piani che
i Servizi segreti di mezzo mondo hanno negli
ultimi mesi attribuito a Osama bin Laden, lo
sceicco terrorista che opera nascosto nell’Afghanistan dei talebani, prevedeva il dirottamento di sette aerei passeggeri da far precipitare come bombe devastanti sulle città
americane. Ieri quella che a molti poteva
sembrare solo una leggenda nera, una folle
teoria, è diventata realtà con la spaventosa offensiva terroristica lanciata contro gli Stati
Uniti. Il primo obiettivo colpito dai kamikaze
islamici (qualunque sia la loro sigla) sono state le Torri Gemelle di New York. Un gesto di
alto significato simbolico, tanto più che nel
1993 i due grattacieli erano stati colpiti da un
altro grave attentato, che segnò l’inizio della
nuova stagione terroristica islamica dopo la
fine della Guerra fredda. La cellula di fanatici responsabile dell’attentato di allora fu presto scoperta. Tra i condannati all’ergastolo c’è
lo sceicco cieco Omar Abdel Rahman.
Da tempo residente a New York, Rahman
era il faro spirituale della Jamaa Islamjia,
l’organizzazione terroristica egiziana che insidia il regime del presidente Hosni Mubarak. Nel 1995 venne poi arrestato in Pakistan
il vero capo operativo dell’attentato al World
Trade Center, Ramzi Yousef, condannato a
240 anni di carcere. Yousef, di origini palestinesi, si è fatto le ossa in Afghanistan durante
la lotta dei mujaheddin contro l’invasore sovietico negli anni Ottanta. In quegli anni i volontari della Jihad
erano coordinati da
Osama bin Laden, allora un semisconosciuto saudita, devoto
ad Allah e ricco di famiglia. Fu proprio
Bin Laden a colpire i
primi obiettivi statunitensi nei paesi del
Golfo durante l’intervento Onu in Somalia. Non è chiaro se
la sua organizzazione
Al Qaida (la rete) fosOSAMA BIN LADEN
se già coinvolta nell’attacco alle Torri
Gemelle del ’93. Ma, intervistato, Bin Laden
ha sempre difeso Yousef, considerandolo un
mujahed, un combattente per la libertà. L’unica cosa certa è che Bin Laden in quegli anni aveva stretti legami con la galassia del fondamentalismo che cova nelle università del
Cairo. Il suo braccio destro, con cui ha fondato il Fronte islamico contro gli ebrei e i crociati (i cristiani), si chiama Ayman Al Zawahiri ed è stato condannato a morte nel suo paese in quanto esponente terrorista. Dall’Afghanistan all’Egitto. Il salto di qualità Bin Laden lo compie con gli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nell’estate
del 1998. Quattro islamici, accusati di far parte di al Qaida e di aver partecipato agli attentati, verranno in seguito arrestati in diversi paesi, processati e condannati recentemente all’ergastolo.
Al Pentagono, ieri “colpito”, da giorni studiano “la guerra selettiva” d’Israele contro i
terroristi di al-Fatha, Fplp, Jihad e Hamas.
Più di 30 terroristi sono stati uccisi dalle forze di difesa israeliane. Ma la lista compilata
dallo Shin Bet è lunga. L’elenco è stato perfezionato con la collaborazione degli “informatori palestinesi”. A Gaza, tra quelli di Hamas, è sotto tiro Omar Salah Shkhadeh, residente a Bet Hanon responsabile delle piccole cellule terroristiche. C’è poi Yusef Abuttin, ingegnere chimico e fabbricatore di bombe, Adnan Abu Roul, specialista del tritolo,
e Saad Obeid, comandante dell’ala militare
di Hamas. Nella West Bank c’è Ayman Khalawa, responsabile di Hamas a Nablus e uomo di contatto con i nuclei terroristi araboisraeliani, Qays Adwan, capo dei terroristi di
Tul Karem e Qalqilya, Omar Sada, Khald Tagesh, Naji Abayat e Hisham Sharabati operativi a Betlemme. Gli uomini più importanti della Jihad individuati sono Thabet Mardawi, Mohammad Twalbah nella West Bank,
e Mohammad al-Hindi, Muhammad Zatinci e
Hishan Abu Dib a Gaza. L’elenco dei terroristi qualche settimana fa è stato presentato a
Arafat perché li arrestasse. Ma il leader palestinese li protegge nei bunker di Gaza a di
Ramallah e li attiva quando gli fa comodo.
Arrivano a Foggy Bottom conferme continue sulla “carta siriana” di Yasser Arafat. In
un meeting con autorevoli membri dell’Autorità palestinese, Arafat, dopo l’incontro del
4 settembre scorso con Hosni Mubarak al
Cairo, ha confidato che la “carta siriana”
aveva avuto effetto sull’Egitto. Gli egiziani sono preoccupati per le mosse dell’Anp verso
Damasco e hanno promesso più “sostegno”
alla causa palestinese. L’ atteggiamento di
Mubarak, ha convinto Arafat dell’utilità di
appoggiarsi alla Siria per impaurire i paesi
arabi moderati. Il viaggio odierno di Arafat a
Damasco è stato preparato, dicono a Foggy
Bottom, con cura. Due senior official dell’Anp sono andati in date diverse nella capitale siriana. Prima Abu Mazen, dal 6 all’8
agosto, poi Nabil Sha’hjh, a Damasco dal 10
settembre. Abu Mazen ha incontrato Liwa
Asef Shawkat, cognato e confidente di Bashar Assad e capo della Sicurezza, il vice
presidente Khaddam e il ministro degli Esteri Farouk al-Shara. Il presidente siriano è
soddisfatto dei messaggi di Arafat. Nelle discussioni in Siria, secondo l’agenda di cui
Foggy Bottom è venuto a conoscenza, Arafat
si accorderà per continuare l’Intifada e il terrore. Damasco s’impegnerà a sostenere contro Israele l’escalation sul fronte nord appoggiando gli hezbollah se si accentuasse la
pressione militare sui palestinesi. I siriani
daranno il ruolo di ambasciata alla rappresentanza dell’Anp a Damasco. Il problema
per Arafat sarà tornare a casa da Damasco.
Gli israeliani potrebbero ritardargli parecchio il permesso di transito.
Rudy Giuliani fa il bilancio dei morti
Arriva Rudy Giuliani, sindaco durissimo
con il terrorismo, uno che Arafat, invitato
per l’Assemblea dell’Onu, non lo aveva fatto
sedere a teatro, perché il sindaco di New
York non invita un terrorista. Lo inquadrano, dice che il bilancio dei morti è enorme,
tremendo, che bisogna affrettare l’opera di
soccorso. Ci lavorano adesso diecimila uomini. Dagli ospedali arriva la richiesta di
sangue, tutte le emittenti lasciano l’appello
sullo schermo, che scorra. Da NY One chiedono alla popolazione di star calma, non c’è
pericolo, inutile fuggire da una zona all’altra
della città, complicando trasporti e soccorsi.
Le Nazioni Unite vengono evacuate, c’è un
minuto di paura per la scuola che sta lì accanto. Ma i bambini e i ragazzi sono tutti già
fuori.
La scena è tutta su New York, un aereo
che si avvicinava alla residenza presidenziale di Camp David sarebbe stato abbattuto. Ci sono morti nell’edificio del Pentagono,
non si sa quanti. Per New York, Fox news azzarda il numero: diecimila. Ma il bilancio è
parziale, potrebbe essere approssimato per
difetto. La Casa Bianca e tutti gli edifici federali di Washington sono stati evacuati, anche a Boston, Chicago, Los Angeles chiudono tutto. Si capisce che Bush non torna nella capitale, è scattato l’allarme rosso, lo portano alla fine nella base aerea militare della Louisiana. Parla all’una del pomeriggio,
sono passate già quattro ore, parla pochissimo, e che deve dire per una cosa che non
era mai successa, che nessuno pensava potesse succedere. E’ stata attaccata la libertà,
dice, la libertà verrà protetta. Chiusi tutti gli
spazi aerei, chiusa la frontiera con il Canada e con il Messico. Altro che cinema, inferni di cristallo, attacchi da Marte, abbiamo visto il nostro inferno.
Le Twin Towers e la svolta degli anni Novanta
Negli anni Novanta l’al Qaida ha stretto legami con le frange terroristiche islamiche di
mezzo mondo dall’Algeria alle Filippine, passando per il Kashmir, il Libano e la Palestina.
Con l’avvento al potere a Kabul dei fondamentalisti talebani le reclute di queste formazioni hanno trovato ospitalità e addestramento in Afghanistan. Oggi sono almeno 12
mila i volontari musulmani provenienti da
varie parti del mondo che combattono al fianco dei talebani. Di questi, almeno duemila sono arabi e direttamente dipendenti da Bin
Laden. Un serbatoio eccezionale per qualsiasi operazione terroristica, se si tiene conto
che Bin Laden è sempre stato accusato di
amare i piani devastanti e straordinari. Una
cellula di algerini collegata alla sua organizzazione è stata scoperta in Germania e Inghilterra, poco prima di un probabile attacco
al Parlamento europeo a Strasburgo e alla
metropolitana di Londra. Lo scorso anno, all’inizio dell’Intifada, un’altra cellula di Bin
Laden era riuscita quasi a colare a picco una
nave da guerra americana nel golfo di Aden.
Da valutare è anche l’infuenza crescente di
Bin Laden nel conflitto israelo-palestinese.
Nei campi profughi in Libano comandano gli
ex colonnelli di Arafat oramai fuori controllo e sospettati di aver stretto un patto d’acciaio con lo sceicco saudita. Il quale preferisce stringere alleanze con i gruppi palestinesi meno importanti e quindi maggiormente
controllabili. Anche se non si escludono suoi
contatti con Hamas, la Jihad islamica e i
Fronti di liberazione, l’ala sinistra del movimento palestinese, ultimamente molto attivi
militarmente contro gli israeliani. Il cerchio
si chiude con lo sceicco cieco, condannato all’ergastolo negli Usa. I suoi familiari hanno
scritto ai talebani suggerendo uno scambio
fra l’anziano leader spirituale e gli otto occidentali, fra cui due americane, arrestati a Kabul per proselitismo. Il ministro degli Esteri
afghano Wakil Ahmed Muttawakil non ha
escluso che se ne possa parlare. Ma solo alla
fine del processo contro gli infedeli.
Ieri i talebani, per bocca dell’ambasciatore in Pakistan, hanno condannato gli attacchi
terroristici contro gli Stati Uniti, mentre un
esponente di Kabul ha dichiarato che “Bin
Laden non può essere sospettato”, perché
“non avrebbe le capacità di realizzare una simile azione”. Prese di distanza che, al momento, appaiono una mossa tattica in attesa
della reazione americana.
ANNO VI NUMERO 251 - PAG 2
Minima immoralia
Dopo ottant’anni quella
del Pci-Pds-Ds è ancora una
questione sardo-piemontese
Agira. Due piemontesi e un sardo. Come al
solito. Fatta eccezione per Massimo D’Alema
che comunque ha sangue genovese, fatta eccezione per il borghese romano Walter Veltroni che però è di suo un’eccezione, ancora
una volta sardo-piemontese è il destino della segreteria di quello che fu il Pci-Pds o Ds
che dir si voglia. Il malinconico Piero Fassino, il pulcista Giovanni Berlinguer e il fichissimo Enrico Morando, se ne stanno ad attendere gli aùguri e gli auspici per rendere
onore alla conquista della poltrona guida del
post comunismo. Due piemontesi e un sardo
appunto. Come nelle migliori tradizioni: dal
torinese Palmiro Togliatti al sardo Antonio
Gramsci, all’altro sardo Enrico Berlinguer, al
ligure Alessandro Natta, giù per li rami per
arrivare alla peggiore delle tradizioni con il
il solito Achille Occhetto che è sì piemontese di risulta e quindi un non classificato geografico. E di non classificazione geografica
dovrebbe parlarsi nel caso di un’identità
quale quella sardo-piemontese se si pensa
che all’origine di tutto c’è l’usufrutto, quello
che i piemontesi hanno avuto dalle potenze
ostili all’Italia, e cioè Francia e Inghilterra,
per fottere il Mediterraneo cristiano e farne
del mare nostro (“dove Roma già passò”); un
corridoio di incanalamento per l’Oceano pacifico frammassone e capitalista. I piemontesi vennero scelti apposta dai banchieri perché i più innocui tra gli abitanti della Penisola. Espressione geografica dei poteri forti
dunque il marchio sardo-piemontese, punto
di non ritorno della parentesi anfibia che è
il potere, altrimenti non avrebbe spiegazione questa insana passione del Pci-Pds-Ds di
affidarsi a questa scheggia dell’identità nazionale se poi i soldi se li deve far dare dagli
emiliani, i miglioristi migliori allevarseli tra
Sicilia e Napoli (con tutti i Mimì Metalllurgici) e i voti, invece, i voti veri, procurarseli tra
i pugliesi di Gallipoli.
Eppure sempre sardo-piemontesi. Dalla
caserma alla fabbrica passando per i murales. Dimenticando l’irredenta Nizza. Con
Fassino che ha studiato dai gesuiti per ricavarne – a proposito del dibattito sulla scuola
privata – un pubblico elogio di Umberto Eco.
Con Berlinguer, novello garibaldino sbarcato a Marsala e perciò stimato da Andrea Camilleri. Con Morando, di gran lunga il più
chic dei tre e perciò stimato (e indicato) dalle uniche due vere primedonne: Giulio Andreotti e Carmen Llera Moravia.
“Chi di voi volantinava davanti al Lingotto?”
Soliti sardo-piemontesi allora, però antipopolo. Così come nella definizione che la
storiografia clandestina delle Due Sicilie ha
dato e che non possiamo non sottoscrivere se
si pensa che il liberal-azionismo, la cosidetta chiesa dell’etica, non ha prodotto altro che
una variante dei soviet in versione nuraghi
spazzolati di gianduia per costringere gli italiani alle vongole al complesso, quello di
sentirsi ultimi di fronte a cotanta speme. Nuraghi e gianduia per ingabbiare il proletariato al mito operaista della Torino progressiva, perché poi la favola del coriaceo sardo
si trasfigura sempre nella necessità di farsi
continentale, con lo stesso Antonio Gramsci
che l’Ordino Nuovo lo faceva sotto la Mole
non certo in groppa all’asino. Ecco, l’isola, se
così si può dire della Sardegna, l’isola dove
ognuno che deve diventare se stesso deve
farsi altro. Granatieri al Quirinale, in orbace
per il Duce, continentali dappertutto, oppure romani, come nel caso di Francesco Cossiga che non è del Pci-Pds-Ds però è intimo,
informato dei fatti, se così si può dire. L’isola
dunque – nota per l’immusonimento quanto
Run, nell’arcipelago delle Celebes, è nota al
mondo per via della noce moscata – nella storia del mare nostro non ha meritato altra attenzione che quella del turismo ideologico:
da Gramsci a Flavio Briatore. Nessuno va in
Sardegna per i sardi, ma per la natura, per le
discoteche, per le ville del Cav. Nessuno pensa di fare teoria della sarditudine eccetto
per i nativi costretti sempre al passo ulteriore: andare in continente.
Ascari della cultura dunque, ascari della
cultura piemontese poi per risultare – sgrossati dall’ottimo liceo classico di Togliatti –
più realisti del Re o meglio, più operaisti del
Re. Sempre un cincischiare con i murales,
dalla caserma alla fabbrica, per attendere
infine agli obblighi della sovranità savoiarda. Ma infine non è neppure vero che fanno
tutto loro, i cosidetti sardo-piemontesi. Quando nel gennaio del 2000, i Pci-Pds-Ds, fecero
il loro congresso a Torino, al Lingotto, e dunque in casa Fiat, l’intero loro stato maggiore
venne convocato da Gianni Agnelli per aver
risposta a un’antica domanda: “Chi di voi veniva a volantinare davanti ai miei cancelli?”.
Si sottindendeva “chi di voi veniva a vompeve i coglioni”. Cadde il silenzio tra i D’Alema,
i Mussi, i Veltroni e i Fassino, all’imbarazzo
fece seguito tutto un guardarsi negli occhi
degli altri fino a quando una voce strozzata
disse: “Era Giuliano Ferrara, quello”.
P. But.
OGGI – Nord: sereno o poco nuvoloso, con
parziali annuvolamenti sul Triveneto.
Centro e sud: sereno o poco nuvoloso con
temporanei addensamenti sul Lazio e sulle regioni tirreniche meridionali.
DOMANI – Nord: poco nuvoloso con tendenza a intensificazione della nuvolosità
a iniziare dalle Alpi e dal settore occidentale, deboli piogge in serata. Centro:
poco nuvoloso con tendenza ad aumento
della nuvolosità. Sud: poco nuvoloso.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 12 SETTEMBRE 2001
NÉ COI TALEBANI NÉ CON GLI AMERIKANI
Fra i no global c’è chi dice: “Chi semina vento, raccoglie tempesta”
Roma. “L’attacco al cuore dell’Impero”
non è più uno slogan, le Torri gemelle,
simbolo di quell’Impero, sono solo ricordo
di skyline. Chissà che pensano i “guerrieri sognatori” antiglobal, ora che devono riflettere su una realtà che batte di gran
lunga le parole scritte sugli striscioni antiG8. Una realtà non voluta, perché, ripetono tutti, la loro guerra all’America global
è sempre stata assolutamente non violenta. “Sembra un videogioco, è qualcosa di
incredibile, uno shock”, commenta Matteo
Jade delle Tute Bianche genovesi. “Questo
attacco agli Stati Uniti, materiale e non
simbolico, al contrario di quello che il movimento anti-global, che è pacifista nei riferimenti ideologici e nei metodi, ha mosso al G8, preoccupa adesso, mentre guardiamo queste immagini in televisione, e
inquieta per le conseguenze che produrrà.
Se infatti, come è probabile, l’attacco viene dal mondo arabo, i palestinesi rischiano di venire cancellati dalla cartina geografica. Forse adesso gli Stati Uniti capiranno che non sono così invulnerabili.
Non possono pensare di esportare le dinamiche di guerra senza conseguenze,
perché alla fine chi semina vento raccoglie tempesta. Nei paesi arabi predomina
una sensazione di impotenza, e questo atto, non condivisibile, certo, sempre se avrà
conferma l’ipotesi della matrice araba,
rappresenta la fine della mediazione. E’ il
colpo di coda della logica islamica che
sceglie la politica dei kamikaze, il risultato della disperazione di chi non ha prospettive di pace”.
“Un errore strategico”
Il deputato verde Paolo Cento, di fronte
all’apocalisse americana si dichiara “sgomento” e lancia un appello ai governi occidentali: “Bisogna mantenere un presidio
democratico forte. Questa è una guerra
non convenzionale che espropria ogni popolo della possibilità di dialogo. Questo attacco non fa fare passi avanti alla causa palestinese, ammesso, e io spero di no, che
dietro ci siano i palestinesi. E’ un errore
strategico, esplode una crisi già latente, si
rischia la militarizzazione del pianeta. L’attacco al cuore dell’impero americano fa sì
che gli Stati Uniti mostrino la loro vulnerabilità, ma non li fa certo andare definitivamente in crisi. Nessuno chiami in causa
la lotta tra global e antiglobal. Il movimento antiglobal deve sottolineare la sua tota-
IL RIEMPITIVO
vano ridicoli diventano plausibili. Ed è
strano che si sia pensato di colpire gli Stati Uniti e non, due mesi prima, Genova, dove c’erano tutti i Grandi. Questo atto tragicamente simbolico, poi, pone il problema
del sottile equilibrio tra sofferenza e disagio di un popolo, da una parte, e consenso
ai potenti, dall’altra. Finché i potenti mantengono un certo grado di consenso, un attentato è un boomerang per chi lo progetta. Ora i potenti devono rendersi conto che
non possono più fare a meno del consenso
delle popolazioni dei paesi in via di svi-
AGENZIA CONFINE. Maurizio Viroli, questa specie di Riccardo Cocciante della politologia, con inchiostro intinto nell’olio di ricino, ha scritto ieri un
fondino sulla Stampa a proposito del confine tra fascismo e antifascismo e su ciò
che separa chi “crede nella uguale dignità di ogni essere umano e nei principi
della democrazia costituzionale, e chi invece nelle razze superiori, nei popoli eletti e nei duci infallibili guidati dalla provvidenza”. A parte il fatto che Duce e Provvidenza vanno scritti in maiusculo, riguardo alle razze vorremmo ricordare a
cotanto moralista che la sinistra non ha
fatto altro che ammannire ai popoli non
eletti in presentabilità sociale, ben altre
superiorità, quella delle terrazze.
le distanza culturale e politica da questo tipo di atti”. Altro deputato, Franco Giordano, capogruppo di Rifondazione comunista, trova impressionante “vedere la più
grande potenza del mondo inerme. L’importante, ora, è escludere ogni rapporto
con la causa palestinese e, di conseguenza,
evitare che siano i palestinesi a subire ritorsioni. Questo non impedisce una netta
condanna degli attentatori, e, anzi, sarebbe il caso di domandarsi chi possa essere
in grado di dotarsi di mezzi come quelli
che hanno permesso questo massacro”.
Carlo Schenone, pacifista, uno dei coordinatori della Rete contro G8, ha due osservazioni da fare: “Con il senno di poi, i sistemi antimissile che per Genova sembra-
luppo”.
Daniele Farina, uno dei leader del centro sociale Leoncavallo, e consigliere comunale a Milano, insiste su questo punto:
“A caldo è un fatto che è difficile definire
con degli aggettivi. Sono momenti spaventosi durante i quali ci si rende conto che i
problemi relativi a un governo mondiale si
pongono con una forza tremenda e imprevedibile. Questi sono atti di guerra, il termine ‘terrorismo’ mi sembra oggi assolutamente insufficiente. I nostri gruppi, anche
a Genova, hanno sottolineato e dimostrato
che questa forma di governo globale è contestata da molti, che questo governo globale è incapace di affrontare i problemi. Ora
c’è da temere una escalation di cui è diffi-
di Pietrangelo Buttafuoco
cile prevedere gli sviluppi. Noi siamo pacifisti e ci auguriamo che questo non accada. ma i fatti di oggi avranno ripercussioni
anche sul summit della Nato, quello del 26
e 27 settembre”. Sergio Boccadutri, dei
Giovani comunisti, come tutti è scosso: “Sto
guardando New York via Internet, è spaventoso, è inaccettabile. Ora dare giudizi
che non siano scontati è impossibile. So
soltanto due cose. La prima è che c’è
un’impressionante quantità di vittime innocenti, e stragi di queste proporzioni sono, ripeto, inaccettabili quale che sia la rivendicazione politica. La seconda è che gli
obbiettivi sono stati altamente simbolici.
Questo è indubbio”.
La Pearl Harbor del terzo millennio
“Questa è la Pearl Harbor del terzo millenio”, dice Beppe Caccia, uno degli ideologi del movimento delle tute bianche. E si
augura che “alla nuova Pearl Harbor non
succeda una nuova guerra, che stavolta sarebbe una guerra atomica. Vedere Manhattan attaccata e distrutta come nei film, è
come vedere l’incubo del sogno americano.
Certo, qui si è di fronte a un nemico invisibile, impalpabile e per l’America prendere contromisure o rispondere in qualsiasi
modo sarà difficile. Quello che impressiona è la preparazione sofisticata e dispendiosa dell’attacco: siamo di fronte a gruppi
ricchissimi, dotati di persone preparate, di
coperture altissime. Insomma, questa non
è la nuova intifada palestinese, è molto di
più. L’ultima cosa che mi sento di dire è
che si aprono scenari nuovi e io non vorrei
che in questi scenari noi ci ritrovassimo di
fronte all’alternativa fra morire americani
e morire talebani”. Infine Piero Bernocchi,
leader dei Cobas, che chiede una dispensa:
“Preferisco non commentare, per l’evidente sproporzione tra i fatti e qualsiasi mia
opinione”.
IL MITO DEL BLACKOUT, DAGLI ANNI SETT ANT A A OGGI
Il sogno chirurgico di ogni “combattente”, colpire il cuore dell’Impero
olpire il cuore dell’Impero per dimostrarne la vulnerabilità, paralizzarne
C
il sistema nervoso centrale e al tempo
stesso fare di un gesto, di un atto il segno
apocalittico che possa parlare alla terra
intera: è questo l’estremo approdo della
logica terroristica, il sogno chirurgico dei
“combattenti” di ogni tempo e di ogni
bandiera. Cambiano gli attori, cambia di
volta in volta la coppia amico/nemico e il
contesto internazionale in cui lo scontro
si svolge ma la sostanza è la stessa: il terrore inteso come dissuasione del debole
al forte, del piccolo al grande, dell’impotente al potente.
I mandanti di ieri hanno di che essere
soddisfatti, tutti i record in materia sono
stati battuti. Il tempo e il lutto faranno dimenticare le migliaia di vittime: resteranno invece affidate all’eternità le immagini di grattacieli affastellati come castelli
di carta, del Pentagono, uno degli edifici
più sicuri al mondo, lambito dalle fiamme, di Wall Street chiusa e paralizzata,
conferma indiretta che il sistema nervoso
centrale esiste veramente. E più di tutte
parla l’immagine dell’Air Force One, simbolo e vettore dell’uomo più potente del-
la superpotenza, che gira su se stesso, costretto per ore a non atterrare perché il
suolo americano, nella sua storia mai violato da potenza straniera, non è considerato sicuro. E’ un remake della “Guerra
dei mondi nell’era digitale”, un “Independence Day” in cui la realtà ha superato
ogni possibile effetto speciale. E come un
inimmaginabile, spettrale effetto speciale
appare anche l’ebbra felicità con cui dal
Medio oriente all’Afghanistan si è applaudito al satana americano ferito e umiliato.
L’album di famiglia di questi terroristi
non ha nulla a che vedere con il gesto isolato e “morale” del regicidio di stampo
anarchico. Né con lo slogan pur sempre
politico – “colpirne uno per educarne cento”– coniato da Lenin dopo il fallimento
delle giornate di Mosca e messo in pratica
per allentare, erodere, a partire dalla periferia, le maglie del potere assoluto zarista. Qui vige piuttosto una filosofia opposta: colpirne cento, mille, dieci mila per
educarne uno. Prendere cioè un’anonima
folla, un intero popolo come bersaglio e
una pubblica opinione in ostaggio per piegare, inflettere una posizione politica. Nelle intenzioni dei mandanti non c’era certo
l’eliminazione fisica di George W. Bush o
dei massimi responsabili dell’amministrazione. Una logica quindi profondamente
diversa da quella che guidò gli irlandesi
dell’Ira nell’attentato riuscito contro Lord
Mountbatten o in quello mancato contro
l’allora primo ministro Margaret Thatcher;
da quella dell’operazione Ogro dell’Eta
contro Carrero Blanco, erede del generalissimo Franco, da quella stessa perseguita dalle Brigate rosse con il rapimento e
l’assassinio del presidente democristiano
Aldo Moro. In tutti questi casi i terroristi
volevano creare nel cuore del sistema di
potere un vuoto di cui credevano che sarebbe poi stato incolmabile. In tutti questi
casi i fatti si sono incaricati di smentire i
presupposti per così dire teorici: non solo
i sistemi complessi non hanno cuore ma
hanno anche una capacità endogena di ricostruire rapidamente i tessuti strappati e
darsi un nuovo baricentro. In Gran Bretagna, Spagna o Italia chi credeva di mettere a nudo il Re uccidendo il Re ha dovuto
cambiare rotta o rassegnarsi a uscire di
scena.
Questo terrorismo invece ha dalla sua la
forza terribile di potersi esimere da ogni
bilancio a posteriori: non c’è per così dire
un’analisi dei costi e dei benefici politici
dell’azione intrapresa. Se così fosse, l’estremismo e il terrorismo direttamente o
indirettamente ispirato dal fondamentalismo islamico sarebbe finito da tempo, per
esaurimento. La litania degli attentati
spettacolari contro le sedi delle potenze
occidentali in Medio Oriente è tanto lunga
quanto ripetitiva. E politicamente irrilevante. Poiché nessuno può razionalmente
sostenere che in quella regione tormentata abbia sortito un qualche effetto, altro
dal perpetuare le condizioni materiali della propria riproduzione.
L’uso massiccio di kamikaze, sconosciuto e condannato anche dai terrorismi d’origine europea, è la prova ultima di un fenomeno che agisce interamente sul terreno simbolico, sfuggendo a ogni approccio
della politica come razionalità. Se questa
è la forza della jiyad e dei vari Osama Bin
Laden, è anche il segno del loro limite. Attacchi come questi al massimo dimostrano
che neanche il paese più potente del mondo è al riparo dalla catastrofe, che non c’è
scudo stellare contro il grumo della follia.
Ma questo lo si sapeva.
IL SIMBOLO DEL POTERE ECONOMICO
Storia di due torri, emulate, superate e distrutte come a Babele
N
on erano il grattacielo più alto del
mondo, le Torri Gemelle del World
Trade Center di New York. Misurate al livello delle antenne, arrivavano a 535 metri, contro i 540 della Torre della televisione di Mosca. All’altezza del tetto, i loro 110
piani si spingevano a 411 metri, contro i
441 delle Sears Towers di Chicago, detentrici anche del record per il più alto piano
abitato (436 metri). E per quanto riguarda
infine il complesso della struttura architettonica, il primato tolto nel 1971 dalle
Twin Towers allo storico Empire State
Building (381 metri + 67 di antenna televisiva) non era duranto che fino al 1998, con
l’inaugurazione delle altre Twin Towers di
Kuala Lumpur in Malaysia: 452 metri, di
cui 34 di guglia decorativa, su progetto dell’argentino Cesar Pelli. Eppure, erano diventate lo stesso un simbolo. Non per gli
americani, il cui cuore in fondo continuava a battere per il vecchio Empire. L’Empire, nell’immaginario collettivo, aveva
permesso a New York di fare sua agli occhi del mondo questa simbologia di progresso che in effetti era stata inventata a
Chicago.
La storia dell’architettura ricorda che
risale al 1883 la costruzione della torre
della Chicago Home Insurance, il primo
grattacielo della storia, poi demolito nel
1927. Aggiunge che era stata l’invenzione
dell’ascensore, nel 1852, a renderne economica la gestione. E ci spiega che fu proprio una “Scuola di Chicago” architettonica, da non confondere con l’omonima
scuola economica, a inventare il metodo
per “sfidare il cielo”. Oltre i trenta piani,
infatti, l’abituale struttura in cemento armato alla base dell’edilizia contemporanea diventa troppo pesante, rischiando di
compromettere in modo imprevedibile sia
le falde acquifere, sia le strutture sotterranee realizzate dall’uomo: ferrovie metropolitane, fogne, cunicoli per la distribuzione del gas e dell’energia elettrica. La
pensata dei Chicago boys, allora, fu quella
di realizzare l’intera intelaiatura in ferro,
collocando l’una sull’altra le putrelle con
gru e paranchi, e poi imbullonandole per
fissarle a “castello”, secondo lo schema
dell’apertura di un cannocchiale. Le stesse putrelle hanno poi sezioni a doppia T,
cui le pareti prefabbricate andranno poi
unite con piastre imbullonate o saldate. E’
una soluzione che, fino ai 500 metri, assi-
cura una solidità notevole. Nel 1945, ad
esempio, un bombardiere B-25 che aveva
perso il controllo per colpa della nebbia
era andato a schiantarsi sul 79° piano dell’Empire, uccidendo 7 persone. Ma la
struttura aveva retto, consolidando la fama del palazzo come “gigante indistruttibile”. Né crolli di nessun altro tipo si erano mai verificati nel corso di tutti gli altri
incidenti che nel tempo avevano funestato i giganti edilizi del XX secolo: dall’altro
terribile attentato terrorista di integralisti
islamici che il 26 febbraio 1993 aveva colpito le stesse Twin Towers di New York,
provocando 6 morti; all’incendio della
PICCOLA POSTA
sfida con cui il magnate Walter Chrysler
volle assumersi il ruolo di gettare il guanto di sfida della Grande Mela all’altra metropoli che si ostinava a voler mantenere i
primati, nel tipo di edilizia che aveva inventato. Ma sfida chiama sfida, e l’Empire
fu la risposta immediata della General
Motors e del suo creatore, John Jacob Raskob, al rivale: progettato e costruito in appena 12 mesi tra l’ottobre del 1929 e l’ottobre del 1930, e inaugurato il primo maggio
1931, malgrado la sopravvenuta grande depressione, che costrinse la gestione dell’Empire a trasformare subito il palazzo in
un’attrazione turistica con tanto di bigliet-
Finita la creazione, il buon
Dio si mise le mani in tasca
e trovò un fondo di polvere e
sabbia: tirò fuori le mani e si strofinò i polpastrelli, facendo cadere una
pioggerella di granelli. Così si formò la
Norvegia e la sua miriade di isole, il paese in cui la promessa di mari e monti è
adempiuta. I norvegesi lo sanno e ne sono gelosi. Non si sognano nemmeno di
entrare nell’Unione europea. Gli dispiace solo per l’alcool: con l’Europa il Mo-
nopolio dei Vini e il semiproibizionismo
cadrebbero. Gli dispiace parecchio, se è
per questo. In cambio, hanno il petrolio.
I norvegesi che pensano che l’acquavite
sia un dono di Dio sono senz’altro più
numerosi di quelli che pensano che il
petrolio sia un dono di Dio. Ma il proibizionismo sul petrolio non viene in mente a nessuno. Ora il centrodestra ha quasi vinto le elezioni in Norvegia. Il fisco
laburista sembra troppo esoso, e gli immigrati non sono più visti così di buon
occhio. Il buon Dio è in pensiero per i
suoi norvegesi.
Nothwest Tower di Londra del gennaio
1996; a quello che nel novembre dello stesso anno provocò 40 morti e 81 feriti al grattacielo della Nathan Road di Hong Kong;
agli altri roghi di Bagkok e Giacarta del
1997, o della Torre Ostankino di Mosca del
27 agosto 2000. Eventi che vanno confrontati col modo in cui le Twin Towers sono
state non solo colpite e distrutte, ma addirittura fatte implodere su se stesse come
da manuale di un’agenzia di demolizioni.
Ma è una soluzione, quella dell’intelaiatura in ferro e della struttura a cannocchiale, che, se è solida, è però nel contempo costosissima. Economicamente giustificabile, dunque, solo in agglomerati urbani dove il costo del terreno sia molto
elevato. Oppure, dove ci sia chi per ragioni di prestigio sia disposto a non badare a
spese. E a New York, appunto, queste condizioni si verificavano tutte e due. Nel
1930 il Chrysler Building di New York, coi
suoi 319,43 metri, fu appunto il guanto di
to d’ingresso per far quadrare i conti, visto
che gran parte dei locali erano rimasti sfitti. Nel 1947, però, nella sfida fratricida tra
i magnati automobilstici new-yorkesi si
reinserì Chicago, con le Sears Towers. Nel
1950 l’Empire, spravvissuto al disastro aereo, si riprese il suo primato in modo un
po’ avventuroso, aggiungendosi l’antenna
tv. Ma, appunto, si trattava di un colosso ormai sempre più caratterizzato in senso turistico. Una Torre Eiffel un po’ più voluminosa, o una Statua della Libertà abitata.
Infine, nel 1971 erano arrivate le Twin
Towers. Non solo un nuovo record di altezza, sia pure infine superato, non solo
una nuova sfida architettonica col sistema
delle due torri allineate, ma anche un gigante “funzionale”. Non solo di rappresentanza, ma anche collegato, attraverso il
Centro commerciale mondiale, ai gangli
più vitali del sistema economico Usa.
Chissà: probabilmente è stato proprio
per questo collegamento simbolico con il
di Adriano Sofri
cuore stesso della potenza capitalista dell’Occidente che le Twin Towers sono diventate un bersaglio del risentimento islamico. Per un bizzarro destino, d’altronde,
come il passaggio dal progetto alla realizzazione dell’Empire era incappato con il
grande crollo del ’29, anche la partenza
delle Twin Towers fu inceppata dalla crisi
petrolifera del 1973. Cioè, l’inizio stesso
della “riscossa islamica” nel XX secolo.
Poi, tra quel primo rialzo dei prezzi del
greggio e la Pearl Harbor terrorista di ieri, è facile ricordare l’attentato del ’93. Ma
forse può indicare qualcosa anche l’altro
particolare che le Torri Gemelle siano state simbolicamente emulate nel ’98 in Malaysia proprio per l’iniziativa di un governo come quello di Mahatir Mohammed. Da
una parte, esaltatore della capacità “anche per un paese islamico” di divenire
una tigre si sviluppo, ovviamente tacendo
sulla “collaborazione” di una minoranza
cinese estesa al 33 per cento della popolazione. “Abbiamo realizzato le nostre Twin
Towers per mettere finalmente Kuala
Lumpur sulla carta del mondo, aveva detto. Dall’altra però, dopo la crisi asiatica,
anche alfiere di una teoria complottista,
secondo cui “occidentali ed ebrei” si erano messi d’accordo per impedire ai fedeli
in Allah di conquistarsi il loro posto nell’economia mondiale.
Emulate, però. Non imitate. Come ricordava il progetto dell’argentino Cesar Pelli,
la struttura a fuso e il disegno a stella a otto punte doveva simbolizzare “tipici valori islamici come l’unità, l’armonia, la stabilità e la razionalità”. Una puntualizzazione non del tutto casuale, se si pensa che
nella rivendicazione dell’Islam di essere
l’unico autentico monoteismo c’è anche
l’eredità di tutti gli anatemi biblici contro
i peccati di orgoglio dell’uomo e, prima fra
essi, la Torre di Babele. “E il Signore li disperse di là in tutto il mondo; perciò furono costretti a interrompere la costruzione
della città. La città fu chiamata Babele,
cioè confusione, perché fu lì che il Signore confuse la lingua degli uomini e li disperse in tutto il mondo”.
L’Islam moderato, diciamo così, questa
moderna Babele gemella degli infedeli si
è limitato a rifarla più alta, esorcizzandone l’empietà nella propria simbologia. L’Islam estremista, invece, l’ha fatta direttamente a pezzi.
Il nuovo piano di Sharon
L’esercito d’Israele accerchia
le centrali del terrorismo
Attacco negli Usa, palestinesi in festa
a Nablus. Come si muove Tsahal
Gerusalemme. Il multiplo attacco terroristico contro gli Stati Uniti è giunto mentre i mezzi corazzati israeliani stavano
compiendo importanti operazioni militari,
soprattutto a Jenin. Il premier Ariel Sharon, da giorni, cerca di fermare l’escalation degli attentati sul territorio dello Stato ebraico con iniziative dell’esercito. Le
operazioni di Tshal hanno registrato, nelle ultime settimane, un salto di qualità
passando dalle rappresaglie, con blitz nei
territori dell’Autorità nazionale palestinese tesi a eliminare postazioni e leader
avversari, ad azioni a più ampio respiro
che hanno l’obiettivo di porre il blocco intorno ai centri nevralgici dell’insurrezione
e alle basi dei terroristi per poi passare all’eliminazione dei centri di resistenza armata. Le prime avvisaglie della nuova tattica si sono avute due settimane fa a Beit
Jalla e sono confermate dall’accerchiamento di Jenin, nodo strategico attraverso
il quale gli Hezbollah libanesi e la Siria
fanno affluire armi ai palestinesi e alla base operativa dei guerriglieri del Fronte
popolare di liberazione della Palestina e
dei terroristi di Hamas e Jihad.
Ieri a Nablus migliaia di palestinesi festeggiavano. Arafat ha condannato duramente l’attacco negli Stati Uniti, ma Israele ha chiuso lo spazio aereo e teme nuovi
attentati dei gruppi terroristici contro
obiettivi di Gerusalemme. La strategia finora adottata è la base delle prossime iniziative di Tsahal. Tutto è pianificato da
tempo. Fin dal ritiro dalla Cisgiordania e
dalle prime concessioni territoriali all’Anp, lo Stato maggiore dell’esercito aveva messo a punto un piano per far fronte
alle peggiori minacce. Una delle opzioni
prevede, in caso di guerra totale, la riconquista di tutti i territori a ovest del Giordano mentre l’ipotesi più “morbida” impone la creazione di aree cuscinetto, a difesa del territorio israeliano, da creare
tramite la “cinturazione di sicurezza” dei
centri della resistenza palestinese. Il frastagliato territorio dell’Anp ben si presta
alla conduzione delle operazioni di guerriglia ma solo finché c’è libertà di movimento. Un intervento militare israeliano
ridurrebbe il territorio palestinese a una
serie di sacche isolate una dall’altra, nelle quali ogni resistenza sarebbe destinata
a essere sopraffatta dalla potenza e dalla
precisione delle armi di Tsahal. Tutte le
formazioni militari e paramilitari sono
consapevoli di questo rischio e non a caso
Yasser Arafat ha esercitato forti pressioni,
a livello internazionale, per ottenere il ritiro da Beit Jalla e centinaia di combattenti hanno cercato in tutti i modi di contrastare l’avanzata su Jenin. Dopo aver eliminato una trentina di leader militari avversari, Israele applica ora questa tattica
con l’obiettivo di indebolire gli arsenali
palestinesi.
La dottrina del deterrente nucleare
Le voci sui dissidi sorti tra Sharon e i
vertici militari per le operazioni in Cisgiordania servono a indurre i palestinesi
a cogliere l’ultima occasione per fermare
il terrorismo. Sharon intende sottolineare
che in Israele vi sono forti pressioni per
una soluzione militare sia perché le forze
armate non vogliono sottoporsi a una lunga campagna di logoramento sia perché i
Servizi hanno più volte sottolineato il rischio di un’esplosione ancor più grave della minaccia terroristica. Quanto è accaduto a New York e Washington conferma i rischi ai quali è esposto anche Israele, pur
tenendo conto che gli sforzi compiuti negli
ultimi anni nel controllo del traffico aereo
civile e nella difesa aerea hanno trasformato i cieli israeliani in un muro impenetrabile persino per gli ultraleggeri degli
Hezbollah.
Lo “scudo”, composto da missili Arrow
e Patriot, sarà presto integrato da armi laser a lunga portata ed è in grado di proteggere Israele da minacce missilistiche
costituite dagli Scud e dai vettori derivati
dai Nodong nordcoreani di Siria, Iraq,
Iran e Libia. I Servizi lavorano da sempre
in stato di massima allerta per il rischio di
attentati su vasta scala e possono contare
su un’ottima rete di informatori tra i palestinesi e in molti paesi arabi. Del resto, se
ci possono essere divergenze tra le valutazioni dei vertici militari e politici sulla
strategia contro l’Intifada, non ve ne sono
sulla dottrina d’impiego del deterrente nucleare (150 missili balistici e 200 testate)
contro gli attacchi condotti con armi di distruzione di massa o qualora fosse minacciata la sopravvivenza dello Stato.
IL FOGLIO quotidiano
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ISSN 1128 - 6164
ANNO VI NUMERO 251 - PAG 3
EDITORIALI
A brigante, brigante e mezzo
La questione fondamentale è la risposta: capire per decidere, e agire
L
a politica dice: capire, decidere,
agire. Dopo la grande tragedia
americana, dopo il delitto politico globale di cui almeno un paio di generazioni continueranno a parlare con
emozione e sconcerto, c’è sicuramente
bisogno di un’offensiva per la costruzione di un nuovo ordine internazionale, unica tutela possibile della libertà
civile nel nostro tempo. Per capire, bisogna sapere che senza la protezione
di uno Stato-canaglia e senza addestramenti sofisticati, uniti al parossismo fanatico del fondamentalismo kamikaze,
il bombardamento del cuore dell’Occidente non sarebbe mai stato possibile.
Il mondo si reggeva, fino all’89, sull’equilibrio del terrore e sui suoi successivi aggiustamenti: quella era una
struttura di formidabile tenuta della
nostra sicurezza collettiva. Da allora il
mondo è diventato un colabrodo. La fine del comunismo è stata giustamente
benedetta, ma il dissolvimento dell’equilibrio bipolare ha portato a conseguenze drammatiche, non ancora padroneggiate dall’Occidente nonostante
la guerra del Kosovo e la vittoria sul
carnaio dei Balcani, nonostante la custodia militare dell’Iraq di Saddam, nonostante i tentativi di contenere in ogni
continente, dal Caucaso alla Corea all’Iran, le tensioni telluriche capaci di
portare agli sviluppi da fantadramma
che sono divampati ieri a New York e a
Washington.
Ora basta. La cintura di protezione
del terrorismo va recisa di netto. Le
protezioni politiche e diplomatiche devono cadere. Non c’è alibi “no-global”
che possa costruire sulle diseguaglianze e le miserie del mondo una copertura di qualunque tipo a questi atti da
guerra mondiale guerreggiata. E va
messo in piedi un sistema di protezione
militare fondato sulla solidarietà politica dell’Occidente e sul raccordo, che
è possibile come dimostrano anche le
reazioni al dramma americano, con la
Russia e la Cina. L’Europa, e nel suo
piccolo l’Italia, devono schierarsi in
prima fila. E’ una fortuna che il nostro
governo abbia fatto in queste settimane
da battistrada alle preoccupazioni e alle angosce dell’amministrazione americana. Sarebbe altresì una fortuna se un
sussulto di orgoglio intellettuale e di
buonsenso politico portasse la sinistra
istituzionale e tutta l’opposizione a capire che la caccia ai briganti del cielo,
tra una frontiera e l’altra, è un dovere
comune al quale nessuno può sottrarsi.
Ruggiero vuole un grande politica
Ampliare l’Unione è indispensabile nonostante le difficoltà concrete
Q
uesti giorni, com’è evidente, sono terribili per i responsabili della politica estera: e tanti ministri titolari della
materia si trovano in particolare difficoltà. Forse non si è ancora ben definito
il loro ruolo dopo la fine della Guerra
fredda. Colin Powell deve far sapere come alla Casa Bianca si ascolti anche il
suo parere, Shimon Peres non riesce né
a interpretare né a cambiare la linea del
governo di cui fa parte, le grandi capacità da statista di Joschka Fischer devono costantemente fare i conti con le inteperanze dei suoi Gruenen. L’inglese
Robin Cook ha perso il posto e fa ora il
presidente della Camera dei Comuni.
Anche Renato Ruggiero, dopo le vicende
non proprio esaltanti della trattativa col
Genoa social forum e il mediocre compromesso di Durban, sente oggi l’esigenza di ricordare il peso della Farnesina.
Il ministro ricorda assai opportunamente come la politica estera italiana sia
naturalmente europeista e rivendica sul
tema la continuità degli interessi nazionali. Insieme a Silvio Berlusconi ha consolidato questa linea anche grazie a un
eccellente rapporto con l’amministrazione americana in carica: fatto che per tutta l’Europa rappresenta un grande vantaggio. Inoltre conta sulla presenza di
Romano Prodi a Bruxelles, che annulla
spesso gli effetti di qualche intemperanza di una sinistra italiana in preda alla
confusione, ora all’inseguimento delle
contestazioni antiglobalizzazione, ora affascinata (peraltro in buona compagnia)
dalla “quasi impossibile” Tobin tax. Naturalmente sui problemi di merito le soluzioni vanno cercate con pazienza. Allargare l’Unione dagli attuali 15 a 25 o 27
stati membri è obiettivo irrinunciabile.
Farlo, senza che ciò determini una regressione verso una semplice area di libero scambio, e contemporaneamente
dar vita a un “gruppo di testa” a convergenza accentuata è operazione necessaria ma complessa. Per trovare meccanismi istituzionali che consentano di allargare senza annacquare, di selezionare
senza dividere, è indispensabile una ferma volontà, ma ci vuole anche fantasia e
concretezza. Ruggiero ricorda opportunamente come non vi siano via di fuga:
questa è l’unica scelta per difendere il
patrimonio di stabilità e pace conquistato con la costruzione europea. Questo
non esclude che i prossimi passi siano
difficili e che si dovranno affrontare
aspre questioni non solo psicologiche ma
anche economico-sociali. I drammatici
avvenimenti americani di ieri, però, ricordano come la grande politica che porta alla pace debba prevalere su tutto.
Ma non siamo in recessione
Si confondono risultati meno brillanti e crisi, non si curano i fondamentali
I
l Fondo monetario ridimensiona
le previsioni di crescita mondiale: nel
2001 non sarà del 3,2 per cento ma del
2,7. Nel 2002 sarà non del 3,9 per cento
ma del 3,6. Cifre positive anche se meno
di quelle precedenti. Nonostante i problemi degli Stati Uniti dopo dieci anni
d’impetuoso sviluppo e la crisi finanziaria giapponese, il mondo non è in recessione quest’anno e non lo sarà nel prossimo. La domanda globale sarà sufficientemente sostenuta da consentire anche alle industrie high tech un’espansione. L’Europa conterà su un buon commercio estero. Alcuni cupi giudizi non
sono giustificati. Si fa confusione tra il
“rallentamento” di alcune grandi aree,
come l’americana e l’europea, e la recessione. I dati sull’aumento della disoccupazione negli Stati Uniti si spiegano
con una popolazione in grado di lavorare che aumenta di un 1 per cento e una
produttività per addetto che cresce
dell’1,5-2 per cento: un aumento del pil al
di sotto del 2,5 per cento implica prima
la riduzione di orari straordinari, poi la
perdita di posti full time, magari in precedenza part time. Si sta salendo così a
un 5 per cento di disoccupazione. Questo
livello ancora tre anni fa veniva considerato dagli economisti, per gli Stati Uniti,
un livello di pieno impiego. Anche i tassi di profitto si riducono, ma quando vengono registrati i “risultati peggiori del
previsto” di molte imprese, si fa confusione fra un profitto positivo (e magari
non inferiore a quello medio di epoche
normali) e bilanci in perdita.
Si scrutano nervosamente i dati trimestrali per giudicare i titoli, mentre si
dovrebbe guardare al rendimento medio
nel lungo periodo. Un reddito reale del
3 per cento al netto del rischio è sempre
stato considerato un risultato ottimo per
le azioni nella prospettiva del lungo termine. Il reddito fisso, al netto dell’inflazione, dopo i tagli ai tassi attuati dalle
Banche centrali, non dà un interesse
maggiore. Gli immobili nel lungo termine non possono rendere più del 2,5 per
cento netto. L’azionista che ora si fa prendere dal panico dovrebbe riflettere sul
fatto che le azioni non si giudicano dalle
quotazioni del giorno per giorno in Borsa, ma dai fondamentali delle imprese e
dalle prospettive dei mercati in cui operano. La crisi del 1929, comunque, era un
fenomeno del tutto diverso.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 12 SETTEMBRE 2001
Osama bin Laden, lo sceicco che vive per uccidere americani
RITRATTO DEL PIÙ PERICOLOSO TERRORISTA ISLAMICO. LA RETE INTERNAZIONALE, IL FANATISMO, LA POTENZA DI FUOCO
in modo da uccidere gli americani e i loro alleati civili e militari è
“Agire
preciso dovere individuale per ogni musulmano che possa farlo in ogni paese in cui sia
possibile farlo”. E’ una delle fatwa proclamate e diffuse da Osama bin Laden e ciecamente accettate dai suoi seguaci. Lo sceicco
saudita è oggi il più famigerato terrorista del
mondo e uno dei principali indiziati per
quanto avvenuto ieri a New York e Washington. Esattamente come era stato il principale indiziato il 7 agosto 1998 quando due
esplosioni devastarono le ambasciate americane di Nairobi e di Dar es Salaam uccidendo più di duecentoventi persone. In tre
anni, però, la sua potenza di fuoco sembra
enormemente accresciuta. La rete terroristica di Osama bin Laden, chiamata Al
Quaeda, la Base, si estende dall’Afghanistan
alle Filippine, dal Pakistan al Kosovo e dal
Kashmir alla Somalia. Il suo potere di fascinazione sui giovani islamici è immenso. Un
ex ufficiale della Cia ha detto: “Basta andare nei campi profughi sparsi per il Pakistan
per vedere quanti bambini maschi portano
il nome di Osama”.
I pochi giornalisti occidentali ammessi al
cospetto di Bin Laden attestano il suo carisma personale. Nel 1993, il giornalista britannico Robert Fisk, che l’aveva incontrato
in Sudan, scriveva ammirato: “Con quegli zigomi pronunciati, gli occhi sottili e il lungo
abito marrone, il signor Bin Laden è il ritratto perfetto del guerriero della montagna
della leggenda mujaheddin. Fanciulle avvolte nel chador danzavano dinnanzi a lui,
la sua saggezza viene riconosciuta dai predicatori”. Il reporter della Abc John Miller
rievoca invece il drammatico arrivo di Bin
Laden al suo accampamento militare in cima a una montagna dell’Afghanistan meridionale: “Nel campo si udiva il rombo dei
generatori. C’era un odore denso di carburante nell’aria… Proprio in quell’istante, fu
tre ti guardava dritto in faccia, e tu annuivi,
ti stava dicendo che voi – voi, americani – ve
ne andrete via dal Medio Oriente, chiusi
dentro tante bare”.
La calma di Bin Laden deriva dalla sua
intensa fede religiosa. Come dice egli stesso,
“Allah ci ha creato per adorarlo, per seguire le sue orme ed essere guidati dal Suo Libro. Io sono uno dei servi di Allah e obbedisco ai suoi ordini. Tra questi c’è l’ordine di
combattere per la parola di Allah”. Dopo
aver trascorso una giornata con Bin Laden,
Abdul Atwan, direttore di un quotidiano
arabo con sede a Londra, ha scritto: “Ho intensamente avvertito il suo fascino, ho avuto
modo di osservare i suoi modi raffinati e la
sua sincera modestia; è un uomo che cerca
l’Aldilà e sente veramente di aver vissuto
più di quanto non fosse necessario. Si avverte una gran tristezza in lui – un’amarezza
non espressa – per non aver ricevuto il martirio mentre lottava contro i sovietici”.
Bin Laden ha subito l’influenza delle
profonde convinzioni religiose del suo autoritario padre. Osama è il settimo dei cinquantaquattro figli di Mohammed bin Laden, fondatore della maggiore impresa edilizia dell’Arabia Saudita e uno degli uomini
più ricchi del paese. Bin Laden ha costruito
le residenze reali saudite e stretto rapporti
di intima amicizia con i sovrani che si succedevano sul trono, diventando persino ministro dei Lavori pubblici. La famiglia reale
saudita ha concesso al gruppo di Bin Laden
diritti esclusivi su tutte le opere edilizie di
carattere religioso in Arabia Saudita, tra le
quali la costruzione di moschee e il restauro dei tre santuari più importanti dell’Islam,
le moschee della Mecca, di Medina e quella
della Roccia a Gerusalemme. Un contratto
Il potere di fascinazione sui
giovani è immenso. Basta vedere
nei campi profughi quanti
bambini portano il nome Osama
esploso un colpo di cannone. Il convoglio di
Bin Laden era arrivato. In mezzo al frastuono dell’artiglieria, lui avanzava rapido, circondato da sette guardie del corpo. Tutti
brandivano un AK-47. Lanciavano occhiate
in ogni direzione in cerca di potenziali aggressori. Bin Laden, col turbante bianco e la
lunga barba corvina, con il suo metro e novanta torreggiava sugli altri del gruppo. Nonostante il caos, i suoi occhi avevano uno
sguardo tranquillo, fermo e concentrato”.
Il messaggio che Bin Laden comunica nelle sue interviste con giornalisti occidentali è
semplice. “Abbiamo dichiarato la jihad contro gli Stati Uniti perché il governo statunitense è iniquo, criminale e dispotico. Siamo
convinti che oggi i peggiori predoni del mondo e i peggiori terroristi siano gli americani.
L’America ha condotto una crociata contro
la nazione islamica per sostenere i piani
ebraici e sionisti di espansione in Israele”.
Bin Laden è particolarmente irritato dalla
presenza di forze militari degli Stati Uniti in
Arabia Saudita, considerata terra santa dai
fedeli islamici: “Il paese dei due Luoghi
Santi occupa un posto assolutamente speciale nella nostra fede. Per la nostra religione non è ammissibile che dei non musulmani si trattengano sul suolo del nostro paese.
Gli americani hanno agito con inaudita stupidità. Hanno attaccato l’Islam e i suoi simboli più sacri, depredano la nostra ricchezza, le nostre risorse naturali, il nostro petrolio. La nostra religione è minacciata”.
Parole terribili, che lo sceicco pronuncia
con voce tranquilla, monotona, in arabo, inframmezzata da frequenti riferimenti devoti alla grazia e alla gloria di Allah. “La voce
di Bin Laden è morbida e piuttosto acuta,
dal timbro leggermente stridulo che gli conferisce l’aria di un vecchio zio intento a dispensare buoni consigli”, racconta ancora il
testimone-reporter John Miller. Bin Laden
non alza mai la voce, e ad ascoltare le sue risposte non tradotte si ha quasi l’impressione che stia parlando di qualcosa che non lo
riguarda da vicino. Non sorride, guarda in
basso, fissa il palmo delle mani, come se
stesse leggendo invisibili appunti. Alla fine
dell’intervista, Miller aveva chiesto all’interprete cosa avesse detto Bin Laden: “Menlessandro Manzoni nei “Promessi spoA
si” si rivolgeva ironicamente ai suoi
“venticinque lettori”. Howard Philips Lovecraft, con modestia ancora maggiore,
scriveva: “Probabilmente, vi sono solo sette persone in tutto che apprezzano veramente il mio lavoro; per me sono già abbastanza”. Lo scrittore di Providence nel
frattempo è diventato un autore di culto e
un maestro dell’horror. I suoi racconti sono considerati dei classici e, per molti
aspetti, gli appassionati li preferiscono anche alle opere di Edgar Allan Poe. Eppure Lovecraft critico è perlopiù ignorato. O
peggio maltrattato e frainteso. Secondo lo
specialista Claudio De Nardi, le quattro
edizioni italiane pubblicate dal 1973 del
fondamentale saggio “L’orrore sovrannaturale nella letteratura” sarebbero straziate “da traduttori inesperti e superficiali”. Zeppe di “incredibili e grossolani errori” al punto da sembrare “una libera interpretazione”. In una serie di qui pro quo
cade anche il celeberrimo semiologo bulgaro, Tzvetan Todorov, autore del fortunato “letteratura fantastica”, che in poche
battute liquida i fondamenti teorici del testo lovecraftiano, salvo poi parafrasarne la
celebre definizione del racconto fantastico come narrazione ambigua di eventi in
bilico tra spiegazione razionale o irrazionale. Insomma difficoltà a iosa. Eppure alla malagrazia interpretativa si può trovare persino una ragione che illumina molto sul carattere disturbante della visione
che, come è facile immaginare, ha costituito
motivo di immenso orgoglio per la famiglia
e le ha inoltre consentito di fondare un impero industriale e finanziario notevole, e
non soltanto per il mondo arabo.
Mohammed bin Laden ospitava centinaia
di pellegrini provenienti da ogni parte del
mondo e ha sempre dimostrato ai suoi figli
come assumersi le responsabilità di ogni
buon musulmano. Fece in modo di tenere
tutti i figli in un’unica residenza. Imponeva
loro una disciplina ferrea, scrupolosamente
basata su un rigido codice religioso e sociale. Trattava i suoi figli come adulti e pretendeva che mostrassero una grande fiducia in
se stessi sin dalla più tenera età. Era molto
attento a trattare i suoi figli tutti allo stesso
modo, senza mostrare alcun favore particolare per nessuno.
Poi Mohammed bin Laden muore, in un
disastro aereo nel 1968, quando Osama ha
poco più di dieci anni. Mentre i fratelli assumono la conduzione degli affari di famiglia, stringendo legami anche con la generazione successiva della monarchia saudita, il
piccolo Osama studia economia e cultura
islamica a Gedda. A diciassette anni sposa
una ragazza siriana, imparentata con la sua
famiglia. Un compagno di quei tempi spiega:
“Osama è stato allevato nel rispetto assoluto
dei principi religiosi e il matrimonio precoce ha costituito un ulteriore fattore che lo ha
preservato dalla corruzione”. In seguito Bin
Laden ha sposato altre tre mogli, e ha messo
al mondo un totale di cinque figli.
Negli anni della sua formazione e della
giovinezza trascorsa in patria, Osama è
tutt’altro che un radicale. A trasformarlo in
un leader fondamentalista sono stati i campi di battaglia dell’Afghanistan. Quei monti
insanguinati dalla guerra contro l’invasore
sovietico che come lui, e assieme a lui, han-
LIBRI
Howard Philips Lovecraft
TEORIA DELL’ORRORE
272 pp. Castelvecchi, Lire 24.000
lucidamente negativa del mondo proposta
dallo scrittore americano. Parliamo di
quel disincantato ateismo che non lascia
spiragli e che gli permette di accostarsi a
temi spettrali con maggior distacco rispetto a credenti o a molti seguaci dell’occultismo. Dunque un materialista? Sì, ma alla maniera di un lucreziano per nulla appagato. E segnatamente dolente.
Un pessimismo totale il suo, del genere:
tutto ciò che ci circonda è francamente orribile. Conclusione: inutile dedicarvisi. Alternativa: materia dell’arte dever diventare essenzialmente il fantasticare, il guardare verso l’ignoto. Sforzandosi di mettere
il lettore a contatto con il cosmo. “Il mio
piacere è la meraviglia, l’inesplorato, l’inaspettato, ciò che è nascosto e quell’alcunché d’immutabile che si cela dietro
l’apparente mutevolezza delle cose”. In
breve: immaginazione a discapito dell’intelletto, la narrazione affidata più al fascino del suggestivo che al ritmo incalzante
no trasformato in guerriglieri e potenziali
terroristi tutta una generazione di giovani
musulmani di ogni nazione, dall’Algeria al
Pakistan. L’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 è lo shock formativo di un’intera generazione di giovani islamici. Bin Laden all’epoca ha ventidue anni e non ha mai
messo piede fuori dal Medio Oriente. Eppure, a sole due settimane dall’invasione dell’Armata Rossa, si reca in Pakistan per parlare con i profughi afghani e incontrare i
leader della resistenza dei mujaheddin. Nei
lunghi anni del conflitto diviene uno dei più
attivi raccoglitori di fondi a favore degli afghani, sfruttando le relazioni della sua influente famiglia per coinvolgere le persone
più ricche e potenti dell’Arabia Saudita. Organizza, finanzia e invia in Afghanistan migliaia di giovani combattenti volontari dall’Algeria, dalla Tunisia, dal Libano; fornisce
armi e centinaia di tonnellate di attrezzature per costruzioni. Al fianco dei suoi ingegneri, Bin Laden ha fatto saltare cariche
esplosive per scavare gigantesche gallerie
attraverso le aspre montagne afghane, ha
tracciato strade e scavato trincee per i guerriglieri, ha manovrato personalmente i bulldozer davanti alle linee di combattimento.
E si è lanciato egli stesso in battaglia, ha
partecipato a numerosi scontri, tra i quali la
furiosa battaglia di Jalalabad, che provocò
la ritirata finale delle truppe sovietiche dal
territorio afghano. A un reporter occidentale che più tardi gli domandò se avesse avuto
paura, Bin Laden rispose con calma: “No,
non ho mai avuto paura della morte. In
quanto musulmani, noi crediamo che quando moriremo andremo in paradiso. Prima di
ogni battaglia, Iddio ci infonde tranquillità.
Una volta ero a soli trenta metri dai russi e
loro hanno tentato di catturarmi. Sotto i
bombardamenti ero così tranquillo nel
profondo del cuore che riuscivo a prender
sonno. Ho visto atterrare una granata di
mortaio da 120 millimetri proprio di fronte
a me, ma non è esplosa. Hanno sganciato altre quattro bombe da un aereo russo, ma
non sono esplose. Abbiamo sconfitto l’Unione Sovietica. I russi si sono dati alla fuga”.
Con il ritiro delle truppe sovietiche nel 1989,
Bin Laden è ritornato in Arabia Saudita, dove è stato accolto come un eroe. Ma la sua vita era ormai profondamente cambiata.
In Afghanistan aveva visto con i suoi occhi
che persino una superpotenza può essere
sconfitta da poche migliaia di guerrieri che
credono fermamente nella loro causa. Questa lezione è stata per lui un’autentica rivelazione: “Dopo la nostra vittoria in Afghanistan, dopo la sconfitta degli oppressori che
avevano ucciso a migliaia i musulmani, è
svanita la leggenda dell’invincibilità delle
superpotenze. Ho tratto tali benefici dalla
jihad in Afghanistan che non avrei mai potuto nemmeno immaginare in altri contesti.
E il maggior vantaggio è stato il crollo del
mito della superpotenza, un mito distrutto
non solo nella mia psiche ma anche in quella di tutti i musulmani”. Così Bin Laden
avrebbe presto rivolto la sua attenzione all’altra superpotenza planetaria.
Nell’agosto del 1990 Saddam Hussein invade il Kuwait. L’alleanza internazionale
che il presidente americano George Bush
riesce a radunare contro il dittatore iracheno comprende anche alcuni paesi arabi, tra
i quali l’Arabia Saudita. Musulmani contro
musulmani, non è la prima volta. Ma per il
condottiero che ha visto morire i suoi
mujaheddin per difendere sasso dopo sasso
i monti dell’Afghanistan, vedere il suolo santo dell’Arabia Saudita invaso dalla massiccia presenza di forze militari statunitensi
equivale a una profanazione. Insieme con
altri leader del fondamentalismo islamico,
Bin Laden esprime il suo dissenso nei confronti della presenza militare americana e
della politica seguita dalla famiglia reale,
che ha consentito una simile profanazione.
Sebbene il rango e la famiglia lo proteggano
dal durissimo sistema penale saudita, Osama è oggetto di pesanti intimidazioni e decide di abbandonare il suo paese. Negli anni successivi vive tra Sudan e Afghanistan;
realizza progetti per la costruzione di impianti agricoli e di strade in Sudan. Soprattutto, crea una rete planetaria di guerriglieri e terroristi, ai quali fornisce campi di addestramento e denaro. Ha anche il suo daffare, in verità, per sfuggire agli attentati alla
sua vita, e per sviare le crescenti pressioni
che Stati Uniti e Arabia Saudita esercitano
sui governi che gli offrono asilo.
Il 26 febbraio 1993 l’America è sconvolta
degli avvenimenti.
Per quanto riguarda didattiche varie o
moralismi vari, Lovecraft la pensa alla
stessa maniera dell’immenso Oscar Wilde.
E liquida la questione sotto la voce: difetto imperdonabile. Non è un caso che non
si sdilinquisca davanti ad autoroni come
Robert Louis Stevenson, Wilkie Collins,
Arthur Conan Doyle o H.G.Wells. A suo avviso troppo “pervasi da una luminosa malia piuttosto che da una maligna tensione
o verosimiglianza psicologica, simpatizzano in definitiva con il genere umano e il
suo benessere”. Ma guardi piuttosto (dopo
il doveroso omaggio al magistero di Edgar
Allan Poe e, sorprendentemente, all’ars
narradi di Emily Bronte) a narratori che si
chiamano Lord Dunsany, Clark Ashton
Smith, William Hope Hodgson, Robert E.
Howard, Henry St.Claire Whitehead.
A ogni prediletto Lovercroft riserva degli eccellenti profili che aggiunti alla nuova traduzione di “L’orrore sovrannaturale
nella letteratura” e ad altri scritti critici
(usciti perlopiù su riviste) formano il bel
libro (“Teoria dell’orrore”) curato con vera passione e autentica competenza da
Gianfranco De Turris. Preziosa in particolare la ricca bibliografia. Da utilizzare magari come una sorta di consiglio per gli acquisti, da parte chi conviene che “non c’è
razionalismo, Riforma o analisi freudiana
che possa eliminare del tutto il brivido
provocato da un bisbiglio nell’angolo del
focolare o in un bosco solitario”.
dall’esplosione al World Trade Center di
New York. L’inconcepibile è accaduto: un attacco terroristico sul territorio americano, il
più fiero simbolo della maggiore città d’America sventrato. Otto mesi più tardi, i marine partiti per portare la pace diventano le
vittime delle crudelissime battaglie di Somalia. Le televisioni mostrano il corpo nudo
e inerte di un soldato americano trascinato
da una jeep tra folle plaudenti di somali. La
Cia comincia a intravvedere dietro questi incidenti la sagoma ieratica e sinistra di Osama bin Laden, lo sceicco del terrore.
Nel 1994, il governo saudita priva Bin Laden del diritto di cittadinanza e ne confisca
tutte le proprietà. Sebbene una parte consistente delle sue ricchezze siano ancora investite negli affari della sua famiglia, si calcola che Bin Laden possa contare su cifre
comprese tra i duecento e i quattrocento milioni di dollari. Tra il 1995 e nel 1996 l’antiterrorismo americano collega Bin Laden a
numerosi attacchi terroristici, tra i quali il
fallito attentato al presidente egiziano Hosni
Mubarak e i camion imbottiti di esplosivo
fatti esplodere contro le installazioni militari americane a Riyadh e Dhahran. Quando
anche il Sudan è costretto a espellerlo, Bin
Laden ritorna nell’Afghanistan dilaniato
dalla guerra civile. Tenta, senza riuscirvi, di
mediare tra i signori della guerra; alla fine
trova un rifugio sicuro presso i talebani, gli
studenti di teologia fondamentalisti che
hanno imposto manu militari all’Afghanistan uno dei regimi più repressivi del mondo. I talebani difendono l’illustre ospite, ormai prezioso alleato. Lui ricambia: “E’ molto meglio vivere sotto un albero su queste alture, piuttosto che in una reggia della terra
più sacra dovendo però subire la sventura
per non poter venerare Allah nemmeno sul
suolo più santo”.
Da ormai quasi un decennio Bin Laden è
diventato la bestia nera di Washington. Già
“Noi amiamo questa morte,
la morte per la causa di Allah,
tanto quanto voi amate la vita.
E’ qualcosa che desideriamo”
l’amministrazione Clinton aveva dato la sua
autorizzazione alla Cia di ricorrere a qualsiasi mezzo al fine di distruggere lui e la sua
rete terroristica. Un’indagine giudiziaria lo
ha pure incriminato per “cospirazione ai
danni degli Stati Uniti”. Troppo poco, evidentemente, per fermare Bin Laden e i suoi
compagni, che come contromossa hanno intrapreso da anni una campagna di pubbliche relazioni nel mondo islamico. Tre sono
gli scopi principali della loro azione, proclamati e diffusi anche tramite internet: cacciare gli Stati Uniti dalla penisola arabica,
rovesciare i governanti corrotti alleati dell’Occidente e sostenere la lotta islamica in
tutto il mondo.
Il momento più grave della guerra antiamericana di Bin Laden era coinciso fino a
ieri con gli attentati in Kenya e Tanzania del
’98. Gli Stati Uniti reagirono: come rappresaglia lanciarono missili cruise contro un
presunto campo di addestramento in Afghanistan e contro uno stabilimento farmaceutico in Sudan, altra presunta base terroristica. Sebbene Bin Laden fosse rimasto illeso,
fonti spionistiche affermarono di averlo “intercettato mentre parlava a un telefono satellitare, cercando disperatamente di ottenere una stima dei danni e notizie dei disastri”. John Miller, il reporter della Abc che
lo aveva intervistato pochi mesi prima, riceve un messaggio il giorno successivo: Bin Laden è vivo e vegeto e fa sapere che “la guerra è appena cominciata”.
Tra il 1999 e il 2000, i Servizi segreti occidentali ritenevano di aver messo in serie difficoltà la rete internazionale di Bin Laden.
si susseguivano, e si susseguono ancora oggi, le voci sulla salute malferma del capo
fondamentalista. se le responsabilità di Bin
Laden nei fatti di ieri saranno confermate,
l’intelligence occidentale dovrà rivedere
giudizi e strategie. Del resto, la minaccia di
morte non pare intimorire Bin Laden. Per
lui, “essere ucciso per la causa di Allah è un
grandissimo onore, conquistato solo da coloro che rappresentano gli eletti dell’Islam.
Noi amiamo questa morte, la morte per la
causa di Allah, tanto quanto voi amate la vita. Non abbiamo nulla da temere. Si tratta di
qualcosa che noi desideriamo”.
50 ANNI FA
12 SETTEMBRE 1951
Il generale Marshall lascia la politica e il
ministero della Difesa. Non sta bene e nonostante le insistenze del presidente Truman decide di ritirarsi a vita privata. Segretario di Stato dal 1947 al 1949, accettò
l’anno scorso di tornare alla politica attiva
assumendo la guida del Pentagono in seguito allo scoppio della guerra di Corea.
Marshall è molto popolare in America per
avere guidato le forze armate nella Seconda guerra mondiale. Lo è anche in Europa
per avere lanciato il piano di ricostruzione
che reca il suo nome. Lo sostituisce il suo
numero due, Robert Lovett, che era con lui
anche al Dipartimento di Stato.
Nota intimidatoria del Cremlino alla
Francia. Tema: il riarmo della Germania,
che sarebbe in contrasto con le intese tra gli
alleati durante la guerra. Mosca spera di
trovare terreno fertile nella mai sopita diffidenza francese nei confronti dei tedeschi.
Due milioni a Pisciotta per tradire Salvatore Giuliano: lo rivela il capitano Antonio
Perenze a cui fu attribuito in un primo momento il merito di avere ucciso il bandito e
che per questo fu anche promosso.
Ray Robinson abbatte Turpin alla 10a ripresa e riconquista il titolo mondiale dei
pesi medi, strappatogli qualche mese prima
proprio dall’inglese. Ray “Sugar”, 31 anni,
guadagna una borsa di un miliardo di lire.
ANNO VI NUMERO 251 - PAG 4
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 12 SETTEMBRE 2001
“Mi esimetti”, Mancuso svela il mistero del ritratto mancante in via Arenula
Signor direttore - Diaco è furibondo con
Stream perché dovrà condurre il talk show sul
Grande Fratello con Marisa Laurito anziché con
Platinette: “Quello che potevo fare con Platinette, con la Laurito è improponibile”. Non vogliamo sapere che volesse fare Diaco con Platinette.
Mattia Feltri
Signor direttore - A giro di posta celere. E’ vero che quando lasciai via Arenula (bene ipotizza
in proposito Gigi Moncalvo nella lettera di ieri al
Foglio), deliberatamente infransi la consuetudine che avrebbe voluto che vi rimanessi in effigie,
e, quando poi il ministro Fassino mi trasmise ripetutamente e ufficialmente la generosa sollecitazione a mettere i suoi uffici in grado di sopperire a quel vuoto materiale nella galleria dei ri-
tratti degli ex Guardasigilli, io in pratica egualmente mi esimetti per la identica ragione di prima, la quale desidero serbare in me come colpa
felice. Però, soprattutto se autorizzabile la eventualità di uno scopo non solo documentario di
quella sollecitazione, rimango assai grato alla
sensibile persona dell’autore di essa.
Filippo Mancuso
Signor direttore - La sua vigorosa campagna
a favore di Barney, l’ineffabile personaggio di Richler, ci ha fatto per un momento sperare che fosse giunta agli sgoccioli l’era dei Camilleri, dei Baricco e dei tanti buonisti (dimenticavo Calvino)
che hanno inamidato la nostra recente storia letteraria. Liberati, grazie all’avvento di Berlusconi,
dal funerario trenino De Sanctis-Croce-Gramsci-
Calvino impostoci dall’anti illuminismo di Asor
Rosa, pensavamo che avremmo potuto finalmente assaporare una letteratura più aerea, spiritosa, liberale, qua e là (mi perdoni) libertaria,
definitivamente “politically incorrect”. Tutto portava a credere che, sconfitta la tetraggine ulivista, qualcosa anche in questo dominio dovesse
cambiare: intelligentemente un suo lettore ha
suggerito un parallelo tra Richler e Balzac, lo
scrittore dell’età dell’“enrichissez vous”. Siamo invece perplessi, a disagio, perfino scoraggiati. Cominciamo a temere che la compagnia di cui Berlusconi si è circondato, quella dei Bossi dei Fini
dei Buttiglione, possa proporci se non imporci un
altro canone, opposto a quello buonista ma non
meno nutrito di anti illuminismo. I sintomi ci sono tutti, mentre negli interstizi residui si affaccia
alla ribalta, pretendendo credito e applausi, una
pseudoletteratura nella quale la leggerezza di Richler è scambiata con la sciatteria delle scuole di
scrittura creativa. Barney resta lontano, solitario
e sempre più irraggiungibile. Eppure nella società dei think tank di destra da lei preconizzata,
lo scrittore canadese, se non altro in grazia dell’abbondante consumo di whisky che lo accomuna a quella società, dovrebbe furoreggiare. Invece nulla, silenzio. Ma si ribellino, costoro; facciano la giusta rivoluzione, in nome del Glen Grant.
E dunque almeno lei perseveri, lei può. Noi comunque non vogliamo acconciarci alla eterna
condanna italiana: barocco e/o Baricco. Perduta
ogni altra speranza, ci rinchiuderemo solitari a
rileggere, oltre a Barney, il mitico “Q” di Luther
Basset. Lei non ci crederà, ma i due libri in qual-
che modo si corrispondono.
Angiolo Bandinelli, Roma
Signor direttore - Attenzione all’inflazione di
espressioni come “politicamente scorretto”. Non
vorrei che lo “scorretto” divenisse “corretto”, nel
momento in cui si fa troppo prevedibile. Ottima
quindi la risposta di ieri al signor Vernaglione.
Houellebecq, grande scrittore prima che astutissimo sponsor di se stesso, è uno le cui polemiche
vanno bene per tipi come Tahar Ben Jelloun, che
con la sua tirata moraleggiante dalle pagine di
Repubblica non fa che alimentarle con sempre
nuovo vigore. Consiglio comunque i due romanzi già editi in Italia: “Le particelle elementari” e “Estensione del dominio di lotta”.
Paolo Bonari, via Internet
Gossip
L’appeal di Fassino
per la Santanchè
e gli incubi di Trantino
“Le così spesso derise regole formali
della democrazia hanno introdotto, per la
prima volta nella storia, delle tecniche di
convivenza volte a risolvere i conflitti sociali senza ricorrere alla violenza. Solo là
dove vengono rispettate tali regole, l’avversario non è più un nemico (che deve
essere distrutto) ma un oppositore che domani potrà prendere il nostro posto”
(Norberto Bobbio).
Il piacere è tutto mio. La bella deputata Daniela Santanchè (An) dichiara: “Mi piacciono
due tipi di persone: quelle che sanno rischiare e quelle di una certa età con una vita interessante e tante cose da raccontare. Nella sinistra, invece, mi piace Piero Fassino, ma per
le sue iniziative sulle donne in carcere”.
Madame. L’onorevole ed ex capo scout Roberta Pinotti (Ds) dichiara: “Leggo soprattutto la letteratura francese, però, quando insegnavo al liceo, la mia materia era l’italiano.
Insegnare, comunque, mi piaceva, perché mi
piacciono molto i ragazzi giovani… piacciono,
nel senso dell’educazione”.
Uomini. Il segretario dell’Udeur, onorevole Clemente Mastella, rileva: “Sono un uomo
appagato e dunque non faccio sogni ricorrenti”.
Strano ma vero. L’onorevole Vincenzo
Trantino (An), forse suggestionato da questa
rubrica che ne ricordava una notte onirica,
ha nuovamente sognato il giornalista Stefano
Di Michele, e infatti precisa: “Tutti da anni
mi chiamano solo Enzo, e invece il Foglio mi
ha chiamato per amor di precisione Vincenzo, come risulto sui certificati di nascita. E
così l’altra notte ho un’altra volta sognato di
essere un ufficiale dell’anagrafe, si presentava di nuovo Stefano Di Michele, e io gli
consegnavo un certificato di magrezza scheletrica”.
Missione novanta. Reduce da Formia, dove
ha partecipato alla Festa nazionale del Centro cristiano democratico, e da una settimana presso un centro benessere di Chianciano, il presidente dei senatori del Ccd Francesco D’Onofrio, è a Roma. L’obiettivo immediato è di perfezionare le ultime diete e arrivare a quota novanta chili: “Come Benito
Mussolini – precisa – che pose quota novanta nella quotazione tra lira e sterlina: una
sterlina uguale novanta lire. Come noto, il fascismo dovette presto rinunciare al proprio
obiettivo, ma il fallimento del duce non equivarrà al mio. Infatti sono già arrivato a tre
settimane senza pasta, e arriverò anche a
quota cinquantaquattro di taglia. Anzi, a dirla tutta, con i boxer già ci sono”. In tali frangenti, il senatore per colazione si limita a yogurt magro, fetta di pane nero, e un frutto. A
cena, invece, uovo fritto e una coppetta di
Jocca. Anche in occasione del recente compleanno della madre, festeggiato nella trattoria Costanza, vicino Campo de’ Fiori, il senatore ha dovuto constatare: “Mia madre ha
mangiato più di me, e oltretutto è arrabbiata
perché dice che con il lavoro che faccio non
posso continuare con questa dieta, altrimenti mi dimagrisco”.
Acqua d’annata. L’onorevole Giuseppe Gargani (FI) apprezza certe comodità moderne, e
infatti osserva: “A Montecitorio ci vorrebbe
una bella sauna, però le docce della Camera
sono belle e confortevoli. Lo so perché una
volta le ho utilizzate, quattro anni fa”.
Francesco Storace: la mia vita (22). Il presidente della Regione Lazio, onorevole Francesco Storace (An), assicura: “Le esperienze
più belle della mia vita sono state: la presidenza del Lazio, la presidenza della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, e
la guida della Federazione romana di An. Tre
vicende che ho vissuto con grande intensità,
e con un piccolo orgoglio, l’unica mia presunzione… quella di aver rivitalizzato organismi che non erano conosciuti: la Vigilanza
Rai veniva dalla parentesi di Marco Taradash, che l’aveva usata più come tribuna per la
politica nazionale. Io, invece, ho continuato la
sua strada ma, in più, ho riportato la commissione sulle problematiche Rai. La Federazione di Roma uguale: io, che pensavo di
non essere adatto a guidarla, la presi dopo le
Comunali del ’97 con il partito sceso al 24 per
cento. Decisi di sottoporla a una cura da cavallo, e infatti in quel periodo ero sempre in
giro a incontrare militanti e simpatizzanti,
tanto che, tra sezioni e associazioni, ho messo su 20 chili, a causa delle grappe che mi venivano offerte”.
(continua)
Antonello Capurso
Alta Società
Umberto Vattani è stato nominato Commandeur de la Légion d’Honneur. Se lo
merita. E se lo meritano anche i
suoi nemici della Farnesina.
Dj & Ds
di Pierluigi Diaco
Sentirsi importanti, paurosamente
stagionali,
precari e onnipotenti solo un po’, è il male minore dell’attuale governo. Non saper
sorridere per la vittoria ottenuta è più grave (è come vedere il merito nascere mendicante), non essere capaci di pensare la
propria vita altrove rispetto alla politica è
altrettanto desolante (“è come la follia,
con aria dotta, mettere freno all’estro”). Se
non si vuole offrire agli italiani la sicurezza della forza dell’ambita stabilità, si offra
almeno una sicurezza recitata o una calma tutta agghindata che renda dignitoso e
forte chi ci governa. Se invece ci si vuole
abbandonare al dibattito, alla pluralità
dei ragionamenti e alle libertà che concede solo il potere, allora sarebbe paradossale ma auspicabile il ritorno dei comunisti e dei loro amici. Loro sì che sanno
imporsi. Pur senza colonelli o imitatissimi
epuratori.