CHIESA DI SAN SEBASTIANO – MILIS Ricerche e ipotesi sulla sua

Transcript

CHIESA DI SAN SEBASTIANO – MILIS Ricerche e ipotesi sulla sua
CHIESA DI SAN SEBASTIANO – MILIS
Ricerche e ipotesi sulla sua storia
Verso
il 1200 nell’elenco delle Chiese Arborensi
figura una “
Sancte Marie de Milis” ( Scano Cod. Dipl. – R. Bonu “Cronologia
Arcivescovile di Oristano pp. 32).
E’ possibile che questa Chiesa dedicata a Santa Maria sia la stessa che
in seguito fu dedicata a San Sebastiano.
Doveva essere una piccola Chiesa con probabile pianta rettangolare,
l’ingresso rivolto a ponente e l’Altare Maggiore posto a levante, molto simile
all’attuale Chiesa di San Giorgio.
E’ possibile che in seguito, in tempi diversi, si ampliò la Chiesa
aggiungendovi due vani laterali, uno a nord ed uno a sud con funzioni di
sagrestia e disimpegno.
In seguito per poter disporre di maggiore spazio per i fedeli si ampliò la
Chiesa aggiungendo a levante una cappella ricoperta con volta a crocera e
spostando all’interno di questa l’Altare Maggiore.
In questo periodo (1300/1400) la Chiesa presenta una pianta a croce
greca con l’ingresso principale sempre a ponente e forse uno secondario a
nord. Questo secondo ingresso nel 1700 sarebbe diventato l’ingresso
principale.
Che in origine e fino al 1700 l’Altare Maggiore fosse posto nella parete
di levante lo si deduce dal fatto che, quando verso la seconda metà del 1600 si
costruì la Cappella del Rosario, questa venne addossata al muro sud della
Chiesa aprendo in esso un grande arco di comunicazione. Se in quel punto vi
fosse stato l’Altare Maggiore sicuramente la nuova Cappella sarebbe stata
costruita in un altro lato della Chiesa, come infatti avvenne nel 1700, quando
si spostò l’Altare Maggiore sistemandolo di fronte al nuovo ingresso
principale a nord e si costruì una nuova Cappella del Rosario addossandola
al muro di levante ormai libero dalla presenza dell’Altare Maggiore.
Forse sulla facciata di questa primitiva Chiesa era collocata la “Coppella
Ecclesiale” con croce gigliata i cui frammenti furono ricuperati fra i detriti
rimossi durante gli ultimi lavori del 1983.
Dal 1528 al 1529 imperversò in Sardegna la peste. Questa, proveniente
dalla Gallura, ebbe termine il 20 gennaio 1529, mese dedicato a San
Sebastiano.
In seguito a tale evento molte Chiese della Sardegna furono consacrate
a questo Santo ( A. Scintu “Memorie storiche di Arborea” OR 1873 pp. 47/48).
E’ molto probabile che anche a Milis la Chiesa sia stata dedicata a San
Sebastiano in quel periodo poiché nell’atto di costituzione della Cappella di
Santa Lucia del 1595 troviamo che la Chiesa è già dedicata a questo Santo.
Forse in questo periodo la pianta della Chiesa si arricchisce di due
nuove Cappelle, quella di Santa Lucia ed un’altra simmetricamente opposta.
1600 – 1650
In questo periodo è probabile che la Chiesa avesse una pianta quasi
quadrata per l’aggiunta di due nuove Cappelle.
La navata centrale e quelle laterali avevano probabilmente il tetto
sorretto da capriate in legno mentre il vano dove era situato l’Altare
Maggiore aveva volta a crociera.
Le tre navate poggiavano su esili colonne ottagonali in pietra tufacea
verde di cui una (intera o frammentaria) si trova ancora all’interno del primo
pilastro a sinistra dopo l’ingresso.
In seguito ai rimaneggiamenti della Chiesa ed alla costruzione della
volta, queste colonne vennero eliminate e riutilizzate a pezzi come materiale
da costruzione.
1650 – 1700
In questo arco di tempo fu costruita la Cappella del Rosario (dove
attualmente è posto l’Altare Maggiore) addossandola dall’esterno al lato
sud ed aprendo nel muro della Chiesa una comunicazione con un grande
arco a sesto acuto in stile Gotico Aragonese formato da tre ghiere ornate di
piccoli capitelli.
La Cappella è simile ad altre della Sardegna ( Cagliari – San Domenico;
Oristano – San Martino; Nurachi – San Giovanni Battista; Riola – San
Martino, ecc.) con modello Gotico, quattro costole congiunte al centro da una
gemma scolpita raffigurante la Madonna del Rosario e con i peducci delle
costole scolpiti e rappresentanti i quattro evangelisti.
Della gemma scolpita che attualmente manca al centro del quattro
costole, parleremo più avanti, quando tratteremo del cambio delle Cappelle
tra quella del Rosario e l’Altare Maggiore.
Ad opera della Confraternita del Rosario furono anche costruite le
tombe della navata centrale da utilizzare per il seppellimento dei confratelli
che avevano il diritto di essere seppelliti in Chiesa (Ius Sepeliendi).
Il modello di questo bellissimo corpo tombale è stato sicuramente
copiato da quello più antico della Chiesa di San Paolo che risulta identico, sia
nel numero che nella tecnica di costruzione delle tombe.
Queste in numero di sedici disposte su quattro file parallele per quattro
righe di quattro tombe ciascuna erano realizzate in tufo giallastro ben tagliato
e lisciato, tanto da costituire il vero e proprio pavimento della Chiesa.
I loculi erano chiusi da sei parallelepipedi di tufo di cui l’ultimo
(quello in corrispondenza dei piedi del morto o per meglio intenderci l’ultimo
verso la porta d’ingresso della Chiesa) aveva un foro che lo attraversava
perpendicolarmente, attraverso il quale passava un lungo ferro con testa
all’estremità e chiave traversale dall’altra.
A tomba chiusa la testa del ferro alloggiava esternamente in un incavo
della pietra e non impediva il calpestio.
Quando si doveva aprire la tomba questo ferro veniva tirato e con esso
si sollevava il blocco di tufo. In questo modo la tomba poteva essere aperta e
richiusa agevolmente per un gran numero di volte senza danneggiarla.
Queste tombe servivano per inumazioni multiple (anche sei individui
seppelliti senza cassa e separati tra loro da uno strato di terra).
Le prime inumazioni di confratelli del Rosario nella Chiesa di San
Sebastiano, forse , risalgono alla fine del 1600.
Queste tombe vennero utilizzate per un periodo che va dalla fine del
1600 sino al 1815/1820.
Doveva trattarsi sicuramente di povera gente ( i ricchi infatti si facevano
seppellire nella Chiesa di San Paolo) perché l’esiguo materiale ricuperato è
costituito da oggetto di scarso valore, in vetro, bronzo, legno ed osso.
Si tratta di bottoni ornamentali in legno con faccia a vista tagliata a
diamante e due fori a tunnel perpendicolari tra loro praticati orizzontalmente
nella parte mediana del bottone.
Bottoni di varia grandezza in pasta di vetro nero provvisti di ponticello
in ferro per permettere l’attaccatura al vestito.
Grani di rosario in vetro ed osso con residui di catenella in rame o
bronzo.
Grani di vetro colorato ed osso per collana di varie forme e grandezza.
Gemme da incastonare, in vetro colorato.
Fibbie in bronzo rettangolari e rotondeggianti con decorazioni ad aste e
cerchi intervallati tra loro.
Medaglie per rosario in bronzo di varie grandezze e dedicate a diversi
Santi.
Un frammento di crocetta in metallo con residuo di scrittura.
Monete in bronzo ed in lega databili dal 1598 al 1813.
Nel 1700 si ebbero grandi rimaneggiamenti nella Chiesa. Si costruì la
grande volta a botte della navata centrale eliminando le vecchie ed esili
colonne ottagonali. Al loro posto vennero costruiti grossi e robusti pilastri.
Tra i pilastri si aggiunsero degli archi sotto quelli già esistenti decorandoli
con figure scolpite a diamante ed altri motivi sacri.
Nella parete di fondo sopra l’arco gotico vennero aperte finestre per
dare più luce alla Chiesa.
Esternamente si costruì l’attuale facciata con rosone centrale. Poiché
sorse l’esigenza di avere l’Altare Maggiore di fronte all’ingresso principale
della Chiesa, si sistemò il nuovo altare nella cappella in stile gotico
appartenente alla Confraternita del Rosario. Da questa cappella fu asportata,
segandola, la gemma centrale scolpita e raffigurante la Madonna col
Bambino.
Questa gemma fu murata all’interno dell’Altare Maggiore costruito nel
1857 e qui fu trovata durante i lavori del 1983.
Nella cappella in stile gotico l’Altare Maggiore era addossato alla parete
di fondo che al posto dell’attuale finestra (aperta tra il 1860 ed il 1885 quando
si ampliò la sagrestia) aveva una grande nicchia dove in precedenza c’era la
statua della Madonna del Rosario ed ore quella di San Sebastiano. Ad
avvalorare questa ipotesi sta il fatto che nel 1833 l’Arcivescovo Mons. Bua
ordina che “si metta una cortina decente di colore verde o azzurro alla porta
della sagrestia, che impedisca la vista dell’interno della medesima al
sacerdote che celebra nell’Altare Maggiore… ecc.”.
La porta posta a sinistra dell’Altare è molto vicina alla parete di fondo e
solo con l’altare poggiato alla parete il celebrante poteva vedere l’interno
della sagrestia. Nel 1857 il nuovo altare fu costruito al centro della Cappella.
- Ancora nel 1700. –
La Confraternita del Rosario si costruì una nuova cappella con grande
cupola e piccolo tamburo alla sommità.
Questa nuova cappella venne addossata al muro di levante della Chiesa
aprendo nel muro una comunicazione ad arco a tutto sesto.
La costruzione di questa nuova cappella con cupola chiuse e canali di
scolo delle tegole della navata sinistra preesistente e ne inglobò anche un
grosso doccione di scarico delle acque piovane.
Davano luce alla nuova cappella due grosse finestre una a sud ed una a
nord.
Dovrebbe risalire a questo periodo anche la costruzione di una piccola
Sagrestia addossandola esternamente al muro della cappella di Santa Lucia.
Doveva trattarsi di un ben piccolo locale se nel 1822 il Vescovo, durante
la visita pastorale, ordina: “ ampliassi lo ambito della sagrestia, che è troppo
stretta , quando esisteranno nella cassa denari sufficienti all’opera”.
Poiché la nuova costruzione chiuse la finestra che dava luce alla
cappella di Santa Lucia se ne aprì una nuova in alto sopra l’altare.
Forse nella seconda metà di questo secolo venne anche costruito il
campanile a vela con due campane, sistemandolo su un prolungamento del
lato sinistro della facciata.
- 1800 “L’Altare, la balaustra e il pavimento in marmo della Cappella del
Santissimo Rosario datano dall’aprile del 1811, detto lavoro è stato eseguito
dal marmista e Regio Architetto Domenico Franco essendo priore della
Confraternita il Marchese Vittorio Pilo-Boyl, venne a costare scudo sardi
570 (£.2.850), somma estratta dalla cassa della medesima Confraternita”
(notizia tratta dal libro storico della parrocchia di Milis (pag. 25).
Nella foto è visibile solo l’altare, fortunatamente risparmiato, mentre la
balaustra ed il pavimento sono stati demoliti nei lavori del 1983.
La prima piantina della Chiesa possiamo rilevarla dalla carta del “Catasto
De Candia” del 1847.
A quell’epoca la situazione era la seguente:
- Cortile
- Altare di S. Lucia
- Cappella del Rosario
- Altare delle anime
- Altare di San Francesco
- Altare del Crocifisso
- Altare della Madonna della neve
- Altare maggiore
- Sagrestia
- Sagrato
Negli anni 1844/45 furono trasportati a Milis i marmi per costruire l’Altare
Maggiore ed anche la pietra lavagna per il pavimento della Chiesa.
Deve trattarsi di quelle pianelle esagonali che tolte nei primi anni del 1900
vennero riutilizzate per la pavimentazione della Chiesa di Santa Vittoria.
Attualmente sono state tolte anche da quest’ultima Chiesa.
Dopo il 1850/60 le tombe della navata centrale inutilizzate da circa
trent’anni non sono più visibili perché ricoperte dal pavimento in lavagna.
“L’altare maggiore e la balaustra in marmo vennero costruiti nell’anno
1857 dal marmista Andrea Ugolini e furono pagati scudi 5 franchi 27 più
scudi sardi antichi 35, dalla Confraternita dello Spirito Santo, mancano i
denari della Chiesa” (notizia tratta dal libro storico pag. 25).
E’ possibile che risalgano a questo periodo il pulpito monumentale in
marmo e l’antico fonte battesimale in marmo intarsiato policromo
riutilizzato più tardi nel retro della sagrestia come lavabo.
Sia l’Altare Maggiore che il pulpito vennero demoliti e le preziose parti in
marmo sistemate malamente senza un minimo imballo in un locale della
Chiesa durante i lavori di restauro del 1983.
Tra il 1860 ed il 1885 venne costruito il così detto Oratorio del Rosario
utilizzando lo spazio davanti ed a fianco della nuova Cappella del Rosario.
Poiché venne occupato il cortile dove era la scala che portava al campanile,
per potervi accedere, venne aperta una nuova porta proprio sotto lo stesso
campanile che immetteva in un angusto vano privo di copertura con scala
in pietra che si è conservato fino ai nostri giorni e che ha sempre creato seri
problemi di umidità per le copiose infiltrazioni di acqua piovana.
Con la costruzione dell’Oratorio del Rosario si chiuse la finestra a nord che
dava luce alla Cappella del Rosario e forse per avere più luce o forse per
ragioni di statica si fecero dei lavori nella grande cupola eliminandone le
tegole e costruendo un tamburo molto più grande del precedente, con
finestroni per la cui manutenzione si costruì una scaletta in cemento
poggiata direttamente sulla cupola, che partendo dal campanile giungeva
fino al tamburo.
In questo periodo si ampliò anche la Sagrestia già esistente, ricoprendola
con grande volta a botte e si ingrandì la Cappella di Santa Lucia
allineandone il muro di fondo al nuovo muro della sagrestia.
Nel 1885 l’ingegner Domenico Pili di Seneghe presenta un progetto per la
costruzione di una torre campanaria con pianta ottagonale e per
l’ampliamento della Chiesa con anche la costruzione di una nuova facciata
del tutto diversa da quella esistente.
Il nuovo campanile sarebbe costato £. 11.632 e l’ampliamento della Chiesa
con la costruzione della nuova facciata £. 10.530,10.
Molto interessanti dal punto di vista storico sono le notizie che si possono
ricavare dal progetto dell’Ing. Pili. Infatti oltre alle notizie su cave e luoghi
di provenienza del materiale edilizio sono descritti minuziosamente i modi
di esecuzione dei lavori ed i relativi prezzi di oltre cento annui fa.
Qualche esempio: la giornata di u muratore costava allora £. 2, quella di un
carpentiere £. 2, di un cavapietre £. 2,25, di un carro a due buoi £. 4, di un
carro a quattro buoi £. 6 di un manovale semplice centesimo 80, ecc.
Di questo grandioso progetto non si realizzò nulla ad eccezione delle sole
fondamenta del campanile che si fecero nel 1895.
Ai primi del 1900 risalgono i dipinti e gli affreschi della Chiesa e della
sagrestia.
Il San Sebastiano e l’angelo sono datati e firmati dall’autore.
Essi risalgono al 1908 e furono eseguiti dal pittore di Cagliari Efisio Piga,
chiamato appositamente a Milis da Don Raimondo Scalas, parroco dal
gennaio del 1907 ad ottobre del 1911.
Le pitture zoomorfe e floreali della sagrestia sono molto simili a quelle
esistenti in una stanza del piano superiore della Casa Parrocchiale e forse
entrambe furono eseguite nello stesso periodo.
Le pitture dalla casa parrocchiale hanno figurato al centro della volta lo
stemma ed il motto ”Plus Pressat Plus Surgit” di Mons. Ernesto Maria
Piovella che è stato Vescovo di Oristano dal 1914 al 1920.
Possiamo pertanto supporre che sia le pitture della Casa Parrocchiale che
quelle della sagrestia siano state fatte in quest’arco di tempo.
Auguriamoci che quanto resta di questi dipinti venga conservato e
restaurato adeguatamente.1
Nel 1932 l’Ing. Pintus presenta un progetto per la costruzione di un nuovo
campanile e di una nuova facciata della Chiesa.
Nel 1934 fu costruito l’altare di Santa Teresina (vedi libro storico a pag. 4)
addossandolo esternamente alla parete sud della Cappella della Madonna
della Neve, ora Cappella della Raccomandata, ed aprendo nel muro della
Chiesa una comunicazione con un grande arco.
In questo punto esisteva già un piccolo locale dove anticamente erano i
servizi igienici ad uso dei preti ed in seguito vi fu sistemato il “gasometro”
per l’illuminazione della Chiesa.
La luce elettrica infatti data al 1929 la notte di natale e pare che la Chiesa
sia stata una delle prime a riceverla.
Nel 1949 si iniziarono i lavori per la costruzione del nuovo campanile nel
punto dove esistevano le fondamenta dal 1895. Il progetto era del
reverendo Don Giovanni Melis Abis ma questi lavori si interruppero nel
1952.
Nel 1954 su progetto dell’Ing. Dott. Vito Persini si ripresero i lavori del
campanile e si iniziarono i lavori di ampliamento della Chiesa con anche la
costruzione di una nuova facciata.
1
Le pitture del piano superiore della Casa Parrocchiale sono state restaurate nel 2004-2005.
Il campanile fu ultimato il 30 maggio 1955 ma i lavori di ampliamento e
della facciata si interruppero e non vennero mai ripresi.
Con la costruzione del nuovo campanile il vecchio campaniletto a vela, già
in forte degrado. Venne abbandonato e più tardi demolito perché
pericolante.
Nel 1962 un certo Architetto Freddi presentò un progetto per demolire e
rifare tutta la Chiesa, lasciando soltanto la facciata ed il campanile .
Fortunatamente il progetto non venne mai preso in considerazione.
Abbiamo potuto vedere che in tutti questi anni la Chiesa di San Sebastiano
tra rimaneggiamenti ed aggiunte varie ha progredito notevolmente da
quando era una piccola chiesetta, ma nel 1983 si iniziarono i lavori di
restauro, che togliendo, tagliando e demolendo hanno dato un risultato
che …………………………. è preferibile non commentare!
Questi fatti forse accadono perché spesso ci dimentichiamo che dobbiamo
conservare qualcosa, o almeno le cose che non ci interessano o non ci
servono, anche a quelli che verranno dopo di noi, e troppo spesso ci
dimentichiamo anche che “la Storia” della piccola e povera Gente è fatta di
poche e piccole cose come quelle che abbiamo cercato di raccontare.
NOTIZIE SULLA CHIESA DI SAN PAOLO IN MILIS
"Campidanus de Milis, regio campestris. . .frugifera, et pascuis satis idonea,
ingentique sylva malorum aureorum, citronum et limonum. . .nobilitata florumque
odore suffusa": la citazione del brano della "Chorographia Sardiniae" di Francesco
Fara, insigne storico dell'isola di Sardegna che scriveva nella II metà del sec.
XV fornisce una chiara indicazione della considerazione in cui da sempre è
stata tenuta, nella storiografia sarda, la zona della "Vega" di Milis, all'estrema
propaggine settentrionale della pianura del Campidano, nell'Alto Oristanese.
"Vega" è termine derivante dallo spagnolo, col quale si intende un'ampia
distesa di terreno pianeggiante, ricca di coltivazioni e di acque irrigue:
definizione che si attaglia perfettamente alla vasta fascia di territorio posta
immediatamente a sud della catena montuosa del Montiferru e da questa ben
riparata dagli impetuosi venti di nord-ovest, dominanti in Sardegna. Si
estende, tale territorio, per una lunghezza di circa otto chilometri e per una
profondità di circa due, seguendo il corso del Rio Mannu, l'area è ricchissima
di acque sorgive canalizzate in tanti piccoli "rii" che intersecano la "Vega "
andando a confluire nel Rio Mannu e garantendo al terreno un sufficiente
tasso di umidità, indispensabile per le fitte colture di agrumi che caratterizzano il sito.
A testimoniare la persistenza storica dell'intensivo e razionale sfruttamento
della zona, fin dal periodo delle donazioni effettuate da giudici e" donnos "
locali in favore dei monaci di Camaldoli, stanno diverse emergenze di
interesse storico ed ambientale: la più importante fra tutte è senza dubbio la
chiesa, di S. Paolo, sita poco fuori il margine meridionale dell'abitato e
prossima alla località dove sorgeva probabilmente la chiesa camaldolese di S.
Giorgio di Calcaria.
La bella chiesa di S. Paolo, monumento insigne del romanico nell'isola dal
paramento in conci dicromi a filari alterni, fu edificata in due diverse fasi: il
primo, impianto fu realizzato intorno al quinto decennio del XII sec. mentre
la fase conclusiva è stata tra la fine del 1100 ed il primo trentennio del 1200. È
senz'altro da mettere in relazione con la presenza monastica nel luogo, pur se
di essa non si trovi traccia nelle fonti del tempo ed in particolare nel
Condaghe di S. Maria di Bonarcado. Diversi portali setteottocenteschi
d'accesso ai fondi agricoli mostrano caratteri di ricercatezza formale e talvolta
tipologie e dimensioni più chiaramente "monumentali" ( come nel caso del
portale proprietà Mastino, o di quello del fondo "Zaliras" o "Zalidas", o del
neogotico portale del "Bosco di Villa Flor").
Dal punto di vista della persistenza storica e toponomastica tuttavia, il sito
che più convincentemente offre testimonianza del secolare impianto
produttivo della "Vega" è senza dubbio il cosiddetto "Bosco di Villa Flor" (
romantico appellativo ottocentesco di questo vasto' fondo - circa 5 ettari tutto coltivato ad aranceto) ma la cui significativa denominazione popolare è
tuttora "S'Ortu de is Paras", L’orto dei frati. Si tratta di uno dei primi
insediamenti dei monaci camaldolesi di S. Maria di Bonarcado in agro di
Milis, a cavallo tra il XII e XIII sec., rimasto sostanzialmente immutato nei
secoli ed intensamente sfruttato con periodici reimpianti ed innesti fino ai
giorni nostri. Cinto da vetuste e rigogliose siepi di alloro e delimitato a sudest da un piccolo e pittoresco corso d'acqua, affluente del Rio Mannu,
presenta al suo interno alcuni interessanti manufatti: un ponte sul predetto
rio, in laterizi con alte spallette e pavimentazione a selciato; una singolare
costruzione di ridotte dimensioni con copertura a capanna, ad unico
ambiente interno con piano di calpestio in acciottolato e grande camino;
l’esterno è a filari dicromi in pietra trachitica del luogo e richiama
esattamente il paramento del grande portale d'accesso, terzo elemento di
interesse architettonico, anche se è improponibile l'identificazione di tale
costruzione con un ipotetico "locus" camaldolese, edificato cioè dai frati come
punto d'appoggio per la bonifica e la colonizzazione del luogo; viceversa
Ilevidente affinità col neogotico portale - fatto edificare dai marchesi Boyl
proprietari di questo e di altri vasti appezzamenti nel territorio di Milis fino a
pochi anni or sono, suggerisce una consimile datazione anche per la rustica
"casetta", la cui struttura rimanda semmai ad una volontà di imitazione, tutta
romantica, della semplicità e del rigore tipici dell'edilizia benedettina con un
esplicito riferimento al pittoricismo cromatico della vicinissima chiesa di S.
Paolo.
Nulla tolgono tuttavia, le considerazioni su esposte, al fascino particolare del
luogo che si configura come un vero e proprio "parco" storico e ambientale
per il quale la Soprintendenza ai B.A.A.S. di CagIiari oltre a tutelare la chiesa
di San PaoIol ha adottato i provvedimenti di tutela previsti dalle legge
1089/39, vincolandone l’intera espansione. Secondo la documentazione
storiografica l’introduzione delle colture specializzate degli agrumi nella
zona di Milis deve attribuirsi ai monaci camaldolesi soprattutto nelle
"domus" o "cunes" di San Giorgio di Calcaria e San Pietro di Milis pizzinnu,
mentre nel resto dell'Isola si trovavano in coltura promiscua, soprattutto con
meli e fichi. Dell'importanza e feracità della "Vega" di Milis è testimone il
Condaghe di S. Maria di Bonarcado.
Si tratta di una raccolta di schede che si riferiscono all'amministrazione del
patrimonio della medesima chiesa e dell'annesso convento; il condaghe è in
sostanza una conferma arcivescovile dei beni immobiliari posseduti
dall'Abbazia "tanto tempore. . . cuius non exatata memoria", erano in
dotazione dei monaci le chiese di Sancti Georgi de Calcaria et ecclesiam Santi
Petri et ecclesiam sancti Simeonys de Vegela et ecclesia sancti Augustini de
Augustis et ecclesia sancte Victoriae de Montesanto. . .la zona limitrofa al
centro dell'abitato di Milis, attraversata dal Rio Mannu e comprendente il
"Bosco di Villa Flor" o "De is paras". In particolare la coltivazione degli
agrumi venne espressamente citata nella scheda n.134 del Condaghe, laddove
si dice: "Ego Bonizo peccator, monachus et priore sanctae Mariae de
Bonarcatu ki fazo custa carta. . .comporei fundamentum in sanctu Iorgi de
Calcaria et posi ad onu de cedru et de omnia pomu. . . "nonchè in molte altre
citazioni di acquisti e cambi d' orti ", siti per la maggior pane "apud " o "post
monasterium" nella scheda n.196 un priore non identificabile, scambiava
alcuni terreni in proprietà dell'Abbazia con un:"ortu de su mulinu, cum
omnia cantu at terra e frutu et arbores. . . "; l'informazione risulta
particolarmente significativa per l'individuazione del sistema di irrigazione
adottato dai monaci soprattutto se la si affianca alla scheda n.146, datata 1147,
che, neIIleIencare i confini di un appezzamento che viene donato ai monaci,
recita ". . . daue su vadu dessu giradoriu dessu molinu in collat su flumen
usque a bau de canales" ( " dal guado della ruota del mulino nel quale sale il
fiume fino al guado del canale."); risulta evidente quindi come le colture
locali venissero irrigate già nel XII secolo, con l'ausilio della ruota idraulica.
Risalgono al 600 a questo periodo la citazione in termini elogiativi dei fiorenti
agrumeti di Milis fatta da F. Vico nel 1639 nella sua "Historia GeneraI de la
Isla y Reyno de Sardena ", e di poco precedente è la "Relacion al Rey don
Felipe nuestro por el doctor Martin Carrillo" che nel 1612 visitando l'Isola
esprimeva la sua ammirazione per la "Vega" in questi termini: "Hay un llano
entre Oristan y Milis de largo y hancho de mas tre millas, todo lleno de
naraines en tiempo de la flor hay tanta amenidad y fragancia, que sente mas
de dos leguas el olor. . . ". Nel 1763 Carlo Emanuele III, dopo un lungo
periodo di vacanza della sede, nominò finalmente un priore per il Convento,
ma i possedimenti di quest' ultimo erano ormai divisi tra la Curia di Oristano
ed i privati. Nello stesso periodo (1760) il Vicerè incaricava il comm. Spano,
milese, di redigere una stima della produzione agrumicola della "Vega ".
Nel XIX secolo le testimonianze della "Vega" sono essenzialmente di natura
descrittiva e si debbono a quei viaggiatori che percorsero l’isoIa alla scoperta
di un mondo del tutto ignoto e che descrissero spesso con accenti entusiastici
la bellezza e la feracità del sito. Tra questi, nèl 1838, così si esprime Claude
Pasquin Valery, bibliotecario di Versailles, "Nel primo giorno di maggio, con
un tempo magnifico, ho visitato i giardini o piuttosto la foresta di aranci di
Milis, ornamento della Sardegna coi suoi cinquecentomila e più alberi il cui
avvicinarsi è annunziato da una brezza profumata. . . L'abbondanza dei frutti
è prodigiosa: qualche volta son necessari lunghi pali per sostenere i rami che
si piegano sotto il peso degli aranci e dei limoni. I frutti ammontano, nelle
annate medie, a non meno di dieci milioni: si rimane abbagliati da tutti quei
globi rossi e dorati, ardente vegetazione sospesa in festoni e ghirlande. "
All'interno della curatoria di Milis, la chiesa di San Paolo è sicuramente
organizzata secondo l'economia cunense.
Databile intorno al XII sec., su un primo impianto del 1140-50 ed il
completamento intorno al XIII secolo: i suoi caratteri stilistici e architettonici,
rendono abbastanza facile leggerne le sue fasi costruttive. Di particolare
importanza nel panorama dei monumenti della regione, il suo raffronto porta
a meglio comprendere l'impostazione dei cantieri medievali e il movimento
dei "mestre de pedra" e degli altri costruttori che passavano da una
costruzione all'altra lasciando il segno della loro esperienza.
La ricchezza e la complessità dell'arredo interno e le sue complesse vicende,
non fanno che aumentare l'interesse artistico e iconografico di questo
singolare monumento.
Lo studio eseguito da Gabriele Tola e Giovanni Zanzu mette un punto fermo
su una ricerca non facile mettendo in evidenza le peculiarità di questo
singolare monumento: un'analisi esaustiva dei suoi attributi formali, storici e
decorativi, inseriti nel contesto più ampio della zona del Barigadu e sotto
l’influenza di Santa Maria di Bonaccattu. Vorrei in questa occasione ricordare
l'aiuto prezioso e la sempre attenta sensibilità su tutto il territorio di Milis,
che ci sono stati generosamente concessi, dal dopoguerra fino al 1988, anno
della sua morte, dal cav. Cicito Vacca, attento ispettore onorario e grande
conoscitore della sua terra, che ha sensibilmente contribuito, anche in tempi
non propizi, alla conoscenza e tutela della Vega di Milis e dei suoi dintorni.
Francesca Segni Pulvirenti Soprintendente B.A.A.S.
La parte riguardante la Vega di Milis è tratta da un contributo al III convegno
sui giardini storici "Paesaggio e giardini del Mediterraneo", presentato da M
Gerolama Messina, Massimo Delogu e Francesca Segni Pulvirenti, Pompei
4,5,6 giugno 1993, e pubblicato negli Atti del Convegno, col titolo "Una
significativa persistenza storico-ambientale nell'alto Oristanese la "Vega di
Milis"
LE OPERE CUSTODITE NELLA CHIESA DI SAN PAOLO
All'interno della chiesa si trovano un altare ligneo policromo e tre dipinti su tavola
raffiguranti una Crocifissione, Madonna con Bambino, Angeli e donatore, predella
con storie della vita di S. Paolo.
Le prime notizie su queste opere le riporta il canonico e collezionista Giovanni Spano
che, nella sua "Storia Artistica Sarda" de11861, citando un non meglio identificato
(anzi sicuramente mai esistito) pittore Giorgio di Cagliari, vissuto ai tempi del
Giudice Torbeno di Arborea nel XV sec., osserva: "...A questo tempo possono
riferirsi le pitture delle tavole ch'esistono nella bella chiesa di S. Paolo di Milis di
facciata gotica: quelle dell’altare maggiore e dell’altare a sinistra sono state
guastate da mano imperita; intatta però è quella della Crocifissione, lo stile è secco
ma vivace nei colori" 2.
Si accenna ancora alla Crocifissione e a un altro dipinto in un foglio di appunti della
fine dell'800 conservato nell'Archivio della Soprintendenza ai Beni A.A.A.S. di
Cagliari: "Una tavola (finale di quadro) di 0,95 x 100 raffigurante la
Crocifissione...opera pregevole de1 1300. In basso vi è altra tavola di m. 2,10 x 0,90
guastata da mano inesperta nel ritocco". Quest'ultima, come si può arguire dalle
dimensioni, (ancorché non esatte, vedi nota
14)
è la predella, mentre non viene
menzionata la Madonna col Bambino.
Il Regio Ufficio di Conservazione delle Opere d'Arte nel 1896 notificò al parroco di
Milis la tavola della Crocifissione, ubicata sempre nell’altare del transetto a sinistra:
"Pittura a tempera su tavola rappresentante la Crocifissione... Il quadro è di una
vivacità insolita nei pittori del sec. XIV° e presenta uno sfondo di paesaggio
ammirabilmente eseguito. Non se ne conosce l’autore… è l' unica tavola rimasta
delle tante che secondo lo Spano e il Lamarmora adornavano la Chiesa" 3. Anche la
G. Goddard King nel suo studio sulla pittura in Sardegna parla esclusivamente della
Crocifissione attribuendola a pittore catalano degli inizi del '400, in base all’intagliato
2
G..Spano, Pitture antiche a fresco e storia artistica sarda, Bullettino Archeologico Sardo, n ° 3,
VII, Cagliari 1861, p. 40, nota 1. In questo scritto lo Spano cita una serie di pittori che avrebbero
operato in Sardegna, in realtà mai esistiti, che riprende dai famosi falsi di Arborea. A sua
giustificazione va detto che prima di lui nessuno si era mai occupato dell'arte in Sardegna, tanto
meno in modo sistematico come egli fece.
3
Per quanto riguarda il Lamarmora nel suo "Voyage en Sardaigne" non parla affatto delle pitture
della chiesa. Anche padre Cugia nel suo "Nuovo Itinerario dell'Isola di Sardegna", Ravenna 1892,
Voi. II, p. 254 si riferisce probabilmente a questo dipinto: "Presso il paese vedesi l'antica chiesa di
S. Paolo, già dipendenza del priorato di Bonarcado… di ragguardevole architettura la facciata con
vari ornamenti l'interno contiene una bella tavola ".
della cornice, così come Delogu che la dà a pittore sardo-catalano del xv° sec. 4
Vi sono raffigurati Gesù, i due ladroni e la Maddalena piangente che abbraccia la
croce, mentre sulla sinistra è la Madonna sostenuta da S. Giovanni e una pia donna 5;
tutto intorno soldati a piedi e a cavallo; a destra, sul cavallo nero, un personaggio
vestito all'orientale 6, e al suo fianco uno dei sacerdoti del Sinedrio con la mitria a due
corni.
Sullo sfondo si intravede un paesaggio con la città di Gerusalemme. Questa tavola può essere messa
in relazione con un dipinto pressoché contemporaneo raffigurante la Crocifissione, del Maestro di
Castelsardo (fine XV° sec.), conservato a S. Maria di Tallano in Corsica nel monastero francescano,
per il modo pressoché identico di rendere l’anatomia dei corpi del Cristo e dei ladroni 7 mentre per
quanto riguarda la Maddalena, numerosi studiosi (vedi note 9, 10, 11) hanno fatto un richiamo alla
pittura umbra senza però citare riferimenti iconografici precisi. Posso confermare queste
affermazioni mediante un confronto diretto con un affresco, di cui si erano perse le tracce alla fine
degli anni trenta di questo secolo, recentissimamente ricomparso sul mercato antiquariale, opera di
un maestro perugino della prima metà del '400, chiamato dal Todini che ne ha ricostruito il percorso
artistico, " Maestro della Crocifissione Volpi ", dal nome del famosissimo antiquario che per primo
lo possedette 8. È evidente la citazione diretta della Maddalena che abbraccia la croce bagnata dal
4
G. Goddard King, Sardinian Painting, Bryn Mawr, 1923, p. 65.
R. Delogu, T CI, Sardegna, Milano 1952, p. 152
5
Dipinto a tempera su tavola, h. cm. 122,5 x cm. 97.
In tutti i retabli spagnoli del XIV e XV sec. e oltre, e nei retabli sardi da quelli derivati, nel pannello
superiore era sempre raffigurata la scena della Crocifissione. Sabino Iusco ha pubblicato una scheda
del restauro di questo dipinto eseguito da A. e R. Barracchia nel 1963: "Il restauro ha richiesto una
razionale parchettatura eseguita con scorrevoli e ponticelli in faggio evaporato, previa bonifica di
chiodi e traverse fisse, nonché risarcitura a tasselli delle zone di legno deteriorato. Mancava la
incorniciatura di metà pilastrino, di un pinnacolo e di una base. Questi elementi sono stati rifatti
sui modelli di quelli superstiti e si è ripresa la doratura però patinata con "rigatino" che consente
una agevole identificazione delle parti moderne. La pulitura eseguita a butillamina è stata piuttosto
ardua e difficoltosa. La stuccatura e la ripresa cromatica sempre a "rigatino" su sottotono di
colore a vernice, sono state condotte con prassi normale". Catalogo mostra Restauri d'Arte in Italia,
Roma 1965, scheda n° 176, pagina 172.
6
Il riferimento può essere legato ai Vangeli apocrifi che parlano della presenza alla Crocifissione di
Cristo di uno dei Re Magi, precisamente Baldassarre. La presenza di questo personaggio è
abbastanza comune nella iconografia del primo '500 in Sardegna, vedi P. Cavaro nella Crocifissione
del retablo di Villamar.
7
La King per i due soldati a cavallo sulla sinistra del nostro dipinto fa riferimento allo spagnolo
Vergos.
8
F. Todini, La pittura umbra dal '200 al primo '500, Milano 1989, voI. 1, p. 127, voi. 2, p.
sangue sgorgante dalle terribili ferite del Cristo, ma anche la posizione dei due ladroni in secondo
piano legati allo stesso tipo di croce.
Nel secondo dipinto
9
sono raffigurati la Madonna col Bambino, un donatore e
quattro angeli. Le figure meglio riuscite sono sicuramente i due angeli musicanti e la
Madonna col prezioso mantello damascato, mentre il Bambino presenta delle
sproporzioni evidenti tra il busto e le gambe decisamente troppo corte, così come le
braccia. Al collo porta una collana con un pendente di corallo 10.
Anche per gli angeli, c'è un richiamo alla pittura umbra del '400, come bene hanno
osservato sia Iusco
11
che la Serra
12
e Caleca
13
. Ma quest’ultimo fa riferimento
341.L'affresco fu staccato tra il 1927 e il 1929 e diviso in quattro pannelli. Non si conosce la chiesa
da cui proviene anche se si può presumere fosse titolata a S. Giovanni vista l'importanza che il
personaggio assume in questo affresco. Il ritrovamento è opera dell'antiquario di Firenze Braschi
che lo ha fatto restaurare in un laboratorio fiorentino.
R. Ferrazza – 0. Casazza, L'affresco riscoperto. Una crocifissione umbra del quattrocento già
collezione Volpi, Firenze 1995.
9
Dipinto a tempera su tela, h. cm. 175 (116,5) x 104 (94) Originariamente su tavola, fu restaurato
nel 1963 da Amerigo e Rodolfo Barracchia ed in tale occasione si fece il trasporto su tela; oggi si
presenta abbastanza scuro, probabilmente a causa dell'ossidazione delle vernici. Anche di questo
restauro c'è una relazione di Sabino Iusco: "Purtroppo il dipinto, attaccato dalle termiti, aveva
lesioni profondissime che giungevano sino alla mestica. Ogni tentativo di risarcire il supporto era
vano, e pertanto si decise il trasporto su tela, che è stato condotto secondo la tecnica tradizionale.
Nella intelaiatura, a protezione del dipinto, si è interposto, libero, fra telaio e tela, un foglio di
masonite temperata, immunizzata con Xilamon, insieme al telaio regolabile.La pulitura è stata
impegnativa. L'opera infatti era stata travisata da un'orribile ridipintura, che aveva inserito d'arbitrio
un secondo infedele e trasformata la dedicazione da Madonna del Rosario a Vergine d'Itria. La
butillamina ha permesso di ricuperare totalmente l'originaria fisionomia dell'opera salvando perfino
le tracce autentiche dell'oro. I ritocchi sono stati eseguiti con "rigatino" sottile e a velatura di
vernice. Della incorniciatura si avevano pochi frammenti, che sono stati utilizzati in una
integrazione piuttosto neutra e funzionale. Le parti nuove della cornice sono state dorate ma sono
distinguibili per il "rigatino" sopramesso all'oro, anche al fine di patinarlo".
Sabino lusco, op. cit., scheda XXXII, pag. 126.
10
In epoca romana e medievale al corallo rosso del Mediterraneo venivano attribuite proprietà
curative nonche il potere di stornare il malocchio e nei bambini veniva usato in funzione preventiva.
Un esempio si trova nella Sacra Conversazione di Piero della Francesca, a Brera.
11
S. Iusco, Op. Cit., p. 126
esclusivamente al Pinturicchio, al contrario della Serra, oltreché della King e di
Delogu, che ritengono catalano il nostro pittore. R. Coroneo afferma che
l'impostazione compositiva della Madonna incoronata da angeli, col Bambino
benedicente che regge il globo con la sinistra, risale ad un prototipo analogo a quello
adoperato da Pietro Befulco per una chiesa di Lainio Bruzio, datato 1500, mentre per
gli angeli musicanti che sollevano un piede poggiandolo su un bracciolo fa
riferimento specifico al Mantegna 14.
I due dipinti sono dello stesso autore come dimostrano i medesimi profili dell'angelo
reggicorona a destra e del donatore con la Maddalena della Crocifissione, nonché gli
stessi rossi delle vesti; l'elmo e la cotta del sicario sono identici a quelli dei soldati
della Crocifissione, così come la punzonatura dei nembi della Madonna, del Bambino
e degli angeli è la stessa di quelli della Maddalena e del gruppo della Madonna della
Crocifissione. Nella predella le scene 15 sono suddivise da cornici dorate tipiche dei
retabli gotici e raffigurano altrettanti momenti della vita di S. Paolo ordinate da destra
a sinistra: Conversione di S. Paolo nella via di Damasco; predica di S. Paolo a
Damasco; S. Paolo a Cesarea davanti ad Agrippa II (figlio di Erode Agrippa);
decapitazione di S. Paolo (avvenuta a Roma nel 67 d.C.) La predella presenta una
iscrizione che può spiegare la differenza di stile rispetto alle altre tavole DIE
VIGESIMA MENSIS MA(D)II AN(N)O A NAT(IVI)TATI D(OMI)NI
MCCCCC3 HOC OP(US) RENOVARE PA(?) CUM CO(N)SILIO OMNIU(M)
12
R. Serra, Retabli pittorici in Sardegna nel Quattrocento e nel Cinquecento, Roma 1980, p.26 "A
livelli assai più modesti un marcato interesse per l'arte italiana nel tardo Quattrocento, specie per
quella Umbra, distingue i modi di tal uni pittori catalani attivi in Sardegna allo scadere del XV sec.
e ancora nel secolo successivo come appare evidente in due tavole con la Crocifissione e con la
Madonna in trono. . . del retablo del San Paolo di Milis. "
13
A. Caleca, Pitture in Sardegna: problemi mediterranei, in Cultura quattro-cinquecentesca in
Sardegna, Cagliari s. d., p. 37. "...L'evidente riferimento al Pinturicchio delle tavole di San Paolo di
Milis le accosta proprio al pittore della reggia vaticana dei Borgia ".
14
R. Coroneo in R. Serra, Pittura e Scultura dall'Età Romanica alla fine del '500, Nuoro 1990, p.
142, scheda n° 62. In questa scheda afferma anche che i caratteri stilistici della predella si
accordano con quelli della tavola maggiore affermazione che non mi trova d'accordo essendo chiara
la differenza stilistica tra le due tavole.
15
Dipinto a tempera su tavola, cm. 73 x 235.
CIVIV(?) (oppure PIUM (?)) P(RESE)NT(I)S HOPIDI D(E) MILIS 16.
"Hoc opus" fu quindi "renovata", rifatta cioè ex novo per qualche probabile danno
subito da quella originaria o per altro motivo a noi sconosciuto (per es. il retablo non
fu mai ultimato).
Lo Spano 17 seguito da I. Arce 18 ritiene invece che il"renovare" riguardi l’altare.
"A quel secolo (XV) possono riferirsi le tavole ch'esistono nella chiesa di S. Paolo di
Milis, ma quelle dell'altar maggiore e dell'altare a sinistra sono state guaste da mano
imperita, cioè nel 1503 quando fu rinnovato l’altare come dall'iscrizione Die
vigesima mensis maii an. a nativ. DNI MCCCCCIII hoc opus renovare fecit cum
consilio omnium huius pntis opidi de Milis". Vi è rimasta intiera la Crocifissione 19
Non è chiaro però in cosa sia eventualmente consistito il "renovare" dell'altare (di
quale?), il perché questa "mano imperita" avrebbe dovuto danneggiare i dipinti di due
altari e lasciare intatta la Crocifissione. Ma non si spiega così neanche la differenza di
stile tra le due tavole della Crocifissione e della Maddalena e la predella.
Essa, molto probabilmente, fu dipinta da un pittore locale dotato di modesti mezzi, il quale sistemò i
riquadri in uno scomparto architettonico che riprendeva i motivi delle cornici delle altre tavole del
retablo, di cui costituiva il completamento. Come bene evidenzia il disegno, le cornici, le colonnine
e i motivi decorativi a rilievo sono assolutamente uguali nelle tre tavole e questo dimostra
chiaramente che questa predella faceva parte del retablo, pur essendo stata quasi sicuramente
aggiunta in seguito. Per ciò che concerne la datazione delle tavole superiori, non si può accettare
quella al XIV sec. delle prime attribuzioni, come pure quella dello Iusco, che ritiene questo retablo
una celebrazione della battaglia di Lepanto, "Parte integrante con la Crocifissione, di uno stesso
retablo di ignoto pittore sardo sensibile alla cultura umbra. La datazione è posteriore al settimo
decennio del cinquecento, poiché è evidente il culto del Rosario ed il riferimento alla battaglia di
16
"ll giorno 20 maggio 1503 quest'opera fu rinnovata col consiglio di tutti i pii ( cittadini) della
presente città di Milis". Presumibilmente l'iscrizione va letta in questo modo, data la difficoltà di
interpretare quel PA dopo renovare e quel PlVIVo CIVIV che potremmo leggere PIUM o CIVIUM.
17
C. Spano, Storia dei Pittori sardi e catalogo descrittivo della privata pinacoteca, Cagliari 1870,
p.11, nota 2.
18
I. Arce, La Spagna in Sardegna, Cagliari 1982, p. 509.
19
C. Spano, Op. ult. cit., p. 11, nota 2.
Lepanto cui ha partecipato l'ignoto cavaliere inginocchiato ai piedi della Vergine, salvato da un
infedele che lo insidia"
20
. Per ciò che concerne il culto del Rosario, non potrebbe comunque
spostare al tardo '500 la datazione; infatti la prima rappresentazione della Madonna del Rosario è
del 1474, data del "Trittico di S. Andrea " , che si trova nella chiesa di S. Andrea a Colonia. Peraltro
questa è una Madonna delle Grazie, sia per l'epigrafe nella pedana del trono, sia per l'ignoto
donatore che ringrazia la Vergine per lo scampato pericolo. Per l'altro elemento di datazione, cioè la
battaglia di Lepanto, si può pensare che lo Iusco sia stato tratto in errore dalla figura del turco
inginocchiato ai piedi della Madonna, evidente ridipintura, che durante il restauro fu asportata. Il
sicario identificato con un infedele ha in realtà armatura e armi di tipo occidentale, quindi il
riferimento è errato. Inoltre egli trascura qualsivoglia carattere stilistico che rende impensabile
questo dipinto in quella data. Non si può peraltro escludere che la figura eliminata durante il
restauro possa essere stata dipinta proprio per celebrare la battaglia di Lepanto e quindi ci sarebbe
da discutere sulla opportunità di tale intervento. L' autore è anonimo, ma si può pensare con buona
approssimazione che il retablo sia stato eseguito negli ultimi anni del ‘400 da un pittore di cultura
catalana che bene conosce la pittura italiana e in particolare quella umbra mentre la predella, come
da iscrizione, è da assegnare al 1503. Possiamo pensare che all'origine di questo retablo ci sia un
fatto storico: il personaggio inginocchiato è un nobile come si evince dalle ricche vesti e dal grosso
collare d'oro, che ringrazia la Vergine per averlo protetto. Niente esclude che si tratti di qualche
vicenda avvenuta a Milis o nel Campidano di cui non abbiamo notizia dalle fonti. Quanto alla
collocazione originaria, probabilmente costituiva la pala dell'altare maggiore prima di venire
sostituita con il retablo ligneo che andiamo ad esaminare.
È in legno intagliato, dorato e policromato 21, con tre nicchie cassetto nate racchiuse
da quattro colonne tortili con capitello pseudo-corinzio, che ospitano tre sculture;
quella centrale è chiusa da un bel vetro piombato. Sulla trabeazione con rilievi a
fiorami e cinque teste di puttini, poggiano due colonne, sempre a tortiglione, che
delimitano un'altra nicchia collegata da due volute al timpano spezzato dell'ordine
inferiore; il fastigio è costituito da un olio raffigurante Dio Padre, con una ricca
cornice a volute. Nella base vi sono 18 piccole tele raffiguranti storie di S. Paolo di
pittore dai caratteri popolareggianti probabilmente locale (erano in origine 19 ma
20
21
S. Iusco, Op. cit., p. 126.
Misure: h. cm. 500 x I. cm. 400.
L'altare è stato restaurato nel 1971 a cura della Soprintendenza B.A.A.A.S. di Cagliari, da Natalina
Solidoro. Dopo la disinfestazione e il consolidamento del legno, è stata effettuata la pulitura della
cornice e delle dorature: quindi integrate le parti mancanti dell'intaglio e della cornice e protetto il
tutto con vernice Damar. Sono state restaurate anche le piccole tele.
quella centrale è mancante).
Questo altare barocco ha una tipologia diffusa nella Sardegna centro meridionale del
XVllo sec.: infatti dimensioni e schemi analoghi si riscontrano a S. Vittoria nella
stessa Milis, nelle parrocchiali di Sorradile e Villamassargia, nel S. Domenico di
Oristano ed anche, sebbene in una interpretazione molto volgarizzata, nella
parrocchiale di Samugheo. A tutti questi, il nostro è superiore per qualità d'intaglio,
cromia ed equilibrio di forme, e non è escluso che possa aver fatto da modello ai
summenzionati altari, ad eccezione del retablo di S. Domenico che se ne allontana per
altri versi 22. L'altare di S. Paolo è, tra quelli di piccole dimensioni, uno dei più belli
che si conservino in Sardegna.
Le tre sculture raffigurano da sinistra S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni Battista. S.
Pietro ha veste e mantello decorato con un bel damaschinato inciso direttamente sulla
preparazione, quindi dorato con argento meccato. Con la mano destra tiene le chiavi e
con la sinistra un libro; ai piedi ha semplici sandali 23.
22
Con l'altare di S. Domenico vi sono fondamentali differenze: il timpano spezzato a S. Domenico
è sostituito da due braceri ardenti, mentre nella nicchia centrale viene aperta una tenda, ciò che lo
collega alla grande ancona di S. Antioco del Duomo di Iglesias. Si ritiene comunemente che questi
altari lignei siano di importazione spagnola o almeno direttamente discendenti dai retabli spagnoli.
In realtà le prime realizzazioni sono ispirate al Rinascimento italiano, create da artisti italiani per lo
meno per quanto riguarda le opere che segnano il passaggio del retablo gotico di origine catalana a
quello rinascimentale. Si possono prendere come esempio i due retabli della parrocchiale di Las
Plassas e di Nuestra Senora di Las Cracias di Busachi, purtroppo ora perduti. Essi furono
commissionati dal Conte Torresani marchese di Sedilo, nel 1558 all'intagliatore e scultore genovese
Antonio Bonato (vedi R. Bonu, Uomini, Paesi, Santi, Cagliari 1969). A Barumini i Zapata
commissionarono per l'altare maggiore della Parrocchiale, nella 2' metà del '500 un retablo di gusto
rinascimentale italiano nell'architettura lignea che sorregge e scompartisce le tavole dipinte da
pittore sardo legato ai modi del Mainas. ( C. Lilliu, Un monumento del primo '600: Palazzo Zapata
in Studi Sardi 1940, p. 149). Così nel '600 e '700 troviamo in maggioranza scultori, architetti ed
ebanisti italiani e sardi, anzichè spagnoli, che disegnano e realizzano queste opere insieme a
maestranze sarde (vedi i due altari del Santuario di S. Ciorgio a Suelli e quelli di Sardara e Sassari).
Naturalmente vi sono esempi di altari di disegno e fattura prettamente spagnoli come per esempio
quelli di S. Domenico a Cagliari, distrutti dai bombardamenti del 1943 di cui si conservano le foto,
che avevano una tipologia identica a molti altari che ancora si conservano in Spagna.
23
Misura in altezza cm. 158. Il viso, le mani e i piedi sono stati ritoccati probabilmente ad olio e poi
riverniciati.
Questa scultura si distacca notevolmente dalle altre due. Oltre all'evidente differenza stilistica si può
notare che anche le dimensioni cambiano 24; inoltre essa è priva di base e la sistemazione nella
nicchia ha richiesto uno scavo della stessa, ( dobbiamo quindi presumere che questa non sia la
collocazione originaria); e mentre la doratura, come già detto, è in argento meccato, la veste di S.
Paolo e la pelle di agnello del S. Giovanni sono in oro a foglia su bolo rosso. Il S. Pietro ha una
notevole forza plastica, anche se nel modellato presenta alcune indecisioni e durezze. Esso conserva
ancora quella torsione caratteristica della scultura manieristica, senza averne però l’agilità.
È probabile che l’autore abbia ripetuto lo schema di una opera più importante, senza
mettersi troppi problemi di interpretazione. Un riferimento può essere il S. Pietro
della Cattedrale di Bosa, scultura datata 1608. Di questa la nostra riprende la
posizione rovesciandola specularmente; la veste con l’identica apertura sul petto
nonché la positura del mantello che gira su un braccio, cinge la vita e scende sulle
gambe con un taglio obliquo; naturalmente la cifra stilistica è differente, come pure la
qualità dell'intaglio e del modellato. Mentre la scultura bosana, che lo Spano dice di
"scarpello romano", è ancora molto manieristica, l'autore del S. Pietro di Milis, dà
alla figura un senso di forza e di pienezza di forme decisamente secentesche. Lo
stesso tipo di damaschinatura floreale incisa sulla preparazione si trova in moltissime
sculture di botteghe campane, di cui è un esempio il S. Nicola da Bari nell'episcopio
di Bosa. Si può quindi ipotizzare anche per il nostro artista una formazione o una
origine napoletana.
Anche le altre due sculture presentano tra loro differenze di modellato nelle vesti ma soprattutto
negli incarnati, che fanno pensare a due autori diversi, anche se probabilmente facenti pane della
stessa bottega. Il S. Giovanni Battista, di più fine intaglio, ha un'anatomia resa in modo realistico: si
vedono molto chiaramente le vene delle mani, delle braccia e delle gambe. Le caviglie non sono
così “solide” come nel S. Paolo; i piedi segnano le curve del terreno su cui poggiano mentre quelli
24
ll S. Paolo misura cm. 148 compresa la base di cm. 8. La veste è in oro a foglia senza sbalzi di
tono, ritoccata in alcune parti. L'incarnato è a tempera, il viso presenta tracce di ridipintura come i
puttini della base, la verniciatura è recente. La spada in argento è posticcia. Il S. Giovanni Battista è
alto cm. 147 colla base di cm. 7. È dipinto a tempera tranne la pelle di agnello che è in oro a foglia
su bolo rosso scuro. Dell'oro, comunque, è rimasto ben poco e le lacune in tempi recenti sono state
riprese a tempera data a velature, quindi riverniciate. L'incarnato è stato ritoccato, come anche i
capelli.
del S. Paolo sono rigidi e sembrano incollati al piano di appoggio. I capelli di S. Giovanni sono
mossi, mentre quelli di S. Paolo scendono uniformi.
Infine anche gli angeli delle basi differiscono tra loro nel trattamento dei capelli e
delle ali. L'autore o gli autori potrebbero essere tra i tanti scultori campani di figure
devozionali che lavoravano in Sardegna o che nell’isola mandavano le loro opere.
La loro datazione è anteriore al 28 giugno 1675 anno in cui, secondo il libro storico
della parrocchia, la statua di San Paolo essudò per ben 5 volte 25 . Ci fu un gran
concorso di popolo che verificò il fatto e che si trovò a sua volta miracolato poiché, al
rientro nelle proprie case, tutte le persone che erano accorse trovarono il disordine
che avevano lasciato per assistere al fenomeno, tramutato in ordine.
Giovanni Zanzu
25
Libro storico della Parrocchia di Milis.
SANTA VITTORIA
La chiesa di S. Vittoria è situata quasi al centro del paese, lungo la strada che
da Piazza Martiri conduce a Seneghe, ed è disposta lungo l’asse Nord-Sud.
Ha due ingressi: quello principale sulla facciata esposta a Nord e l’altro su di
un fianco. La muratura è realizzata in tufo misto a pietrame e scaglie varie, in
malta di fango. I due portali sono architravati. La luce penetra attraverso tre
finestre. L’interno ha una sola navata, sulla quale si aprono due cappelle
laterali contigue con archi. Sul presbiterio poggia un altare ligneo barocco, del
Seicento, con colonne tortili sulle quali si innalza una vite, arricchito di tre
nicchie e di tre statue. La base dell’altare era rivestita di pannelli in tela,
dipinti ad olio: ne restano solo due. Sulla parete frontale che sostiene l’altare è
raffigurato, su fondo azzurro, l’Agnus Dei.
All’ingresso della Chiesa, sul lato sinistro, è conservata “sa Lettéra”, cioè la
lettiga dipinta in oro zecchino utilizzata il Venerdì Santo per il rito della
deposizione del Cristo dalla croce (“Su scravamentu”). Si tratta di pregevole
opera artigianale del XVII secolo, di importazione continentale, in stile
baroccheggiante di tradizione catalana, dono dei marchesi Boyl. Sulla sinistra
del presbiterio si apre la sacrestia attraverso una porta del tutto particolare,
databile con molta probabilità al 1642.
L’attuale struttura della chiesa sembra poggiare su basi di epoche precedenti
il tardo Seicento, con struttura tombale del secolo VI-VII lungo tutta la chiesa.
Le più recenti ristrutturazioni sono state nel 1960, a cura della Confraternita
dello Spirito Santo che vi aveva sede; nel 1983 e nel 1986 a cura
dell’Amministrazione Comunale. Il tetto della sacrestia è stato rifatto con
orditura in legno e stuoie di canna, in conformità a quella preesistente. La
copertura del presbiterio risulta a crociera, con nervature accennate. La
navata centrale è a capriate, mentre le cappelle laterali hanno copertura con
tavole e listelli su travi.
CHIESA DI S. MARIA DI BUON CAMMINO
La Chiesetta campestre di S. Maria di Buon Cammino è situata nelle
campagne ad ovest del centro abitato. Vi si accede mediante l’omonima
strada vicinale. Ben visibile dalla strada provinciale che collega Milis con
Narbolia.
La struttura portante è costituita da una muratura mista di pietrame basaltico
e scaglie varie impastate con malta di fango, protetta da un intonaco in malta
di calce, seppure distaccato o perduto in vari punti, a causa dell’azione
erosiva del vento e delle infiltrazioni piovane.
La copertura è costituita da capriate in legno nella navata principale. Travi in
castagno nella cappella laterale e nella sacrestia, orditura di listelli, e tavole,
con sovrastante manto di tegole curve.