Bollettino di informazione sulla giurisprudenza delle Corti

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Bollettino di informazione sulla giurisprudenza delle Corti
BOLLETTINO DI INFORMAZIONE
SULLA GIURISPRUDENZA DELLE CORTI
SOVRANAZIONALI EUROPEE
Novembre 2013
a cura di Ornella Porchia e Barbara Randazzo
INDICE
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
1. Le pronunce rese nei confronti dell’Italia
Art. 7 §1 CEDU (Nulla poena sine lege)
a) Varvara c. Italia – Seconda Sezione, sentenza del 29 ottobre 2013 (ric. n.
17475/09)
Sanzione penale sotto forma di confisca di beni, ordinata nonostante la
dichiarazione di non luogo a procedere (per prescrizione) nel procedimento
penale: violazione
Art. 10 CEDU (Libertà di espressione)
b) Ricci c. Italia – Seconda Sezione, sentenza dell'8 ottobre 2013 (ric. n. 30210/06)
Condanna di un produttore televisivo a pena detentiva con beneficio della
sospensione condizionale per aver diffuso informazioni riservate concernenti una
rete della televisione pubblica: violazione
2. Le pronunce rese nei confronti di altri Paesi
Art. 5 § 1 CEDU (Diritto alla libertà e alla sicurezza)
Art. 7 CEDU (Nulla poena sine lege)
a) Del Rio Prada c. Spagna – Grande Camera, sentenza del 21 ottobre 2013 (ric. n.
42750/09)
Differimento della data della liberazione definitiva in applicazione di un nuovo
orientamento giurisprudenziale: violazione
Art. 6 § 1 CEDU (Diritto alla libertà e alla sicurezza)
Art. 7 CEDU (Nulla poena sine lege)
b) S.C. IMH Suceava S.R.L. c. Romania – Terza Sezione, sentenza del 29 ottobre
2013 (ric. n. 24935/04)
Differente valutazione della validità di una stessa prova da parte di due diverse
autorità giudiziarie senza sufficiente motivazione: violazione
Art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare)
c) Winterstein e altri c. Francia – Quinta Sezione, decisione del 17 ottobre 2013 (ric.
n. 27013/07)
Espulsione di nomadi francesi da terreni privati in cui vivevano da lunga data:
violazione
Art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) in combinato
disposto con l'Art. 14 CEDU (Divieto di discriminazione)
d) I.B. c. Grecia – Prima Sezione, sentenza del 3 ottobre 2013 (ric. n. 552/10)
Licenziamento di una persona affetta da HIV a causa delle pressioni esercitate dai
colleghi: violazione
Art. 10 CEDU (Libertà di espressione)
e) Delfi AS c. Estonia – Prima Sezione, sentenza del 10 ottobre 2013 (ric. n.
64569/09)
Condanna al risarcimento del danno di un nuovo portale internet per la
pubblicazione di frasi offensive sul sito da parte di soggetti terzi anonimi: non
violazione
Art. 1 Protocollo N. 1 (Protezione della proprietà)
f) Da Conceição Mateus e Santos Januário c. Portogallo – Seconda Sezione,
decisione dell'8 ottobre 2013 (ric. n. 62235/12)
Riduzione di benefici in favore di pensionati del settore pubblico: irricevibilità
Art. 1 Protocollo N. 1 (Protezione della proprietà) in combinato disposto con
l'art. 14 CEDU (Divieto di discriminazione)
g) Giavi c. Grecia – Prima Sezione, sentenza del 3 ottobre 2013 (ric. n. 25816/09)
Applicazione di disposizioni speciali che stabilivano un termine di decadenza più
breve per i ricorsi di impiegati di persone giuridiche di diritto pubblico: non
violazione
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
1. Spazio di libertà sicurezza e giustizia/Carta dei diritti fondamentali
Corte di giustizia (Quarta sezione), 17 ottobre 2013, causa C-291/12, Michael
Schwarz,
«Rinvio pregiudiziale — Spazio di libertà, sicurezza e giustizia — Passaporto
biometrico — Impronte digitali — Regolamento (CE) n. 2252/2004 — Articolo 1,
paragrafo 2 — Validità — Fondamento giuridico — Procedura d’adozione —
Articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea — Diritto al
rispetto della vita privata — Diritto alla tutela dei dati personali —
Proporzionalità»
2. Ravvicinamento delle legislazioni
- Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile
Corte di giustizia (Seconda sezione), 24 ottobre 2013, causa C-22/12, Katarína
Haasová c. Rastislav Petrík, Blanka Holingová
«Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione
di autoveicoli – Direttiva 72/166/CEE – Articolo 3, paragrafo 1 – Direttiva
90/232/CEE – Articolo 1 – Incidente stradale – Decesso di un passeggero – Diritto
al risarcimento del coniuge e del figlio minore di età – Danno immateriale –
Risarcimento – Copertura fornita dall’assicurazione obbligatoria»
Corte di giustizia (Seconda sezione), 24 ottobre 2013, causa C-227/12, Vitālijs
Drozdovs c. Baltikums AAS
«Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione
di autoveicoli – Direttiva 72/166/CEE – Articolo 3, paragrafo 1 – Direttiva
90/232/CEE – Articolo 1 – Incidente stradale – Decesso dei genitori del
richiedente minorenne – Diritto del figlio al risarcimento – Danno immateriale –
Risarcimento – Copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria»
- Tutela del consumatore
Corte di giustizia (Prima sezione), 3 ottobre 2013, causa C-59/12, BKK Mobil Oil
Körperschaft des öffentlichen Rechts
«Direttiva 2005/29/CE — Pratiche commerciali sleali — Ambito di applicazione —
Informazioni ingannevoli diffuse da una cassa malattia del regime legale di
previdenza sociale — Cassa malattia organizzata sotto forma di organismo di
diritto pubblico»
Corte di giustizia (Terza sezione), 17 ottobre 2013, causa C-391/12, RLvS
Verlagsgesellschaft mbH
«Direttiva 2005/29/CE — Pratiche commerciali sleali — Ambito di applicazione
ratione personae — Omissioni ingannevoli negli advertorial ovvero pubblicità
redazionali — Normativa di uno Stato membro che vieta ogni pubblicazione a titolo
oneroso priva della dicitura “annuncio” (“Anzeige”) — Armonizzazione
completa — Misure più restrittive — Libertà di stampa»
3. Libertà di stabilimento/libera prestazione dei servizi
Corte di giustizia (Quinta sezione), 24 ottobre 2013, causa C-85/12, LBI hf
«Rinvio pregiudiziale – Risanamento e liquidazione degli enti creditizi – Direttiva
2001/24/CE – Articoli 3, 9 e 32 – Atto del legislatore nazionale che conferisce ai
provvedimenti di risanamento gli effetti di una procedura di liquidazione –
Disposizione legislativa che vieta o sospende qualsiasi azione giudiziaria nei
confronti di un ente creditizio dopo l’entrata in vigore di una moratoria»
4. Libera circolazione dei capitali
Corte di giustizia (Grande sezione), 22 ottobre 2013, causa C-22/12,
Commissione europea c. Repubblica federale di Germania
«Inadempimento di uno Stato — Sentenza della Corte che dichiara un
inadempimento — Normativa nazionale che prevede una minoranza di blocco del
20% per l’adozione di talune decisioni da parte degli azionisti della Volkswagen
AG»
Corte di giustizia (Grande sezione), 22 ottobre 2013, cause riunite da C105/12 a C-107/12, Staat der Nederlanden c. Essent NV (C-105/12), Essent
Nederland BV (C-105/12), Eneco Holding NV (C-106/12), Delta NV (C107/12)
«Rinvio pregiudiziale – Libera circolazione dei capitali – Articolo 63 TFUE –
Regimi di proprietà – Articolo 345 TFUE – Gestori dei sistemi di distribuzione di
energia elettrica o di gas – Divieto di privatizzazione – Divieto di legami con
imprese che producono, forniscono o commercializzano l’energia elettrica o il
gas – Divieto di attività che possano pregiudicare la gestione della rete»
Corte di giustizia (Terza sezione), 17 ottobre 2013, causa C-218/12, Lokman
Emrek
«Regolamento (CE) n. 44/2001 — Articolo 15, paragrafo 1, lettera c) —
Competenza in materia di contratti conclusi dai consumatori — Eventuale
limitazione di tale competenza ai contratti conclusi a distanza — Nesso di causalità
tra l’attività commerciale o professionale diretta verso lo Stato membro di
domicilio del consumatore via Internet e la conclusione del contratto»
5. Ambiente
Corte di giustizia (Quinta sezione), 17 ottobre 2013, causa C-533/11,
Commissione europea c. Regno del Belgio sostenuto dal Regno Unito
«Inadempimento di uno Stato — Direttiva 91/271/CEE — Trattamento delle acque
reflue urbane — Sentenza della Corte che dichiara un inadempimento — Mancata
esecuzione — Articolo 260 TFUE — Sanzioni pecuniarie — Imposizione di una
somma forfettaria e di una penalità»
6. Trasporto
Corte di giustizia (Prima sezione), 3 ottobre 2013, causa C-369/13,
Commissione europea c. Repubblica italiana, sostenuta da Repubblica ceca
«Inadempimento di uno Stato — Trasporto — Direttiva 2001/14/CE — Articoli 4,
paragrafo 1, e 30, paragrafo 3 — Ripartizione della capacità di infrastruttura
ferroviaria — Imposizione dei diritti di utilizzo — Diritti per l’utilizzo
dell’infrastruttura — Indipendenza del gestore dell’infrastruttura»
7. Aiuti di stato
Corte di giustizia (Ottava sezione), 17 ottobre 2013, causa C-344/12,
Commissione europea c. Repubblica italiana
«Inadempimento di uno Stato — Aiuti di Stato — Aiuto concesso dalla Repubblica
italiana in favore dell’Alcoa Trasformazioni — Decisione 2010/460/CE della
Commissione che dichiara l’incompatibilità di tale aiuto e ne ordina il recupero —
Omessa esecuzione entro il termine impartito»
Corte di giustizia (Settima sezione), 10 ottobre 2013, causa C-353/12,
Commissione europea c. Repubblica italiana
«Inadempimento di uno Stato — Aiuti di Stato — Aiuto a favore della Ixfin SpA —
Aiuto illegittimo e incompatibile con il mercato interno — Recupero — Mancata
esecuzione»
Altre segnalazion
Comunicato stampa 23 ottobre 2013 (estratto): Il numero di avvocati generali
alla Corte è portato a nove
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
a cura di Barbara Randazzo
Avvertenza
Nel presente bollettino confluisce soltanto una minima parte della giurisprudenza
CEDU resa nei confronti dell’Italia e degli altri Paesi membri del Consiglio d’Europa che viene
selezionata e tradotta in lingua italiana dal Servizio Studi in collaborazione con altre Istituzioni
per l’Archivio CEDU presso il CED della Cassazione disponibile on line all’indirizzo web:
http://www.italgiure.giustizia.it.
[Per ragioni di uniformità del materiale inserito nella banca dati, ai fini della massimazione ci si
attiene il più puntualmente possibile ai testi dei comunicati stampa o ai bollettini predisposti dalla
Cancelleria della Corte europea, quando disponibili].
1. Le pronunce rese nei confronti dell’Italia
Art. 7 §1 CEDU (Nulla poena sine lege)
a) Varvara c. Italia – Seconda Sezione, sentenza del 29 ottobre 2013 (ric. n. 17475/09)
Sanzione penale sotto forma di confisca di beni, ordinata nonostante la
dichiarazione di non luogo a procedere (per prescrizione) nel procedimento
penale: violazione
[Traduzione integrale curata dagli esperti linguistici del Ministero della Giustizia]
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
CAUSA VARVARA c. ITALIA
(Ricorso n. 17475/09)
SENTENZA
STRASBURGO
29 ottobre 2013
Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della
Convenzione. Può subire modifiche di forma.
Nella causa Varvara c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta
da:
Danutė Jočienė, presidente,
Guido Raimondi,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Işıl Karakaş,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 1° ottobre 2013,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:
PROCEDURA
1. All'origine della causa vi è un ricorso (n. 17475/09) proposto contro la Repubblica
italiana con il quale un cittadino di tale Stato, sig. Vincenzo Varvara («il ricorrente»), ha adito
la Corte il 23 marzo 2009 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. Il ricorrente è stato rappresentato dall’avv. A. Gaito, del foro di Roma. Il governo
italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente E. Spatafora e dal suo co-agente
P. Accardo.
3. Il ricorrente sostiene che la confisca disposta nei suoi confronti è incompatibile con gli
articoli 7 e 6 § 2 della Convenzione nonché con l’articolo 1 del Protocollo n. 1.
4. Il 21 maggio 2012 il ricorso è stato comunicato al Governo. Come consentito
dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato inoltre deciso che la camera si sarebbe
pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
5. Il ricorrente è nato nel 1943 e risiede a Gravina di Puglia.
A. Il piano di lottizzazione
6. Il ricorrente, desiderando costruire dei manufatti in prossimità della Foresta di
Mercadante, presentò un piano di lottizzazione al comune di Cassano delle Murge. Tale
progetto fu approvato dal comune il 31 ottobre 1984. Il 1° marzo 1985 il ricorrente concluse
una convenzione di lottizzazione con il comune e ottenne i permessi a costruire per un primo
gruppo di edifici.
7. Il 6 febbraio 1986 fu pubblicato nella Gazzetta Ufficiale un decreto ministeriale del 1°
agosto 1985. Questo decreto dichiarava che i terreni situati attorno alla Foresta di Mercadante
dovevano essere sottoposti alla tutela paesaggistica di cui alla legge n. 1497/1939 le cui
disposizioni prevedevano che i permessi a costruire potevano essere rilasciati soltanto dopo
aver ottenuto un’autorizzazione ministeriale.
8. Il comune di Cassano delle Murge impugnò il decreto ministeriale dinanzi al tribunale
amministrativo per la Puglia e, con decisione del 10 marzo 1993, vinse parzialmente la causa.
Per effetto di questa decisione (che non è inserita nel fascicolo) i terreni interessati dal
progetto del ricorrente non furono più sottoposti ai vincoli paesaggistici.
9. Peraltro, nel frattempo erano entrate in vigore due leggi. La prima (legge n. 431/1985)
aveva attribuito alle regioni la competenza esclusiva a legiferare in materia di tutela
paesaggistica. La seconda (legge regionale n. 30/1990) sottoponeva i terreni situati in
prossimità dei boschi a vincoli paesaggistici che necessitavano dell’autorizzazione della
Regione, ad eccezione dei casi in cui il piano di lottizzazione fosse stato approvato prima del
6 giugno 1990. Per effetto combinato di queste leggi, i piani che dovevano essere approvati
dopo questa data dovevano ricevere il parere favorevole del comitato urbanistico regionale.
10. Nel 1993 il ricorrente presentò al comune di Cassano delle Murge una variante al
piano già approvato nel 1984. Dal fascicolo risulta che la variante si era resa necessaria in
quanto il piano originale aveva inavvertitamente incluso una zona attraversata da un
acquedotto. Occorreva dunque ridurre la superficie del piano di 3.917 metri quadrati. Inoltre,
poiché i proprietari dei fondi vicini avevano rinunciato al piano, si era resa necessaria una
modifica in particolare per quanto riguarda la redistribuzione dei lotti edificatori. Questa
variante fu approvata dal comune di Cassano delle Murge il 30 maggio 1994.
11. Il 19 agosto 1994 il ricorrente concluse una convenzione di lottizzazione con il
comune che gli rilasciò il permesso a costruire.
12. Il 21 maggio 2007 il comune rilasciò un attestato di conformità alla legislazione in
materia paesaggistica di tutte le opere realizzate dal ricorrente prima del 30 settembre 2004.
B. Il procedimento penale
13. A carico del ricorrente fu avviato un procedimento penale per lottizzazione abusiva. Il
6 febbraio 1997 i terreni e i manufatti (diciassette immobili contenenti ciascuno quattro
alloggi) furono sottoposti a sequestro conservativo.
14. Con sentenza del 1° giugno 1998, il pretore di Acquaviva delle Fonti rilevò che il
ricorrente aveva costruito diciassette manufatti conformemente alla variante approvata nel
1994 e ai permessi a costruire rilasciati dal comune. Tuttavia il giudice ritenne che questa
variante non fosse una semplice modifica al piano del 1984, ma che costituisse un nuovo
piano di lottizzazione assoggettabile alla normativa nel frattempo entrata in vigore. Dal
momento che le norme in questione prevedevano l’obbligo di richiedere e di ottenere il parere
favorevole del comitato urbanistico regionale, e che il ricorrente non lo aveva fatto, i permessi
a costruire rilasciati dal comune dovevano considerarsi privi di effetto.
La situazione controversa ritornava dunque ad essere una lottizzazione abusiva che aveva
comportato il danneggiamento di un sito naturale protetto (articolo 20 lettere a) e c) della
legge n. 47/1985; articolo 734 del codice penale). Dopo aver tenuto conto delle circostanze
attenuanti, il giudice condannò il ricorrente alla pena condizionalmente sospesa di mesi nove
di arresto e al pagamento di una ammenda, disponendo la confisca e l’acquisizione al
patrimonio del comune dei terreni abusivamente lottizzati e degli immobili realizzati sugli
stessi.
15. Il ricorrente interpose appello.
16. Con sentenza del 22 gennaio 2001, la corte d’appello di Bari accolse il ricorso del
ricorrente e lo assolse perché il fatto non sussiste. La corte d’appello ritenne che esistesse un
solo piano di lottizzazione che era stato autorizzato nel 1984, ossia ben prima dell’entrata in
vigore del decreto ministeriale del 1985 e della legge n. 431/1985. Considerò che nel 1994 il
ricorrente avesse presentato una modifica non essenziale al progetto già approvato. Pertanto i
terreni del ricorrente non erano sottoposti a tutela paesaggistica e non si trattava di un piano di
lottizzazione abusivo.
17. Il procuratore generale e l’avvocato dello Stato proposero ricorso per cassazione.
18. Con sentenza del 17 maggio 2002, la Corte di cassazione annullò con rinvio la
decisione impugnata.
19. Con sentenza del 5 maggio 2003, la corte d’appello di Bari condannò il ricorrente per
lottizzazione abusiva, ritenendo che la variante al piano di lottizzazione costituisse un piano
nuovo e autonomo.
20. Il ricorrente propose ricorso per cassazione.
21. Con sentenza del 10 dicembre 2004, la Corte di cassazione accolse il ricorso del
ricorrente e annullò con rinvio la decisione impugnata.
22. Con sentenza del 23 marzo 2006, la corte d’appello di Bari dichiarò non luogo a
procedere in quanto i reati erano estinti per prescrizione dalla fine del 2002. La corte precisò
che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, era obbligatorio infliggere la
confisca contestata sia in caso di assoluzione nel merito (ad eccezione della formula il fatto
non sussiste) che in caso di prescrizione se il piano di lottizzazione contrastava
oggettivamente con alcune norme in materia di assetto del territorio. Ora, essa considerò la
variante come un nuovo piano di lottizzazione e pertanto avrebbe dovuto ottenere
l’autorizzazione regionale prima che venissero rilasciati i permessi a costruire. Peraltro, la
corte d’appello dispose la confisca dei terreni e delle opere costruite sugli stessi ai sensi
dell’articolo 1 della legge n. 47/1985.
23. Il ricorrente propose ricorso per cassazione.
24. Con sentenza dell’11 giugno 2008, depositata in cancelleria il 1° ottobre 2008, la Corte
di cassazione respinse il ricorso del ricorrente.
II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
A. Principi generali di diritto penale
25. a) L’articolo 27 comma 1 della Costituzione italiana prevede che «la responsabilità
penale è personale». La Corte costituzionale ha più volte affermato che non può esserci
responsabilità oggettiva in materia penale (si veda, fra altre, Corte costituzionale, sentenza n.
1 del 10 gennaio 1997, e infra, «altri casi di confisca». L’articolo 27 comma 3 della
Costituzione prevede che «le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato».
b) L’articolo 25 della Costituzione, ai commi secondo e terzo, prevede che «nessuno può
essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»
e che «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla
legge».
c) L’articolo 1 del codice penale prevede che «nessuno può essere punito per un fatto che
non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa
stabilite». L’articolo 199 del codice penale, riguardante le misure di sicurezza, prevede che
nessuno possa essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano stabilite dalla legge e
fuori dei casi dalla legge stessa preveduti.
d) L’articolo 42, 1° comma, del codice penale prevede che «nessuno può essere punito per
una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con
coscienza e volontà». La stessa regola è stabilita dall’articolo 3 della legge n. 689 del 25
novembre 1989 per quanto riguarda i reati amministrativi.
e) L’articolo 5 del codice penale prevede che «Nessuno può invocare a propria scusa
l’ignoranza della legge penale». La Corte costituzionale (sentenza n. 364 del 1988) ha
dichiarato che questo principio non si applica quando si tratta di errore inevitabile, di modo
che questo articolo deve ormai essere letto come segue: «L’ignoranza della legge penale non
scusa tranne che si tratti di ignoranza inevitabile». La Corte costituzionale ha indicato come
possibile origine dell’inevitabilità oggettiva dell’errore sulla legge penale «l’assoluta oscurità
del testo legislativo», le «assicurazioni erronee» di persone istituzionalmente destinate a
giudicare sui fatti da realizzare, lo stato «gravemente caotico» della giurisprudenza.
B. La confisca
1. La confisca prevista dal codice penale
26. Ai sensi dell’articolo 240 del codice penale :
«1° comma: In caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono
destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.
2° comma: É sempre ordinata la confisca:
1. delle cose che costituiscono il prezzo del reato;
2. delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto o la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato,
anche se non è stata pronunciata condanna.
3° comma: Le disposizioni della prima parte e del n. 1 del capoverso precedente non si applicano se la cosa
appartiene a persona estranea al reato.
4° comma: La disposizione del n. 2 non si applica se la cosa appartiene a persona estranea al reato e la
fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione possono essere consentiti mediante autorizzazione
amministrativa. »
27. In quanto misura di sicurezza, la confisca rientra nella previsione dell’articolo 199 del
codice penale ai sensi del quale «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non
siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti».
2. Altri casi di confisca / La giurisprudenza della Corte costituzionale
28. In materia di dogane e di contrabbando, le disposizioni applicabili prevedono la
possibilità di confiscare beni materialmente illeciti, anche se questi ultimi sono detenuti da
terzi. Con la sentenza n. 229 del 1974, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incompatibilità
delle disposizioni pertinenti con la Costituzione (in particolare con l’articolo 27) sulla base del
seguente ragionamento:
«Possono, invero, esservi delle cose (…) nelle quali é insita una illiceità oggettiva in senso assoluto, che
prescinde, pertanto, dal rapporto col soggetto che ne dispone, e che debbono essere confiscate presso chiunque le
detenga a qualsiasi titolo (…).
Perché la confisca obbligatoria delle cose appartenenti a persone estranee al contrabbando non configuri, a
carico di queste, una mera responsabilità oggettiva, in base alla quale, per il solo fatto della appartenenza ad essi
delle cose coinvolte, subiscano conseguenze patrimoniali in dipendenza dell'illecito finanziario commesso da
altri, occorre che sia rilevabile nei loro confronti un quid senza il quale, il reato, pur nella inconsapevolezza di
questo, non sarebbe avvenuto o comunque non sarebbe stato agevolato. Occorre, in conclusione, che emerga nei
loro confronti almeno un difetto di vigilanza.»
29. La Corte costituzionale ha ribadito questo principio nelle sentenze n. 1 del 1997 e n. 2
del 1987 in materia di dogane e di esportazione di opere d’arte.
3. La confisca del caso di specie (articolo 19 della legge n. 47 del 28 febbraio 1985)
30. L’articolo 19 della legge n. 47 del 28 febbraio 1985 prevede la confisca delle opere
abusive e dei terreni abusivamente lottizzati quando la sentenza definitiva del giudice penale
accerta che vi è stata lottizzazione abusiva. La sentenza penale è immediatamente trascritta
nei registri immobiliari.
4. L’articolo 20 della legge n. 47 del 28 febbraio 1985
31. Questa norma prevede sanzioni definite «penali» fra le quali non figura la confisca.
In caso di lottizzazione abusiva - così come viene definita dall’articolo 18 di questa stessa
legge - le sanzioni previste sono l’arresto fino a due anni e l’ammenda fino a 100 milioni di
lire italiane (circa 51.646 euro).
5. L’articolo 44 del Testo Unico in materia edilizia (DPR n. 380 del 2001)
32. Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 6 giugno 2001 («Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia») ha codificato le norme
esistenti soprattutto in materia di diritto a costruire. Al momento della codifica, gli articoli 19
e 20 della legge n. 47 del 1985 di cui sopra sono confluiti in un’unica norma, ossia l’articolo
44 del testo unico, così intitolato:
«Art. 44 (L) – Sanzioni penali
(...)
2. La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca
dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite. »
6. La giurisprudenza relativa alla confisca per lottizzazione abusiva
33. In un primo tempo i giudici nazionali avevano qualificato la confisca applicabile in
caso di lottizzazione abusiva come sanzione penale. Pertanto essa poteva essere applicata
soltanto ai beni dell’imputato riconosciuto colpevole del delitto di lottizzazione illegale,
conformemente all’articolo 240 del codice penale (Corte di cassazione, Sez. 3, 18 ottobre
1988, Brunotti; 8 maggio 1991, Ligresti; Sezioni Unite, 3 febbraio 1990, Cancilleri).
34. Con sentenza del 12 novembre 1990, la terza sezione della Corte di cassazione (causa
Licastro) dichiarò che la confisca era una sanzione amministrativa e obbligatoria,
indipendente dalla condanna in ambito penale. Essa poteva dunque essere ordinata nei
confronti di terzi in quanto all’origine della confisca vi è una situazione (una costruzione, una
lottizzazione) che deve essere materialmente abusiva, indipendentemente dall’elemento
morale. Di conseguenza, la confisca può essere ordinata quando l’autore è assolto in
mancanza l’elemento morale perché il fatto non costituisce reato e non può essere ordinata se
l’autore è assolto in ragione della non materialità dei fatti perché il fatto non sussiste.
35. Questa giurisprudenza fu largamente seguita (Corte di cassazione, Sez. 3, sentenza del
16 novembre 1995, Besana; 25 giugno 1999, Negro; 15 maggio 1997 n. 331, Sucato; 23
dicembre 1997 n. 3900, Farano; n. 777 del 6 maggio 1999, Iacoangeli). Con l’ordinanza n.
187 del 1998, la Corte costituzionale ha riconosciuto la natura amministrativa della confisca.
Pur essendo considerata dalla giurisprudenza sanzione amministrativa, la confisca non può
essere annullata da un giudice amministrativo, in quanto la competenza in materia spetta
unicamente al giudice penale (Corte di cassazione, sez. 3, sentenza 10 novembre 1995,
Zandomenighi).
La confisca di beni si giustifica in quanto questi ultimi sono «gli oggetti materiali del
reato» In quanto tali, i terreni non sono «pericolosi», ma lo diventano quando mettono in
pericolo il potere decisionale che è riservato all’autorità amministrativa (Corte di cassazione,
Sez. 3, n. 1298/2000, Petrachi e altri).
Se l’amministrazione regolarizza ex post la lottizzazione, la confisca deve essere revocata
(Corte di cassazione, sentenza del 14 dicembre 2000 n. 12999, Lanza, 21 gennaio 2002, n.
1966, Venuti).
Lo scopo della confisca è quello di rendere indisponibile una cosa di cui si presume nota la
pericolosità: i terreni oggetto di lottizzazione abusiva e le opere abusivamente costruite. Si
evita così di immettere sul mercato immobiliare questo tipo di immobili. Quanto ai terreni si
evita di commettere ulteriori reati e non si lascia spazio a eventuali pressioni sugli
amministratori locali affinché regolarizzino la situazione (Corte di cassazione, Sez. 3, 8
febbraio 2002, Montalto).
C. Il diritto interno pertinente successivo alla sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia,
n. 75909/01, 20 gennaio 2009
1. La Corte costituzionale
36. Il 9 aprile 2008, nell’ambito di un processo penale che non riguarda il ricorrente, la
corte d’appello di Bari - basandosi sulla decisione sulla ricevibilità nella causa Sud Fondi
(Sud Fondi srl e altri c. Italia (dec.), n. 75909/01, 30 agosto 2007) – aveva investito la Corte
costituzionale della questione sulla legalità della confisca che era stata inflitta
automaticamente, anche a prescindere dall’accertamento della responsabilità penale.
Con la sentenza n. 239 del 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la
questione di legittimità costituzionale. Nella parte finale del suo ragionamento ha fatto
osservare che quando vi è un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne e una
disposizione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, può porsi un
dubbio di costituzionalità solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via
interpretativa. Spetta pertanto al giudice nazionale interpretare la norma interna
compatibilmente con la norma internazionale, entro i limiti nei quali ciò è permesso dai testi
delle norme e, qualora ciò non sia possibile, il giudice nazionale può investire la Corte
costituzionale delle relative questioni di legittimità costituzionale.
2. La Corte di cassazione
37. La Corte di cassazione ha ribadito la sua tesi secondo la quale la confisca in esame è
una sanzione di natura amministrativa. Ne deriva che l’applicazione della sanzione è
autorizzata anche quando il procedimento penale per lottizzazione abusiva non si conclude
con la condanna dell’accusato (Sez. 3, sentenze n. 36844 del 9 luglio 2009 e n. 397153 del 6
ottobre 2010).
38. Quando il reato di lottizzazione abusiva si estingue per prescrizione in data
antecedente all’esercizio dell’azione penale, il giudice che pronuncia il non luogo a procedere
non può disporre la confisca oggetto di controversia. Quando la prescrizione interviene dopo
l’esercizio dell’azione penale, il giudice che pronuncia il non luogo a procedere può disporre
la confisca oggetto di controversia (Sez. 3, sentenza n. 5857 del 2011).
39. Anche se interviene la prescrizione, il giudice può assolvere l’imputato nel merito se
dagli atti risulta evidente che l’imputato non ha commesso il fatto, che il fatto non sussiste,
che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato (articolo 129
comma 2 del codice di procedura penale).
3. La legge n. 102 del 2009
40. Ai sensi dell’articolo 4ter della legge n. 102 del 3 agosto 2009, fermi restando gli
effetti della revoca della confisca dei beni (…) quando la Corte europea dei diritti dell'uomo
ha accertato il contrasto della misura della confisca con la Convenzione, la stima degli
immobili avviene comunque in base alla destinazione urbanistica attuale e senza tenere conto
del valore delle opere abusivamente costruite. Ove sugli immobili confiscati siano stati
realizzati interventi di riparazione straordinaria, se ne tiene conto al valore in essere all'atto
della restituzione all'avente diritto. Ai medesimi fini si tiene conto delle spese compiute per la
demolizione delle opere abusivamente realizzate e per il ripristino dello stato dei luoghi.
D. Le decisioni al termine di un procedimento penale
41. La prescrizione è una delle cause per le quali un procedimento può concludersi con un
non luogo a procedere. Quando si dichiara non doversi procedere per prescrizione, il reato si
estingue e, di conseguenza, non è possibile applicare la pena (Corte costituzionale n. 85 del
2008).
42. Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione nel merito quando è provata l’innocenza
dell’imputato, quando vi è insufficienza di prove o se le prove sono contraddittorie (articolo
530 del codice di procedura penale). Tuttavia, quando interviene la prescrizione, l’articolo
129 comma 2 permette al giudice di assolvere nel merito l’imputato soltanto se dagli atti
risulta evidente che l’imputato non ha commesso il fatto, che il fatto non sussiste, che il fatto
non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato (si veda anche il paragrafo
39 supra)
43. Il giudice pronuncia sentenza di condanna soltanto se l’imputato risulta colpevole del
reato al di là di ogni ragionevole dubbio (articolo 533 del codice di procedura penale) e può
quindi applicare la pena.
IN DIRITTO
I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 7 DELLA CONVENZIONE
44. Il ricorrente denuncia l’illegalità della confisca che ha colpito i suoi beni, in quanto
questa sanzione sarebbe stata inflitta senza una sentenza di condanna, e invoca l’articolo 7
della Convenzione, che recita:
«1. Nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa,
non costituiva reato secondo la legge nazionale o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più
grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato.
2. Il presente articolo non vieterà il giudizio o la punizione di una persona colpevole di una azione od
omissione che, al momento in cui è stata commessa, era ritenuta crimine secondo i principi generali del diritto
riconosciuto dalle nazioni civili.»
A. Sulla ricevibilità
45. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai
sensi dell'articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità. Lo
dichiara dunque ricevibile.
B. Sul merito
1. Argomenti del ricorrente
46. Il ricorrente lamenta di essere stato oggetto di una sanzione penale che è stata
applicata nonostante l’assenza di una condanna, e osserva che in diritto italiano l’azione
penale non può essere avviata quando un reato è estinto per prescrizione. Nel caso di specie,
secondo il ricorrente già nell’agosto 2001 il reato era prescritto. Tuttavia, l’azione penale è
stata proseguita fino al 2008 al solo scopo di poter infliggere una pena.
Il ricorrente fa inoltre notare la discrepanza fra le seguenti situazioni. Normalmente, il
giudice deve assolvere l’imputato ogni volta che le prove risultino insufficienti ovvero quando
vi siano prove contraddittorie (articolo 530 CPP) o quando l’imputato non può essere ritenuto
colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio (articolo 533 CPP). Tuttavia, se il reato è estinto
per prescrizione, il giudice può assolvere nel merito soltanto se risulta evidente che l’imputato
non ha commesso i fatti o che i fatti non sussistono o che i fatti non costituiscono reato o che
non è previsto dalla legge come reato (articolo 129, comma 2 CPP). Vi è quindi inversione
dell’onere della prova, dal momento che il ricorrente ha dovuto cercare di dimostrare la prova
della sua innocenza, e questa situazione non è compatibile con le garanzie del processo equo e
con la Convenzione.
47. Tra l’altro, il ricorrente ricorda che il piano di lottizzazione è stato autorizzato dal
comune di Cassano delle Murge; che ha edificato in conformità ai permessi a costruire che gli
sono stati rilasciati; che ha ricevuto l’assicurazione che il suo progetto era conforme alle
norme applicabili. Secondo il ricorrente, il comportamento delle autorità, che hanno
inizialmente autorizzato e perfino incoraggiato il progetto di costruzione e che,
successivamente, hanno cambiato radicalmente atteggiamento dopo aver permesso la
realizzazione dei lavori, è decisamente criticabile. Infine, il ricorrente precisa che il fatto che i
suoi vicini abbiano rinunciato al piano di lottizzazione non ha rapporto alcuno con la
conformità o meno del progetto stesso al diritto nazionale.
2. Argomenti del Governo
48. Il Governo osserva anzitutto che in seguito alla constatazione di violazione rilevata
nella sentenza Sud Fondi (Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, n. 75909/01, 20 gennaio 2009), la
Corte costituzionale (sentenza n. 239 del 24 luglio 2009) ha dichiarato che la legge nazionale
deve essere interpretata in conformità alla Convenzione e che, secondo i principi affermati
nella sentenza Sud Fondi, «la confisca non può derivare automaticamente da
un’urbanizzazione abusiva, senza tener conto della responsabilità dei fatti».
Inoltre, la legge n. 102 del 3 agosto 2009 ha disposto la revoca della confisca e dei criteri
di indennizzo per coloro che abbiano subito una confisca ingiustificata dal punto di vista della
Convenzione.
49. Il Governo osserva poi che, nel diritto italiano, la confisca controversa è sempre
considerata dalle autorità giudiziarie come una sanzione amministrativa, e pertanto il fatto di
ordinarla nel caso di specie è compatibile con l’articolo 7 della Convenzione.
A differenza della causa Sud Fondi, nel caso di specie il ricorrente non è stato assolto nel
merito ma ha beneficiato di un non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Secondo il
Governo, il ricorrente avrebbe potuto rinunciare all’applicazione della prescrizione e chiedere
al giudice di decidere ai sensi dell’articolo 129 comma 2 del codice di procedura penale. In
ogni caso, il Governo, facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte di cassazione
(sentenza n. 5857 del 16 febbraio 2011), fa osservare che nel caso di specie la prescrizione
non era intervenuta prima dell’avvio dell’azione penale, il che depone a favore della legalità
della sanzione ordinata.
Le opere realizzate contravvenivano obiettivamente a delle norme di legge; sussisteva
quindi il reato di urbanizzazione abusiva in quanto il progetto di lottizzazione era abusivo.
Secondo il Governo, il ricorrente conosceva l’esistenza dei vincoli paesaggistici. I vicini del
ricorrente si sarebbero dissociati dal progetto per non essere coinvolti in una speculazione
immobiliare. L’articolo 7 della Convenzione non è stato violato in quanto le norme applicabili
erano accessibili e prevedibili. Comportandosi nel modo in cui si è comportato, il ricorrente
sapeva di rischiare la confisca dei beni, che quindi era una conseguenza prevedibile.
50. Nel caso in cui la Corte dovesse concludere per una violazione della Convenzione, il
Governo chiede di tener conto di queste tesi ai fini dell’equa soddisfazione.
3. Valutazione della Corte
a) Applicabilità dell’articolo 7 della Convenzione
51. La Corte ricorda che, nella causa Sud Fondi (Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, decisione
sopra citata), ha affermato che la confisca controversa si traduce in una pena, e, pertanto,
trova applicazione l’articolo 7 della Convenzione.
b) Principi applicabili
52. La garanzia sancita dall’articolo 7, elemento fondamentale della preminenza del
diritto, occupa un posto primordiale nel sistema di tutela della Convenzione, come attestato
dal fatto che l’articolo 15 non ne autorizza alcuna deroga in tempo di guerra o di altro pericolo
pubblico. Come si deduce dal suo oggetto e dal suo scopo, deve essere interpretato ed
applicato in modo da garantire un’effettiva tutela da azioni penali, da condanne e da sanzioni
arbitrarie (sentenze S.W. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, § 34, serie A n. 335-B e C.R. c.
Regno Unito del 22 novembre 1995, serie A nn. 335-B e 335-C, § 32).
53. L’articolo 7 § 1 sancisce in particolare il principio della legalità dei reati e delle pene
(nullum crimen, nulla poena sine lege). Esso vieta in particolare di estendere il campo
d’applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano reati, ordinando
inoltre di non applicare la legge penale in maniera estensiva a scapito dell’imputato, per
esempio per analogia (vedi, tra le altre, Coëme e altri c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96,
32548/96, 33209/96 e 33210/96, §145, CEDU 2000-VII).
54. Ne segue che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene applicabili (Achour c.
Francia [GC], n. 67335/01, § 41, CEDU 2006-IV). Questa condizione è soddisfatta quando la
persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dalla formulazione della norma pertinente
e, se necessario, con l’aiuto dell’interpretazione data dai tribunali, quali atti e omissioni
implichino la sua responsabilità penale.
55. La nozione di «diritto» («law») usata nell’articolo 7 corrisponde a quella di «legge»
che figura in altri articoli della Convenzione; essa comprende il diritto d’origine sia legislativa
sia giurisprudenziale e implica delle condizioni qualitative, tra cui quella dell’accessibilità e
della prevedibilità (Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996, § 29, Recueil des arrêts et des
décisions 1996-V; S.W., sopra citata, § 35; Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, §§ 40-42,
serie A n. 260-A). Per quanto chiara possa essere la formulazione di una norma legale, in
qualunque sistema giuridico, compreso il diritto penale, esiste immancabilmente un elemento
di interpretazione giuridica. Sarà sempre necessario delucidare i punti dubbi e adattarsi alle
mutate situazioni. Tra l’altro, è saldamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte
alla Convenzione che la giurisprudenza, in quanto fonte del diritto, contribuisce
necessariamente alla progressiva evoluzione del diritto penale. Non si può interpretare
l’articolo 7 della Convenzione come una norma che vieta il graduale chiarimento delle norme
della responsabilità penale attraverso l’interpretazione giuridica da una causa all’altra, a
condizione che il risultato sia coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile
(Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC], nn. 34044/96, 35532/97 e 44801/98, § 50,
CEDU 2001-II).
56. La portata del concetto di prevedibilità dipende in gran parte dal contenuto del testo di
cui si tratta, dell’ambito interessato nonché dal numero e dalla qualità dei suoi destinatari. La
prevedibilità di una legge non si contrappone al fatto che la persona interessata sia portata ad
avvalersi di consigli illuminati per valutare, a un livello ragionevole nelle circostanze della
causa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto. Questo vale in particolare
per i professionisti, abituati a dover dare prova di grande prudenza nell’esercizio del loro
lavoro. Perciò ci si può aspettare che essi valutino con particolare attenzione i rischi che esso
comporta (Pessino c. Francia, n. 40403/02, § 33, 10 ottobre 2006).
57. Spetta quindi alla Corte assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso
l’atto che ha portato all’azione penale e alla condanna, esistesse una norma legale che rendeva
l’atto punibile, e che la pena imposta non abbia oltrepassato i limiti fissati da questa norma
(Murphy c. Regno Unito, n. 4681/70, decisione della Commissione, 3 e 4 ottobre 1972,
Recueil des décisions 43; Coëme e altri, sopra citata, § 145).
c) L’applicazione di questi principi al caso di specie
58. La Corte ricorda che nella causa Sud Fondi (Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia sopra
citata, §§ 112 e 114), aveva concluso che l’applicazione della confisca malgrado la decisione
di assolvere i ricorrenti non aveva una base legale, era arbitraria e violava l’articolo 7 della
Convenzione. Era stata pronunciata l’assoluzione in quanto i ricorrenti avevano commesso un
errore inevitabile e scusabile nell’interpretare la legge.
59. Nel caso di specie, il ricorrente ha beneficiato di un non luogo a procedere in quanto il
reato di lottizzazione abusiva era estinto per prescrizione ed era stato oggetto di una sanzione,
ossia la confisca delle opere costruite e dei terreni interessati dal progetto di lottizzazione
controverso. La Corte ha il compito di esaminare se l’applicazione di questa sanzione è
compatibile con l’articolo 7 della Convenzione.
60. Anzitutto, la Corte osserva che ai sensi della norma applicabile (paragrafo 30 supra),
la confisca delle opere abusive nonché dei terreni lottizzati abusivamente è autorizzata quando
i giudici penali hanno accertato con una «sentenza definitiva» che la lottizzazione è abusiva,
ma il testo non precisa che la «sentenza definitiva» deve essere una decisione di condanna.
I giudici nazionali hanno interpretato questa norma nel senso che era possibile applicare la
sanzione senza una condanna dal momento in cui hanno ritenuto che si trattasse di una
sanzione amministrativa. La Corte nota in proposito che esiste un principio nel diritto
nazionale (si veda diritto interno capitoli A. e D.) stando al quale non si può punire un
imputato in mancanza di una condanna. In particolare, quando il reato è prescritto, non si può
comminare una pena (paragrafo 41, supra). Inoltre, l’interpretazione della norma applicabile
da parte dei giudici nazionali è stata fatta a scapito dell’imputato.
61. In secondo luogo, la Corte ha difficoltà a capire come la punizione di un imputato il cui
processo non si è concluso con una condanna possa conciliarsi con l’articolo 7 della
Convenzione, norma che esplicita il principio di legalità nel diritto penale.
62. Dato che nessuno può essere riconosciuto colpevole di un reato che non sia previsto
dalla legge, e che nessuno può subire una pena che non sia prevista dalla legge, una prima
conseguenza è ovviamente il divieto per i giudici nazionali di interpretare in modo estensivo
la legge a scapito dell’imputato, altrimenti quest’ultimo potrebbe essere punito per un
comportamento non previsto come reato.
63. Un’altra conseguenza di fondamentale importanza deriva dal principio di legalità nel
diritto penale: il divieto di punire una persona se il reato è stato commesso da un’altra.
64. La Corte ha finora avuto l’opportunità di affrontare questa questione dal punto di vista
dell’articolo 6 § 2 della Convenzione.
65. Nella causa A.P., M.P. e T.P. c. Svizzera, 29 agosto 1997, Recueil des arrêts et
décisions 1997-V), alcuni eredi erano stati puniti per reati commessi dal defunto. La Corte ha
ritenuto che la sanzione penale inflitta agli eredi per una frode fiscale attribuita al defunto
contrastasse con una regola fondamentale del diritto penale, secondo cui la responsabilità
penale non sopravvive all’autore del reato (ibid., § 48). È quanto riconosciuto esplicitamente
dal diritto svizzero, e la Corte ha affermato che questa norma è altresì richiesta per la
presunzione di innocenza sancita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione. Ereditare la
colpevolezza del defunto non è compatibile con le norme della giustizia penale in una società
in cui vige il principio della preminenza del diritto. Il principio è stato ribadito nella causa
Lagardère (Lagardère c. Francia, n. 18851/07, 12 aprile 2012, § 77), in cui la Corte ha
ricordato che, per la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione, è
richiesta anche la norma secondo la quale la responsabilità penale non sopravvive all’autore
del reato, ma anche che ereditare la colpevolezza del defunto non è compatibile con le norme
della giustizia penale in una società regolata dalla preminenza del diritto.
66. Visto l’accostamento degli articoli 6 § 2 e 7 § 1 della Convenzione (Guzzardi c. Italia,
6 novembre 1980, § 100, serie A n. 39), la Corte ritiene che la norma da lei appena ricordata
sia valida anche dal punto di vista dell’articolo 7 della Convenzione, che impone di vietare
che nel diritto penale si possa rispondere per un fatto commesso da altri. Infatti, se è vero che
ogni persona deve poter stabilire in ogni momento cosa è permesso e cosa è vietato per mezzo
di leggi precise e chiare, non si può concepire un sistema che punisca coloro che non sono
responsabili, perché il responsabile è stato un terzo.
67. Non si può neppure concepire un sistema in cui una persona dichiarata innocente o,
comunque, senza alcun grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di
colpevolezza subisca una pena. Si tratta di una terza conseguenza del principio di legalità nel
diritto penale: il divieto di comminare una pena senza accertamento di responsabilità, che
deriva anch’esso dall’articolo 7 della Convenzione.
68. Anche questo principio è stato affermato dalla Corte relativamente all’articolo 6 § 2
della Convenzione. Nella causa Geerings (Geerings c. Paesi Bassi, n. 30810/03, § 47, 1.
marzo 2007), i tribunali nazionali avevano confiscato i beni dell’interessato in quanto avevano
ritenuto che questi avesse tratto profitto dal reato in questione anche se il ricorrente non era
mai stato trovato in possesso di beni di cui non era stato in grado di spiegare l’origine. La
Corte aveva ritenuto che la confisca dei «benefici ottenuti illecitamente» fosse una misura
inadeguata tanto più che l’interessato non era stato dichiarato colpevole del reato e che non
era mai stato stabilito che avesse avuto dei benefici dal reato. La Corte aveva ritenuto che
questa situazione non potesse essere compatibile con la presunzione di innocenza e aveva
concluso con la violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione.
69. L’accostamento dell’articolo 5 § 1 a) agli articoli 6 § 2 e 7 § 1 mostra che ai fini della
Convenzione non si può avere «condanna» senza che sia legalmente accertato un illecito –
penale o, eventualmente, disciplinare (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 68, serie
A n. 22; Guzzardi c. Italia, 6 novembre 1980, § 100, serie A n. 39), così come non si può
avere una pena senza l’accertamento di una responsabilità personale.
70. Certo, gli Stati contraenti restano liberi, in linea di principio, di reprimere penalmente
un atto compiuto fuori dall’esercizio normale di uno dei diritti tutelati dalla Convenzione e,
quindi, di definire gli elementi costitutivi di questo reato: essi possono, in particolare, sempre
in linea di principio e ad alcune condizioni, rendere punibile un fatto materiale o oggettivo
considerato di per sé, che derivi o meno da un intento criminale o da una negligenza; le
rispettive legislazioni ne offrono degli esempi (Salabiaku c. Francia, 7 ottobre 1988, serie A
n. 141, § 27). Lo stesso principio è stato affermato in Janosevic c. Svezia (n. 34619/97, 23
luglio 2002, § 68) in cui la Corte ha aggiunto che «la mancanza di elementi soggettivi non
priva necessariamente un reato della sua natura penale; in realtà, le legislazioni degli Stati
contraenti offrono esempi di reati basati unicamente su elementi oggettivi». L’articolo 7 della
Convenzione non richiede espressamente un «nesso psicologico» o «intellettuale» o «morale»
tra l’elemento materiale del reato e la persona che ne è ritenuta l’autore. Tra l’altro, la Corte
ha recentemente concluso per la non violazione dell’articolo 7 in un caso in cui era stata
inflitta una multa a una parte ricorrente che aveva commesso un reato senza dolo o colpa
(Valico S.r.l. c. Italia (dec.), n. 70074/01, CEDU 2006-III). L’accertamento di responsabilità
era sufficiente per giustificare l’applicazione della sanzione.
71. La logica della «pena» e della «punizione», e la nozione di «guilty» (nella versione
inglese) e la corrispondente nozione di «persona colpevole» (nella versione francese),
depongono a favore di un’interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, una
dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di
addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore. In mancanza di ciò, la punizione non
avrebbe senso (Sud Fondi e altri, sopra citata, § 116). Sarebbe infatti incoerente esigere, da
una parte, una base legale accessibile e prevedibile e permettere, dall’altra, una punizione
quando, come nel caso di specie, la persona interessata non è stata condannata.
72. Nella presente causa, la sanzione penale inflitta al ricorrente, quando il reato era
estinto e la sua responsabilità non era stata accertata con una sentenza di condanna, contrasta
con i principi di legalità penale appena esposti dalla Corte e che sono parte integrante del
principio di legalità che l’articolo 7 della Convenzione impone di rispettare. La sanzione
controversa non è quindi prevista dalla legge ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione ed è
arbitraria.
73. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione.
II. SULLA DEDOTTA
CONVENZIONE
VIOLAZIONE
DELL’ARTICOLO
6
§
2
DELLA
74. Il ricorrente sostiene che la confisca disposta nei suoi confronti nonostante la decisione
di non luogo a procedere ha violato il principio della presunzione di innocenza, come previsto
dall’articolo 6 § 2 della Convenzione, così formulato:
«2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata
legalmente accertata.»
75. Il Governo contesta questa tesi.
76. La Corte rileva che questo motivo di ricorso è legato a quello esaminato sopra e
dunque anch’esso deve essere dichiarato ricevibile.
77. Essa nota poi che questo motivo di ricorso è strettamente legato ai fatti che l’hanno
indotta a concludere per una violazione dell’articolo 7 della Convenzione. In queste
condizioni, la Corte ritiene che non si debba esaminare separatamente il motivo di ricorso
relativo alla violazione di questa disposizione.
III. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N. 1
78. Il ricorrente denuncia l’illegalità nonché il carattere sproporzionato della confisca
disposta sui suoi beni e deduce violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 che, nella sua
parte pertinente, dispone:
«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua
proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del
diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi
ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale.»
79. Il Governo contesta questa tesi.
A. Sulla ricevibilità
80. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai
sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione. La Corte rileva peraltro che esso non incorre
in altri motivi di irricevibilità. Lo dichiara dunque ricevibile.
B. Sul merito
1. Tesi delle parti
81. Il ricorrente richiama essenzialmente gli argomenti sollevati relativamente all’articolo
7 e chiede alla Corte di concludere per la violazione di questa disposizione. Egli osserva
inoltre che la sanzione in causa è sproporzionata, dal momento che il 90% dei terreni
confiscati non sono edificati.
82. Il Governo contesta questa tesi. Secondo lui, le condizioni di legalità e di
proporzionalità sono rispettate, visto che lo scopo dissuasivo della confisca la rende
proporzionata anche se riguarda tutto il territorio circostante e non soltanto i manufatti
costruiti. Il Governo chiede alla Corte di tener conto di questi argomenti ai fini dell’equa
soddisfazione nel caso in cui dovesse concludere per una violazione della Convezione.
2. Valutazione della Corte
a) Sull’applicabilità dell’articolo 1 del Protocollo n. 1
83. Come dichiarato dalla Corte nella causa Sud Fondi (sopra citata, §§ 125, 129), la
confisca dei terreni e dei manufatti in contestazione, di cui i ricorrenti erano proprietari, ha
costituito una ingerenza nel godimento del loro diritto al rispetto dei beni. Occorre concludere
che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 è applicabile. Rimane da stabilire se questa situazione
ricada sotto la prima o la seconda norma di questa disposizione. L’articolo 1 del Protocollo n.
1 contiene tre norme distinte: la prima, che si esprime nella prima frase del primo comma ed è
di carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, che figura
nella seconda frase dello stesso comma, riguarda la privazione di proprietà e la sottopone ad
alcune condizioni; quanto alla terza, inserita nel secondo comma, essa riconosce agli Stati il
potere, tra altri, di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale. Non
per questo si tratta di regole prive di rapporto tra loro. La seconda e la terza riguardano
particolari esempi di violazioni del diritto di proprietà; pertanto, esse devono essere
interpretate alla luce del principio sancito dalla prima (si vedano, tra altre, James e altri c.
Regno Unito, 21 febbraio 1986, § 37, serie A n. 98, e Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, §
55, CEDU 1999-II).
Nella causa Sud Fondi (sopra citata §§ 128-129), la Corte ha dichiarato:
«128. La Corte osserva che la presente causa si distingue dalla causa Agosi c. Regno Unito (sentenza del 24
ottobre 1986, serie A n.108), in cui la confisca è stata disposta nei confronti di beni che costituivano l’oggetto
del reato (objectum sceleris), a seguito della condanna degli imputati, perché nella fattispecie, invece, la confisca
è stata disposta a seguito di una assoluzione. Per lo stesso motivo, la presente causa si distingue da C.M. c.
Francia ([dec.], n. 28078/95, CEDU 2001 VII) o da Air Canada c. Regno Unito (sentenza del 5 maggio 1995,
serie A n. 316 A), in cui la confisca, ordinata dopo la condanna degli imputati, aveva colpito dei beni che
costituivano l’instrumentum sceleris e che si trovavano in possesso di terzi. Per quanto riguarda i proventi di
un’attività criminale (productum sceleris), la Corte ricorda di aver esaminato una causa in cui la confisca aveva
seguito la condanna del ricorrente (si veda Phillips c Regno Unito, n. 41087/98, §§ 9-18, CEDU 2001-VII)
nonché alcune cause in cui la confisca era stata disposta indipendentemente dall’esistenza di un procedimento
penale, poiché il patrimonio dei ricorrenti era presumibilmente di origine illecita (si vedano Riela e altri c. Italia
(dec.), n. 52439/99, 4 settembre 2001; Arcuri e altri c. Italia (dec.), n. 52024/99, 5 luglio 2001; Raimondo c.
Italia, 22 febbraio 1994, Serie A n. 281-A, § 29) o veniva presumibilmente utilizzato per attività illecite (Butler
c. Regno Unito (dec.), n. 41661/98, 27 giugno 2002). Nella prima causa sopra citata, la Corte ha dichiarato che la
confisca costituiva una pena ai sensi del secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (Phillips, sentenza
sopra citata, § 51, e, mutatis mutandis, Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, serie A n. 307-A, § 35), mentre
nelle altre cause ha affermato che si trattava della regolamentazione dell’uso dei beni.
129. Nella presente causa, la Corte ritiene che non sia necessario determinare se la confisca ricada nella
prima o nella seconda categoria, poiché in ogni caso è applicabile il secondo paragrafo dell’articolo 1 del
Protocollo n. 1 (Frizen c. Russia, n. 58254/00, § 31, 24 marzo 2005).»
Come nella causa Sud Fondi (sopra citata, § 129), la Corte ritiene che non sia necessario
stabilire se la confisca ricada nella prima o nella seconda categoria, perché in tutti i casi è
applicabile il secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
b) Sull’osservanza dell’articolo 1 del Protocollo n. 1
84. La Corte rammenta che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 esige, prima di tutto e
soprattutto, che una ingerenza dell’autorità pubblica nel godimento del diritto al rispetto dei
beni sia legale: la seconda frase del primo comma di questo articolo autorizza una privazione
della proprietà soltanto «nelle condizioni previste dalla legge»; il secondo comma riconosce
agli Stati il diritto di regolamentare l’uso dei beni mettendo in vigore delle «leggi». Inoltre, la
preminenza del diritto, uno dei principi fondamentali di una società democratica, è intrinseco
in tutti gli articoli della Convenzione (Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, § 58, CEDU
1999-II; Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 50, Recueil 1996-III). Ne consegue che la
necessità di verificare che sia stato mantenuto un giusto equilibrio tra le esigenze
dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti
fondamentali dell’individuo (Sporrong e Lönnroth c. Svezia, 23 settembre 1982, § 69, serie A
n. 52; Ex-re di Grecia e altri c. Grecia [GC], n. 25701/94, § 89, CEDU 2000-XII) può farsi
sentire soltanto se risulta che l’ingerenza contestata abbia rispettato il principio di legalità e
non fosse arbitraria.
85. La Corte ha appena constatato che il reato in relazione al quale è stata ordinata la
confisca dei beni del ricorrente non era previsto dalla legge nel senso dell’articolo 7 della
Convenzione ed era arbitrario (paragrafi 72-73 supra). Questa conclusione la induce a
dichiarare che l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni del ricorrente era contraria al
principio di legalità ed era arbitraria e che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n.
1. Questa conclusione esonera la Corte dal verificare se vi sia stata rottura del giusto
equilibrio.
IV. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
86. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno
dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale
violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
A. Danno
87. Il ricorrente chiede la restituzione dei beni confiscati più la somma di 500.000 euro
(EUR) a titolo di indennizzo per il deterioramento delle opere. Chiede, inoltre, il versamento
di 250.000 EUR per il danno morale.
88. Il Governo si oppone alla concessione di qualsiasi somma perché ritiene che il ricorso
non ponga alcun problema rispetto alla Convenzione. Nel caso in cui la Corte concludesse per
una violazione, chiede che, ai fini dell’equa soddisfazione, si tenga conto del fatto che il
ricorrente non è stato assolto nel merito.
89. La Corte ritiene che, nelle circostanze del caso, la questione dell’articolo 41 non sia
matura per la decisione sul danno materiale, vista la complessità della causa e l’eventualità
che le parti trovino una forma di riparazione a livello nazionale. Pertanto, questa questione
deve essere riservata e la procedura successiva deve essere fissata tenendo conto di un
eventuale accordo tra lo Stato convenuto e il ricorrente (articolo 75 § 1 del regolamento).
90. Trattandosi di danno morale, la Corte, decidendo in via equitativa, accorda 10.000
EUR al ricorrente.
B. Spese
91. Il ricorrente non chiede il rimborso delle spese sostenute fino a questa fase della
procedura. In tali circostanze, la Corte ritiene che al ricorrente non debba essere versata
alcuna somma per questo capo.
C. Interessi moratori
92. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse
delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre
punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE
1. Dichiara, all’unanimità, il ricorso ricevibile;
2. Dichiara, con sei voti contro uno, che vi è stata violazione dell’articolo 7 della
Convenzione;
3. Dichiara, all’unanimità, che il motivo di ricorso relativo all’articolo 6 § 2 della
Convenzione non deve essere esaminato;
4. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 della
Convenzione;
5. Dichiara all’unanimità,
a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dalla data
in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della
Convenzione, la somma di 10.000 EUR (diecimila euro), più l’importo eventualmente dovuto
a titolo di imposta, per il danno morale;
b) che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento tali importi
dovranno essere maggiorati di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle
operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel
periodo, aumentato di tre punti percentuali;
6. Dichiara, all’unanimità, che la questione dell’articolo 41 della Convenzione non è
matura per la decisione sul danno materiale; di conseguenza:
a) riserva questa questione;
b) invita il Governo e il ricorrente a informarla, entro sei mesi, degli accordi eventualmente
raggiunti;
c) riserva la procedura e delega al presidente l’eventuale onere di fissarla;
7. Rigetta, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per il resto.
Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 29 ottobre 2013, in applicazione
dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
Stanley Naismith
Cancelliere
Danutė Jočienė
Presidente
Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e
74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione separata del giudice Pinto de
Albuquerque.
D.J.
S.H.N.
OPINIONE IN PARTE CONCORDANTE, IN PARTE DISSENZIENTE DEL GIUDICE
PINTO DE ALBUQUERQUE
Nella causa Varvara, la Corte ha nuovamente esaminato il caso di una confisca non
fondata su alcuna condanna pronunciata all’esito di un procedimento penale. Se nella causa
Sud Fondi srl e altri la confisca era stata disposta a carico delle società ricorrenti, che erano
persone estranee rispetto agli imputati nel procedimento penale al termine del quale questi
ultimi erano stati assolti in quanto non potevano essere loro addebitate né colpa né intenzione
nel commettere i reati e avevano commesso un «errore inevitabile e scusabile»
nell’interpretare disposizioni regionali «oscure e mal formulate»1, nella presente causa era il
ricorrente stesso ad essere imputato in un procedimento penale nel quale è stato pronunciato
un non luogo a procedere per prescrizione. Considerate le incertezze nella giurisprudenza
della Corte sulla questione di principio relativa alla compatibilità con la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo («la Convenzione») dei regimi di confisca senza condanna
penale e di confisca estesa, la presente causa avrebbe potuto consentire alla Corte di chiarire
le condizioni e le modalità di questo fondamentale strumento della politica penale
contemporanea, tenendo conto degli sviluppi del diritto internazionale dei diritti dell’uomo,
del diritto penale internazionale, del diritto penale comparato e del diritto dell’Unione
europea. La camera ha scelto di non farlo. Ed è esattamente questo che mi propongo di fare in
questa opinione, in attesa dell’urgente intervento chiarificatore della Grande Camera. Saranno
così messe in evidenza le ragioni per le quali io non condivido la constatazione di violazione
dell’articolo 7 della Convenzione, pur approvando la constatazione di violazione dell’articolo
1 del Protocollo n. 1 ed il non luogo a deliberare in relazione all’articolo 6 § 2.
L’obbligo internazionale di confisca degli strumenti e dei proventi di reato
Il diritto internazionale riconosce da tempo l’importanza capitale della confisca come
misura di lotta alle forme più gravi di criminalità, come ad esempio il traffico di stupefacenti,
il terrorismo, la criminalità transnazionale organizzata e la corruzione.
L’articolo 37 della Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961, modificata dal
Protocollo del 1972, prevede la confisca di tutti gli stupefacenti, di tutte le sostanze (obiectum
sceleris) e di tutti i materiali utilizzati per commettere uno dei reati previsti dall’articolo 36 o
destinati a commettere tale reato (instrumentum sceleris). L’articolo 22 (3) della Convenzione
sulle sostanze psicotrope del 1971 riprende questa disposizione. L’articolo 5 della
Convenzione delle Nazioni Unite del 1988 contro il traffico illecito di stupefacenti e di
sostanze psicotrope estende la confisca al di là di stupefacenti, sostanze psicotrope, materiali e
attrezzature o altri strumenti utilizzati o destinati ad essere utilizzati in qualche maniera nel
commettere i reati previsti dal paragrafo 1 dell’articolo 3 della suddetta Convenzione, per
includere i proventi ottenuti dai reati citati nel suddetto paragrafo ovvero i beni il cui valore
corrisponde a quello dei citati proventi (productum sceleris). I redditi o gli altri vantaggi tratti
da questo provento di reato, i beni nei quali il provento è stato trasformato o convertito ovvero
i beni ai quali è stato unito possono anch’essi essere oggetto di confisca, fatto salvo il caso di
violazione dei diritti di terzi di buona fede. L’onere della prova dell’origine lecita del presunto
provento di reato o di altri beni confiscabili può essere posto a carico del convenuto2. Questo
regime di confisca è stato ripreso in diverse altre disposizioni internazionali vincolanti, quali
gli articoli 77 (2) (b), 93 (1) (k), e 109 (1) dello Statuto di Roma del 1998 della Corte Penale
1
Sud Fondi srl e altri c. Italia, n. 75909/01, 20 gennaio 2009, e le due decisioni parziali sulla ricevibilità emesse
il 23 settembre 2004 ed il 30 agosto 2007.
2
La Convenzione ha 188 Stati parte, fra cui lo Stato convenuto, dal 31 dicembre 1991. All’articolo primo, la
confisca è definita come «la privazione permanente di beni su decisione di un tribunale o altra autorità
competente». Questa definizione è ripresa negli altri testi delle Nazioni unite.
Internazionale3, l’articolo 8 della Convenzione internazionale del 1999 per la repressione del
finanziamento del terrorismo4, l’articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite del 2000
contro la criminalità organizzata transnazionale5, l’articolo 31 della Convenzione delle
Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione6, e l’articolo 16 della Convenzione dell’Unione
africana del 2003 sulla prevenzione e la lotta alla corruzione7.
In Europa, la regola internazionale in materia di confisca è ben radicata. Nell’ambito del
Consiglio d’Europa, gli articoli 2 e 13 della Convenzione del Consiglio d’Europa del 1990 sul
riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, prevedevano già la
confisca degli strumenti e dei proventi di reato, la confisca di valori corrispondenti e la
confisca senza condanna penale8. Gli articoli 5 e 23 della convenzione del 2005 sul
riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato e sul finanziamento del
terrorismo hanno precisato le disposizioni precedenti9.
L’attuale quadro giuridico dell’Unione Europea in materia di confisca degli strumenti e dei
proventi di reato è costituito da più testi: la decisione-quadro 2001/500/JAI, che obbliga gli
Stati membri a non formulare né mantenere alcuna riserva sulle disposizioni della
convenzione del Consiglio d’Europa in materia di confisca quando il reato è punito con una
pena privativa della libertà o con una misura di sicurezza di durata massima superiore a un
anno, ad autorizzare la confisca per un valore corrispondente ai proventi di reato quando i
proventi diretti del reato non possono essere rintracciati e a vigilare affinché le richieste
presentate dagli altri Stati membri siano trattate con lo stesso grado di priorità accordato alle
3
Lo Statuto di Roma ha 122 Stati parte, fra cui lo Stato convenuto, dal 26 luglio 1999. Inoltre, l’articolo 110 (4)
(b) prevede la possibilità di riduzione della pena nei casi in cui un convenuto abbia spontaneamente facilitato
l’esecuzione di decisioni e ordinanze della Corte in altri casi, in particolare agevolando la localizzazione di beni
oggetto di decisioni di confisca, che possono essere utilizzati a vantaggio delle vittime.
4
La convenzione ha 185 Stati parte, fra cui lo Stato convenuto, dal 27 marzo 2003.
5
La convenzione ha 178 Stati parte, fra cui lo Stato convenuto, dal 2 agosto 2006.
6
La convenzione ha 168 Stati parte, fra cui lo Stato convenuto, dal 5 dicembre 2009. Un’importante novità è
stata introdotta dall’articolo 54 (1) (c) della Convenzione contro la corruzione, che impone agli Stati parte,
nell’ambito dell’assistenza internazionale ai fini della confisca, di ordinare la confisca, in assenza di condanna
penale, di beni acquisiti a mezzo di reato qualora l’autore del medesimo non possa essere perseguito a causa di
decesso, fuga, assenza o in altri casi opportuni. Una nota interpretativa indica che, in tale contesto, il termine
«autore del reato» potrebbe, nei casi opportuni, includere le persone intestatarie di un bene, allo scopo di
occultare l’identità dei veri proprietari del bene in questione (A/58/422/Add.1, par. 59). Anche se come
indicazione facoltativa, si tratta del riconoscimento universale della confisca senza condanna. Sulla prassi interna
degli Stati, si vedano le leggi di 175 paesi sul recupero dei beni, consultabili sul sito UNODC.
7
La convenzione ha 31 Stati parte. All’articolo primo, la confisca è definita come «ogni sanzione o misura che
comporti la privazione definitiva di beni, guadagni o proventi, ordinata da un tribunale al termine di un
procedimento promosso per uno o più fatti di corruzione».
8
STE n. 141, e suo rapporto esplicativo. La convenzione ha 48 Stati parte, fra cui lo Stato convenuto, dal 1°
maggio 2004. All’articolo primo, essa definisce la confisca come «una pena o una misura disposta da un
tribunale a seguito di un procedimento per uno o più reati, che consiste nella privazione permanente del bene».
Questa definizione è diventata la pietra angolare dei testi del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea in
materia. La convenzione del 1990 escludeva la confisca che non fosse in relazione con un reato, come ad
esempio la confisca amministrativa, ma includeva la decisione di confiscare che non fosse stata adottata da un
tribunale con competenze in materia penale all’esito di una procedura penale, purché la procedura fosse stata
condotta da autorità giudiziarie e fosse stata di natura penale o, in altri termini, purché riguardasse strumenti o
proventi di reato. Questi tipi di procedura potevano includere, ad esempio, le procedure dette in rem ed erano
riportate nel testo della convenzione sotto il nome di «procedure a fini di confisca».
9
STCE n. 198, e suo rapporto esplicativo. La convenzione ha 23 Stati parte. Lo Stato convenuto l’ha firmata ma
non l’ha ratificata. Al nuovo paragrafo 5 dell’articolo 23, la convenzione precisa bene nel corpo del testo che
l’assistenza relativa all’esecuzione di misure che portano ad una confisca, che non sono sanzioni penali, deve
essere assicurata nella maniera più ampia possibile. Come riconosce il rapporto esplicativo della convenzione del
2005, era chiaro che, già dinanzi al testo della convenzione del 1990, le Parti avevano libertà sul modo di
approcciare la confisca nel loro diritto interno, essendo uno di questi la procedura civile in rem.
procedure nazionali10; la decisione-quadro 2003/577/JAI, che prevede il reciproco
riconoscimento delle decisioni di blocco; la decisione-quadro 2005/212/JAI, che prevede la
confisca ordinaria, compresa la confisca per un valore corrispondente, per tutti i reati punibili
con una pena privativa della libertà della durata massima superiore ad un anno e la confisca di
tutta o parte dei beni detenuti da una persona riconosciuta colpevole di alcuni reati gravi,
quando sono «commessi nel quadro di una organizzazione criminale», senza stabilire una
relazione tra gli averi che si presume abbiano un’origine criminale e un reato preciso; la
decisione-quadro 2006/783/JAI, che prevede il riconoscimento reciproco delle decisioni di
confisca; e la decisione 2007/845/JAI del Consiglio relativa alla cooperazione tra gli uffici di
recupero dei beni degli Stati membri11.
Infine, una solida opinio iuris in favore di norme internazionali in materia di confisca di
strumenti e proventi di reato si è sviluppata con l’adozione da parte di molte organizzazioni
internazionali di raccomandazioni e di guide delle migliori prassi, come ad esempio la
raccomandazione n. 3 del Gruppo di azione finanziaria internazionale (GAFI) dell’OCSE,
rivista nel febbraio 201212. Il GAFI ha suggerito che gli Stati adottino misure simili a quelle
indicate nelle convenzioni di Vienna e di Palermo, comprese quelle di natura legislativa, di
modo che le loro autorità competenti possano confiscare i beni riciclati, i proventi derivanti
dal riciclaggio di capitali o dai reati sottostanti, nonché gli strumenti utilizzati o destinati ad
essere utilizzati per commettere questi reati o beni il cui valore corrisponda a questi proventi,
senza pregiudizio per i terzi di buona fede. Secondo il GAFI, gli Stati possono prevedere di
adottare misure che permettano la confisca di siffatti prodotti o strumenti senza che sia
intervenuta una condanna penale o che obblighino il presunto autore del reato a fornire la
prova dell’origine lecita dei beni che si presumono confiscabili, nella misura in cui tale
obbligo sia conforme ai principi del loro diritto interno. La terza delle nove raccomandazioni
10
La decisione-quadro ha abrogato, in parte, l'azione comune 98/699/JAI riguardante l'individuazione, il
rintracciamento, il blocco o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato.
11
La Proposta di direttiva del parlamento europeo e del Consiglio riguardante il blocco e la confisca dei proventi
di reato nell’Unione europea, fatta nel 2012, prevedeva la confisca senza condanna penale quando il convenuto
non può essere perseguito perché deceduto, malato o in fuga; la confisca estesa nella misura in cui un giudice
constati in base a concreti elementi di fatto, che una persona riconosciuta colpevole di un reato è in possesso di
beni che molto probabilmente provengono da altre attività criminali simili piuttosto che da un altro tipo di
attività, e la confisca di beni di terzi quando il terzo acquirente, avendo pagato una somma inferiore al valore di
mercato, avrebbe dovuto sospettare che i beni erano di origine criminale (COM(2012) 85 final). Nel suo rapporto
sulla proposta di direttiva, redatto nel maggio 2013, la Commissione delle libertà civili, della giustizia e degli
affari interni ha precisato che la direttiva in questione copriva solo le forme di confisca non basate su una
condanna considerate di natura penale (COM(2012)0085 – C7-0075/2012 – 2012/0036(COD); e il parere emesso
a tale proposito nel dicembre 2012 dall’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione europea). La procedura
legislativa è ancora in questa fase. Appare evidente un disaccordo tra l’approccio del Consiglio d’Europa, che
apre la porta a misure che conducono ad una confisca senza condanna e che non sono «sanzioni penali», anche
se adottate al termine di un procedimento penale, e l’approccio della Commissione delle libertà civili del
Parlamento europeo, che assoggetta la confisca senza condanna penale alle garanzie convenzionali collegate ad
ogni «pena» e, esplicitamente, alle disposizioni dell’articolo 6 della Convenzione.
12
Si vedano anche le risoluzioni 1267 (1999), 1373 (2001) e 1377 (2001) del Consiglio di sicurezza sul
finanziamento del terrorismo e la Guida tecnica per l’attuazione della risoluzione 1373 (2001) del Consiglio di
sicurezza, nonché i seguenti documenti: G8 Best Practice Principles on Tracing, Freezing and Confiscation of
Assets, 2003 ; Commonwealth Model Legislative Provisions on Civil Recovery of Assets Including Terrorist
Property, 2005; Model Bilateral Agreement on the Sharing of Confiscated Proceeds of Crime or Property
covered by the United Nations Convention against Transnational Organized Crime and the United Nations
Convention against Illicit Traffic in Narcotic Drugs and Psychotropic Substances of 1988, 2005; Arricchimento
indebito: Una guida delle buone prassi in materia di confisca di beni senza condanna (CSC), 2009, e Barriers to
Asset Recovery An Analysis of the Key Barriers and Recommendations for Action, 2011, pubblicati dalla Banca
internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo e dalla Banca Mondiale; come pure il rapporto sui lavori del
Gruppo di lavoro intergovernativo aperto sul recupero di beni, redatto dalla Conferenza degli Stati parte alla
Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione.
.
speciali del GAFI sul finanziamento del terrorismo rafforza questa proposta per quanto
riguarda il blocco e la confisca dei beni dei terroristi.
È inevitabile concludere, in merito alla prassi costante e quasi universale degli Stati e
dell’opinio iuris sopra citata, che esiste oggi una norma consuetudinaria internazionale in
materia di confisca di strumenti e proventi di reato, che comprende le sei seguenti tipologie:
confisca degli strumenti utilizzati nel momento in cui è commesso il reato o destinati a
quest’ultimo, confisca dei proventi di reato, confisca del loro valore equivalente, confisca dei
proventi trasformati o uniti ad altri beni, confisca degli introiti e degli altri vantaggi indiretti13
e protezione del terzo di buona fede14. L’obbligo di confiscare strumenti e proventi di reato,
secondo le ampie modalità descritte, riguarda il numero più elevato possibile di reati e,
almeno, quelli creati conformemente alle convenzioni sopra menzionate. Questa norma
universale in materia di confisca di strumenti e proventi di reato costituisce una soglia minima
e gli Stati hanno la facoltà di andare oltre nella loro legislazione interna.
La confisca di strumenti e proventi di reato nella giurisprudenza della Corte
La Corte ha sino ad oggi evitato di pronunciarsi sulla questione di principio della
compatibilità con la Convenzione dei regimi di confisca senza condanna penale e di confisca
estesa. Spesso le questioni che si ponevano sono state decise sulla base di aspetti secondari
del regime legale della misura applicata dallo Stato convenuto, addirittura di fatti molto
particolari di ogni caso di specie, come l’ammontare dei beni perduti dal ricorrente. Questo
approccio casistico ha dato origine ad una giurisprudenza contraddittoria e incoerente.
Secondo la Corte, non beneficia delle garanzie previste dagli articoli 6 §§ 2-3 e 7 della
Convenzione e dall’articolo 4 del Protocollo n. 7 la confisca, prevista dall’articolo 2 ter della
legge italiana n. 575/1965 (oggi articolo 24 del codice antimafia introdotto con il decreto
legislativo del 6 settembre 2011 n. 159), di beni appartenenti direttamente o indirettamente ad
ogni persona sospettata di partecipare ad una associazione di stampo mafioso, quando il
valore di questi beni sembra sproporzionato rispetto agli introiti o alle attività economiche di
questa persona o quando è possibile ragionevolmente affermare, in base alle prove di cui si
dispone, che questi beni costituiscono il provento di attività illecite, se non è apportata
nessuna spiegazione soddisfacente a sostegno della loro origine lecita15. Lo stesso dicasi per la
13
Come espresso in una nota interpretativa riguardante delle formule equivalenti nella Convenzione contro la
criminalità organizzata, le parole «altri vantaggi» devono ricomprendere i vantaggi materiali nonché i diritti
legali, titoli e crediti opponibili a terzi che possono essere oggetto di una confisca (A/55/383/Add.1, par. 23).
14
Se anche il loro contenuto è identico, la norma convenzionale non sostituisce la norma consuetudinaria: esse
coesistono parallelamente perché la norma convenzionale si applica soltanto agli Stati parte mentre la norma
consuetudinaria si applica a tutti gli Stati. Inoltre, la consuetudine internazionale può disciplinare non soltanto i
rapporti interstatali, ma anche le relazioni tra Stati e cittadini in quanto essa è direttamente applicabile
nell’ordinamento giuridico interno e, in alcune circostanze, può essere invocata dai cittadini. Ad esempio, la
consuetudine internazionale può includere norme di diritto penale materiale, come il divieto della legge penale
retroattiva, ma anche norme di diritto penale procedurale, come la norma del giudice naturale nel diritto penale
(si veda la mia opinione separata nella causa Maktouf e Damyanovic c. Bosnia-Erzegovina (GC). La questione
non può essere sviluppata nei limiti della presente opinione.
15
Raimondo c. Italia, 22 febbraio 1994, serie A n. 281-A, pag. 17, §§ 30 e 43; Prisco c. Italia (dec.), n.
38662/97, 15 giugno 1999; Arcuri e altri c. Italia (dec.), n. 52024/99, 5 luglio 2001; e Riela e altri c. Italia
(dec.), n. 52439/99, 4 settembre 2001. Questa misura di prevenzione, che era tradizionalmente considerata come
una misura amministrativa assimilata, per contenuto ed effetti, a una misura di sicurezza (Corte di cassazione,
sezioni unite, sentenza del 3 luglio 1996, n. 18), è stata recentemente considerata oggettivamente sanzionatoria e,
pertanto, soggetta al principio della non retroattività della pena (Corte di cassazione, sentenza del 13 novembre
2012, n. 14044/13). In effetti, la misura è applicabile quando anche la presunta pericolosità del reo non è più
reale come pure in caso di morte del reo, potendo colpire tutto il patrimonio disponibile de iure o de facto del reo
(Corte costituzionale, sentenza del 9 febbraio 2012, n. 21).
confisca in un procedimento civile in rem16. In questo stesso senso, la Corte ritiene che le
misure di confisca possono essere applicate ai terzi a seguito della condanna dell’accusato in
un procedimento penale o anche dopo la morte di costui. Essa esamina tuttavia la
compatibilità di siffatte misure con l’elemento civile dell’articolo 6 e con l’articolo 1 del
Protocollo n. 117. Infine, essa ammette anche l’applicazione delle misure di confisca agli
accusati assolti o prosciolti per ragioni diverse dall’assoluzione all’esito di un procedimento
penale18, come pure nell’ambito della fase consecutiva alla condanna che è parte integrante
dell’iter per la determinazione della pena19.
Al contrario, la Corte ritiene parallelamente che la confisca prevista dall’articolo 19 della
legge n. 47 del 1985 benefici delle garanzie dell’articolo 7 della Convenzione20. Come si
vedrà, l’applicazione di questa misura risponde a condizioni molto più rigorose della confisca
del regime antimafia. Nel contesto di una confisca di valore corrispondente in Grecia, la Corte
non ha potuto cogliere la portata dei termini utilizzati, che operavano una distinzione, secondo
lei artificiale, tra una constatazione di colpevolezza e una constatazione di perpetrazione
«oggettiva» di un reato come base di un ordine di confisca, ed ha concluso per una violazione
dell’articolo 6 § 2 della Convenzione21. In un’altra causa, essa è giunta alla conclusione che la
confisca era una «misura non appropriata per dei beni di cui non si sapeva se fossero mai stati
nel possesso della persona interessata, a fortiori se la misura in causa si riferiva a un atto
delittuoso di cui la persona in questione non era stata in realtà riconosciuta colpevole», poiché
l’articolo 6 § 2 vietava siffatta misura22.
Così, al di là delle contraddizioni tre le cause aventi ad oggetto misure sostanzialmente
16
AGOSI c. Regno Unito, 24 ottobre 1986, serie A n. 108, §§ 34, 56-62 (sulla sezione 44 (b) e sezione 44 (f)
della legge del 1952); Air Canada c. Regno Unito, 13 luglio 1995, serie A n. 316, § 52 (sull’articolo 141 della
legge del 1979, che non prevedeva alcuna tutela del terzo innocente); Butler c. Regno Unito (dec.), n. 41661/98,
27 giugno 2002; Webb c. Regno Unito (dec.), n. 56054/00, 10 febbraio 2004, e Saccoccia c. Austria, n.
69917/01, §§ 87-91, 18 dicembre 2008. Negli ultimi due casi inglesi, la Corte ha esplicitamente constatato che
l’ordinanza che disponeva la confisca era una «,misura preventiva» non assimilabile a una sanzione penale dal
momento che mirava a far ritirare dalla circolazione del denaro che si presumeva legato al traffico internazionale
di stupefacenti.
17
Yildirim c. Italia (dec.), n. 38602/02, CEDU 2003-IV, e C.M. c. Francia (dec.), n. 28078/95, 26 giugno 2001.
Tuttavia, nella causa Silickienė c. Lituania, n. 20496/02, § 50, 10 aprile 2012, la Corte ha stabilito il principio
contrario: essa ha certo dichiarato che «in linea di principio, chiunque si vede confiscare il suo bene deve
formalmente beneficiare della qualità di parte alla procedura nel corso della quale viene disposta la confisca»,
ma essa ha accettato, «nelle particolari circostanze della causa», la confisca dei beni di un terzo dopo il decesso
dell’accusato durante un procedimento penale.
18
Van Offeren c. Paesi Bassi (dec.), n. 19581/04, 5 luglio 2005, in cui il ricorrente ha dovuto pagare 162.026,31
euro confiscati, sotto minaccia di diciotto mesi di detenzione in caso di mancato pagamento della somma
confiscata; Waldemar Nowakowski c. Polonia, n. 55167/11, §§ 51-58, 24 giugno 2012, e, in un caso simile in cui
un ordine di demolizione era stato imposto ad un imputato prosciolto all’esito di un procedimento penale, Saliba
c. Malta (dec.), nº 4251/02, 23 novembre 2004.
19
Phillips c. Regno Unito, n. 41087/98, § 34, CEDU 2001‑VII (riguardante la legge del 1994 sul traffico di
stupefacenti), in cui il ricorrente aveva dovuto pagare 91.400 lire sterline confiscate, sotto la minaccia di una
pena addizionale di due anni di detenzione; Grayson e Barnham c. Regno Unito, nn. 19955/05 e 15085/06, § 49,
23 settembre 2008 (riguardante la stessa legge), dove il primo ricorrente aveva dovuto pagare 1.236.748 lire
sterline confiscate, sotto la minaccia di una pena addizionale di otto anni di detenzione, e il secondo ricorrente
1.460.615 lire sterline, sotto la minaccia di cinque anni e tre mesi di detenzione; e Woolley c. Regno Unito, n.
28019/10, §§ 80-84, 10 aprile 2012 (riguardante l’articolo 75 della legge del 1988 sulla giustizia penale e
sull’articolo 139 della legge del 2000 sulle attribuzioni delle giudici penali (determinazione delle pene), dove il
ricorrente aveva dovuto subire quattro anni di detenzione in più della pena che gli era stata inflitta perché non
aveva pagato 497.784,02 lire sterline confiscate.
20
Sud Fondi srl e altri c. Italia (dec.), n. 75909/01, 30 agosto 2007, e anche Welch c. Regno Unito, n. 17440/90,
§ 33, 9 febbraio 1995 (riguardante la legge del 1986 sul traffico di stupefacenti).
21
Paraponiaris c. Grecia, n. 42132/06, § 33, 25 settembre 2008.
22
Geerings c. Paesi Bassi, n. 30810/03, § 47, 1° marzo 2007 (sull’articolo 36e del codice penale), in cui il
ricorrente aveva dovuto pagare 147.493 fiorini olandesi, sotto minaccia di 490 giorni di detenzione.
della stessa natura, la Corte accorda garanzie più deboli ad alcune misure di confisca più
gravi, addirittura più intrusive, e garanzie più forti a misure di confisca meno gravi. Alcune
misure «civili» e certe misure di «prevenzione penale» che nascondono una vera misura di
annientamento delle capacità economiche degli imputati, talvolta sotto la minaccia della
detenzione in caso di mancato pagamento della somma dovuta, sono sottoposte ad un
controllo debole e vago, sfuggono addirittura al controllo della Corte, mentre alcune misure di
natura intrinsecamente ammnistrativa sono talvolta assimilate a pene e sottoposte al controllo
più rigoroso degli articoli 6 e 7 della Convenzione.23.
La natura della confisca per lottizzazione abusiva
Con sentenza del 12 novembre 1990, la Corte di cassazione italiana dichiarò che la
confisca prevista dall’articolo 19 della legge n. 47 del 1985 era una sanzione amministrativa e
obbligatoria, indipendente dalla condanna penale e dall’elemento morale del reato24. Essa
ritenne che questa misura potesse dunque essere applicata nei confronti di terzi in quanto
all’origine della confisca vi era una situazione - in questo caso un manufatto o una
lottizzazione o entrambi - che era materialmente abusiva, indipendentemente dall’elemento
morale. Di conseguenza, a suo parere, la confisca poteva essere disposta in caso di
proscioglimento dell’accusato perché il fatto non costituisce reato, ma non poteva esserlo in
casi di proscioglimento dell’accusato perché il fatto non sussiste.
La Corte di cassazione introdusse due eccezioni significative a questo principio, la prima è
quella dei terzi di buona fede che non hanno preso parte alla commissione dei fatti25 e la
seconda quella della prescrizione del reato di lottizzazione abusiva intervenuta prima
dell’avvio dell’azione penale26. In questi casi, a suo parere, la confisca era esclusa.
Nella causa Sud Fondi, la Corte ha deciso diversamente. Essa ha ritenuto che la misura
prevista dall’articolo 19 della legge n. 47 del 1985 non tendesse alla riparazione pecuniaria di
un danno, ma mirasse essenzialmente a punire per impedire che venissero nuovamente violate
le condizioni fissate dalla legge. Questa conclusione era rafforzata secondo lei dalla
constatazione che la confisca aveva colpito l’85% dei terreni non edificati, senza dunque che
vi fosse stata una effettiva violazione in materia paesaggistica. La Corte ha rilevato la gravità
della sanzione concreta che riguardava tutti i terreni inclusi nel progetto di lottizzazione, che
in pratica rappresentavano una superfici di 50.000 m2. Essa ha sottolineato inoltre che il testo
unico in materia edilizia del 2001 classificava tra le sanzioni penali la confisca per
lottizzazione abusiva.
Classificare la confisca tra le « pene» è molto discutibile, dal punto di vista sia dei criteri
della dogmatica penale classica che dei criteri, tratti dalla giurisprudenza Engel¸ di
qualificazione giuridica del reato nel diritto della Convenzione. La legge nazionale non è
chiara in quanto gli articoli 19 e 20 della legge n. 47 del 1985 non menzionano la confisca
come sanzione penale, contrariamente all’articolo 44 del testo unico in materia edilizia (DPR
n. 380 del 2011), che ha dato una nuova formulazione degli articoli di cui sopra. Dal momento
che la confisca si prefigge di contrastare la speculazione immobiliare non rispettosa
dell’assetto territoriale e della tutela ambientale, il suo carattere preventivo è evidente. La sua
23
Le ripercussioni della giurisprudenza della Corte possono essere considerevoli nel caso di una confisca estesa
in quanto misura privativa di beni in generale (ad esempio, articolo 43° del codice penale tedesco e articolo 22949 del codice penale francese), di beni aventi uno scopo illegale (ad esempio, § 72 del codice penale svizzero e §
20b del codice penale austriaco) e di beni di presunta provenienza illecita (ad esempio, § 73d del codice penale
tedesco, articolo 20b (2) del codice austriaco e articolo 7 della legge portoghese n. 5/2002).
24
La Corte costituzionale ha confermato questo ragionamento nella sentenza n. 187 del 1998.
25
Corte di cassazione, sentenza del 24 ottobre 2008, n. 427, sentenza del 9 luglio 2009, n. 36844, e sentenza del
6 ottobre 2010, n. 397153.
26
Corte di cassazione, sentenza del 16 febbraio 2011, n. 5857.
presunta natura «repressiva» e «punitiva» non lo è altrettanto. Per giustificare questo scopo
«punitivo» non è sufficiente fare affidamento sulle percentuali dei terreni non edificati
confiscati e ancor meno sulla superficie dei terreni confiscati. La gravità concreta di una
sanzione penale non può che confermarne la natura penale, ma non può sostituirla. La natura
«penale» della confisca non può dipendere dalla sua gravità concreta. Piuttosto è il regime
legale della confisca, come stabilito dalla legge e interpretato e applicato dalla giurisprudenza,
a dover condurre a una conclusione sulla sua natura. Per evitare la frode delle etichette, così
ricorrente in questo campo, occorre richiamare alla mente la saggezza di Celso: scire leges
non hoc est: verba earum tenere, sed vim ac potestatem (conoscere le leggi non è tenerne a
mente le parole, ma lo spirito e la forza).
Questo scopo «punitivo» è contraddetto dal fatto che i beni confiscati in virtù dell’articolo
19 della legge n. 47 del 1985 sono acquisiti non al patrimonio dello Stato, come nel caso della
confisca penale prevista dall’articolo 240 del codice penale, ma degli enti locali e la confisca
può essere revocata se l’amministrazione regolarizza ex post facto la lottizzazione27. Nel
diritto penale moderno, una pena non può essere revocata da un atto retroattivo
dell’amministrazione. Il principio della separazione dei poteri lo vieterebbe. Se
l’amministrazione può sanare la lottizzazione successivamente ad una decisione giudiziaria
definitiva di confisca e revocare questa misura, occorre concludere che il giudice penale che
emette questa decisione non ha l’ultima parola per quanto riguarda la legalità della
lottizzazione. Così la confisca disciplinata dall’articolo 19 della legge n. 47 del 1985 è
precisamente una misura provvisoria e conservativa volta a fronteggiare il pericolo di una
speculazione immobiliare non conforme alle prescrizioni legali e amministrative fino a che
l’organo competente dell’amministrazione non decida definitivamente sulla legalità della
lottizzazione. In altre parole, il giudice penale si sostituisce, provvisoriamente,
all’amministrazione in funzione di supplenza nel ruolo di garante dell’interesse pubblico in
materia di assetto territoriale e di tutela dell’ambiente. Questa conclusione è confermata da
altri aspetti importanti del regime legale: la procedura penale non ha un effetto sospensivo
sulla procedura amministrativa28 e l’amministrazione può anche evitare la pronuncia di una
confisca da parte del giudice penale prima che questa misura passi in giudicato se autorizza ex
post facto l’intervento di lottizzazione o modifica il piano di assetto territoriale in modo da
rendere edificabili i terreni già lottizzati29 e, inoltre, essa può sanare i manufatti costruiti senza
autorizzazione se sono conformi alle norme urbanistiche vigenti alla data in cui decide sulla
domanda di condono, anche se non lo sarebbero state con le norme vigenti alla data di
realizzazione del manufatto abusivo30. È necessario concludere da tutti questi aspetti del
regime legale che la confisca per lottizzazione abusiva è di natura amministrativa e non
dipende dalla verifica dell’esistenza delle condizioni oggettive (actus reus) e soggettive (mens
rea) di applicazione delle «pene» alla data dei fatti, nonostante siano pronunciate da un
tribunale penale all’esito di un procedimento penale. La nozione costituzionale di «funzione
sociale della proprietà» non è estranea al modo in cui è articolata la confisca amministrativa31.
Così, dal punto di vista della Convenzione, la confisca per lottizzazione abusiva può essere
considerata come una «violazione» del diritto di proprietà «necessaria per regolamentare l’uso
27
Corte di cassazione, sentenza del 14 dicembre 2000 n. 12999, e sentenza del 21 gennaio 2002, n. 1966. Ma la
stessa alta giurisdizione ha anche sottolineato, nella sentenza del 29 maggio 2007, n. 21125, che la sanatoria
amministrativa della lottizzazione abusiva, una volta passata in giudicato la decisione di confisca, non implicava
la restituzione dei beni confiscati ai precedenti proprietari. Come si vedrà di seguito, questo aspetto del regime
legale pone problemi sul piano della proporzionalità.
28
In effetti, un atto amministrativo che dispone la demolizione di manufatti abusivi può essere eseguito in
pendenza di procedimento penale (Consiglio di Stato, sentenza del 12 marzo 2012, n. 1260, e Corte di
cassazione, sentenza del 14 gennaio 2009, n. 9186).
29
Corte di cassazione, sentenze dell’8 ottobre 2009, n. 39078, e del 29 maggio 2007, n. 21125.
30
Consiglio di Stato, sentenze del 21 ottobre 2003, n. 6498, e del 7 maggio 2009, n. 2835.
31
Corte di cassazione, sentenze del 27 gennaio 2005, n. 10037, e del 2 ottobre 2008, n. 37472.
dei beni conformemente all’interesse generale», la cui legittimità deve essere valutata dal
punto di vista dei criteri della legalità e della proporzionalità dell’articolo 1 del Protocollo n.
1, ma certamente non come una «pena» sottoposta alle condizioni dell’articolo 7 della
Convenzione32.
La legalità della confisca per lottizzazione abusiva
La base legale della confisca disposta dalle autorità giudiziarie italiane non è in
contestazione: si tratta dell’articolo 19 della legge n. 47 del 198533. Sono piuttosto le modalità
di applicazione della misura ad essere al centro della controversia tra le parti. Da un lato il
governo sostiene che gli elementi oggettivi e soggettivi del reato di urbanizzazione abusiva
erano costituiti tenuto conto che esistevano vincoli paesaggistici, come risulterebbe dalla
decisione del tribunale amministrativo della Puglia del 10 marzo 1993, dall’assenza di un
piano di urbanizzazione legittimo e dal fatto che il ricorrente sarebbe stato pienamente
consapevole dei due elementi precedenti. Dall’altro lato, il ricorrente sostiene che la decisione
del tribunale amministrativo aveva reso inoperante il decreto ministeriale del 1° agosto 1985
e, pertanto, aveva privato di base giuridica la decisione di confisca emessa dal giudice penale.
È opportuno ricordare che il capo di accusa nel caso del ricorrente considerava che la
variante approvata nel 1994 al piano di lottizzazione, già approvato nel 1984, non sarebbe
stata una semplice modifica del progetto del 1984, ma un nuovo progetto, sottoposto
all’obbligo di richiedere e ottenere un parere favorevole del comitato urbanistico regionale
competente in materia urbanistica. In assenza di un nuovo piano di lottizzazione e di detto
parere favorevole, il tribunale di primo grado dichiarò la lottizzazione abusiva, ravvisando in
ciò una violazione del decreto ministeriale del 1° agosto 1985. Questo capo di accusa non fu
contestato né dalla corte di appello di Bari nella sentenza del 22 gennaio 200134, né dalla
Corte di cassazione nella sua sentenza del 10 dicembre 200435, ma fu preso in considerazione
dalla corte di appello di Bari nella sentenza del 5 maggio 2003 e dalla Corte di cassazione
nella sentenza del 17 maggio 2002. Infine, nella sentenza del 23 marzo 2006, la corte
d’appello di Bari vide nella variante una nuova lottizzazione e, pertanto, una lottizzazione
abusiva. In conclusione, essa dispose la confisca dei manufatti e dei terreni edificati e non
edificati. La Corte di cassazione confermò questo ragionamento nella sentenza dell’11 giugno
2008. Di per sé, le profonde divergenze tra le diverse autorità giudiziarie nazionali dimostrano
il carattere discutibile dell’interpretazione alla fine adottata in merito alla natura della
convenzione di lottizzazione conclusa nell’agosto 1994 e dei relativi permessi a costruire e,
pertanto, del reato ascritto al ricorrente. Inoltre, il comune di Cassano delle Murge dichiarò le
opere costruite dal ricorrente prima del 30 settembre 2004 conformi alla legislazione in
32
Il ragionamento e la presa di posizione di principio della Corte sulla confisca devono tener conto degli
argomenti portati dinanzi ad alcuni giudici nazionali sui limiti costituzionali della confisca, come durante il
dibattimento che si è svolto negli Stati Uniti sull’applicazione ad alcune forme di confisca dell’ottavo
emendamento relativo alle pene crudeli o di quello che ha avuto luogo in Germania sulla costituzionalità della
confisca generale (si vedano, tra altre, le sentenze della Corte Costituzionale tedesca del 20 marzo 2002 e del 14
gennaio 2004).
33
Sull’illegalità delle misure di confisca, si vedano Frizen c. Russia, n. 58254/00, § 36, 24 marzo 2005;
Baklanov c. Russia, n. 68443/01, § 46, 9 giugno 2005, e Adzhigovich c. Russia, n. 23202/05, § 34, 8 ottobre
2009.
34
La corte d’appello ha dichiarato che la Foresta di Mercadante non era un bosco naturale, ma un bosco
artificiale, come aveva confermato il perito del Pubblico ministero all’udienza del 23 marzo 1998; che l’articolo
1 della legge n. 431/85 era stata abrogata dall’articolo 146 del decreto legislativo n. 490/99, con l’esclusione del
vincolo paesaggistico sui terreni in questione; che la variante al piano di lottizzazione iniziale non rappresentava
una modifica essenziale del piano di lottizzazione approvato nel 1984, e infine che i manufatti edificati dal
ricorrente non costituivano una «modifica sostanziale di parametri paesistici dell’area».
35
La Corte di cassazione ha censurato la sentenza della corte di appello di Bari del 5 maggio 2003 per non aver
valutato autonomamente se la variante mascherava un nuovo ed autonomo piano di lottizzazione.
materia paesaggistica e la Soprintendenza per i Beni Ambientali concluse anche, dopo un
sopralluogo, che «l’intervento edificatorio posto in essere non abbia comportato specifico
pregiudizio all’integrità complessiva dell’area boscata»36. Ad ogni modo, anche concedendo
allo Stato convenuto il beneficio del dubbio sul carattere «naturale» della Foresta di
Mercadante, sulla natura «essenziale»della modifica apportata al progetto iniziale e, pertanto,
sulla illegalità della convenzione di lottizzazione conclusa nell’agosto 1994, nonché sulla
legalità della confisca che ne conseguì, l’esame della proporzionalità della misura di confisca
porta a una conclusione che gli è sfavorevole.
La proporzionalità della confisca per lottizzazione abusiva
In effetti, ogni misura che violi il diritto di proprietà deve essere proporzionata. Questa
conclusione a maggior ragione vale per i proprietari ai quali non può essere ascritto alcun
comportamento illecito, di natura penale, amministrativo o civile. La portata della confisca
deve dunque limitarsi a quello che è strettamente necessario al perseguimento degli scopi
preventivi specifici e della finalità generale «di interesse pubblico» di qualsiasi misura lesiva
del diritto di proprietà nel contesto del caso di specie.
Secondo l’interpretazione accolta autorità giudiziarie italiane, la confisca per lottizzazione
abusiva colpisce in maniera automatica non soltanto i manufatti ma anche i terreni (e la
totalità di questi ultimi , non soltanto quelli edificati)37. La misura della confisca che ne è
derivata nella fattispecie è manifestamente sproporzionata e questo per vari motivi38. In primo
luogo, i terreni non costruiti costituivano più del 90% di quelli confiscati. In secondo luogo, la
confisca non si è limitata ai cambiamenti introdotti dalla convenzione del 1994: essa è stata
estesa alla lottizzazione già autorizzata nel 1984. In terzo luogo, anche accettando, per ipotesi,
il carattere abusivo della lottizzazione, il vizio atterrebbe al mancato rispetto di un vincolo
paesaggistico che necessita del parere favorevole del comitato urbanistico regionale, ossia ad
un vizio di procedura relativo («vincolo d’inedificabilità relativo»), eventualmente sanabile, e
non ad un vizio di merito insanabile, come una inedificabilità assoluta. In quarto luogo,
poiché i fatti si erano prescritti alla fine del 2001, come sostiene il ricorrente, o alla fine del
2002, come dichiara la corte d’appello di Bari, il mantenimento, tra il mese di febbraio 1997 e
la fine del procedimento penale nel giugno 2008, di un sequestro conservativo dei terreni e dei
manufatti costituisce una violazione eccessiva. In quinto luogo, non sembra ragionevole che il
comune responsabile del rilascio dei permessi a costruire illegali benefici del frutto della sua
colpa.
L’interpretazione rigida della confisca per lottizzazione abusiva che la rendeva «un
provvedimento ablativo radicale, nelle forme e nelle conseguenze», in cui «senza
discrezionalità alcuna, la proprietà dei terreni e dei beni lottizzati venga trasferita dai privati al
patrimonio del comune»39, viola chiaramente il principio della proporzionalità. Questo
principio impone un’altra interpretazione della «forma» e delle «conseguenze» della confisca,
che le giurisdizioni nazionali possono e devono seguire alla luce degli articoli 42 e 44 della
Costituzione italiana e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1. Se lo scopo della misura che
36
Sentenza della Corte d’appello di Bari del 22 gennaio 2001, pagina 11: «l’intervento edificatorio posto in
essere non abbia comportato specifico pregiudizio all’integrità complessiva dell’area boscata».
37
Corte di cassazione, sentenza del 9 maggio 2005, n. 17424: «la confisca deve essere estesa a tutta l’area
interessata dall’intervento lottizzatorio, compresi i lotti non ancora edificati o anche non ancora alienati al
momento dell’accertamento del reato, atteso che anche tali parti hanno perso la loro originaria vocazione e
destinazione rientrando nel generale progetto lottizzatorio.»
38
Sulla mancata proporzionalità delle misure di confisca, si vedano Ismayilov c. Russia, n. 30352/03, § 38, 6
novembre 2008, e soprattutto Grifhorst c. Francia, n. 28336/02, § 100, 26 febbraio 2009 (confisca «automatica»
di «tutta» la somma trasportata).
39
Corte di cassazione, sentenza del 29 maggio 2007, n. 21125, ma si veda anche Corte costituzionale, sentenza
del 24 giugno 2009, n. 239.
consiste nel confiscare dei terreni lottizzati e dei manufatti illegali è quello di infliggere una
battuta di arresto alle attività criminali e ai proventi di queste ultime e di evitare che il danno
all’assetto del territorio e all’ambiente non si aggravi fino a che l’amministrazione prenda una
decisione definitiva sulla legalità della lottizzazione, l’intervento del giudice deve essere
misurato e non può essere «assoluto» né «automatico». In tal modo, il giudice italiano deve
non soltanto verificare se vi sia in concreto una situazione di pericolo immediato e serio per
l’assetto del territorio e per la tutela ambientale, ma deve anche adattare la reazione statale
alla minaccia immobiliare esistente e così proporzionare la misura della confisca alle
circostanze specifiche della causa.40.
Conclusione
Secondo le stime dell’ONU, l’ammontare dei proventi di reato su scala mondiale aveva
raggiunto nel 2009 circa 2.100 miliardi di dollari americani, ossia il 3,6% del PIL mondiale 41.
In risposta a questo problema mondiale, una norma consuetudinaria internazionale che
impone la confisca in quanto misura di politica penale si è consolidata, sia rispetto agli
strumenti che ai proventi di reato, salvo nel caso del terzo di buona fede. Sotto il nomen iuris
di confisca, gli Stati hanno creato misure di prevenzione penale ante delictum, delle sanzioni
penali (accessorie o anche principali), delle misure di sicurezza lato sensu, delle misure
amministrative adottate nell’ambito di un procedimento penale o al di fuori di quest’ultimo e
delle misure civili in rem. Di fronte a questo complesso immenso di mezzi di reazione di cui
lo Stato dispone, la Corte non ha ancora sviluppato una giurisprudenza coerente fondata su un
ragionamento di principio.
Nel caso della confisca per lottizzazione abusiva prevista dall’articolo 19 della legge n. 47
del 1985, se la sua applicazione in assenza di condanna penale, indipendentemente dalla causa
di estinzione del procedimento penale, è conforme alla Convenzione, la sua portata non lo è.
Una misura che dispone automaticamente e assolutamente la confisca di costruzioni e di
terreni abusivamente lottizzati viola il principio della proporzionalità. Questo è il caso della
confisca applicata al ricorrente. Pertanto, concludo per la violazione dell’articolo 1 del
Protocollo n. 1, ma anche per la non violazione dell’articolo 7 della Convenzione.
***
Art. 10 CEDU (Libertà di espressione)
b) Ricci c. Italia – Seconda Sezione, sentenza dell'8 ottobre 2013 (ric. n. 30210/06)
Condanna di un produttore televisivo a pena detentiva con beneficio della
sospensione condizionale per aver diffuso informazioni riservate concernenti
una rete della televisione pubblica: violazione
40
Per esempio, il giudice deve operare una distinzione tra un «ecomostro» creato da un costruttore avido e in
malafede che gioca a nascondino con le autorità amministrative e un manufatto realizzato con l’assenso più o
meno compiacente delle autorità amministrative competenti e la cui costruzione è stata volontariamente bloccata
dal suo autore. Le misure necessarie nel primo caso non sarebbero le stesse nel secondo.
41
Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, «Stima dei flussi finanziari illeciti derivanti dal
traffico di droga e da altri crimini transnazionali», ottobre 2011.
In fatto – Il ricorrente, ideatore-produttore di una trasmissione televisiva satirica, intercettò
le immagini di un litigio tra uno scrittore e un filosofo nel corso della registrazione di una
trasmissione che doveva essere diffusa da un canale della rete televisiva pubblica. Nel filmato
si vedeva poi la conduttrice rammaricarsi di non poter trasmettere le immagini dal momento
che il filosofo non aveva firmato l’autorizzazione necessaria per la loro diffusione, e
ammettere che gli interessati erano stati invitati al fine di far scoppiare un litigio tra i due per
far aumentare l’audience.
Nel 1996 il ricorrente trasmise tali immagini al fine di denunciare la vera natura della
televisione. La rete televisiva sporse querela contro il ricorrente e si costituì parte civile
nell’ambito del procedimento per intercettazione fraudolenta e diffusione di comunicazioni
riservate. Anche il filosofo si costituì parte civile. Nel 2002 il ricorrente fu condannato a
versare alla rete televisiva e al filosofo un risarcimento danni il cui ammontare doveva essere
stabilito tramite separato procedimento civile e a quattro mesi e cinque giorni di reclusione
con sospensione condizionale della pena per divulgazione al pubblico di comunicazioni
interne al sistema telematico della rete televisiva. Per di più fu tenuto a versare
immediatamente, a titolo di acconto, 10.000 EUR a ciascuna delle parti civili. Poiché il suo
appello fu respinto nel 2004, propose ricorso per cassazione. Nel 2005 la Corte di cassazione
dichiarò il reato estinto per prescrizione e annullò senza rinvio la sentenza della corte di
appello confermando, tuttavia, la condanna del ricorrente al risarcimento dei danni subiti dalle
parti civili e la condanna al pagamento delle spese procedurali della rete televisiva.
In diritto - Articolo 10: La condanna del ricorrente ha costituito una ingerenza nel suo
diritto alla libertà di espressione. Tale ingerenza era prevista dalla legge e perseguiva gli scopi
legittimi di proteggere la reputazione o i diritti altrui e di impedire la divulgazione di
informazioni riservate. Quanto alla necessità dell’ingerenza in una società democratica, la
Corte rigetta l’argomento del tribunale e della Corte di cassazione secondo il quale la
protezione delle comunicazioni relative a un sistema informatico o telematico esclude per
principio ogni possibile bilanciamento con l’esercizio della libertà di espressione. In effetti
anche quando vengono diffuse informazioni, occorre esaminare più aspetti distinti, ossia gli
interessi in gioco, il controllo esercitato dai giudici nazionali, il comportamento del ricorrente
e la proporzionalità della sanzione comminata.
Per quanto riguarda gli interessi in gioco, il ricorrente afferma che la registrazione diffusa
della trasmissione riguardava un tema di interesse generale, ossia la funzione e la «vera
natura» della televisione nella società moderna. Il ruolo svolto dalla televisione pubblica in
una società democratica è un tema di interesse generale. La collettività poteva dunque avere
un certo interesse ad essere informata del contenuto delle immagini attraverso le quali si
poteva scorgere il sintomo di una volontà di impressionare e divertire il pubblico piuttosto che
fornirgli informazioni a contenuto culturale. Ma si trattava soprattutto per il ricorrente di
stigmatizzare e ridicolizzare un comportamento individuale. Se l’interessato desiderava aprire
una discussione su un argomento di interesse fondamentale per la società, poteva percorrere
altre vie che non avrebbero comportato alcuna violazione della riservatezza delle
comunicazioni telematiche.
Per quanto riguarda il controllo esercitato dai giudici nazionali, soltanto la corte d’appello
di Milano ha affrontato la questione del conflitto tra il diritto alla riservatezza delle
comunicazioni e la libertà di espressione. Essa ha attribuito una particolare importanza
all’interesse sociale dell’informazione divulgata, concludendo che nella fattispecie tale
interesse non poteva considerarsi «fondamentale». La Corte ritiene che un’analisi di questo
tipo non sia arbitraria e che sia stata fatta nel rispetto dei criteri stabiliti dalla sua
giurisprudenza.
Per quanto riguarda il comportamento del ricorrente, la registrazione controversa si era
verificata su una frequenza riservata ad uso interno della rete televisiva. Ciò non poteva essere
ignorato dal ricorrente, professionista nel campo dell’informazione, che era o avrebbe dovuto
essere consapevole del fatto che la diffusione della registrazione era contraria alla riservatezza
delle comunicazioni della rete televisiva pubblica. Ne consegue che il ricorrente non ha agito
nel rispetto dell’etica giornalistica. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte non può
concludere che una condanna a carico del ricorrente fosse di per sé contraria all’articolo 10
della Convenzione.
Per quanto riguarda la natura e la severità delle pene inflitte, oltre al risarcimento dei
danni, il ricorrente è stato condannato a quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Nonostante
gli sia stata accordata la sospensione condizionale della pena e benché la Corte di cassazione
abbia dichiarato il reato estinto per prescrizione, il fatto di infliggere una pena detentiva ha
potuto avere un effetto dissuasivo significativo. Peraltro, il caso di specie, che aveva ad
oggetto la diffusione di un video il cui contenuto non era di natura tale da provocare un
pregiudizio importante, non era segnato da alcuna circostanza eccezionale tale da giustificare
il ricorso ad una sanzione così severa. Così per la natura ed il quantum della sanzione imposta
al ricorrente, l’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione di quest’ultimo non è stata
proporzionata agli scopi legittimi perseguiti.
Conclusione: violazione (sei voti contro uno).
Articolo 41: constatazione di violazione di per sé sufficiente per il danno morale.
[Traduzione dal Bollettino n. 167 curata dagli esperti linguistici del Ministero della Giustizia]
2. Le pronunce rese nei confronti di altri Paesi
Art. 5 § 1 CEDU (Diritto alla libertà e alla sicurezza)
Art. 7 CEDU (Nulla poena sine lege)
a) Del Rio Prada c. Spagna – Grande Camera, sentenza del 21 ottobre 2013 (ric. n.
42750/09)
Differimento della data della liberazione definitiva in applicazione di un
nuovo orientamento giurisprudenziale: violazione
In fatto – Tra il 1988 ed il 2000, nell’ambito di otto procedimenti penali, la ricorrente fu
condannata a diverse pene privative della libertà per più delitti connessi ad attentati
terroristici; la durata complessiva delle pene ammontava a più di tremila anni. Nel novembre
2000, ritenuta la connessione giuridica e cronologica dei delitti, l’Audiencia Nacional applicò
il cumulo delle pene irrogate e fissò in trenta anni di reclusione la durata massima
complessiva, conformemente al limite previsto dal codice penale del 1973, applicabile
all’epoca dei fatti. Nell’aprile 2008 il centro penitenziario in cui era rinchiusa la ricorrente
fissò al 2 luglio 2008 la data della sua scarcerazione dopo aver applicato le riduzioni di pena
per il lavoro svolto dal suo ingresso in carcere nel 1987. Poi, nel maggio 2008, l’Audiencia
Nacional chiese alle autorità penitenziarie di modificare la data prevista per la scarcerazione e
di eseguire un nuovo calcolo in base alla giurisprudenza stabilita in una sentenza del
Tribunale supremo del febbraio 2006 (detta dottrina Parot), ai sensi della quale i benefici e le
riduzioni di pena pertinenti dovevano essere applicati su ciascuna delle singole pene e non sul
limite massimo di trenta anni di reclusione. La data definitiva della scarcerazione della
ricorrente fu quindi fissata al 27 giugno 2017. I ricorsi presentati dalla ricorrente furono
respinti. Nella sentenza emessa il 10 luglio 2012 (si veda il Bollettino d’informazione n. 154),
una camera della Corte ha concluso, all’unanimità, per la violazione degli articoli 5 e 7 della
Convenzione ritenendo che l’intervento della nuova giurisprudenza che cambiava le modalità
di calcolo delle riduzioni di pena non era prevedibile all’epoca della condanna della ricorrente
e costituiva un’applicazione retroattiva, pregiudizievole per l’interessata, di un cambiamento
intervenuto dopo la commissione dei reati.
In diritto - Articolo 7: L’argomento delle parti verte essenzialmente sul calcolo della durata
complessiva della pena che la ricorrente deve scontare in applicazione, da una parte, delle
norme sul cumulo e sulla fissazione della durata massima delle pene e, dall’altra parte, del
dispositivo delle riduzioni di pena per lavoro svolto in carcere previsto dal codice penale del
1973.
a) Sulla portata della pena inflitta - Secondo il codice penale del 1973 applicabile
all’epoca in cui furono commessi i fatti delittuosi, la durata massima di trenta anni di
reclusione corrispondeva alla durata massima della pena da scontare (condena) applicabile in
caso di reati connessi che si distingueva dalla nozione di «pene» (penas) pronunciate o
imposte nelle diverse sentenze di condanna. Peraltro, ai fini dell’esecuzione della «pena
imposta», i detenuti avrebbero potuto beneficiare di una riduzione di pena di un giorno per
due giorni di lavoro svolto. Non esisteva tuttavia alcuna norma specifica che indicasse come
applicare le riduzioni di pena in caso di cumulo e come fissare la durata massima delle pene
irrogate, situazione in cui si trovava la ricorrente, la cui pena di tremila anni di reclusione era
stata ridotta a trenta anni. Soltanto nel corso dell’elaborazione del nuovo codice penale del
1995 il legislatore ha espressamente previsto, per quanto riguarda l’applicazione dei benefici
penitenziari, che si sarebbe potuto tenere conto, in alcuni casi eccezionali, della durata
complessiva delle pene imposte e non della durata massima della pena da scontare fissata
dalla legge.
Considerata la giurisprudenza e la prassi interpretativa alle quali hanno dato luogo le
disposizioni pertinenti del codice penale del 1973, prima della sentenza del Tribunale
supremo del 2006, quando una persona era condannata a più pene detentive oggetto di
provvedimento di cumulo e di fissazione della durata massima della pena, le autorità
penitenziarie e i tribunali imputavano le riduzioni di pena per lavoro svolto in carcere sulla
durata massima della pena da scontare. Essi tenevano dunque conto della pena massima di
trenta anni di reclusione per quel che concerne le riduzioni di pena per lavoro svolto in
carcere. Il Tribunale supremo, con sentenza adottata nel marzo 1994 ha qualificato la pena di
trenta anni, in quanto pena massima da scontare, come «pena nuova e autonoma» sulla quale
dovevano essere calcolati i benefici penitenziari previsti dalla legge. Pertanto, nonostante le
ambiguità delle disposizioni pertinenti del codice penale del 1973 e il fatto che il Tribunale
supremo avesse cominciato a chiarirle soltanto nel 1994, è certo che le autorità penitenziarie e
giudiziarie avevano la prassi di considerare la pena da scontare (condena) risultante, della
durata massima di trenta anni di reclusione, come una pena nuova e autonoma sulla quale
dovevano essere calcolati alcuni benefici penitenziari quali la riduzione della pena per lavoro
svolto in carcere. Rispetto a questa prassi, la ricorrente ha potuto credere, mentre scontava la
pena detentiva, che la pena inflitta dalla quale dovevano essere ancora dedotte le riduzioni di
pena da accordare per lavoro in carcere fosse quella risultante, della durata massima di trenta
anni. Inoltre, le riduzioni di pena per lavoro svolto in carcere erano espressamente previste da
una norma di legge che introduceva una riduzione automatica e obbligatoria della durata della
pena come contropartita del lavoro effettuato in carcere, tranne che in due ipotesi: quando la
persona condannata si sottraeva o tentava di sottrarsi all’esecuzione della pena, o in caso di
cattiva condotta. Anche in queste ipotesi, il credito delle riduzioni di pena già accordate dal
giudice non poteva essere retroattivamente revocato, in quanto i giorni di riduzione di pena
concessi si consideravano già scontati e facevano parte della situazione giuridica acquisita del
detenuto.
Pur eliminando il dispositivo di riduzione di pena per il lavoro svolto in carcere per i futuri
condannati, le disposizioni transitorie del codice penale del 1995 consentono alle persone
condannate sulla base del vecchio codice penale del 1973 - quali la ricorrente - di continuare
ad applicare questo regime nella misura in cui fosse loro favorevole. Al contrario, la legge ha
inasprito le condizioni per la concessione della liberazione condizionale, anche per le persone
già condannate prima della sua entrata in vigore. Da ciò la Corte deduce che, scegliendo di
mantenere gli effetti delle norme sulle riduzioni di pena per lavoro in carcere a titolo
transitorio e ai fini della determinazione della legge penale più favorevole, il legislatore ha
ritenuto che queste norme facessero parte delle disposizioni del diritto penale materiale, ossia
di quelle disposizioni che incidono sulla fissazione della pena stessa e non unicamente sulla
sua esecuzione.
Per quanto precede, all’epoca in cui la ricorrente ha commesso i reati perseguiti e al
momento dell’adozione del provvedimento di cumulo e di fissazione della durata massima
della pena da scontare il diritto pertinente complessivamente considerato era formulato con
sufficiente precisione per consentire alla ricorrente di valutare, in misura ragionevole nelle
circostanze della causa, la portata della pena inflitta rispetto alla durata massima di trenta anni
e al dispositivo di riduzione di pena per lavoro svolto in carcere derivante dal codice penale
del 1973. La pena inflitta alla ricorrente equivaleva pertanto a una durata massima di trenta
anni di reclusione, dal momento che le riduzioni di pena per lavoro svolto in carcere
dovevano essere imputate su questa pena.
b) Sulla questione di stabilire se l’applicazione della «dottrina Parot» alla ricorrente abbia
modificato soltanto le modalità di esecuzione della pena o se abbia modificato la portata di
quest’ultima. Nel maggio 2008 l’Audiencia Nacional ha respinto la proposta di fissare al 2
luglio 2008 la data prevista per la scarcerazione definitiva della ricorrente basandosi sulla
«dottrina Parot» stabilita dalla sentenza emessa dal Tribunale supremo nel febbraio 2006,
ossia parecchio tempo dopo la perpetrazione dei reati e il provvedimento di cumulo e
fissazione della durata massima della pena. Essa ha considerato che la nuova norma
consistente nell’imputare le riduzioni di pena per lavoro svolto in carcere su ciascuna delle
pene irrogate - e non sulla pena massima da scontare di trenta anni - fosse più conforme alla
formulazione stessa delle norme del codice penale del 1973. L’applicazione della «dottrina
Parot» alla situazione della ricorrente ha privato di qualsiasi effetto utile le riduzioni di pena
per lavoro svolto in carcere alle quali quest’ultima aveva diritto in applicazione della legge e
delle decisioni definitive rese dai magistrati di sorveglianza. In tal modo, la pena massima di
trenta anni di reclusione ha perduto il carattere di pena autonoma sulla quale dovevano essere
calcolate le riduzioni di pena per lavoro svolto in carcere ed è divenuta una pena di trenta anni
di reclusione alla quale, in realtà, non era più possibile applicare riduzioni di pena di questo
tipo.
c) Sulla questione di stabilire se la «dottrina Parot» fosse ragionevolmente prevedibile. La
modifica del sistema di imputazione delle riduzioni di pena è il risultato di un capovolgimento
di giurisprudenza operato dal Tribunale supremo e non di una modifica della legge da parte
del legislatore. Nel marzo 1994 il Tribunale supremo aveva seguito l’approccio fondato sul
postulato in base al quale la pena massima da scontare di trenta anni era una «pena nuova e
autonoma» sulla quale dovevano essere calcolate tutte le riduzioni di pena previste dalla
legge. Ma secondo la prassi penitenziaria e giudiziaria precedente alla «dottrina Parot», le
riduzioni di pena per lavoro svolto in carcere erano imputate sulla durata massima di trenta
anni di reclusione. Il Tribunale supremo ha operato il contestato capovolgimento di
giurisprudenza soltanto nel 2006, dieci anni dopo l’abrogazione della legge sulla quale
quest’ultimo verteva. Esso ha fornito una nuova interpretazione delle disposizioni di una
legge che di per sé non era più in vigore, ossia il codice penale del 1973, abrogato dal codice
penale del 1995. Inoltre, adottando le disposizioni transitorie del codice penale del 1995, il
legislatore si proponeva di mantenere gli effetti del dispositivo delle riduzioni di pena per
lavoro svolto in carcere, instaurato dal codice penale del 1973 nei confronti delle presone
condannate in base a questo testo, precisamente per conformarsi alle norme che vietavano la
retroattività della legge più severa in materia penale. Invece, la nuova interpretazione del
Tribunale supremo, che ha privato di ogni effetto utile il beneficio delle riduzioni di pena già
accordate, ha portato in pratica ad annullare gli effetti di questo dispositivo a scapito della
ricorrente e delle altre persone che si trovano in una situazione paragonabile.
Infine, se la Corte riconosce che il Tribunale supremo non ha applicato retroattivamente la
legge recante modifica del codice penale del 1995, resta comunque il fatto che la motivazione
della sentenza del Tribunale supremo mostra un obiettivo che era lo stesso di quello della
legge sopra citata. Questa legge si proponeva di garantire l’esecuzione integrale ed effettiva
della pena massima che doveva essere scontata dalle persone condannate a pene detentive di
lunga durata. A tale proposito, se gli Stati sono liberi di modificare la loro politica criminale,
rafforzando soprattutto la repressione di crimini e delitti, resta comunque il fatto che essi, così
facendo, devono rispettare le norme di cui all’articolo 7 della Convenzione che proibisce in
maniera assoluta l’applicazione retroattiva del diritto penale quando questa opera a scapito
della persona interessata.
Alla luce di quanto fin qui esposto, nel momento in cui sono state pronunciate le condanne
della ricorrente e in cui quest’ultima ha ricevuto la notifica del provvedimento di cumulo e
fissazione della durata massima della pena, non era ravvisabile alcuna tendenza
nell’evoluzione della giurisprudenza che andasse nel senso della sentenza del Tribunale
supremo del 2006. La ricorrente non poteva dunque aspettarsi l’inversione di tendenza da
parte del Tribunale supremo né, di conseguenza, che l’Audiencia Nacional calcolasse le
riduzioni di pena accordate non sulla pena massima di trenta anni, ma in successione su
ciascuna delle pene irrogate. Questo capovolgimento di giurisprudenza ha avuto l’effetto di
modificare a scapito della ricorrente la portata della pena inflitta.
Conclusione: violazione (quindici voti contro due).
Articolo 5 § 1: Al termine di una procedura prevista dalla legge, la ricorrente è stata
condannata da un tribunale competente a delle pene privative della libertà la cui durata
complessiva supera i tremila anni. Nella maggior parte delle sentenze di condanna
pronunciate dall’Audiencia Nacional nonché nel suo provvedimento di cumulo e fissazione
della durata massima delle pene del novembre 2000, viene tuttavia indicato che la ricorrente
dovrebbe scontare la pena della reclusione per la durata massima di trenta anni in
applicazione del codice penale del 1973. La detenzione della ricorrente non ha ancora
raggiunto questa durata massima. Di per sé, esiste un nesso di causalità tra le condanne
pronunciate contro la ricorrente e il mantenimento in carcere di quest’ultima dopo il 2 luglio
2008, condanne che risultano dai verdetti di colpevolezza e di pena massima da scontare di
trenta anni di reclusione.
Alla luce delle considerazioni che l’hanno portata a concludere per la violazione
dell’articolo 7 della Convenzione, la Corte ritiene che, nei momenti in cui sono state
pronunciate le condanne della ricorrente, in cui la stessa ha lavorato in carcere e in cui ha
ricevuto il provvedimento di cumulo e di fissazione della durata massima della pena, essa non
potesse ragionevolmente prevedere che le modalità di imputazione delle riduzioni di pena per
lavoro svolto in carcere sarebbero state oggetto dell’inversione di giurisprudenza operata dal
Tribunale supremo nel 2006 e che questa nuova giurisprudenza le sarebbe stata applicata. Ciò
ha provocato un differimento di quasi nove anni della data di scarcerazione dell’interessata.
Quest’ultima ha pertanto scontato una pena detentiva di durata superiore a quella che era la
sanzione che avrebbe dovuto subire secondo il sistema giuridico nazionale in vigore al
momento della sua condanna, tenuto conto delle riduzioni di pena che le erano già state
accordate conformemente alla legge. Quindi dal 3 luglio 2008 la ricorrente è oggetto di una
detenzione «non regolare».
Conclusione: violazione (unanimità).
Articolo 46: Tenuto conto delle particolari circostanze del caso di specie e dell’urgente
necessità di porre fine alle violazioni constatate della Convenzione, spetta allo Stato
convenuto assicurare la scarcerazione della ricorrente nel più breve tempo possibile.
Articolo 41: 30.000 EUR per il danno morale.
[Traduzione dal Bollettino n. 167 curata dagli esperti linguistici del Ministero della Giustizia]
Art. 6 § 1 CEDU (Diritto alla libertà e alla sicurezza)
Art. 7 CEDU (Nulla poena sine lege)
b) S.C. IMH Suceava S.R.L. c. Romania – Terza Sezione, sentenza del 29 ottobre
2013 (ric. n. 24935/04)
Differente valutazione della validità di una stessa prova da parte di due
diverse autorità giudiziarie senza sufficiente motivazione: violazione
In fatto – Nei confronti della ricorrente, una società commerciale, fu presentata denuncia
con la quale la stessa veniva accusata di avere venduto gasolio mescolato ad acqua. Furono
effettuati due prelievi di carburante e l’autorità a cui erano state affidate la perizia e la
controperizia concluse che il gasolio esaminato non corrispondeva a nessun tipo di carburante
tra quelli previsti dalle norme vigenti. Tuttavia, le relazioni evidenziarono che i sigilli sui
campioni prelevati erano stati apposti in modo tale da rendere possibile l’estrazione dei
flaconi di gasolio dal sacchetto di plastica in cui erano contenuti senza danneggiare i sigilli
stessi. Alla società ricorrente furono inflitte due contravvenzioni da parte di due diverse
autorità. Basandosi principalmente sul fatto che i campioni di gasolio non erano stati prelevati
correttamente, la ricorrente chiese l’annullamento delle due sanzioni. Relativamente alla
denuncia presentata dalla società ricorrente contro il primo verbale di contravvenzione, i
giudici nazionali ritennero che, a causa delle modalità lacunose con cui i campioni erano stati
raccolti, le relazioni peritali non potessero essere considerate prove attendibili. Di
conseguenza, non potevano essere accertati i fatti ascritti alla ricorrente e la sua responsabilità
per quanto riguarda la contravvenzione. Invece, relativamente alla denuncia contro il secondo
verbale di contravvenzione, redatto dalla polizia finanziaria, lo stesso tribunale nazionale, in
diversa composizione, ritenne che la relazione peritale costituisse una prova attendibile dei
fatti ascritti alla ricorrente.
Dinanzi alla Corte, la ricorrente lamenta la diversa valenza probatoria attribuita dai giudici
nazionali, nell’ambito di due procedimenti distinti, alle stesse relazioni peritali.
In diritto – Articolo 6 § 1: La principale prova a carico, nell’ambito dei due procedimenti,
era costituita dalla perizia e dalla controperizia effettuate sui campioni che i periti hanno
constatato essere stati conservati in maniera lacunosa. Pur ricordando che l’ammissibilità
delle prove è di competenza, in primo luogo, del diritto interno e dei giudici nazionali, la
Corte osserva che nella presente causa la validità e l’attendibilità di una stessa prova sono
state interpretate in maniera diversa dai giudici nazionali. Questa valutazione contraddittoria
ha portato a soluzioni giuridiche diverse per quanto riguarda l’accertamento dei fatti, e in
particolare, relativamente al possesso da parte della ricorrente di gasolio non conforme.
Poiché tale prova costituiva l’elemento determinante per l’accertamento dei fatti, si è posto un
problema sull’equità del procedimento. Per infliggere la seconda contravvenzione alla
ricorrente la polizia finanziaria si era certamente basata, oltre che sulle perizie, anche su
documenti scritti. Tuttavia, i giudici nazionali che hanno esaminato la denuncia della
ricorrente contro tale sanzione non hanno fatto menzione di tali documenti nelle loro
decisioni. L’interessata ha informato i giudici che hanno deliberato nell’ambito del secondo
procedimento dell’esistenza della sentenza precedente, in cui la validità della prova era stata
giudicata diversamente. Pur riferendosi a tale precedente sentenza, il tribunale non ha fornito
motivi sufficienti per spiegare perché abbia adottato una posizione contraria sulla validità
della stessa prova. Dato il ruolo decisivo di tale prova, sarebbe stata invece necessaria una
risposta specifica ed esplicita a questo argomento da parte del tribunale. In mancanza di tale
risposta, è impossibile stabilire se quest’ultimo non ne abbia semplicemente tenuto conto o se,
invece, abbia voluto rigettarla e, in quest’ultimo caso, per quali motivi.
Conclusione: violazione (sei voti contro uno).
Articolo 41: non è stata formulata alcuna richiesta per quanto riguarda il danno morale; la
richiesta relativa al danno materiale è stata respinta.
[Traduzione del Bollettino n. 167 a cura degli esperti linguistici del Ministero della Giustizia]
Art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare)
c) Winterstein e altri c. Francia – Quinta Sezione, decisione del 17 ottobre 2013 (ric.
n. 27013/07)
Espulsione di nomadi francesi da terreni privati in cui vivevano da lunga
data: violazione
In fatto - I ricorrenti si erano stabiliti da un periodo variabile dai cinque ai trent’anni o
erano nati nei terreni in questione, siti in una zona definita a posteriori dal piano di
occupazione dei suoli come «zona naturale», in un settore che consentiva il campingcaravanning con riserva di pianificazione o di autorizzazione. Nel 2004, il tribunale di grande
istanza ha giudicato che l’insediamento dei ricorrenti nei luoghi era contrario al piano di
occupazione dei suoli e li ha condannati ad evacuarli con penalità di mora. La sentenza è stata
confermata dalla corte d’appello nel 2005. A tutt’oggi la sentenza non è stata ancora eseguita,
ma una gran parte dei ricorrenti ha dovuto lasciare i luoghi sotto la pressione della penalità di
mora, che continua a decorrere nei confronti di coloro i quali sono rimasti sul posto. Inoltre, le
autorità hanno istituito una direzione dei lavori urbani e sociali, all’esito della quale quattro
famiglie hanno trovato una nuova sistemazione in alloggi sociali. Quanto alle altre, non è stata
trovata una soluzione soddisfacente nei loro confronti.
In diritto – Articolo 8: I ricorrenti, stabilitisi da molti anni nella stessa località, avevano
con le roulotte, le capanne e i bungalow installati sui terreni che occupavano legami così
stretti e continui da considerarli le loro abitazioni, indipendentemente dalla legittimità di
quell’occupazione secondo il diritto interno. Il presente caso chiama in causa anche il diritto
dei ricorrenti al rispetto della vita privata e familiare. La vita in roulotte fa parte integrante
dell’identità dei nomadi, anche quando essi non vivono più in modo itinerante, e misure
riguardanti lo stazionamento delle roulotte influiscono sulla loro facoltà di conservare la loro
identità e di condurre una vita privata e familiare conforme a tale tradizione.
L’obbligo fatto ai ricorrenti, con penalità di mora, di evacuare roulotte e veicoli e di
togliere tutte le costruzioni dai terreni costituisce un’ingerenza nel loro diritto al rispetto della
vita privata e familiare e del domicilio, anche se la sentenza del 2005 a tutt’oggi non è stata
eseguita. E ciò a maggior ragione in quanto, nel caso di specie, si tratta di decisioni che
dispongono l’espulsione di una comunità di un centinaio di persone, con inevitabili
ripercussioni sul loro modo di vita e i loro legami sociali e familiari. L’ingerenza era prevista
dalla legge, accessibile e prevedibile, e mirava allo scopo legittimo della difesa dei «diritti
altrui» attraverso la difesa dell’ambiente.
Non è oggetto di contestazione il fatto che i ricorrenti si fossero insediati nei terreni in
questione da molti anni o che vi fossero nati, e che il comune abbia tollerato la loro presenza
per un lungo periodo prima di cercare di porvi fine nel 2004. I giudici interni hanno disposto
l’espulsione dei ricorrenti attribuendo un’importanza preponderante alla non conformità della
presenza degli stessi al piano di occupazione dei suoli senza in alcun modo valutarla alla luce
degli argomenti invocati dai ricorrenti. Ora, le autorità non avevano avanzato spiegazioni né
argomenti in merito alla «necessità» dell’espulsione. Eppure i terreni in questione erano già
classificati come zona naturale nei precedenti piani di occupazione dei suoli, non erano terreni
comunali oggetto di progetti di sviluppo e in gioco non vi erano diritti di terzi. I ricorrenti non
hanno quindi beneficiato di un esame della proporzionalità dell’ingerenza conforme alle
esigenze dell’articolo 8 della Convenzione.
Nelle specifiche circostanze del caso di specie e alla luce della presenza di antica data dei
ricorrenti, delle loro famiglie e della comunità da essi formata, il principio di proporzionalità
esigeva un’attenzione particolare alle conseguenze della loro espulsione e al rischio che essi
correvano di perdere ogni riparo. Numerosi testi internazionali o adottati nell’ambito del
Consiglio d’Europa insistono sulla necessità, in caso di espulsioni forzate di Rom e nomadi,
di fornire loro una nuova sistemazione, salvo in caso di forza maggiore, sapendo che essi
appartengono ad una minoranza vulnerabile. Nella fattispecie, il caso si è dato solo in parte.
Se le conseguenze dell’espulsione e la vulnerabilità dei ricorrenti non sono state prese in
considerazione né dalle autorità prima dell’avvio della procedura di espulsione, né dai giudici
al momento di tale procedura, in seguito alla sentenza della corte d’appello è stata istituita una
direzione dei lavori urbani e sociali al fine di determinare la situazione di ciascuna famiglia e
di valutare le possibilità di nuova sistemazione che potevano essere prese in considerazione.
Alcune famiglie che avevano optato per un alloggio sociale hanno trovato una nuova
sistemazione nel 2008, vale a dire quattro anni dopo la sentenza di espulsione. In questa
misura, le autorità hanno prestato sufficiente attenzione ai bisogni delle famiglie interessate.
Quanto ai ricorrenti che avevano chiesto una nuova sistemazione in terreni familiari, il
progetto è stato abbandonato dal comune, che ha scelto di destinare le unità catastali previste
a tal fine all’area di accoglienza per nomadi itineranti.
Ai ricorrenti non può essere contestato di essere rimasti inattivi per parte loro. Infatti, molti
di loro hanno presentato, in applicazione della legge sul diritto all’alloggio opponibile,
domande di assegnazione di un alloggio sociale precisando che speravano nell’assegnazione
di terreni familiari, domande che sono state rigettate dalla commissione di mediazione e dal
tribunale amministrativo; del resto, coloro i quali hanno lasciato la località hanno cercato di
trovare nuove sistemazioni che, nella maggior parte dei casi, si sono rivelate precarie e
insoddisfacenti. Né può essere contestato ai ricorrenti di non avere chiesto o accettato alloggi
sociali che, per ammissione della Corte, non corrispondevano al loro modo di vita. A parte le
quattro famiglie che sono state sistemate in alloggi sociali e due famiglie installatesi in altre
regioni, i ricorrenti si trovano tutti in situazione di grande precarietà. Pertanto, le autorità non
hanno prestato sufficiente attenzione ai bisogni delle famiglie che avevano chiesto una nuova
sistemazione in terreni familiari.
I ricorrenti non hanno beneficiato, nell’ambito della procedura di espulsione, di un esame
della proporzionalità dell’ingerenza conforme alle esigenze dell’articolo 8. Inoltre, vi è
violazione di questo articolo anche per chi tra i ricorrenti aveva chiesto una nuova
sistemazione in terreni familiari, per la mancata sufficiente considerazione dei loro bisogni.
Conclusione: violazione (unanimità).
Articolo 41: la Corte si riserva di decidere in merito alla questione.
(Si veda Yordanova e altri c. Bulgaria, 25446/06, 24 aprile 2012, Bollettino d’informazione
151)
[Traduzione del Bollettino n. 167 a cura degli esperti linguistici del Ministero della Giustizia]
Art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) in combinato
disposto con l'Art. 14 CEDU (Divieto di discriminazione)
d) I.B. c. Grecia – Prima Sezione, sentenza del 3 ottobre 2013 (ric. n. 552/10)
Licenziamento di una persona affetta da HIV a causa delle pressioni
esercitate dai colleghi: violazione
In fatto - Nel febbraio 2005, mentre era in ferie, il ricorrente apprendeva di aver
contratto il virus dell’immunodeficienza umana (HIV). Tale informazione circolava
nell’azienda presso la quale il ricorrente lavorava. Il personale cominciava ad esprimere al
datore di lavoro delle rimostranze per il fatto di dover lavorare con una persona
sieropositiva e ne chiedeva il licenziamento. Il datore di lavoro del ricorrente invitava
quindi un medico del lavoro in azienda, al fine di informare il personale circa il virus
dell’HIV e le sue modalità di trasmissione. Il medico tentava di rassicurare gli impiegati,
spiegando quali fossero le precauzioni da prendere. Ciononostante, circa la metà di essi
indirizzava al datore di lavoro del ricorrente una lettera, nella quale si chiedeva
l’allontanamento di quest’ultimo al fine di «salvaguardare la loro salute ed il loro diritto al
lavoro», in quanto, in caso contrario, il clima armonioso sul posto di lavoro rischiava di
essere compromesso. Due giorni prima del rientro dalle ferie del ricorrente, il datore di
lavoro lo licenziava, versandogli l’indennità prevista dal diritto greco. Il ricorrente adiva le
vie legali. La Corte di cassazione annullava la sentenza della corte d’appello, ritenendo che
la risoluzione del contratto di lavoro non fosse illegittima.
In diritto – Articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8
a) Applicabilità – Il ricorrente lamenta la mancata protezione da parte delle autorità
della sua sfera privata dall’ingerenza del datore di lavoro, il che potrebbe implicare la
responsabilità dello Stato. Senza alcun dubbio, le questioni relative al lavoro, nonché le
situazioni concernenti persone affette da HIV rientrano nel campo di applicazione della
vita privata. La causa in questione presenta una particolarità: il licenziamento di un
dipendente affetto da HIV. Sebbene il motivo addotto per il licenziamento del ricorrente
fosse il mantenimento del buon clima di lavoro in seno all’azienda, la causa prima era
senz’altro costituita dall’annuncio della sua sieropositività. Tale fatto ha scatenato la palese
minaccia dei dipendenti di compromettere il funzionamento dell’azienda finché il
ricorrente fosse rimasto presente. E’ chiaro che il suo licenziamento ha avuto l’effetto di
stigmatizzare una persona che, seppur portatrice di HIV, non aveva manifestato alcun
sintomo della malattia. Tale misura non poteva non avere gravi ripercussioni sulla sua
personalità, sul rispetto dovuto nei suoi confronti e, in fin dei conti, sulla sua vita privata.
A ciò si aggiunge l’incertezza legata alla ricerca di un nuovo lavoro, dal momento che le
prospettive di trovarne uno potevano ragionevolmente apparire più difficili, tenuto conto
della precedente esperienza. Il fatto che il ricorrente abbia trovato un nuovo lavoro dopo il
licenziamento non è sufficiente per cancellare l’effetto nefasto dei fatti in questione sulla
sua capacità di condurre una vita personale normale. È dunque applicabile il combinato
disposto degli articoli 8 e 14.
b) Merito – La situazione del ricorrente deve essere comparata con quella degli altri
dipendenti dell’azienda, in quanto essa è pertinente ai fini dell’esame del motivo di ricorso
basato sulla disparità di trattamento. E’ certo che il ricorrente è stato trattato in modo meno
favorevole rispetto agli altri colleghi, soltanto a causa della sua sieropositività. Nella
sentenza Kiyutin c. Russia la Corte ha ritenuto che l’ignoranza circa le modalità di
diffusione dell’HIV avesse alimentato pregiudizi, i quali hanno condotto alla
stigmatizzazione ed all’emarginazione dei portatori del virus. Essa ha aggiunto che, di
conseguenza, le persone che convivono con l’HIV costituiscono un gruppo vulnerabile e
che gli Stati dispongono di un ristretto margine di apprezzamento per adottare misure atte a
garantire a detto gruppo un trattamento particolare in ragione della sieropositività dei suoi
componenti. Da un lato, il datore di lavoro del ricorrente ha rescisso il contratto di lavoro a
causa della pressione esercitata dai suoi dipendenti, la quale era stata causata dalla
sieropositività del ricorrente e dall’inquietudine che tale notizia aveva suscitato in essi;
dall’altro, i dipendenti dell’azienda erano stati informati dal medico del lavoro che non vi
era alcun rischio di contagio nell’ambito delle relazioni lavorative con il ricorrente.
La Corte d’appello ha riconosciuto espressamente che la sieropositività del ricorrente
non aveva alcun effetto sulla sua capacità lavorativa e non lasciava presumere un’influenza
sfavorevole sul suo contratto, tale da giustificarne la denuncia immediata. La corte ha
altresì riconosciuto che l’esistenza stessa dell’azienda non era minacciata dalle pressioni
esercitate dai dipendenti. Il pregiudizio presunto o esplicito dei dipendenti non può essere
addotto come motivazione per rescindere il contratto di lavoro di un dipendente
sieropositivo. In questi casi, il bisogno di tutelare gli interessi del datore di lavoro deve
essere attentamente bilanciato con il bisogno di tutelare gli interessi del dipendente, che è
la parte più debole del contratto, tanto più se si tratta di un dipendente sieropositivo. Invece
la Corte di cassazione non ha effettuato un bilanciamento di tutti gli interessi in gioco in
modo circostanziato ed approfondito, come aveva fatto la corte d’appello. Con una
motivazione estremamente sintetica, tenuto conto dell’importanza e della novità delle
questioni oggetto della causa, essa ha affermato che il licenziamento era pienamente
giustificato dagli interessi del datore di lavoro, nel senso buono del termine, dal momento
che questi aveva preso la sua decisione al fine di ristabilire la calma in azienda e garantirne
il buon funzionamento. Pur non contestando il fatto che la patologia del ricorrente non
pregiudicasse l’espletamento delle mansioni previste dal contratto di lavoro, la Corte di
cassazione ha tuttavia basato la sua decisione su una premessa palesemente erronea, ossia
la natura «contagiosa» della malattia del ricorrente, al fine di giustificare i timori dei
dipendenti. In tal modo, la Corte di cassazione ha attribuito al buon funzionamento
dell’azienda il senso inteso dai dipendenti, operando un’identificazione con la loro
percezione soggettiva. Infine, il valore della causa dinanzi alla Corte di cassazione era
limitata per il ricorrente alla concessione di una semplice indennità, come deciso dalla
corte d’appello, dal momento che la sua domanda iniziale di reintegro in azienda era stata
respinta sia dal tribunale di primo grado, sia dalla corte d’appello. D’altronde, non è
possibile formulare ipotesi su quale sarebbe stato l’atteggiamento dei dipendenti
dell’azienda nel caso in cui la Corte di cassazione avesse nella fattispecie confermato la
decisione dei giudici di merito e, ancor più, se esistesse in Grecia una legislazione o una
giurisprudenza consolidata a tutela dei sieropositivi sui luoghi di lavoro.
In conclusione, la Corte di cassazione non ha fornito una motivazione sufficiente sul
motivo per il quale gli interessi del datore di lavoro debbano prevalere su quelli del
ricorrente e non ha effettuato un bilanciamento tra i diritti delle due parti in modo
conforme alla Convenzione.
Conclusione: violazione (unanimità).
Articolo 41: 8.000 EUR per danno morale; 6.339,18 EUR per danno materiale.
(Si veda Kiyutin c. Russia, 2700/10, 10 marzo 2011, Bollettino d’informazione 139)
[Traduzione dal Bollettino n. 167curata dagli esperti linguistici del Ministero della Giustizia]
Art. 10 CEDU (Libertà di espressione)
e) Delfi AS c. Estonia – Prima Sezione, sentenza del 10 ottobre 2013 (ric. n.
64569/09)
Condanna al risarcimento del danno di un nuovo portale internet per la
pubblicazione di frasi offensive sul sito da parte di soggetti terzi anonimi: non
violazione
In fatto - La ricorrente, la Delfi AS, è una società anonima registrata in Estonia. Possiede
uno dei più importanti siti internet di informazioni del paese.
Nel gennaio del 2006, la Delfi pubblicò un articolo sul suo sito web che riguardava una
società di traghetti. Discusse la decisione della società di modificare il percorso seguito dai
suoi traghetti per raggiungere alcune isole. Ciò provocò la rottura del ghiaccio in alcuni punti
in cui in un prossimo futuro avrebbero potuto essere costruite delle strade di ghiaccio.
Conseguentemente, l’apertura di tali strade – che avrebbe rappresentato un collegamento più
economico e più rapido per le isole rispetto al servizio dei traghetti – subì diverse settimane di
ritardo. Molti lettori scrissero messaggi altamente offensivi o minacciosi sulla società di
traghetti e sul suo proprietario.
Il proprietario citò in giudizio la Delfi nell’aprile del 2006, ottenendo una sentenza di
condanna nei suoi confronti nel giugno del 2008. Il tribunale estone concluse che i commenti
erano diffamatori e che la Delfi ne era responsabile. Al proprietario della società di traghetti
fu accordata la somma di 5.000 kroon (EEK) a titolo di danno (circa 320 euro) [EUR].
L’appello della Delfi fu rigettato dalla Corte Suprema estone nel giugno del 2009. In
particolare, i tribunali nazionali rigettarono l’argomentazione del portale secondo la quale, ai
sensi della Direttiva UE 2000/31/CE sul commercio elettronico, il suo ruolo di società
fornitrice di servizi internet o di immagazzinamento dati era meramente tecnico, passivo e
neutrale, ritenendo che il portale esercitasse un controllo sulla pubblicazione dei commenti.
Invocando l'articolo 10 (libertà di espressione), la società Delfi lamentava che i tribunali
civili estoni l’avessero ritenuta responsabile dei commenti scritti dai suoi lettori.
In diritto - Articolo 10 In primo luogo, la Corte ha esaminato l’argomentazione della Delfi
secondo la quale la trasposizione della Direttiva UE 2000/31/CE sul commercio elettronico
nella legislazione estone ha limitato la sua responsabilità per i commenti diffamatori dei suoi
lettori. Essa ha concluso che spettava ai tribunali nazionali risolvere le questioni relative
all’interpretazione del diritto interno e non ha esaminato la questione relativa al diritto
dell’Unione europea. I tribunali nazionali si sono basati sulle disposizioni del Codice civile
per dichiarare la Delfi responsabile e condannarla; l’ingerenza nel diritto del portale alla
libertà di espressione era pertanto legittima e conforme al requisito che fosse “prevista dalla
legge” di cui alla Convenzione.
La Corte ha inoltre osservato che l’articolo 10 autorizza l’ingerenza degli Stati membri
nella libertà di espressione per la protezione della reputazione di altri, purché l’ingerenza sia
proporzionata alle circostanze. La questione essenziale era pertanto se tale ingerenza fosse
proporzionata, dati i fatti della causa.
Per pronunciarsi su tale questione, la Corte ha valutato quattro questioni chiave. In primo
luogo, il contesto dei messaggi. I commenti erano offensivi, minacciosi e diffamatori. Data la
natura dell’articolo, la società avrebbe dovuto aspettarsi dei messaggi offensivi, e avrebbe
dovuto prestare maggiore attenzione al fine di evitare di essere ritenuta responsabile di danno
alla reputazione altrui.
In secondo luogo, le misure adottate dalla Delfi per impedire la pubblicazione di commenti
diffamatori. La pagina web in cui era pubblicato l’articolo dichiarava che gli autori dei
commenti sarebbero stati responsabili del loro contenuto, e che non erano consentiti
commenti minacciosi od offensivi. Essa eliminava automaticamente i messaggi contenenti
una serie di parole volgari, e gli utenti potevano segnalare agli amministratori i commenti
offensivi cliccando su un’icona, affinché essi fossero eliminati. Tuttavia, gli avvisi non sono
riusciti a impedire che fosse fatto un grande numero di commenti offensivi, ed essi non sono
stati eliminati in tempo utile dal dispositivo di filtraggio automatico delle parole chiave né dal
sistema di notifica e rimozione.
In terzo luogo, per quanto riguarda la responsabilità dei reali autori dei commenti, la Corte
rileva che il proprietario della compagnia di traghetti avrebbe potuto in linea di massima
tentare di citare in giudizio gli autori specifici dei messaggi offensivi invece della Delfi.
Tuttavia sarebbe stato estremamente difficile accertare l’identità degli autori dato che i lettori
potevano fare commenti senza registrarsi. Pertanto molti messaggi erano anonimi. Attribuire
alla Delfi la responsabilità dei commenti era pertanto pratico, ma era anche ragionevole, dato
che il portale di informazioni traeva un profitto commerciale dai messaggi che venivano
pubblicati.
La Corte ha affrontato le conseguenze della dichiarazione della responsabilità della Delfi.
Le sanzioni inflitte dai tribunali estoni alla società sono state piuttosto lievi. La Delfi è stata
condannata a pagare una multa di EUR 320, e i tribunali non le hanno ingiunto di attuare per
il futuro delle misure di protezione dei diritti di terzi con modalità che avrebbero potuto
limitare la sua libertà di espressione.
Tenuto conto di tutte queste considerazioni, la Corte ha ritenuto che dichiarare la Delfi
responsabile dei commenti fosse un’ingerenza giustificata e proporzionata nel diritto alla
libertà di espressione.
Conclusione: non violazione
[Traduzione del Comunicato stampa a cura degli esperti linguistici del Ministero della Giustizia]
Art. 1 Protocollo N. 1 (Protezione della proprietà)
f) Da Conceição Mateus e Santos Januário c. Portogallo – Seconda Sezione,
decisione dell'8 ottobre 2013 (ric. n. 62235/12)
Riduzione di benefici in favore di pensionati del settore pubblico: irricevibilità
[Traduzione integrale della decisione curata dagli esperti linguistici del Ministero della Giustizia]
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
DECISIONE
Ricorsi nn. 62235/12 e 57725/12
António Augusto DA CONCEIÇÃO MATEUS
contro Portogallo
e Lino Jesus SANTOS JANUÁRIO
contro Portogallo
La Corte europea dei diritti dell'uomo (Seconda Sezione), riunita l’8 ottobre 2013 in una
Camera composta da:
Guido Raimondi, Presidente,
Peer Lorenzen,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Nebojša Vučinić,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Visti i ricorsi sopra menzionati, proposti rispettivamente il 10 settembre 2012 e il 27 agosto
2012,
Dopo aver deliberato, pronuncia la seguente decisione:
IN FATTO
1. Il ricorrente della prima causa, Sig. António Augusto da Conceição Mateus, è un
cittadino portoghese nato nel 1939, e vive ad Aveiras de Baixo.
2. Il ricorrente della seconda causa, Sig. Lino Jesus Santos Januário, è un cittadino
portoghese nato nel 1940, e vive ad Almeirim.
A. Le circostanze del caso di specie
3. Entrambi i ricorrenti sono pensionati aventi diritto a ricevere prestazioni previdenziali
in base al regime pensionistico del settore pubblico in vigore fino al 1° gennaio 2006. Tali
prestazioni comprendono sussidi feriali e natalizi (subsídio de férias e subsídio de Natal),
corrispondenti a una tredicesima e a una quattordicesima mensilità della pensione e
generalmente sono corrisposti rispettivamente nei mesi di luglio e di dicembre di ogni anno.
4. Nell’aprile del 2011 il Portogallo chiese assistenza finanziaria all’Unione europea (UE),
agli Stati Membri della zona euro e al Fondo Monetario internazionale (FMI). Nel maggio del
2011 fu negoziato un programma di aggiustamento economico tra le autorità portoghesi e dei
funzionari della Commissione europea, della Banca centrale europea (BCE) e del Fondo
monetario internazionale (FMI), che comprendeva un pacchetto di finanziamento congiunto
pari a 78 miliardi di euro (EUR) (EUR 26 miliardi dal Meccanismo europeo di stabilizzazione
finanziaria, EUR 26 miliardi dalla European Financial Stability Facility e circa EUR 26
miliardi dal FMI). L’accordo sul programma fu adottato formalmente il 17 maggio 2011 nel
corso dell’incontro Eurogruppo/ECOFIN a Bruxelles, durante il quale il governo portoghese
firmò un Memorandum d’intesa su condizioni specifiche di politica economica (MeI) con
l’UE, la BCE e il FMI e successivamente due documenti connessi: il Memorandum tecnico
d’intesa e l’Accordo sul prestito.
Il MeI fissava le politiche economiche e sociali, comprese le misure fiscali e previdenziali,
che il Portogallo avrebbe dovuto attuare per la durata del programma (2011-2014) al fine di
migliorare la sua situazione finanziaria e ricevere un aiuto finanziario dall’UE.
Il MeI stabiliva, inter alia, che il Portogallo avrebbe dovuto:
“(...) 1.11 Ridurre le pensioni superiori a EUR 1.500 in funzione delle aliquote progressive applicate ai
salari del settore pubblico a partire dal gennaio 2011, con l'obiettivo di ottenere risparmi pari ad almeno
EUR 445 milioni.
1.12 Sospendere l'applicazione di norme di indicizzazione delle pensioni e congelare le pensioni, eccetto
quelle più basse, nel 2012.”
5. Il 30 dicembre 2011, la Gazzetta ufficiale (Diário da República) pubblicò la Legge n.
64-B/2011 sul bilancio statale (Lei do Orçamento de Estado para 2012, di seguito “la Legge
sul bilancio statale del 2012”), ideata principalmente per attuare il MeI.
6. Ai sensi dell’articolo 25 della Legge sul bilancio statale, i sussidi feriali e natalizi o le
prestazioni equivalenti da corrispondere alle categorie di pensionati del regime del settore
pubblico, cui appartenevano i ricorrenti (aposentados e reformados), sarebbero stati ridotti.
Queste disposizioni sarebbero state applicate per la durata del Programma di assistenza
economica e finanziaria. I pensionati che ricevevano un importo compreso tra EUR 600 ed
EUR 1.100 avrebbero visto una riduzione dei loro sussidi feriali e natalizi calcolata in base
alla seguente formula: 1.320 – (1,2 x la pensione mensile). Tali riduzioni sarebbero state
applicabili a partire dal 2012.
7. Con l’entrata in vigore della Legge sul bilancio statale del 2012, il primo ricorrente, la
cui pensione mensile ammontava a EUR 722,87, vide una riduzione di EUR 551.20 sia nei
sussidi feriali sia in quelli natalizi, per una perdita complessiva pari a EUR 1.102,40 nel 2012.
Il secondo ricorrente, la cui pensione mensile ammontava a EUR 910,92, vide una riduzione
di EUR 684,02, per una perdita complessiva pari a EUR 1.368,04 nel 2012. Queste perdite
complessive ammontarono al 10,8% e al 10,7% del totale dei rispettivi redditi da pensione
annuali dei ricorrenti, compresi i sussidi feriali e natalizi.
8. Il 19 gennaio 2012, un gruppo di parlamentari portoghesi impugnò la costituzionalità
degli articoli 21 e 25 della Legge sul bilancio statale del 2012 davanti alla Corte
costituzionale, in quanto tali disposizioni violavano il principio di uguaglianza e il diritto alla
previdenza sociale. L’articolo 21 riguardava tagli analoghi per altre categorie di persone.
9. In una decisione del 5 luglio 2012 la Corte costituzionale ritenne che la riduzione del
pagamento dei sussidi feriali e natalizi a entrambe le categorie di pensionati del regime del
settore pubblico, prevista dall’articolo 25 della Legge sul bilancio statale del 2012, violasse il
principio di “uguaglianza proporzionale” e fosse pertanto incostituzionale. Tuttavia, dato che
il bilancio del 2012 era già in uno stadio di attuazione avanzato e sarebbe stato pertanto
impossibile per il Portogallo ideare delle misure alternative per rispettare i suoi obiettivi di
bilancio e garantirsi l’aiuto finanziario da parte dei suoi mutuanti, che corrispondeva a “un
interesse pubblico eccezionalmente importante”, la Corte costituzionale decise che la sua
decisione non avrebbe dovuto produrre effetti nel 2012. In pratica, ciò significava che nel
2012 i tagli potevano essere attuati.
10. In data ignota, il primo ricorrente propose ricorso davanti alla Corte costituzionale
contestando la costituzionalità della riduzione dei suoi sussidi feriali e natalizi. Il 3 aprile
2013, la Corte costituzionale trasmise una nota al primo ricorrente facendo riferimento alla
sua decisione del 5 luglio 2012.
B. Il diritto e la prassi interni pertinenti
1. La Costituzione della Repubblica portoghese:
Articolo 13
Principio di uguaglianza
“1. Tutti i cittadini hanno la stessa dignità sociale e sono uguali davanti alla legge.
Articolo 282
Effetti della dichiarazione di incostituzionalità o di illegittimità
1.La dichiarazione di incostituzionalità o di illegittimità avente forza obbligatoria
generale produce effetti a partire dalla data in cui la norma dichiarata incostituzionale o
illegittima è entrata in vigore, e determina il ripristino delle norme che essa può aver
abrogato.
2. Tuttavia, in caso di incostituzionalità o di illegittimità dovuta a violazione di una
norma costituzionale o legislativa posteriore, tale dichiarazione produrrà effetti solo a
partire dalla data di entrata in vigore di quest’ultima.
4. Quando lo richiedono la certezza del diritto, motivi di equità o un interesse pubblico
eccezionalmente importante, che dovrà essere motivato, la Corte costituzionale può
ordinare che gli effetti della [dichiarazione di] incostituzionalità o di illegittimità di una
norma abbiano una portata più limitata di quella prevista ai precedenti commi 1 e 2.”
2. La Legge sul bilancio statale del 2012 (Legge n.64-B/2011)
Articolo 25
Sospensione dei sussidi feriali e natalizi o equivalenti per gli aposentados e i
reformados
“1. Per la durata del PAEF, quale misura eccezionale di stabilità del bilancio, è sospeso
il pagamento dei sussidi feriali e natalizi o di qualsiasi altra prestazione corrispondente
alla tredicesima e alla quattordicesima mensilità, corrisposte dalla CGA, dall'I.P., dal
Centro nazionale delle pensioni e, direttamente, o mediante fondi pensionistici detenuti
da qualsiasi ente pubblico, a prescindere dalla natura e dal grado di indipendenza o di
autonomia …, a aposentados, reformados, pre-pensionati o equiparati, la cui pensione
mensile è superiore a EUR 1.100.
2. I pensionati la cui pensione mensile è pari o superiore a EUR 600 e non supera
l’importo di EUR 1.100 sono soggetti a una riduzione dei summenzionati sussidi o
prestazioni, corrispondente a un importo calcolato nei seguenti termini:
sussidi/prestazioni = 1.320 - 1,2 x la pensione mensile.
...
6. Le norme fissate nel presente articolo hanno carattere imperativo ed eccezionale,
prevalgono su qualsiasi altra norma, speciale o eccezionale, contrariamente e al di sopra
di contratti di lavoro collettivi e di contratti di lavoro, e non possono essere eliminate o
modificate ...”.
3. Rapporto del Ministero delle Finanze sul bilancio statale per il 2012 – stralci pertinenti
“La riduzione del disavanzo sarà effettuata principalmente riducendo la spesa
(significativamente più di 2/3), la parte rimanente sarà fornita dall'aumento delle entrate.
La flessione del fabbisogno finanziario del settore pubblico contribuirà in modo
significativo ad alleviare il fabbisogno finanziario dell'economia nel suo complesso.”
...
“L'importo delle prestazioni (che rappresentano circa il 33% della spesa totale nel 2010)
sarà ridotto dell'1,2% del PIL. La quota della riduzione delle indennità feriali e natalizie
dei pensionati sarà ... equivalente allo 0,7% del PIL.”
...
“Per la durata del Programma di assistenza economica e finanziaria è sospeso il
pagamento dei sussidi feriali e natalizi o di qualsiasi altra prestazione corrispondente alla
tredicesima e alla quattordicesima mensilità, in relazione a pensioni superiori a EUR
1.000. Per le pensioni di importo superiore al salario minimo (EUR 485) ma inferiore a
EUR 1.000, tali sussidi sono soggetti a una riduzione progressiva ....”
4. La decisione della Corte costituzionale del 5 luglio 2012 (n. 353/2012) - stralci
pertinenti
“... L'efficacia delle misure adottate per conseguire un risultato [corrispondente a] un
innegabile e significativo interesse generale rimane la giustificazione del trattamento
differenziale di coloro che ricevono salari e pensioni provenienti dal bilancio statale.
Invero, si può sostenere che l'opzione scelta si dimostrerà particolarmente efficace, dato
che contribuirà certamente alla riduzione del disavanzo a breve termine. Essa è pertanto
coerente con una strategia di azione la cui definizione rientra nel margine della ‘libera
prerogativa politica del legislatore’ [livre conformação política do legislador].
Conseguentemente, si può concludere che è certamente ammissibile una qualche
differenziazione tra coloro che ricevono denaro proveniente da fondi pubblici e coloro che
sono attivi nel settore privato, dato che nell’attuale contesto economico e finanziario qualsiasi
riduzione del reddito diretta soltanto verso i primi non è ingiustificatamente discriminatoria.
Tuttavia, la libertà del legislatore di tagliare i salari e le pensioni di persone che ricevono
denaro proveniente da fondi pubblici, al fine di conseguire un equilibrio del bilancio, anche
nel contesto di una grave crisi economica e finanziaria, ovviamente non può essere illimitata.
La differenza del grado di sacrificio imposto a coloro che sono colpiti da questa misura e
coloro che non lo sono deve essere sottoposta a dei limiti.
In effetti, dal punto di vista giuridico, l'uguaglianza di trattamento deve essere sempre
interpretata come un'uguaglianza proporzionale. Pertanto, la disuguaglianza giustificata da
situazioni differenti non è immune da un esame della proporzionalità. La dimensione del
trattamento diseguale deve essere proporzionata ai motivi che giustificano tale trattamento, e
non può essere eccessiva.
Come dichiarato nelle sentenze di questa Corte nn. 39/88 e 96/2005 ...: uguaglianza di
trattamento non significa comunque egualitarismo. Significa piuttosto uguaglianza di
trattamento proporzionale. Essa esige che situazioni sostanzialmente uguali siano trattate nello
stesso modo, mentre situazioni che sono sostanzialmente differenti ricevano un trattamento
differente, ma proporzionato.
Conseguentemente, nell’esame dell'uguaglianza proporzionale, dobbiamo valutare se gli
importi di cui è stato sospeso il pagamento ai sensi degli articoli 21 e 25 della Legge n.64B/2011, del 30 dicembre (la Legge sul bilancio statale del 2012 ), non siano "manifestamente"
[num “critério de evidência”] eccessivamente differenti rispetto alle ragioni che giustificano
una riduzione del reddito imposta solo a cittadini che ricevono denaro proveniente da fondi
pubblici.
A tal fine, è necessario individuare e valutare i sacrifici imposti dalle disposizioni in esame
a coloro che ricevono remunerazioni o pensioni provenienti da fondi pubblici.
Secondo tali disposizioni, i dipendenti e i pensionati del settore pubblico che ricevono un
importo lordo compreso tra EUR 600 ed EUR 1.000 vedranno una riduzione del loro reddito
annuo che aumenterà progressivamente fino al 14,3%. In un contesto in cui la mancanza di un
reddito sufficiente è già causa di sofferenza, qualsiasi riduzione aggiuntiva del reddito di
questo tipo, aumentata progressivamente fino al 14,3% del reddito annuale [delle persone
colpite], è eccessivamente onerosa.
I pensionati e le altre persone che ricevono importi lordi compresi tra EUR 1.100 ed EUR
1.500 vedranno una riduzione del 14.3% del loro reddito annuo che, in questo contesto, è
notevole se paragonata alle persone con lo stesso livello di reddito, o con un reddito superiore,
che non sono colpite da alcuna riduzione. Per quanto riguarda le pensioni più elevate, deve
essere sottolineato che per coloro che hanno un reddito dodici volte superiore all'indice del
sostegno sociale ci sarà una riduzione del 25% dell'importo eccedente, e per coloro che hanno
un reddito diciotto volte più elevato la riduzione sarà pari al 50%.
Anche per coloro che ricevono importi lordi superiori a EUR 1.500, la riduzione sarà pari
al 14,3% del reddito annuo. Dato che la Corte costituzionale, nella sua sentenza n. 396/2011,
in un contesto analogo relativo alla riduzione dei salari [dei dipendenti pubblici] prevista
dall'articolo 19 della Legge n. 55-A/2010 del 31 dicembre, e che si situava tra il 3,5% e il
10% del reddito annuo, ritenne che la transitorietà e la portata di tali riduzioni fossero ancora
contenute nei limiti di un sacrificio aggiuntivo esigibile, un’ulteriore nuova riduzione, che
ammonta ora al 14,3% del reddito annuo [di coloro che sono colpiti], che è, in media, più del
triplo delle iniziali riduzioni, [deve essere ritenuta] raggiungere un valore percentuale così
elevato da non rientrare manifestamente in tali limiti.
Queste misure dureranno tre anni (2012-2014) e produrranno, per tutto questo periodo,
effetti continui e cumulativi ... che, insieme al congelamento dei salari e delle pensioni del
settore pubblico negli anni 2010, 2011 e 2012, che proseguiranno negli anni successivi come
previsto nei memoranda del PAEF, e uniti al fenomeno dell'inflazione, comporteranno una
riduzione degli stipendi e delle pensioni reali equivalente ai tassi di inflazione registrati in
tutto quel periodo.
Alla maggior parte degli altri cittadini che ricevono un reddito da altre fonti non è richiesto
alcun sacrificio equivalente, a prescindere dagli importi [che essi ricevono].
La differenza di trattamento è così accentuata e significativa che l'efficacia della misura
adottata per ridurre il disavanzo pubblico ai livelli concordati nei memoranda d'intesa non
giustifica [ciò], soprattutto perché potrebbero essere previste delle misure alternative per
ridurre il disavanzo sia dal lato delle spese (p. es. misure stabilite nei memoranda d'intesa) sia
dal lato delle entrate (p. es. mediante misure più ampie che avrebbero lo stesso effetto della
riduzione del reddito).
Tali soluzioni sarebbero sufficientemente efficaci da conseguire [gli obiettivi
corrispondenti] all'interesse generale e non opprimerebbero contribuenti che ricevono reddito
o prestazioni sociali provenienti da fondi pubblici.
Pertanto, è evidente che la differenza di trattamento tra le persone che ricevono un reddito
o pensioni provenienti da fondi pubblici [e gli altri cittadini] è eccessiva [e non supera
l’esame] dell'uguaglianza proporzionale.
Benché sia riconosciuto che ci troviamo in una situazione economica e finanziaria
gravissima, in cui è importante raggiungere gli obiettivi relativi al disavanzo pubblico fissati
nei memoranda d'intesa, al fine di garantire il mantenimento del finanziamento dello Stato,
tali obiettivi dovrebbero essere raggiunti mediante misure di riduzione delle spese, e/o di
aumento delle entrate, che non comportino una distribuzione dei sacrifici eccessivamente
differenziata.
Inoltre, quanto maggiore è il grado dei sacrifici imposti ai cittadini per soddisfare gli
interessi generali, tanto maggiori dovrebbero essere le esigenze di uguaglianza e di giustizia
nella ripartizione di tali sacrifici.
La situazione descritta sopra e l'esigenza di risolverla mediante misure efficaci non
costituirà un motivo per dispensare il legislatore dal dovere di rispettare i diritti e i principi
fondamentali che costituiscono la base dello stato di diritto, compresi i parametri quali il
principio dell'uguaglianza proporzionale. Certamente, la Costituzione non può ignorare le
realtà economiche e finanziarie, soprattutto in una situazione che può essere considerata
estremamente difficile. Tuttavia, essa possiede una specifica autonomia normativa che
impedisce che gli obiettivi economici e finanziari prevalgano senza limiti su parametri quali
l'uguaglianza, che la Costituzione difende e dovrebbe far rispettare.
Pertanto, si deve concludere che le disposizioni che stabiliscono la sospensione del
pagamento dei sussidi feriali e natalizi o di qualsiasi altro pagamento corrispondente alla
tredicesima e alla quattordicesima mensilità sia a favore di persone che ricevono un salario da
enti pubblici, sia a favore di persone che ricevono pensioni [pensões de reforma ou
aposentação] del regime pensionistico del settore pubblico tramite il sistema previdenziale
statale, negli anni 2012-2014, violano il principio di uguaglianza nella ripartizione dell'onere
pubblico, previsto dall'articolo 13 della Costituzione.
Per questo motivo, le disposizioni contenute negli articoli 21 e 25 della Legge n. 64B/2011, del 30 dicembre (la Legge sul bilancio statale del 2012) devono essere dichiarate
incostituzionali senza necessità di valutare se esse violano gli altri parametri costituzionali
invocati dai ricorrenti.
...
Come dichiarato precedentemente, le misure che sospendono le remunerazioni e le
pensioni sono state adottate nel quadro di politiche economiche e finanziarie finalizzate alla
riduzione del disavanzo pubblico a breve termine, al fine di rispettare i limiti di disavanzo di
bilancio (4.5% del PIL nel 2012) imposti nei summenzionati memoranda, che costituiscono
la condizione per ricevere i prestiti concordati con l'Unione europea e il Fondo monetario
internazionale.
Nell'attuale contesto di grave emergenza, è essenziale che lo Stato portoghese continui ad
avere accesso al finanziamento esterno. Il rispetto di tali limiti di bilancio è pertanto un
obiettivo di eccezionale interesse pubblico.
Tenendo presente che l'esecuzione del bilancio del 2012 è già in corso, le conseguenze di
una dichiarazione di incostituzionalità potrebbero inevitabilmente determinare il mancato
raggiungimento di tale obiettivo, e pertanto mettere in pericolo il mantenimento del
finanziamento concordato e conseguentemente la solvibilità dello Stato. Invero, i risparmi
netti della spesa pubblica ottenuti mediante la sospensione del pagamento dei sussidi feriali e
natalizi o equivalenti ... giocano un ruolo rilevante nel bilancio statale nonché nelle misure
finanziarie attuate per conseguire il summenzionato obiettivo; sarebbe quasi impossibile nel
tempo che rimane [cioè, entro] la fine dell'anno ideare e attuare misure alternative che
producano effetti nel 2012 al fine di realizzare tali obiettivi di bilancio.
Ci troviamo pertanto di fronte a una situazione in cui una [questione di] interesse pubblico
eccezionalmente importante esige che la Corte costituzionale limiti gli effetti della
dichiarazione di incostituzionalità, come permesso dall'articolo 282 § 4 della Costituzione,
che pertanto non si applicherà alla sospensione del pagamento dei sussidi natalizi e feriali o a
qualsiasi altro equivalente pagamento in relazione al 2012.
...
Per questi motivi:
a) le disposizioni degli articoli 21 e 25 della Legge n. 64-B/2011 del 30 dicembre (la
Legge sul bilancio statale del 2012) sono dichiarate incostituzionali, con forza obbligatoria
generale, in quanto esse violano il principio di uguaglianza previsto dall'articolo 13 della
Costituzione della Repubblica portoghese.
b) Ai sensi dell'articolo 282 § 4 della Costituzione della Repubblica portoghese, la presente
decisione di incostituzionalità non si applica alla sospensione del pagamento dei sussidi
natalizi e feriali o a qualsiasi altra prestazione feriale o equivalente pagamento in relazione al
2012.
C. La valutazione dell'UE della situazione economica del Portogallo nel 2011
11. Il documento di lavoro della Commissione europea che accompagnava la
Raccomandazione di raccomandazione del Consiglio sul programma nazionale di riforma
2011 del Portogallo e che formulava un parere del Consiglio sul programma di stabilità
aggiornato del Portogallo, 2011-2014, emesso nel giugno del 2011 (SEC(2011) 730
definitivo), descrisse la situazione economica portoghese e le caratteristiche principali del
programma di aggiustamento economico nei seguenti termini:
“1. Introduzione
Nel 2010, il PIL del Portogallo è cresciuto un tasso [sic] dell’1,3%. Questo tasso di
crescita positivo è dovuto in gran parte a fattori eccezionali che hanno incrementato le
esportazioni e i consumi privati. Questi ultimi in particolare hanno beneficiato degli
effetti anticipatori dell’aumento dell’IVA nel luglio del 2010 e nel gennaio del 2011.
Nonostante il significativo contributo della crescita del commercio esterno, il Portogallo
ha perso lo 0,9% della quota del mercato delle esportazioni nel 2010. L’andamento dei
prezzi e dei costi indica chiaramente che il Portogallo non stava incrementando la
competitività a un ritmo sufficiente per riassorbire il disavanzo delle partite correnti, che
ha raggiunto il 10% del PIL lo scorso anno. Analogamente, il consumo privato
relativamente forte ha beneficiato di fattori temporanei, quali un’inflazione relativamente
bassa dovuta al calo dei prezzi dell’energia. Oltre a ciò, alla fine dello scorso anno, le
aspettative di aumento delle imposte indirette hanno condotto a una certa anticipazione
delle spese. La debolezza generale dell'economia e il forte aumento della disoccupazione
hanno determinato disavanzi pubblici consistenti, che hanno superato il 10% del PIL nel
2009 e il 9% nel 2010, contro il 3,5% nel 2008.
Durante la recessione il Portogallo ha visto la disoccupazione crescere costantemente, e
raggiungere l’11,2%. I giovani (22,4% nel 2010) e la generazione più anziana (7,7%)
sono più esposti alla disoccupazione della media dell'UE. I disoccupati di lunga durata
rappresentano attualmente più del 55% del totale dei disoccupati. Questo può avere
ripercussioni negative sul loro livello generale di competenze e rivela profondi problemi
strutturali nel mercato del lavoro portoghese. In concomitanza con la disoccupazione,
l'occupazione continua a calare, con un tasso di occupazione che ha raggiunto il livello
più basso del decennio (70,5% nel 2010), pur essendo superiore alla media dell'UE
(68,6%).
Recentemente, gli sviluppi sfavorevoli delle finanze pubbliche e le tetre prospettive di
crescita economica hanno condotto a un deterioramento della credibilità e a un aumento
delle pressioni nei mercati del debito sovrano. In parallelo, il settore bancario, che è
fortemente dipendente dai finanziamenti esterni, si è vista sempre più preclusa la
possibilità di finanziarsi sui mercati e ha fatto ampio ricorso al finanziamento
dell'Eurosistema. Il governo si è dimesso in conseguenza della mancata approvazione
parlamentare del Programma di stabilità alla fine di marzo. A seguito delle successive
svalutazioni delle emissioni del debito sovrano portoghese, i tassi di interesse hanno
raggiunto livelli incompatibili con la sostenibilità delle finanze pubbliche a lungo
termine. Conseguentemente, il 7 aprile il Portogallo ha chiesto assistenza finanziaria
internazionale all'Unione europea e al Fondo monetario internazionale (FMI). I negoziati
tra le autorità portoghesi e una missione congiunta della Commissione, del FMI e della
BCE hanno condotto, il 3 maggio, a un accordo relativo a un Programma di
aggiustamento economico per il periodo 2011-2014.
2. Principali caratteristiche del Programma di aggiustamento economico [escluse le
note a piè di pagina]
Il 17 maggio, il Consiglio ECOFIN ha adottato una decisione formale che autorizza
l'assistenza finanziaria al Portogallo. Il Programma comprende il finanziamento esterno
dell'Unione europea, degli Stati membri della zona euro e del FMI, per un importo
massimo di EUR 78 miliardi e l'impegno del Portogallo ad adottare riforme profonde e
sostanziali in vari settori.
Gli obiettivi di bilancio del Programma sono ambiziosi ma realistici. Il disavanzo delle
amministrazioni pubbliche dovrà raggiungere il 5,9% del PIL nel 2011, il 4,5% del PIL
nel 2012 e il 3,0% nel 2013, in conformità con i requisiti della procedura relativa ai
disavanzi eccessivi. Si prevede che il debito pubblico raggiunga circa il 108% nel 2013
per poi diminuire progressivamente. Gli sforzi di consolidamento sono sostanziali, di
portata generale e sono sostenuti da un'ampia gamma di misure finalizzate a ridurre le
spese e ad aumentare le entrate.
Sul lato delle spese, le misure comprendono, inter alia, la moderazione salariale nel
settore pubblico, la riduzione dei trasferimenti alle amministrazioni locali e regionali e
alle imprese pubbliche, la riforma del regime pensionistico e la diminuzione delle spese
in conto capitale. Sul lato delle entrate, le misure comprendono l'allargamento delle basi
imponibili delle imposte sul reddito delle persone giuridiche e delle persone fisiche
riducendo gli sgravi fiscali e i regimi speciali, la convergenza delle detrazioni delle
imposte sul reddito delle persone fisiche applicate alle pensioni e ai redditi da lavoro,
modifiche della tassazione sugli immobili, l'ampliamento delle basi dell'IVA, mediante la
riduzione delle esenzioni e la ridefinizione dei beni soggetti ad aliquote intermedie ed
elevate. La consolidazione del bilancio sarà sostenuta tramite misure di
accompagnamento destinate a rafforzare il quadro di bilancio, migliorando tutte le fasi
della procedura di bilancio compresi il monitoraggio e il controllo dello stesso, al fine di
contenere i rischi fiscali. Inoltre, il Portogallo guadagnerà in efficienza mediante una
profonda riorganizzazione della sua pubblica amministrazione a livello centrale,
regionale e locale.
A seguito delle Raccomandazioni del Memorandum d'intesa su condizioni specifiche di
politica economica, il Portogallo pubblicherà un documento di strategia fiscale per le
amministrazioni pubbliche entro la fine del mese di agosto del 2011 e, a partire da questa
data, annualmente in aprile, per il Programma di stabilità. Il documento specificherà le
previsioni economiche e fiscali quadriennali di medio termine e i costi quadriennali di
nuove decisioni politiche. I bilanci comprenderanno una riconciliazione delle revisioni
delle previsioni di bilancio quadriennali attribuibili alle decisioni politiche e alle revisioni
dei parametri, p. es. decisioni di politica economica, cambiamenti dello scenario
macroeconomico.
Le riforme strutturali comprendono un'ampia gamma di settori, compreso il mercato del
lavoro, il mercato immobiliare, l'istruzione, l'energia, i trasporti, l'ambiente
imprenditoriale, il sistema giudiziario, i servizi e la sanità. L'approccio alle riforme
strutturali è molto concentrato nel momento iniziale. Già nel 2011, il Portogallo dovrà
applicare una prima serie di misure destinate a rafforzare il funzionamento del mercato
del lavoro, attraverso la limitazione del pagamento delle indennità di licenziamento e la
flessibilità delle disposizioni relative all'orario di lavoro. Il Portogallo continuerà ad
adottare misure tese a combattere il problema dell'insuccesso scolastico e dell'abbandono
scolastico precoce e a migliorare la qualità dell'istruzione secondaria, professionale e
della formazione, al fine di incrementare l'efficienza del settore educativo, aumentare la
qualità delle risorse umane e favorire le esigenze del mercato del lavoro. Nel settore
dell'energia e delle altre industrie di rete, il Portogallo adotterà misure per approfondire i
mercati e promuovere la concorrenza e la flessibilità. Al fine di realizzare gli obiettivi in
materia di energia rinnovabile, devono essere eliminati gli ostacoli che non comportano
costi. Il Portogallo garantirà che i programmi finalizzati ad aumentare l'efficienza
energetica siano attuati in modo redditizio. Saranno attuate misure aggiuntive per
promuovere la concorrenza e l'aggiustamento in altri settori, quali i mercati dei servizi
abitativi, il sistema giudiziario e le condizioni relative all'ambiente imprenditoriale.
La liquidità bancaria rimane sotto pressione, anche se finora il sistema bancario
portoghese ha gestito la crisi relativamente bene. Nel quadro del Programma, il Banco de
Portugal monitorerà attentamente la situazione della liquidità del sistema bancario e
interverrà, se necessario. In particolare, potranno essere emesse obbligazioni bancarie
garantite dallo Stato per un importo massimo pari a EUR 35 miliardi. Durante il periodo
compreso dal Programma, il settore bancario adotterà una strategia di riduzione
equilibrata e ordinata della leva finanziaria, per eliminare definitivamente gli squilibri di
finanziamento. Inoltre, il meccanismo di sostegno alla solvibilità bancaria sarà dotato di
risorse per un importo massimo pari a EUR 12 miliardi. Allo stesso tempo, le banche
dovranno continuare a rafforzare le loro riserve di capitale, aumentando il loro
coefficiente Tier 1 al 10% entro la fine del 2012.
Della dotazione totale del Programma pari a EUR 78 miliardi, EUR 52 miliardi saranno
corrisposti dall'UE (distribuiti ugualmente tra i contributi del Meccanismo europeo di
stabilizzazione finanziaria e il Fondo europeo di stabilità finanziaria), mentre il FMI
coprirà i rimanenti EUR 26 miliardi. Il Programma comprende EUR 12 miliardi riservati
a potenziali esigenze di ricapitalizzazione del settore bancario, mentre le entrate
provenienti dalle privatizzazioni dovranno contribuire a ridurre le esigenze di
finanziamento di circa EUR 5 miliardi durante il periodo del Programma. Si prevede che
il Portogallo continui a essere in condizione di rifinanziare parte del suo debito di breve
termine e che torni al mercato del debito a lungo termine nel secondo semestre del 2013.
Il Programma prevede anche una riserva di finanziamento per provvedere a scostamenti
inaspettati in relazione allo scenario finanziario di base tracciato dalla Commissione."
MOTIVI DI RICORSO
12. Senza invocare alcuna particolare disposizione della Convenzione, i ricorrenti
lamentano l'impatto della riduzione dei sussidi feriali e natalizi sulla loro situazione
finanziaria e sulle loro condizioni di vita.
13. La Corte è libera di qualificare giuridicamente i fatti della causa (si veda Guerra e
Altri c. Italia, sentenza del 19 febbraio 1998, § 44, Reports of Judgments and Decisions 1998I; Tătar e Tătar c. Romania (dec.), n. 67021/01, § 47, 5 luglio 2007; e Scoppola c. Italia (n. 2)
[GC], n. 10249/03, § 54, 17 settembre 2009). Nel caso di specie, essa ritiene opportuno
esaminare i motivi di ricorso dei ricorrenti dal punto di vista dell'articolo 1 del Protocollo n. 1.
IN DIRITTO
14. Ai sensi dell'articolo 42 § 1 del Regolamento della Corte, la Corte decide di riunire i
ricorsi data la similitudine del loro quadro fattuale e giuridico.
15. I ricorrenti si basano, in sostanza, sull'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione,
che recita come segue:
“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua
proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali
del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi
ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il
pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.”
16. Essi affermano la violazione del loro diritto alla protezione dei beni a causa della
riduzione dei loro sussidi feriali e natalizi per il 2012, che ammontava a una perdita totale di
EUR 1.102,40, nel caso del primo ricorrente, e a una perdita totale pari a EUR 1.368,04, nel
caso del secondo ricorrente.
17. Innanzi tutto, la Corte ritiene che a seguito della decisione della Corte costituzionale
del 5 luglio 2012, che autorizzava nel 2012 l'attuazione dell'articolo 25 della Legge sul
bilancio statale del 2012, e che aveva effetto erga omnes, non esistessero più mezzi di ricorso
interni effettivi disponibili per i ricorrenti ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione.
18. Tutti i principi che si applicano generalmente alle cause relative all'articolo 1 del
Protocollo n. 1 sono ugualmente pertinenti quando si tratta di pensioni. Questa disposizione
non garantisce il diritto a diventare proprietario di un bene. Con la stessa logica, non può
essere interpretata come se garantisca il diritto a una pensione di un particolare importo (si
veda Skorkiewicz c. Polonia (dec.) n. 39860/98, 1° giugno 1999). L'articolo 1 del Protocollo
n. 1 non pone alcun limite alla libertà dello Stato contraente di decidere se disporre o meno di
qualsiasi tipo di regime di previdenza sociale, o di scegliere il tipo o l'importo delle
prestazioni da fornire in base a tale regime. Se, tuttavia, in uno Stato contraente vige una
legislazione che prevede di diritto il pagamento di una pensione - subordinata o meno al
precedente versamento di contributi - si deve ritenere che tale legislazione generi un interesse
patrimoniale che rientra nell'ambito dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 per le persone che
soddisfano i suoi requisiti (si veda Andrejeva c. Lettonia [GC], n. 55707/00, § 77, con
ulteriori riferimenti, in particolare a Stec c. Regno Unito (dec.), nn. 65731/01 e 65900/01,
CEDU 2005-X e a Kjartan Ásmundsson c. Islanda, n. 60669/00, § 39, CEDU 2004 IX; e
Carson e Altri c. Regno Unito [GC], n. 42184/05, § 64, CEDU 2010). La riduzione o la
sospensione di una pensione può pertanto costituire un'ingerenza nei beni che deve essere
giustificata (si veda Valkov e Altri c. Bulgaria, nn. 2033/04, 19125/04, 19475/04, 19490/04,
19495/04, 19497/04, 24729/04, 171/05 e 2041/05, § 84, 25 ottobre 2011 con ulteriori
riferimenti, in particolare a Rasmussen c. Polonia, n. 38886/05, § 71, 28 aprile 2009, e Panfile
c. Romania (dec.), n. 13902/11, § 15, 20 marzo 2012).
19. Nel caso di specie, entrambi i ricorrenti avevano diritto a ricevere i sussidi feriali e
natalizi nel 2012, che essi ricevettero come di consueto nel luglio e nel novembre 2012,
benché con una riduzione pari al 10,8% del totale delle prestazioni pensionistiche annuali nel
caso del primo ricorrente e al 10,7% nel caso del secondo ricorrente. Conseguentemente, in
relazione ai loro sussidi feriali e natalizi entrambi i ricorrenti avevano un interesse
patrimoniale che rientrava nell'ambito dell'articolo 1 del Protocollo n. 1.
20. L'articolo 1 del Protocollo n. 1 esige che qualsiasi ingerenza di un'autorità pubblica nel
pacifico godimento dei beni debba essere prevista dalla legge: infatti, la seconda frase del
primo comma dell’articolo autorizza la privazione dei beni "alle condizioni previste dalla
legge". Inoltre, lo stato di diritto, uno dei principi fondamentali di una società democratica, è
una nozione inerente a tutti gli articoli della Convenzione (si veda Ex Re di Grecia e Altri c.
Grecia [GC] (merito), n. 25701/94, § 79, CEDU 2000–XII; e Broniowski c. Polonia [GC],
n. 31443/96, § 147, CEDU 2004 V).
21. Quanto alla causa dei ricorrenti, la Corte osserva che, nonostante il fatto che le
pertinenti disposizioni di legge interne siano state dichiarate incostituzionali, in quanto non
era stato richiesto alcun equivalente sacrificio ai cittadini impiegati nel settore privato, la
Corte costituzionale adottò comunque la decisione di consentire i tagli per il 2012 a norma
dell'articolo 282 § 4 della Costituzione portoghese, che permette che in circostanze
eccezionali gli effetti di una dichiarazione di incostituzionalità siano limitati. I tagli furono
pertanto consentiti dalla Corte costituzionale in conformità con il diritto interno ai sensi
dell'articolo 1 del Protocollo n. 1.
22. La Corte sottolinea che qualsiasi ingerenza nel pacifico godimento dei beni debba
perseguire anche un fine legittimo di interesse pubblico (si veda Broniowski, sopra citata, § §
147-48, e Hutten-Czapska c. Polonia [GC], n. 35014/97, §§ 163-64, CEDU 2006 VIII). A
questo riguardo ai sensi della Convenzione è generalmente concesso allo Stato un ampio
margine di apprezzamento quando si tratta di misure generali di politica economica o sociale.
In ragione della loro diretta conoscenza della loro società e delle sue esigenze, le autorità
nazionali sono in linea di massima in una posizione migliore del giudice internazionale per
valutare ciò che corrisponde all'interesse pubblico, per ragioni sociali o economiche, e la
Corte rispetterà generalmente la scelta politica del potere legislativo a meno che essa non sia
"manifestamente priva di un fondamento ragionevole" (si veda National & Provincial
Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno
Unito, 23 ottobre 1997, § 80, Reports 1997 VII, e Stec e Altri c. Regno Unito [GC], nn.
65731/01 e 65900/01, § 52, CEDU 2006 VI). Il margine è anche più ampio quando le
questioni riguardano una valutazione delle priorità relative all'assegnazione di risorse statali
limitate (si veda Pentiacova e Altri c. Moldavia (dec.), n. 14462/03, 4 gennaio 2005; Huc c.
Romania e Germania (dec.), n. 7269/05, § 64, 1 dicembre 2009; e Koufaki e Adedy c. Grecia
(dec.), nn. 57665/12 e 57657/12, § 31, 7 maggio 2013).
23. Tuttavia il margine di apprezzamento di cui gli Stati godono in questi particolari campi
non è illimitato. La Corte deve essere convinta che sia stato raggiunto un "giusto equilibrio"
tra le esigenze di interesse generale della comunità e i requisiti di protezione dei diritti
fondamentali dell'individuo. In particolare, la Corte deve accertare se in ragione dell'ingerenza
statale la persona interessata abbia dovuto sopportare un onere sproporzionato ed eccessivo (si
veda Hutten-Czapska, sopra citata, § 167; Koufaki e Adedy, sopra citata, § 42).
24. Nella valutazione della proporzionalità delle misure adottate in relazione a diritti
pensionistici, un'importante considerazione è se il diritto del ricorrente di percepire
prestazioni dal regime di assicurazione sociale in questione sia stato violato in modo tale da
pregiudicare l'essenza del suo diritto. Si può anche tener conto della natura della prestazione
soppressa - in particolare, se essa ha avuto origine da un regime pensionistico vantaggioso
disponibile solo a determinati gruppi di persone. La valutazione può variare in base alle
particolari circostanze del caso e alla situazione personale del ricorrente; mentre una
privazione totale dei diritti che comporti la perdita dei mezzi di sussistenza equivale in linea
di massima alla violazione del diritto di proprietà, l’imposizione di una misura ragionevole e
proporzionata non vi equivale (si veda Janković c. Croazia, (dec.), n. 43440/98, CEDU 2000X; Schwengel c. Germania (dec.), n. 52442/99, 2 marzo 2000; Lakićević e Altri c.
Montenegro e Serbia, nn. 27458/06, 37205/06, 37207/06 e 33604/07, §§ 62-63, 13 dicembre
2011; Apostolakis c. Grecia, n. 39574/07, §§ 41-42, 22 ottobre 2009; Kjartan Ásmundsson,
sopra citata, § 45; Valkov e Altri sopra citata, § 97; Maggio e Altri c. Italia, nn. 46286/09,
52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, § 63, 31 maggio 2011; e Frimu e 4 altri ricorsi c.
Romania (dec.), n. 45312/11, §§ 42-48, 7 febbraio 2012). In tutti questi casi, le riduzioni
erano misure generali finalizzate ad annullare privilegi speciali o a far confluire dei regimi
pensionistici speciali in quello generale.
25. Nel caso di specie, la Corte osserva che i tagli dei sussidi feriali e natalizi previsti dalla
Legge sul bilancio statale del 2012 miravano a ridurre la spesa pubblica ed erano parte di un
programma ideato dalle autorità nazionali e dai loro omologhi dell’UE e del FMI per
consentire al Portogallo di garantire al bilancio statale la necessaria liquidità e conseguire un
risanamento economico a medio termine (si vedano i paragrafi 4 e 11 supra). Il fatto stesso
che si sia dovuto creare un programma di tale dimensione dimostra che la crisi economica che
stava asfissiando l’economia portoghese nel periodo pertinente, e il suo effetto sul bilancio
statale, erano di natura eccezionale, come riconobbe infatti la Corte costituzionale nella sua
decisione del 5 luglio 2012.
26. Come fece recentemente in circostanze analoghe relative a misure di austerità adottate
in Grecia (si veda Koufaki e Adedy, sopra citata, § 41), la Corte ritiene che i tagli delle
prestazioni previdenziali previsti dalla Legge sul bilancio statale del 2012 corrispondessero
chiaramente all’interesse pubblico ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1. Come in Grecia,
queste misure furono adottate in una situazione economica estrema, ma a differenza della
Grecia esse erano transitorie.
27. La Corte deve ora valutare se sia stato raggiunto un giusto equilibrio tra le esigenze di
interesse generale della comunità e i requisiti di protezione dei diritti fondamentali personali
dei ricorrenti.
28. A tale riguardo, la Corte osserva che pur avendo ridotto i sussidi della tredicesima e
della quattordicesima mensilità dei ricorrenti rispettivamente di EUR 1.102,40 ed EUR
1.368,04 (10,8% e 10,7% dei loro precedenti diritti pensionistici, si veda paragrafo 7 supra),
l’articolo 25 della Legge sul bilancio statale non modificò l’importo della loro pensione di
base, che essi continuarono a ricevere per i dodici mesi del 2012. Inoltre, questi tagli erano
applicabili solo per un triennio (2012-2014). L’ingerenza della Legge sul bilancio statale del
2012 nel diritto dei ricorrenti al pacifico godimento dei loro beni era pertanto limitata sia nel
tempo sia in termini quantitativi (meno dell’11% delle loro prestazioni previdenziali totali). In
tali circostanze, non fu sproporzionato ridurre il disavanzo del bilancio statale sul lato della
spesa, tagliando salari e pensioni pagati nel settore pubblico, senza che fossero fatti tagli
equivalenti nel settore privato (si veda Koufaki e Adedy, sopra citata, §§ 43-47). Inoltre, dato
che il legislatore rimase nei limiti del suo margine di apprezzamento e che le precedenti
misure relative alle “riduzioni remunerative” contenute nella Legge sul bilancio statale del
2011 si erano dimostrate insufficienti, non spetta alla Corte decidere se avrebbero potuto
essere previste migliori misure alternative per ridurre il disavanzo del bilancio statale (si veda
Koufaki e Adedy, sopra citata, § 48).
29. Alla luce dell’eccezionale crisi economica e finanziaria affrontata dal Portogallo nel
periodo pertinente e data la portata limitata e la transitorietà della riduzione dei loro sussidi
feriali e natalizi, la Corte ritiene che i ricorrenti non abbiano sopportato un onere
sproporzionato ed eccessivo.
30. Ne consegue che il ricorso è manifestamente infondato e deve essere rigettato in
applicazione dell'articolo 35 §§ 3 (a) e 4 della Convenzione.
Per questi motivi, la Corte all'unanimità
Decide di riunire i ricorsi;
Dichiara i ricorsi irricevibili.
Stanley Naismith
Cancelliere
Guido Raimondi
Presidente
***
Art. 1 Protocollo N. 1 (Protezione della proprietà) in combinato disposto con
l'art. 14 CEDU (Divieto di discriminazione)
g) Giavi c. Grecia – Prima Sezione, sentenza del 3 ottobre 2013 (ric. n. 25816/09)
Applicazione di disposizioni speciali che stabilivano un termine di decadenza
più breve per i ricorsi di impiegati di persone giuridiche di diritto pubblico:
non violazione
In fatto - Il 18 giugno 1997, la ricorrente, addetta alle pulizie, introdusse in tribunale
un’azione contro l’ospedale in cui lavorava, al fine di ottenere una somma corrispondente a
supplementi della sua remunerazione e indennità che non le sarebbero stati versati tra il 1°
giugno 1994 e il 21 marzo 1997, data del suo pensionamento. Nel luglio 2001, la corte
d’appello riconobbe alla ricorrente una parte della somma reclamata, ma ritenne che le sue
richieste per il periodo dal 1° giugno al 31 dicembre 1994 fossero estinte dalla prescrizione
biennale di cui al decreto relativo alla contabilità delle persone giuridiche di diritto pubblico,
ai contratti e alle prescrizioni. La ricorrente adì la cassazione, sostenendo che nessun motivo
valido poteva giustificare l’applicazione di un termine prescrittivo di due anni per le richieste
dei dipendenti delle persone giuridiche di diritto pubblico nei confronti di queste ultime,
quando il termine del diritto comune, quello applicabile agli altri creditori delle stesse persone
giuridiche verso terzi erano tutti di cinque anni. La ricorrente rilevava che gli interessi di
tesoreria delle persone giuridiche di diritto pubblico non potevano accordare loro un
trattamento di favore a scapito dei propri dipendenti. Il suo ricorso fu respinto.
In diritto – Combinato disposto dell’articolo 14 e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1: Le
richieste della ricorrente per il periodo dal 1° giugno al 31 dicembre 1994, che la corte
d’appello ha ritenuto estinte dalla prescrizione, entrano nell’ambito applicativo dell’articolo 1
del Protocollo n. 1 e del diritto al rispetto dei beni da esso garantito, il che basta a rendere
applicabile l’articolo 14 della Convenzione.
Il semplice fatto che le richieste della ricorrente fossero soggette a un termine prescrittivo
non pone alcun problema rispetto alla Convenzione. Tra l’altro, non si può mettere in
discussione il diritto degli Stati a emanare leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare
l’uso dei beni conformemente all’interesse generale. Le richieste dei dipendenti delle persone
giuridiche di diritto pubblico possono quindi giustificare una regolamentazione che tenga
conto dell’interesse della tesoreria, di una gestione efficace del denaro pubblico e della
continuità del servizio pubblico. Secondo le alte giurisdizioni nazionali (Corte di cassazione,
Consiglio di Stato e Corte speciale suprema), l’interesse pubblico cui si applica il termine
speciale di due anni è costituito, in particolare, dall’esigenza di una risoluzione rapida dei
crediti che derivano dalle somme mensili concesse dalle persone giuridiche di diritto
pubblico, in quanto una liquidazione rapida è necessaria per la tutela del patrimonio e della
situazione finanziaria delle persone giuridiche cui i cittadini contribuiscono tramite il
pagamento delle tasse. Contrariamente alla situazione nella causa Zouboulidis42, in cui gli
argomenti invocati dal Governo erano di natura generale e astratta, i dati forniti in questa
causa mostrano l’imprevedibilità che potrebbero avere, per delle persone giuridiche, delle
richieste presentate molti anni dopo i fatti causali relativi, costringendole a mettere da parte
del denaro pubblico per rispondere a obblighi che potrebbero manifestarsi all’improvviso,
nonché le conseguenze nefaste di queste pretese sul loro bilancio. È inoltre fuori di dubbio
che la decisione sulla fondatezza di queste azioni sarebbe di competenza dei tribunali, e
rischierebbe di appesantirne ulteriormente il ruolo.
Spetta all’ordinamento giuridico interno dello Stato interessato regolamentare le modalità
procedurali dei ricorsi, in modo da garantire la tutela dei diritti dei dipendenti pubblici, purché
queste modalità non rendano nella pratica impossibile o eccessivamente arduo l’esercizio dei
42
Zouboulidis c. Grecia (n. 2), 36963/06, 25 giugno 2009, Bollettino d’informazione 120.
diritti conferiti dall’ordinamento giuridico interno. Per la Corte, un termine prescrittivo di due
anni non limita eccessivamente la possibilità per i dipendenti pubblici di rivendicare in
giustizia stipendi e somme dovuti loro dall’amministrazione. Nel caso di specie, la ricorrente
non ha citato elementi concreti che le avrebbero impedito o l’avrebbero dissuasa in qualche
maniera dall’esercitare il ricorso entro due anni dal momento del nascere della sua pretesa.
Infine, contrariamente alla sentenza Zouboulidis, nel caso di specie, la ricorrente incentra il
suo ricorso più sulla differenza di trattamento che esisterebbe tra i dipendenti pubblici, da una
parte, e i dipendenti del settore privato o i creditori dello Stato diversi dai suoi dipendenti
dall’altra. Si tratta di situazioni che non sono paragonabili: non vi è alcuna analogia tra i
dipendenti pubblici e i dipendenti del settore privato. Per quanto attiene agli altri creditori, si
tratta in maggior parte di fornitori dello Stato che hanno un rapporto specifico con
quest’ultimo, in occasione dell’esecuzione di un contratto, e non un rapporto salariale che è
costante, come nel caso dei dipendenti pubblici. Del resto, la Corte speciale suprema ha
rilevato il diverso statuto giuridico che disciplinava i rapporti di queste due categorie di
lavoratori con i loro datori di lavoro. Questo è dovuto in particolare al fatto che i dipendenti
pubblici sono inamovibili ai sensi della Costituzione. Queste differenze nello statuto
potrebbero giustificare dei periodi più lunghi a favore dei dipendenti del settore privato
affinché essi possano portare in giustizia le loro vertenze salariali.
Di conseguenza, l’applicazione delle norme speciali che prevedono un termine prescrittivo
di due anni per le richieste dei dipendenti delle persone giuridiche di diritto pubblico non ha
rotto il giusto equilibrio da salvaguardare tra la tutela della proprietà e le esigenze
dell’interesse generale.
Conclusione: non violazione (unanimità).
[Traduzione dal Bollettino n. 167 curata dagli esperti linguistici del Ministero della Giustizia]
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
a cura di Ornella Porchia
Il presente bollettino contiene soltanto una selezione delle pronunce rese dalla Corte di
giustizia dell’Unione europea nel mese di ottobre. Il testo integrale di tutte le sentenze è
reperibile attraverso la consultazione del sito ufficiale www.curia.eu.
1. Spazio di libertà sicurezza e giustizia/Carta dei diritti fondamentali
Corte di giustizia (Quarta sezione), 17 ottobre 2013, causa C-291/12, Michael
Schwarz,
«Rinvio pregiudiziale — Spazio di libertà, sicurezza e giustizia — Passaporto
biometrico — Impronte digitali — Regolamento (CE) n. 2252/2004 — Articolo 1,
paragrafo 2 — Validità — Fondamento giuridico — Procedura d’adozione —
Articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea — Diritto
al rispetto della vita privata — Diritto alla tutela dei dati personali —
Proporzionalità»
Nella procedura segnalata la Corte è stata chiamata ad accertare la validità dell’articolo 1,
paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 2252/2004 del Consiglio, del 13 dicembre 2004, relativo
alle norme sulle caratteristiche di sicurezza e sugli elementi biometrici dei passaporti e dei
documenti di viaggio rilasciati dagli Stati membri (GU L 385, pag. 1), come modificato dal
regolamento (CE) n. 444/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 maggio 2009
(GU L 142, pag. 1, e rettifica GU L 188, pag. 127: il «regolamento n. 2252/2004»). La
domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che vede contrapposti il
sig. Schwarz e la Stadt Bochum (città di Bochum) in merito al diniego da parte di
quest’ultima di rilasciare all’interessato il passaporto senza il contemporaneo rilevamento
delle impronte digitali, per memorizzarle nel passaporto stesso.
In tale contesto, il tribunale amministrativo chiede alla Corte se il regolamento, obbligando
chi richiede il passaporto a far rilevare le proprie impronte digitali e prevedendo la
conservazione di queste nel passaporto, sia valido, in particolare, alla luce della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea.
La Corte rileva, innanzitutto, che il regolamento è stato adottato su un adeguato fondamento
giuridico, sulla base dell’articolo 62, punto 2, lettera a), CE (ora art. 77 TFUE), contestato
per il fatto che tale disposizione non menziona esplicitamente la competenza a disciplinare
questioni relative ai passaporti e ai documenti di viaggio rilasciati ai cittadini dell’Unione (i
«passaporti»). Nell’opinione della Corte risulta sia dalla formulazione dell’articolo 62, punto
2, lettera a), CE sia dall’obiettivo che esso perseguiva che tale disposizione autorizzava il
Consiglio a disciplinare lo svolgimento dei controlli effettuati alle frontiere esterne
dell’Unione europea e intesi a verificare l’identità delle persone che le attraversano. Poiché
siffatta verifica implica necessariamente la presentazione di documenti che consentono di
dimostrare detta identità, l’articolo 62, punto 2, lettera a), CE autorizzava di
conseguenza il Consiglio ad adottare disposizioni normative relative a tali documenti e,
in particolare, ai passaporti.
Riguardo alla questione se tale articolo autorizzasse il Consiglio ad adottare misure che
fissano le norme e procedure connesse al rilascio di passaporti ai cittadini dell’Unione, la
Corte poi osserva, da una parte, che questo stesso articolo si riferiva ai controlli delle
«persone» senza ulteriori precisazioni. Così, va considerato che tale disposizione dovesse
riguardare non soltanto i cittadini di paesi terzi, bensì anche i cittadini dell’Unione e, di
conseguenza, anche i passaporti di questi ultimi. Infine, la Corte si riferisce alla motivazione
della proposta di regolamento del Consiglio relativo alle norme sulle caratteristiche di
sicurezza e sugli elementi biometrici dei passaporti dei cittadini dell’UE [COM(2004) 116
def.], nella quale si sottolinea che l’armonizzazione delle norme di sicurezza di tali passaporti
può imporsi allo scopo di evitare che questi ultimi presentino dispositivi di sicurezza meno
perfezionati di quelli previsti per il modello tipo di visto e per il modello uniforme di
permesso di soggiorno dei cittadini di paesi terzi. In tal contesto, la Corte considera che il
legislatore dell’Unione sia competente a prevedere caratteristiche di sicurezza equivalenti
per i passaporti dei cittadini dell’Unione, in quanto siffatta competenza consente di
evitare che detti documenti diventino oggetto di falsificazioni e impieghi fraudolenti.
La Corte, nel rigettare anche il motivo di invalidità di ordine procedurale giustificato dalla
mancata consultazione in sede di modifica del Regolamento del Parlamento, si limita a porre
in evidenza che quest’ultimo vi ha pienamente partecipato come colegislatore.
Nel merito, la Corte osserva che sebbene il rilevamento delle impronte digitali e la loro
conservazione nel passaporto costituiscano un pregiudizio ai diritti al rispetto della vita
privata e alla tutela dei dati personali (sentenze del 9 novembre 2010, Volker und Markus
Schecke e Eifert, C-92/09 e C-93/09, Racc. pag. I-11063, punto 52, nonché del 24 novembre
2011, ASNEF e FECEMD, C-468/10 e C-469/10, Racc. pag. I-12181, punto 42; Corte eur.
D.U., sentenza S. e Marper c. Regno Unito del 4 dicembre 2008, Recueil des arrêts et
décisions 2008-V, pag. 213, §§ 68 e 84), tali misure sono in ogni caso giustificate, ai sensi
dell’art. 52, paragrafo 1 della Carta.
La Corte statuisce al riguardo che le misure contestate perseguono l’obiettivo d’interesse
generale di impedire l’ingresso illegale di persone nell’Unione europea; in particolare, esse
mirano a prevenire la falsificazione dei passaporti e a impedirne l’uso fraudolento.
Secondo la Corte, non si evince dagli elementi messi a disposizione della Corte che tali
misure non rispettino il contenuto essenziale dei diritti fondamentali di cui trattasi. Inoltre, le
misure contestate sono idonee a conseguire lo scopo di preservare i passaporti da un uso
fraudolento, riducendo notevolmente il rischio che a persone non autorizzate sia
erroneamente consentito entrare nel territorio dell’Unione europea. Per quanto riguarda, poi,
l’esame della necessità di siffatto trattamento, il legislatore è segnatamente tenuto a verificare
se siano concepibili misure meno pregiudizievoli per i diritti riconosciuti dagli articoli 7 e
8 della Carta, che tuttavia forniscano un efficace contributo agli scopi della disciplina
dell’Unione di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza Volker und Markus Schecke e Eifert,
cit., punto 86).
Riguardo allo scopo di preservare i passaporti da un uso fraudolento, la Corte ricorda, da una
parte, che il rilevamento consiste soltanto nel prendere l’impronta di due dita. Queste ultime
sono del resto normalmente esposte alla vista altrui, di modo che non si tratta di
un’operazione che riveste carattere intimo. Essa non comporta neppure un imbarazzo fisico o
psichico particolare per l’interessato, come la fotografia del suo volto. La Corte osserva,
inoltre, che il rilevamento delle impronte digitali si aggiunge alla fotografia del volto.
Tuttavia, non si può ritenere a priori che la somma di due operazioni d’identificazione delle
persone comporti, di per sé, un pregiudizio più grave ai diritti riconosciuti dagli articoli 7 e 8
della Carta che se tali operazioni fossero considerate isolatamente. Quindi, riferendosi al
procedimento principale, la Corte rileva nulla nel fascicolo sottoposto al suo esame lascia
desumere che la concomitanza del rilevamento delle impronte digitali e della fotografia del
volto comporti, per questo solo motivo, un pregiudizio maggiore a tali diritti. Dall’altra parte,
secondo la Corte, l’unica reale alternativa al rilevamento delle impronte digitali richiamata nel
corso del procedimento dinanzi alla Corte consiste nella cattura dell’immagine dell’iride
dell’occhio. Orbene, nulla nel fascicolo sottoposto alla Corte indica che quest’ultimo
procedimento sia meno pregiudizievole ai diritti riconosciuti dagli articoli 7 e 8 della Carta
rispetto al rilevamento delle impronte digitali. Inoltre, la Corte constata, per quanto riguarda
l’efficacia di questi due ultimi metodi, che è pacifico che il livello di maturità tecnologica di
quello basato sul riconoscimento dell’iride non raggiunge il livello di quello basato sulle
impronte digitali. Peraltro, il riconoscimento dell’iride è un procedimento notevolmente più
oneroso, al momento attuale, di quello del confronto delle impronte digitali e, per questo
motivo, meno idoneo ad un uso generalizzato. Pertanto, la Corte conclude sul punto,
affermando che non è stata portata a conoscenza della Corte l’esistenza di misure idonee a
contribuire, in modo sufficientemente efficace, all’obiettivo di preservare i passaporti da un
uso fraudolento, arrecando un pregiudizio minore ai diritti riconosciuti dagli articoli 7 e 8
della Carta rispetto al pregiudizio arrecato dal metodo basato sulle impronte digitali. Infine,
nell’opinione della Corte, le misure contestate non eccedono quanto necessario al
conseguimento del suddetto scopo.
Quanto al trattamento delle impronte digitali, la Corte rileva che queste svolgono un ruolo
specifico nel settore dell'identificazione delle persone in generale. Infatti, il confronto delle
impronte digitali rilevate in un luogo con quelle memorizzate in una banca dati consente di
dimostrare la presenza in tale luogo di una determinata persona, che ciò avvenga nell’ambito
di un'indagine penale oppure allo scopo di sorvegliare indirettamente tale persona.
La Corte tuttavia osserva che il regolamento precisa espressamente che le impronte digitali
possono essere utilizzate soltanto allo scopo di verificare l'autenticità del passaporto e
l’identità del suo titolare. Per di più, il regolamento prevede che le impronte digitali siano
conservate solamente all’interno del passaporto, il quale permane di esclusivo possesso del
suo titolare. Non prevedendo nessun’altra forma né strumento per conservare tali impronte, il
regolamento non può essere interpretato come idoneo a fornire, in quanto tale, un fondamento
giuridico ad una eventuale centralizzazione dei dati raccolti in base ad esso oppure all'impiego
di questi ultimi a fini diversi da quello di impedire l'ingresso illegale di persone nel territorio
dell'Unione.
In conclusione, la Corte di giustizia risponde alla questione sollevata dichiarando che non
sono emersi elementi atti ad inficiare la validità dell’articolo 1, paragrafo 2, del regolamento
n. 2252/2004.
2. Ravvicinamento delle legislazioni
- Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile
Corte di giustizia (Seconda sezione), 24 ottobre 2013, causa C-22/12, Katarína
Haasová c. Rastislav Petrík, Blanka Holingová
«Assicurazione
obbligatoria
della
responsabilità
civile
risultante
dalla
circolazione di autoveicoli – Direttiva 72/166/CEE – Articolo 3, paragrafo 1 –
Direttiva 90/232/CEE – Articolo 1 – Incidente stradale – Decesso di un
passeggero – Diritto al risarcimento del coniuge e del figlio minore di età –
Danno immateriale – Risarcimento – Copertura fornita dall’assicurazione
obbligatoria»
Nella procedura segnalata la Corte è stata chiamata a interpretare l’articolo 3, paragrafo 1,
della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile
risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assicurare tale
responsabilità (GU L 103, pag. 1) (la «prima direttiva»), e l’articolo 1, primo comma, della
terza direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1990, relativa al ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile
risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU L 129, pag. 33) ( la «terza direttiva»). La
domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la sig.ra Haasová,
che agisce in nome proprio e in nome di sua figlia minore di età, Kristína Haasová, nata il 22
aprile 1999, e, dall’altro, il sig. Petrík e la sig.ra Holingová, vertente sul risarcimento da parte
di questi ultimi, a titolo della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli,
del danno conseguente al decesso del sig. Haas, coniuge della sig.ra Haasová e padre di
Kristína Haasová, a causa di un incidente stradale avvenuto in territorio ceco.
Nella specie, l’automobile della sig.ra Holingová, immatricolata nella Repubblica slovacca, si
è scontrata con un automezzo pesante immatricolato nella Repubblica ceca. Il sig. Petrík,
riconosciuto responsabile di tale incidente, è stato condannato a risarcire il danno subito dalla
sig.ra Haasová, moglie della vittima. Tuttavia, la sig.ra Haasová e sua figlia rivendicano
altresì, presso la compagnia assicuratrice della sig.ra Holingová, il risarcimento del danno
morale risultante dalla perdita del rispettivo coniuge e padre.
Il giudice investito della controversia spiega che il diritto civile ceco, a suo parere applicabile
alla fattispecie, consente alla persona fisica di chiedere un risarcimento per il danno morale
risultante da una lesione dell’integrità personale. Tuttavia, poiché la copertura garantita
dall’assicurazione obbligatoria per gli autoveicoli non si estende, secondo la normativa
slovacca sull’assicurazione obbligatoria, al danno morale, la compagnia assicuratrice della
sig.ra Holingová rifiuta un risarcimento siffatto.
Il Krajský súd v Prešove (giudice regionale di Prešov), chiede allora alla Corte di giustizia se
l’assicurazione obbligatoria per gli autoveicoli debba garantire il risarcimento dei danni
immateriali sofferti dai congiunti delle vittime, decedute, di un incidente stradale.
Nella sua sentenza la Corte ricorda, anzitutto, che l’obbligo di copertura, mediante
assicurazione della responsabilità civile, dei danni causati dagli autoveicoli si distingue dalla
questione dell’entità del risarcimento degli stessi a titolo di responsabilità civile
dell’assicurato. Infatti, mentre il primo è definito e garantito dalla normativa dell’Unione, la
seconda è sostanzialmente disciplinata dal diritto nazionale.
Di conseguenza, gli Stati membri restano in linea di principio liberi di determinare,
nell’ambito dei loro rispettivi regimi di responsabilità civile, quali danni causati dai veicoli
devono essere risarciti, l’entità del risarcimento e le persone aventi diritto. Tuttavia, la Corte
sottolinea che al fine di ridurre le disparità tra le legislazioni degli Stati membri circa la
portata dell’obbligo di assicurazione, l’Unione ha imposto la copertura obbligatoria dei danni
alle cose e dei danni alle persone, a concorrenza di importi stabiliti nella seconda direttiva. Gli
Stati membri sono quindi tenuti a determinare i danni coperti e le modalità dell’assicurazione
obbligatoria per gli autoveicoli tenendo conto delle norme del diritto dell’Unione.
La Corte precisa, successivamente, che i danni alla persona, la cui copertura è obbligatoria in
forza della seconda direttiva, comprendono ogni danno arrecato all’integrità della
persona, incluse le sofferenze sia fisiche sia psicologiche. Di conseguenza, tra i danni che
devono essere risarciti conformemente al diritto dell’Unione figurano i danni
immateriali il cui risarcimento è previsto a titolo della responsabilità civile
dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile alla controversia.
La Corte rileva infine che la tutela garantita dalla prima direttiva è estesa a chiunque abbia
diritto, in base alla normativa nazionale sulla responsabilità civile, al risarcimento del
danno causato da autoveicoli. Poichè la normativa ceca, secondo le indicazioni fornite
dal giudice slovacco, riconosce alla sig.ra Haasová e a sua figlia il diritto al risarcimento
del danno immateriale subito a causa del decesso del loro rispettivo coniuge e padre, esse
dovrebbero poter beneficiare della tutela garantita da tale direttiva.
Corte di giustizia (Seconda sezione), 24 ottobre 2013, causa C-227/12, Vitālijs
Drozdovs c. Baltikums AAS,
«Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di
autoveicoli – Direttiva 72/166/CEE – Articolo 3, paragrafo 1 – Direttiva 90/232/CEE –
Articolo 1 – Incidente stradale – Decesso dei genitori del richiedente minorenne –
Diritto del figlio al risarcimento – Danno immateriale – Risarcimento – Copertura da
parte dell’assicurazione obbligatoria»
Anche in questa seconda procedura la Corte è stata chiamata a interpretare l’articolo 3,
paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della
responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di
assicurare tale responsabilità (GU L 103, pag. 1: la «prima direttiva»), nonché l’articolo 1,
paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983,
concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione
della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU 1984, L 8, pag. 17:
la «seconda direttiva»). La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il
sig. Drozdovs, rappresentato dalla sig.ra Balakireva, e la Baltikums AAS (la «Baltikums»),
società di assicurazioni, in merito al risarcimento da parte di quest’ultima, a titolo di
responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, dei danni morali subiti dal
sig. Drozdovs derivanti della morte dei suoi genitori in un incidente stradale. Nella specie, il
14 febbraio 2006 i genitori del sig. Drozdovs sono deceduti in un incidente stradale avvenuto
a Riga. Il sig. Drozdovs, che aveva dieci anni di età, è stato posto sotto la tutela di sua nonna.
Successivamente la tutrice ha invitato la compagnia assicuratrice del responsabile
dell’incidente a corrispondere un indennizzo di importo pari a LVL 200 000 (circa EUR 284
820) per il danno morale subito dal sig. Drozdovs a causa della perdita dei genitori.
In Lettonia, la compagnia assicuratrice del responsabile dell’incidente stradale può essere
chiamata a risarcire il danno morale per dolori e patimenti psicologici conseguenti al decesso
di una persona da cui si dipende economicamente, di una persona a carico o del coniuge.
Tuttavia, l’ammontare di tale risarcimento è limitato a LVL 100 (circa EUR 142) per ciascun
richiedente e per persona deceduta.
L’Augstākās tiesas Senāts (Senato della Corte suprema), investito della controversia tra il sig.
Drozdovs e la compagnia assicuratrice, ha, da un lato, sottoposto alla Corte la stessa questione
sollevata dal giudice slovacco nella causa Haasová e, dall’altro, ha chiesto se la limitazione
dell’importo massimo del risarcimento del danno morale subito a causa di un incidente
stradale, stabilita dal diritto lettone, sia compatibile con il diritto dell’Unione.
Come nella sentenza nella causa Haasová, la Corte rileva che se la normativa nazionale
consente ai familiari della vittime di un incidente stradale di chiedere un indennizzo per il
danno morale subito, quest’ultimo dev’essere coperto dall’assicurazione obbligatoria per
gli autoveicoli. Orbene, poiché la normativa lettone, secondo le indicazioni del giudice del
rinvio, riconosce al sig. Drozdovs il diritto al risarcimento del danno immateriale subito a
causa del decesso dei suoi genitori, egli dovrebbe poter beneficiare della tutela accordata dalla
prima direttiva.
Inoltre, la Corte interpreta gli articoli 3, paragrafo 1, della prima direttiva e 1, paragrafi 1 e 2,
della seconda direttiva nel senso che essi ostano a disposizioni nazionali ai sensi delle quali
l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di
autoveicoli copre il risarcimento dei danni immateriali dovuto, secondo la normativa
nazionale sulla responsabilità civile, per il decesso di un prossimo congiunto in un
incidente stradale solo sino a concorrenza di un massimale inferiore agli importi fissati
all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva.
- Tutela del consumatore
Corte di giustizia (Prima sezione), 3 ottobre 2013, causa C-59/12, BKK Mobil Oil
Körperschaft des öffentlichen Rechts
«Direttiva
2005/29/CE —
Pratiche
commerciali
sleali —
Ambito
di
applicazione — Informazioni ingannevoli diffuse da una cassa malattia del
regime legale di previdenza sociale — Cassa malattia organizzata sotto forma di
organismo di diritto pubblico»
Nella procedura segnalata la Corte è stata chiamata a interpretare la direttiva 2005/29/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali
sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la
direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento
europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali») (GU L 149, pag. 22).
La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la BKK Mobil Oil
Körperschaft des öffentlichen Rechts (una cassa malattia del regime previdenziale legale
tedesco costituita in forma di organismo di diritto pubblico: la «BKK»), e la Zentrale zur
Bekämpfung unlauteren Wettbewerbs eV (associazione per la lotta contro la concorrenza
sleale: la «Wettbewerbszentrale») relativamente a talune informazioni diffuse dalla BKK tra i
propri iscritti.
Secondo il giudice della controversia (il Bundesgerichtshof, Corte federale di Cassazione),
l’informazione che la BKK aveva diffuso sul proprio sito Internet, nel 2008, secondo la quale
i suoi iscritti avrebbero rischiato svantaggi finanziari nell’ipotesi di cambiamento di cassa,
costituiva, come sostenuto dalla Wettbewerbszentrale, una pratica ingannevole ai sensi della
direttiva. Tale giudice si è chiesto, tuttavia, se la direttiva e, quindi, il divieto che essa
prevede, fosse applicabile alla BKK, in quanto organismo di diritto pubblico incaricato di una
missione di interesse generale.
Dopo aver più volte affermato che la direttiva sulle pratiche commerciali sleali, che vieta tali
pratiche nei confronti dei consumatori, è caratterizzata da una sfera di applicazione ratione
materiae particolarmente ampia (sentenza del 19 settembre 2013, CHS Tour Services, C-
435/11), la Corte di giustizia precisa per la prima volta che lo stesso vale quanto alla sfera di
applicazione ratione parsonae della direttiva stessa.
La Corte osserva al riguardo che gli iscritti alla BKK, che devono evidentemente essere
ritenuti consumatori ai sensi della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, rischiano di
essere indotti in errore dalle informazioni ingannevoli diffuse da tale organismo, che
impediscono loro di scegliere in modo consapevole (v. considerando 14 di tale direttiva) e li
inducono così ad assumere una decisione che non avrebbero preso in mancanza di tali
informazioni, come previsto all’articolo 6, paragrafo 1, della stessa direttiva. In tale contesto
sono irrilevanti sia la natura pubblica o privata dell’organismo in questione sia la specifica
missione da esso perseguita. Per tale ragione, la Corte riconosce ad un organismo quale la
BKK lo status di «professionista» ai sensi della suddetta direttiva. L’interpretazione suesposta
è infatti l’unica tale da garantire la piena efficacia della direttiva sulle pratiche commerciali
sleali, assicurando che, conformemente all’esigenza di un elevato livello di protezione dei
consumatori, le pratiche commerciali sleali siano contrastate in modo efficace. Secondo la
Corte, infatti, un’interpretazione siffatta è altresì in armonia con la portata particolarmente
ampia che è già stata riconosciuta alla medesima direttiva quanto al suo ambito di
applicazione ratione materiae (v., in tal senso, sentenza del 9 novembre 2010, Mediaprint
Zeitungs- und Zeitschriftenverlag, C-540/08, Racc. pag. I-10909, punto 21).
In conclusione la Corte dichiara che la direttiva sulle pratiche commerciali sleali deve essere
interpretata nel senso che rientra nel suo ambito di applicazione ratione personae un
organismo di diritto pubblico incaricato di una missione di interesse generale, quale la
gestione di un regime legale di assicurazione malattia.
Corte di giustizia (Prima sezione), 3 ottobre 2013, causa C-32/12, Soledad Duarte Hueros
«Direttiva 1999/44/CE — Diritti del consumatore in caso di difetto di conformità del bene —
Carattere minore di tale difetto — Esclusione della risoluzione del contratto — Competenze
del giudice nazionale»
Nella procedura segnalata la Corte è stata chiamata a interpretare la direttiva 1999/44/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 maggio 1999, su taluni aspetti della vendita e
delle garanzie dei beni di consumo (GU L 171, pag. 12). La domanda è stata presentata nel
contesto di una controversia tra, da un lato, la sig.ra Duarte Hueros e, dall’altro, l’Autociba
SA (l’«Autociba») e l’Automóviles Citroën España SA, in merito alla sua domanda di
risoluzione del contratto di vendita di un veicolo per un suo difetto di conformità a tale
contratto.
Nel luglio 2004 la sig.ra Duarte Hueros ha acquistato presso l’Autociba un’autovettura dotata
di tettuccio apribile, per un importo pari a EUR 14 320. Avendo constatato che si verificavano
infiltrazioni di acqua dal tettuccio in caso di pioggia, essa ha riportato l'autovettura
all’Autociba. Poiché i numerosi tentativi di riparazione non avevano sortito esito positivo, la
sig.ra Duarte Hueros ha chiesto la sostituzione dell’autovettura. In seguito al rifiuto opposto a
tale richiesta, essa ha adito il Juzgado de Primera Instancia de Badajoz (giudice monocratico
di primo grado di Badajoz) onde ottenere la risoluzione del contratto di vendita nonché la
condanna in solido dell’Autociba e della Citroën España SA quest’ultima in qualità di a ri
ante dell’autovettura al rimborso del prezzo di acquisto.
Il giudice spagnolo rileva che, dato che il difetto dell'autovettura presenta carattere minore, la
risoluzione del contratto di vendita non può essere disposta. Sebbene alla sig.ra Duarte Hueros
spetti il diritto ad una riduzione del prezzo di vendita, una soluzione del genere non è
ammissibile a causa delle norme processuali spagnole, poiché essa non aveva formulato
questa domanda nel suo ricorso. Il giudice, infatti, non può statuire d'ufficio su domande che
non gli sono state rivolte («principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato»).
Peraltro, non sarebbe ammissibile alcuna domanda giudiziale a questo riguardo in occasione
di una controversia successiva, giacché nel diritto spagnolo il principio del giudicato si
estende a tutte le pretese che avrebbero già potuto essere formulate in un procedimento
precedente.
In questo contesto, il giudice spagnolo chiede alla Corte di giustizia se la normativa
processuale spagnola sia compatibile con la direttiva sulla vendita e sulle garanzie dei beni di
consumo.
Nella sua sentenza la Corte ricorda, in via preliminare, che la finalità della direttiva è di
garantire un livello elevato di protezione dei consumatori. Orbene, la direttiva si limita ad
obbligare gli Stati membri ad adottare le misure necessarie affinché il consumatore possa
effettivamente esercitare i suoi diritti, senza tuttavia contenere indicazioni circa i meccanismi
per far valere in giudizio tali diritti, meccanismi che rientrano nell'ordinamento giuridico
interno degli Stati. Tuttavia, tali modalità processuali non devono essere strutturate in
modo da rendere in pratica impossibile eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti
conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione («principio di effettività»). A questo
proposito, la Corte dichiara che, nel sistema processuale spagnolo, un consumatore che chiede
in giudizio unicamente la risoluzione del contratto di vendita di un bene è definitivamente
privato della possibilità di usufruire del diritto di ottenere la congrua riduzione del prezzo se il
giudice nazionale adito considera che, in realtà, il difetto di conformità di tale bene presenta
un carattere minore. L'unica eccezione a questo esito si verifica qualora il consumatore abbia
presentato, in subordine, una domanda giudiziale volta ad ottenere tale riduzione. Siffatta
ipotesi, tuttavia, deve essere considerata alquanto improbabile. Sussiste infatti un rischio non
trascurabile che il consumatore non proponga in subordine una domanda di riduzione del
prezzo la quale, del resto, perseguirebbe una tutela inferiore a quella cui mira la domanda di
risoluzione del contratto vuoi a causa dell’obbligo particolarmente rigido di concomitanza di
entrambe le domande, vuoi perché ignora o non comprende la portata dei suoi diritti.
La Corte considera che un regime processuale di questo genere è tale da arrecare
pregiudizio all’effettività della tutela dei consumatori voluta dal legislatore dell’Unione,
giacché non consente al giudice nazionale di riconoscere d’ufficio il diritto del consumatore
ad ottenere una congrua riduzione del prezzo di vendita del bene, quanto peraltro tale
consumatore non è autorizzato né a precisare la sua domanda iniziale né a proporre un nuovo
ricorso a questo fine. Il sistema spagnolo, in effetti, obbliga in sostanza il consumatore ad
anticipare la qualificazione giuridica del difetto di conformità del bene, operazione, questa,
che deve essere eseguita in via definitiva dal giudice competente. Orbene, questa circostanza
conferisce una natura puramente aleatoria, e di riflesso inadeguata, alla tutela concessa dalla
direttiva. Tale conclusione vale a maggior ragione quando l’analisi si rivela particolarmente
complessa, sicché detta qualificazione dipende eminentemente dall’istruzione condotta dal
giudice investito della controversia.
Pertanto, la Corte statuisce che la normativa processuale spagnola non risulta conforme al
principio di effettività, giacché rende eccessivamente difficile, se non perfino impossibile,
attuare la tutela che la direttiva intende conferire ai consumatori nel contesto delle azioni in
giudizio da essi promosse per difetto di conformità del bene consegnato al contratto di
vendita.
La Corte precisa che è compito del giudice spagnolo adoperarsi al meglio nei limiti della sua
competenza, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i
metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia
della direttiva e di pervenire ad una soluzione conforme alla sua finalità di assicurare un
elevato livello di tutela dei consumatori.
In conclusione, la Corte interpreta la direttiva 1999/44 nel senso che essa osta ad una
normativa di uno Stato membro che, come quella oggetto del procedimento principale,
quando un consumatore che ha diritto ad una congrua riduzione del prezzo di un bene
fissato dal contratto di vendita chiede in giudizio solamente la risoluzione di tale
contratto, ma questa non può essere ottenuta a causa del carattere minore del difetto di
conformità di tale bene, non consente al giudice nazionale adito di riconoscere d’ufficio
una siffatta riduzione, e ciò sebbene detto consumatore non sia autorizzato né a
precisare la sua domanda iniziale né a proporre un nuovo ricorso a questo fine.
Corte di giustizia (Terza sezione), 17 ottobre 2013, causa C-391/12, RLvS
Verlagsgesellschaft mbH
«Direttiva 2005/29/CE — Pratiche commerciali sleali — Ambito di applicazione
ratione personae — Omissioni ingannevoli negli advertorial ovvero pubblicità
redazionali — Normativa di uno Stato membro che vieta ogni pubblicazione a
titolo oneroso priva della dicitura “annuncio” (“Anzeige”) — Armonizzazione
completa — Misure più restrittive — Libertà di stampa»
Nella procedura segnalata la Corte è stata chiamata a interpretare l’articolo 7 della direttiva
2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle
pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e
che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e
2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del
Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali») (GU L 149,
pag. 22), nonché il punto 11 dell’allegato I della medesima. La domanda è stata presentata
nell’ambito di una controversia che contrappone la RLvS Verlagsgesellschaft mbH (la
«RLvS») alla Stuttgarter Wochenblatt GmbH (la «Stuttgarter Wochenblatt») in merito alla
possibilità di vietare alla RLvS di inserire o di far inserire a pagamento, in un giornale,
pubblicazioni non contraddistinte dall’uso del termine «annuncio» («Anzeige»).
In particolare, lo Stuttgarter Wochenblatt intende far vietare a GOOD NEWS la pubblicazione
di articoli sponsorizzati nei quali non figura la dicitura «annuncio» («Anzeige»). Lo
Stuttgarter Wochenblatt reagisce in tal modo alla pubblicazione nel numero di giugno 2009 di
GOOD NEWS di due articoli sponsorizzati. Il primo, intitolato «VfB VIP-Geflüster»
(«Gossip sui VIP presenti al VfB»), un reportage concernente le personalità presenti alla
partita di chiusura della stagione calcistica del club VfB Stuttgart, nel contesto del campionato
federale di calcio tedesco, era sponsorizzato dall’impresa «Scharr». Il secondo, intitolato
«Heute: Leipzig» («Oggi: Lipsia»), che faceva parte della serie di articoli intitolata «Wohin
Stuttgarter verreisen» («Mete di viaggio degli abitanti di Stoccarda») e consisteva in un breve
ritratto della città di Lipsia, era sponsorizzato dalla Germanwings. Tali articoli presentavano,
entrambi, la dicitura «Sponsored by» («sponsorizzato da»), ma non la dicitura «Anzeige», che
tuttavia è imposta dalla legge regionale sulla stampa.
Il giudice del rinvio, il Bundesgerichtshof (Corte federale di cassazione), si rivolge alla Corte
per domandare se tale divieto sia compatibile con la direttiva sulle pratiche commerciali
sleali.
La Corte di giustizia dichiara che la direttiva sulle pratiche commerciali sleali, in tali
circostanze, non è intesa a tutelare il concorrente di un editore che ha pubblicato articoli
sponsorizzati tali da promuovere i prodotti o i servizi dello sponsor privi della dicitura
«annuncio». Tale direttiva, pertanto, non osta all’applicazione di una disposizione nazionale
ai sensi della quale gli editori sono tenuti ad apporre una dicitura specifica, nella specie il
termine «annuncio» («Anzeige»), su ogni pubblicazione nei loro periodici per la quale essi
percepiscano un corrispettivo, a meno che la collocazione o la struttura della pubblicazione
non consentano, in linea generale, di riconoscerne il carattere pubblicitario.
Certo, la direttiva sulle pratiche commerciali sleali impone alle imprese inserzioniste
l’obbligo di indicare chiaramente di aver finanziato un contenuto redazionale nei media ove
tale contenuto sia inteso alla promozione di loro prodotti o servizi. In assenza di una siffatta
indicazione chiara, si è in presenza di una pratica commerciale sleale, e pertanto vietata, da
parte dello sponsor.
Orbene, in linea di principio, tale divieto non si applica all’editore che pubblica l’articolo
sponsorizzato. Solo quando ha agito in nome e/o per conto dello sponsor, il che non si verifica
nella specie, l’editore è anch’esso soggetto all’obbligo previsto dalla direttiva. Questo non
impedisce, tuttavia, che il divieto di pratiche commerciali sleali possa essere direttamente
applicabile a un editore qualora promuova il proprio prodotto, vale a dire il giornale, ad
esempio offrendo giochi, enigmistica o concorsi a premi.
Il legislatore dell’Unione europea, pur avendo già previsto, nel contesto di un’altra direttiva,
gli obblighi dei fornitori di media audiovisivi ove i loro servizi o programmi siano
sponsorizzati da imprese terze, non ha ancora adottato una normativa di tale natura con
riguardo alla stampa. Pertanto, gli Stati membri mantengono la loro competenza quanto
all’imposizione agli editori di obblighi intesi alla segnalazione ai lettori dell’esistenza di
sponsorizzazioni di contenuti redazionali, pur nel rispetto delle disposizioni del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea, segnatamente di quelle relative alla libera prestazione di
servizi e alla libertà di stabilimento.
In conclusione, la Corte dichiara che, in circostanze come quelle oggetto del procedimento
principale, la direttiva 2005/29 non può essere invocata nei confronti degli editori, di modo
che, in tali circostanze, la direttiva stessa va interpretata nel senso che non osta
all’applicazione di una disposizione nazionale a termini della quale tali editori sono
tenuti ad apporre una dicitura specifica, nella specie il termine «annuncio» («Anzeige»),
sulle pubblicazioni nei loro periodici per le quali essi percepiscono un corrispettivo, a
meno che la collocazione o la struttura della pubblicazione non consenta, in linea
generale, di riconoscerne il carattere pubblicitario.
3. Libertà di stabilimento/libera prestazione dei servizi
Corte di giustizia (Quinta sezione), 24 ottobre 2013, causa C-85/12, LBI hf
«Rinvio pregiudiziale – Risanamento e liquidazione degli enti creditizi – Direttiva
2001/24/CE – Articoli 3, 9 e 32 – Atto del legislatore nazionale che conferisce ai
provvedimenti di risanamento gli effetti di una procedura di liquidazione –
Disposizione legislativa che vieta o sospende qualsiasi azione giudiziaria nei
confronti di un ente creditizio dopo l’entrata in vigore di una moratoria»
Nella procedura segnalata la Corte è stata chiamata a interpretare la direttiva 2001/24/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 aprile 2001, in materia di risanamento e
liquidazione degli enti creditizi (GU L 125, pag. 15).
La domanda è stata presentata
nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la LBI hf, già Landsbanki Islands hf (la
«LBI»), ente creditizio islandese, e, dall’altro, la Kepler Capital Markets SA ed il sig. Giraux,
in merito a due sequestri conservativi operati in Francia da quest’ultimo nei confronti della
LBI, sebbene essa beneficiasse di una moratoria sui pagamenti in Islanda.
A seguito della crisi finanziaria internazionale del 2008, il legislatore islandese ha adottato
una serie di provvedimenti di risanamento di vari istituti finanziari stabiliti in tale paese. In
particolare, una legge del 13 novembre 2008, da un lato, ha vietato le azioni giudiziarie contro
gli istituti finanziari soggetti a moratoria sui pagamenti e, dall’altro, ha ordinato la
sospensione delle azioni giudiziarie pendenti. Con legge del 15 aprile 2009, il legislatore
islandese ha adottato, nei confronti degli istituti finanziari soggetti a moratoria, disposizioni
transitorie volte ad applicare alla loro situazione un regime speciale di liquidazione, senza che
detti istituti fossero effettivamente posti in liquidazione prima della scadenza della moratoria.
La LBI hf (già Landsbanki Islands hf) è un ente creditizio islandese al quale il Tribunale
distrettuale di Reykjavik aveva concesso una moratoria sui pagamenti in data 5 dicembre
2008. Poco tempo prima, il 10 novembre 2008, la LBI era stata oggetto di due sequestri
conservativi compiuti in Francia su domanda di un creditore residente in tale Stato membro.
La LBI si è opposta a tali sequestri dinanzi ai tribunali francesi, sostenendo che la direttiva
rendeva i provvedimenti di risanamento adottati in Islanda direttamente opponibili al suo
creditore francese. Peraltro, il Tribunale distrettuale di Reykjavik ha disposto, il 22 novembre
2010, l’avvio di una procedura di liquidazione nei confronti della LBI.
In tale contesto, la Cour de cassation, giudice di ultima istanza della controversia, ha
domandato alla Corte di giustizia se anche i provvedimenti di risanamento o di liquidazione
risultanti dalle disposizioni transitorie della legge del 15 aprile 2009 siano coperti dalla
direttiva, la quale mira al reciproco riconoscimento dei provvedimenti di risanamento e delle
procedure di liquidazione adottati dalle autorità amministrative e giudiziarie. Inoltre, il
giudice francese vuole sapere se la direttiva osti all’applicazione retroattiva degli effetti di una
moratoria a provvedimenti conservativi adottati in un altro Stato membro prima
dell’emanazione della moratoria medesima.
Nella sua sentenza, la Corte ricorda, anzitutto, che le autorità amministrative e giudiziarie
dello Stato membro d’origine sono le sole competenti a decidere sull’applicazione di
provvedimenti di risanamento ad un ente creditizio nonché sull’apertura di una
procedura di liquidazione nei suoi confronti. Pertanto, solo i provvedimenti adottati da
dette autorità sono oggetto, ai sensi della direttiva, di riconoscimento negli altri Stati membri,
con gli effetti ad essi conferiti dalla legge dello Stato membro d’origine.
Per contro, la normativa dello Stato membro d’origine in materia di risanamento e
liquidazione degli enti creditizi può, in linea di principio, produrre effetti negli altri Stati
membri solo attraverso provvedimenti concreti presi dalle autorità amministrative e
giudiziarie del suddetto Stato membro nei confronti di un ente creditizio.
Per quanto riguarda le disposizioni transitorie della legge del 15 aprile 2009, la Corte precisa
che, adottando tali norme, il legislatore islandese non ha ordinato la liquidazione, in
quanto tale, degli enti creditizi soggetti a moratoria, ma ha attribuito determinati effetti,
connessi a una procedura di liquidazione, a moratorie vigenti ad una data precisa. Parimenti,
risulta da tali disposizioni transitorie che, in mancanza di una decisione giudiziaria che abbia
concesso o prorogato una moratoria in favore di un ente creditizio prima di tale data, esse non
possono produrre effetti. Pertanto, tali disposizioni producono i loro effetti non
direttamente, bensì per il tramite di un provvedimento di risanamento emesso da
un’autorità giudiziaria nei confronti di un determinato ente creditizio. Ne consegue che la
moratoria concessa alla LBI è idonea a produrre negli Stati membri dell’Unione, ai sensi della
direttiva, gli effetti che le attribuisce la normativa islandese.
Quanto alla necessità, o meno, che le disposizioni transitorie possano essere oggetto di ricorso
per poter produrre i loro effetti negli Stati membri dell’Unione, la Corte rammenta che la
direttiva predispone un sistema di reciproco riconoscimento dei provvedimenti nazionali di
risanamento e di liquidazione, senza puntare ad armonizzare le normative nazionali in
materia. Essa sottolinea che la direttiva non subordina il riconoscimento dei provvedimenti di
risanamento e di liquidazione alla condizione di una possibilità di ricorso contro i medesimi.
Allo stesso modo, il diritto di uno Stato membro non può subordinare tale riconoscimento ad
una condizione siffatta, eventualmente prevista dalla sua normativa nazionale.
In merito all’applicazione retroattiva degli effetti di una moratoria a provvedimenti
conservativi adottati in un altro Stato membro, la Corte rileva che gli effetti dei provvedimenti
di risanamento e delle procedure di liquidazione sono, in linea di principio, disciplinati dalla
legge dello Stato membro d’origine. Questa regola generale, tuttavia, non si applica alle
«cause pendenti», che sono soggette al diritto dello Stato membro nel quale la causa è
pendente. Con riferimento alla portata di tale eccezione, la Corte rileva che i termini «cause
pendenti» si riferiscono ai soli procedimenti di merito e che le misure di esecuzione
forzata individuali derivanti da tali cause restano soggette alla legge dello Stato membro
d’origine. A tale riguardo, la Corte rileva che i provvedimenti conservativi adottati in
Francia costituiscono misure di esecuzione forzata individuali e, pertanto, gli effetti su detti
provvedimenti conservativi della moratoria concessa alla LBI in Islanda sono disciplinati dal
diritto islandese.
La circostanza che i suddetti provvedimenti siano stati adottati prima che la moratoria in
questione fosse concessa alla LBI non può inficiare tale conclusione, poiché il diritto
islandese disciplina anche, ai sensi della direttiva, i suoi effetti temporali. Secondo la Corte,
la direttiva non osta a che un provvedimento di risanamento, quale la moratoria, sia corredato
di effetti retroattivi.
In conclusione, la Corte dichiara che
-gli articoli 3 e 9 della direttiva 2001/24 devono essere interpretati nel senso che
provvedimenti di risanamento o di liquidazione di un istituto finanziario, come quelli
basati sulle disposizioni transitorie di cui al punto II della legge n. 44/2009, sono da
considerarsi provvedimenti presi da un’autorità amministrativa o giudiziaria ai sensi di
tali articoli della direttiva 2001/24, dato che le suddette disposizioni transitorie producono
effetti solamente per il tramite di decisioni giudiziarie che concedono una moratoria a un ente
creditizio.
-l’articolo 32 della direttiva 2001/24 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a
che una disposizione nazionale, quale l’articolo 98 della legge n. 161/2002 relativa agli
istituti finanziari, come modificata dalla legge n. 129/2008, che vietava o sospendeva ogni
azione giudiziaria nei confronti di un istituto finanziario a partire dal momento in cui
quest’ultimo beneficiava di una moratoria, produca effetti su provvedimenti
conservativi, come quelli oggetto del procedimento principale, presi in un altro Stato membro
anteriormente all’emanazione della moratoria.
4. Libera circolazione dei capitali
Corte di giustizia (Grande sezione), 22 ottobre 2013, causa C-22/12,
Commissione europea c. Repubblica federale di Germania
«Inadempimento di uno Stato — Sentenza della Corte che dichiara un
inadempimento — Normativa nazionale che prevede una minoranza di blocco del
20% per l’adozione di talune decisioni da parte degli azionisti della Volkswagen
AG»
Nella procedura segnalata la Corte è stata investito del ricorso con il quale la Commissione
europea chiedeva di dichiarare l’inadempimento della Repubblica federale di Germania , in
forza dell’articolo 260, paragrafo 1, TFUE, per non aver adottato tutte le misure necessarie
per dare esecuzione alla sentenza del 23 ottobre 2007, Commissione/Germania (C-112/05,
Racc. pag. I-8995), relativa all’incompatibilità con il diritto dell’Unione di talune disposizioni
della legge relativa al trasferimento al settore privato delle quote della società a responsabilità
limitata Volkswagenwerk (Gesetz über die Überführung der Anteilsrechte an der
Volkswagenwerk Gesellschaft mit beschränkter Haftung in private Hand), del 21 luglio 1960
(BGBl. 1960 I, n. 39, pag. 585, e BGBl. 1960 III, pag. 641-1-1: la «legge VW») e quindi di
ordinare allo Stato di versare alla Commissione una penalità di mora e una somma forfettaria
(art.260, paragrafo 2, TFUE).
Nello specifico, il produttore di automobili tedesco Volkswagen è stato trasformato in società
per azioni nel 1960 con una legge federale, cd. «legge Volkswagen». Al momento
dell'adozione di detta legge, la Repubblica federale e il Land della Bassa Sassonia, detenendo
ciascuno il 20% del capitale, erano i due principali azionisti della Volkswagen. Mentre la
Repubblica federale non figura più, attualmente, tra gli azionisti, il Land della Bassa-Sassonia
conserva ancora una partecipazione del 20%.
Inizialmente, la legge Volkswagen ha autorizzato la Repubblica federale e il Land della
Bassa-Sassonia a designare ciascuno due membri del consiglio di sorveglianza, purché la
Repubblica federale e detto Land possedessero azioni della società (Articolo 4, paragrafo 1).
Inoltre, limitava i diritti di voto di ciascun azionista al numero di voti conferiti da una
partecipazione pari al 20% del capitale sociale (Articolo 2, paragrafo 1). Infine, prevedeva
una minoranza di blocco ridotta che consentiva a una minoranza pari, soltanto, al 20% del
capitale sociale di opporsi a rilevanti decisioni della società, mentre la legge tedesca sulle
società per azioni esige il 25% (Articolo 4, paragrafo 3).
La Commissione, ritenendo che tali tre disposizioni della legge Volkswagen fossero
incompatibili in particolare con la libera circolazione dei capitali, garantita dal diritto
dell'Unione, ha presentato un ricorso per inadempimento contro la Germania dinanzi alla
Corte di giustizia nel 2005.
La Corte, con sentenza emanata nel 2007, ha dichiarato che, mantenendo in vigore la
disposizione della legge Volkswagen relativa alla designazione, da parte della Repubblica
federale e del Land della Bassa-Sassonia, di membri del consiglio di sorveglianza, e la
disposizione sul limite massimo ai diritti di voto in combinato disposto con la disposizione
sulla minoranza di blocco ridotta, la Germania avesse violato la libera circolazione dei
capitali.
A seguito di tale sentenza, la Germania, mediante la legge di modifica della legge relativa al
trasferimento al settore privato delle quote della società a responsabilità limitata
Volkswagenwerk (Gesetz zur Änderung des Gesetzes über die Überführung der Anteilsrechte
an der Volkswagenwerk Gesellschaft mit beschränkter Haftung in private Hand), dell'8
dicembre 2008, ha abrogato le prime due disposizioni, ma ha mantenuto quella relativa alla
minoranza di blocco ridotta.
La Commissione ha ritenuto che dalla sentenza del 2007 discendesse che ciascuna di tali tre
disposizioni costituissero una violazione autonoma della libera circolazione dei capitali e che,
di conseguenza, anche quella sulla minoranza di blocco ridotta avrebbe dovuto essere
abrogata. Per questa ragione, essa ha nuovamente adito la Corte e ha chiesto l’irrogazione di
sanzioni pecuniarie alla Germania a motivo dell'incompleta esecuzione della sentenza del
2007.
Nel giudizio della Corte emerge sia dal dispositivo della sentenza del 2007 che contiene la
decisione della Corte sia dai motivi che la Corte non aveva rilevato un inadempimento
nella disposizione relativa alla minoranza di blocco ridotta, considerata isolatamente,
ma esclusivamente nel combinato disposto di tale disposizione con quella relativa al
limite massimo dei diritti di voto.
Pertanto, avendo abrogato, la disposizione della legge Volkswagen relativa alla designazione,
da parte della Repubblica federale e del Land della Bassa-Sassonia, di membri del consiglio di
sorveglianza e la disposizione sul limite massimo ai diritti di voto, ponendo fine in tal modo
al combinato disposto con quest'ultima disposizione della minoranza di blocco ridotta, la
Germania si è conformata, nei termini prescritti, agli obblighi risultanti dalla sentenza del
2007.
La Corte dichiara, inoltre, irricevibile la censura della Commissione secondo cui la Germania
avrebbe dovuto modificare anche lo statuto della Volkswagen che conterrebbe ancora una
clausola relativa alla minoranza di blocco ridotta, in sostanza, analoga a quella della legge
Volkswagen. Infatti, la sentenza del 2007 verteva esclusivamente sulla compatibilità con il
diritto dell’Unione di talune disposizioni della legge Volkswagen e non già sullo statuto di
detta società.
In conclusione la Corte respinge il ricorso della Commissione.
Corte di giustizia (Grande sezione), 22 ottobre 2013, cause riunite da C-105/12
a C-107/12, Staat der Nederlanden c. Essent NV (C-105/12), Essent
Nederland BV (C-105/12), Eneco Holding NV (C-106/12), Delta NV (C107/12)
«Rinvio pregiudiziale – Libera circolazione dei capitali – Articolo 63 TFUE –
Regimi di proprietà – Articolo 345 TFUE – Gestori dei sistemi di distribuzione di
energia elettrica o di gas – Divieto di privatizzazione – Divieto di legami con
imprese che producono, forniscono o commercializzano l’energia elettrica o il
gas – Divieto di attività che possano pregiudicare la gestione della rete»
Nella procedura segnalata la Corte è stata chiamata a interpretare gli articoli 63 TFUE e
345 TFUE.
La domanda è stata presentata nell’ambito di controversie tra lo Staat der
Nederlanden e la Essent NV, la Essent Nederland BV, la Eneco Holding NV e la Delta NV,
società
operanti,
segnatamente,
nella
produzione,
nella
fornitura
nonché
nella
commercializzazione di energia elettrica e di gas sul territorio olandese (congiuntamente:
«Essent e a.»), riguardo alla compatibilità con il diritto dell’Unione di una legislazione
nazionale che vieta, in primo luogo, la vendita di azioni detenute in gestori di sistemi di
distribuzione di energia elettrica e di gas attivi sul territorio olandese ad investitori privati (il
«divieto di privatizzazione»), in secondo luogo, legami di proprietà o di controllo tra, da un
lato, società appartenenti ad un gruppo cui appartiene un gestore di sistemi di distribuzione
siffatti e, dall’altro, società appartenenti ad un gruppo cui appartiene un’impresa che produce,
fornisce o commercializza energia elettrica o gas sul territorio olandese (il «divieto di
gruppo») e, in terzo luogo, il compimento da parte di un gestore siffatto, e del gruppo cui
quest’ultimo appartiene, di operazioni o attività che potrebbero pregiudicare l’interesse della
gestione della rete interessata (il «divieto di attività che possono pregiudicare la gestione della
rete»).
All’atto dell’adozione di tale legislazione, la Essent, la Eneco e la Delta erano imprese
integrate verticalmente, attive sia nella produzione, fornitura e/o commercializzazione di
energia elettrica e/o gas sul territorio olandese sia nella gestione e utilizzo di sistemi di
distribuzione di energia elettrica o di gas sullo stesso territorio.
In seguito all’adozione della legislazione nazionale che introduce i divieti di privatizzazione,
di gruppo e di attività che potrebbero pregiudicare l’interesse della gestione della rete, la
Essent NV è stata scissa, il 1° luglio 2009, in due società distinte: da un lato, la Enexis
Holding NV (il cui oggetto sociale consiste nella gestione di un sistema di distribuzione di gas
e di energia elettrica sul territorio olandese ed il cui intero pacchetto azionario è detenuto da
alcune autorità) e, dall’altro, la Essent NV (il cui oggetto sociale consiste nella produzione,
fornitura e commercializzazione dell’energia elettrica e del gas). Quest’ultima società è stata
successivamente acquisita dalla controllata di un gruppo tedesco specializzato nel settore
dell’energia, la RWE AG. La Eneco Holding NV e la Delta NV non sono state scisse, ma
hanno designato le loro controllate Stedin Netbeheer BV e Delta Netwerkbedrijf BV quali
gestori rispettivi dei loro sistemi di distribuzione.
In tale contesto, la Essent, la Eneco e la Delta hanno adìto i giudici nazionali, sostenendo che
la legislazione nazionale era incompatibile con la libera circolazione dei capitali. Lo Hoge
Raad der Nederlanden (Corte di cassazione), investito in ultima istanza della controversia, ha
deciso di interrogare il giudice dell’Unione.
La Corte di giustizia rileva, innanzitutto, che il divieto di privatizzazione – il quale implica in
particolare che nessun investitore privato può acquisire azioni o partecipazioni nel capitale di
un gestore del sistema di distribuzione di energia elettrica e di gas attivo sul territorio
olandese – rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 345 TFUE, che sancisce il
principio di neutralità dei Trattati rispetto al regime di proprietà esistente negli Stati
membri e secondo il quale, segnatamente, gli Stati membri possono legittimamente
perseguire l’obiettivo che consiste nell’istituire o mantenere un regime di proprietà
pubblico per talune imprese.
L’articolo 345 TFUE non produce tuttavia l’effetto di sottrarre i regimi di proprietà esistenti
negli Stati membri alle norme fondamentali del Trattato FUE tra cui, in particolare quelle di
non discriminazione, di libertà di stabilimento e di libertà di circolazione dei capitali (v.,
in tal senso, sentenze del 6 novembre 1984, Fearon, 182/83, Racc. pag. 3677, punto 7; del
1° giugno 1999, Konle, C-302/97, Racc. pag. I-3099, punto 38; del 23 settembre 2003, Ospelt
e Schlössle Weissenberg, C-452/01, Racc. pag. I-9743, punto 24; dell’8 luglio 2010,
Commissione/Portogallo, C-171/08, Racc. pag. I-6817, punto 64; del 21 dicembre 2011,
Commissione/Polonia, C-271/09, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 44). Di
conseguenza, il divieto di privatizzazione ricade nell’ambito di applicazione dell’articolo
63 TFUE e dev’essere esaminato tenendo conto di tale disposizione, così come il divieto di
gruppo o, ancora, il divieto di attività che possono pregiudicare l’interesse della gestione della
rete.
A tal proposito, la Corte ricorda che, secondo costante giurisprudenza, l’articolo 63, paragrafo
1, TFUE vieta in maniera generale le restrizioni ai movimenti di capitali tra gli Stati membri
(sentenze del 28 settembre 2006, Commissione/Paesi Bassi, C-282/04 e C-283/04,
Racc. pag. I-9141, punto 18 e giurisprudenza ivi citata, nonché Commissione/Portogallo, cit.,
punto 48). La Corte ribadisce poi che una disposizione nazionale che impone restrizioni
quantitative o qualitative per quanto attiene agli investimenti effettuati in altri Stati membri
produce un effetto restrittivo nei riguardi delle società stabilite in altri Stati membri in quanto
una disposizione siffatta costituisce, nei loro confronti, un ostacolo alla raccolta di capitali,
considerato che l’acquisizione, segnatamente, di azioni risulta limitata (v., in tal senso,
sentenza Commissione/Polonia, cit., punti 51 e 52 nonché giurisprudenza ivi citata).
Riferendosi al caso di specie, la Corte osserva quindi che il divieto di privatizzazione implica
che nessun investitore privato può acquisire azioni o partecipazioni nel capitale di un gestore
del sistema di distribuzione di energia elettrica o di gas attivo sul territorio olandese. Dichiara
pertanto che, alla luce dei suoi effetti, il divieto di privatizzazione costituisce una restrizione
alla libera circolazione dei capitali. Per quanto riguarda i divieti di gruppo e di attività che
potrebbero pregiudicare l’interesse della gestione della rete, la Corte dichiara che essi
costituiscono del pari restrizioni alla libera circolazione dei capitali, che necessitano di
giustificazione.
A questo proposito, la Corte ribadisce che la libera circolazione dei capitali può essere
limitata da una normativa nazionale solamente laddove sia giustificata da uno dei motivi
indicati all’articolo 65 TFUE ovvero da motivi imperativi di interesse generale ai sensi
della giurisprudenza della Corte (v. sentenze del 14 febbraio 2008, Commissione/Spagna,
C-274/06, punto 35 e Commissione/Polonia, cit., punto 55). Inoltre, da una costante
giurisprudenza risulta che motivi di natura puramente economica non possono costituire
motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare una limitazione di una
libertà
fondamentale
garantita
dai
Trattati
(sentenze
del
16
gennaio
2003,
Commissione/Italia, C-388/01, Racc. pag. I-721, punto 22, e del 17 marzo 2005, Kranemann,
C-109/04, Racc. pag. I-2421, punto 34). La Corte ha tuttavia ammesso che una normativa
nazionale può costituire un ostacolo giustificato ad una libertà fondamentale qualora sia
dettata da motivi di ordine economico che perseguono un obiettivo d’interesse generale
(v., in tal senso, sentenza dell’11 settembre 2008, Commissione/Germania, C-141/07,
Racc. pag. I-6935, punto 60 e giurisprudenza ivi citata). In tal modo, per quanto riguarda il
divieto di privatizzazione, che rientra nell’articolo 345 TFUE, vero è che è stato
dichiarato che tale disposizione non può giustificare una restrizione alle norme relative
alla
libera
circolazione
dei
capitali
(v.
sentenze
citate
dell’8
luglio
2010,
Commissione/Portogallo, punto 64 e giurisprudenza ivi citata nonché Commissione/Polonia,
punto 44). Tuttavia ciò non significa che l’interesse sotteso alla scelta del legislatore rispetto
al regime di proprietà pubblica o privata del gestore del sistema di distribuzione di energia
elettrica o di gas non possa essere preso in considerazione quale motivo imperativo di
interesse generale. A tal proposito la Corte rileva che le fattispecie, da un lato, dei
procedimenti principali e, dall’altro, delle cause che hanno dato luogo a tali sentenze non sono
comparabili. Infatti, nei procedimenti principali, si tratta di un divieto assoluto di
privatizzazione, mentre la causa che ha dato luogo alla citata sentenza dell’8 luglio 2010,
Commissione/Portogallo, riguardava restrizioni risultanti dai privilegi di cui gli Stati membri
godevano nella loro posizione di azionisti in un’impresa privatizzata e la causa che ha dato
luogo alla citata sentenza Commissione/Polonia riguardava restrizioni agli investimenti
all’estero di fondi pensionistici aperti che, tuttavia, non incidevano in alcun modo sul
regime di proprietà di tali fondi. Pertanto, le ragioni sottese alla scelta del sistema di
proprietà operata dalla legislazione nazionale, che si colloca nell’ambito di applicazione
dell’articolo 345 TFUE, costituiscono fattori che possono essere presi in considerazione quali
elementi che possono giustificare restrizioni alla libera circolazione dei capitali. La Corte
affida al giudice del rinvio il compito di procedere ad un esame siffatto.
Per quanto riguarda gli altri divieti, la Corte fa riferimento, da un lato, agli obiettivi che
consistono nel precludere le sovvenzioni incrociate in senso ampio, compreso lo scambio di
informazioni strategiche, nel garantire la trasparenza sui mercati dell’energia elettrica e del
gas e nel prevenire le distorsioni della concorrenza mirano a garantire una concorrenza non
falsata sui mercati della produzione, della fornitura e della commercializzazione dell’energia
elettrica e del gas sul territorio olandese e, dall’altro, all’obiettivo che consiste nel precludere
le sovvenzioni incrociate intende inoltre garantire un investimento sufficiente nei sistemi di
distribuzione di energia elettrica e di gas. Orbene, la Corte sottolinea che l’obiettivo di una
concorrenza non falsata su detti mercati è del pari perseguito dal Trattato FUE, il cui
preambolo sottolinea la necessità di un’azione concertata intesa a garantire, in
particolare, la lealtà nella concorrenza, il che mira, in definitiva, a tutelare i
consumatori. Secondo giurisprudenza costante della Corte, la tutela dei consumatori
costituisce un motivo imperativo di interesse generale (sentenze del 13 settembre 2007,
Commissione/Italia, C-260/04, Racc. pag. I-7083, punto 27; del 29 novembre 2007,
Commissione/Austria, C-393/05, Racc. pag. I-10195, punto 52, e del 18 novembre 2010,
Commissione/Portogallo, C-458/08, Racc. pag. I-11599, punto 89). Inoltre, la Corte rileva che
l’obiettivo di garantire un investimento sufficiente nelle reti di distribuzione di energia
elettrica e di gas mira ad assicurare, in particolare, la sicurezza degli approvvigionamenti di
energia, obiettivo che essa ha parimenti riconosciuto come motivo imperativo d’interesse
generale. Infine, i divieti di gruppo e di attività che possono pregiudicare la gestione della
rete sono stati introdotti dalla legge olandese che, a sua volta, ha in particolare modificato le
disposizioni nazionali adottate per trasporre le direttive del 2003. Sebbene tali divieti non
siano imposti da dette direttive, il Regno dei Paesi Bassi, attraverso l’introduzione di tali
misure, ha perseguito obiettivi previsti da queste direttive. Pertanto, gli obiettivi invocati dal
giudice del rinvio possono, in linea di principio, quali motivi imperativi di interesse generale,
giustificare le constatate restrizioni alle libertà fondamentali. La Corte ricorda tuttavia che le
restrizioni in parola devono essere idonee a garantire la realizzazione degli obiettivi
perseguiti e non possono eccedere quanto necessario per raggiungerli, circostanza che il
giudice del rinvio dovrà accertare.
In conclusione, la Corte dichiara, per quanto riguarda il regime di divieto di
privatizzazione, oggetto del procedimento principale che ricade nell’ambito di applicazione
dell’articolo 345 TFUE, che gli obiettivi sottesi alla scelta del legislatore rispetto al regime
di proprietà adottato possono essere presi in considerazione quali motivi imperativi di
interesse generale per giustificare la restrizione alla libera circolazione dei capitali e per
quanto riguarda gli altri divieti, gli obiettivi di lotta alle sovvenzioni incrociate in senso
ampio, compreso lo scambio di informazioni strategiche, di garantire la trasparenza sui
mercati dell’energia elettrica e del gas o di prevenire distorsioni della concorrenza possono, a
titolo di motivi imperativi di interesse generale, giustificare le restrizioni alla libera
circolazione dei capitali causate da disposizioni nazionali come quelle oggetto del
procedimento principale.
Corte di giustizia (Terza sezione), 17 ottobre 2013, causa C-218/12, Lokman
Emrek
«Regolamento (CE) n. 44/2001 — Articolo 15, paragrafo 1, lettera c) —
Competenza in materia di contratti conclusi dai consumatori — Eventuale
limitazione di tale competenza ai contratti conclusi a distanza — Nesso di
causalità tra l’attività commerciale o professionale diretta verso lo Stato membro
di domicilio del consumatore via Internet e la conclusione del contratto»
Nella procedura segnalata la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull’interpretazione
dell’articolo 15, paragrafo 1, lettera c), del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22
dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione
delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 2001, L 12, pag. 1). La domanda è stata
presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. Emrek e il sig. Sabranovic avente ad
oggetto un’azione in materia di garanzia a seguito della conclusione di un contratto di
compravendita di un autoveicolo usato.
Nella specie, il sig. Sabranovic commercializza a Spicheren, località situata in Francia in
prossimità del confine tedesco, vetture usate. Egli disponeva di un sito Internet sul quale
erano indicati i numeri di telefono francesi e un numero di telefono cellulare tedesco,
accompagnati dai rispettivi prefissi internazionali. Il sig. Emrek, residente a Saarbrücken
apprendeva tramite conoscenti (e non attraverso il sito Internet) dell’esistenza dell’impresa del
sig. Sabranovic, vi si recava e acquistava un veicolo usato. Successivamente, il sig. Emrek
conveniva in giudizio il sig. Sabranovic con azione in garanzia dinanzi all’Amtsgericht
(Pretura di) Saarbrücken. Egli riteneva che, ai sensi del regolamento n. 44/2001, tale giudice
fosse competente a conoscere dell’azione. Infatti, dal contenuto del sito Internet del sig.
Sabranovic risulterebbe che l’attività commerciale di quest’ultimo è parimenti diretta verso la
Germania. Orbene, l’Amtsgericht, non essendo dello stesso avviso, dichiarava il ricorso
irricevibile.
Il Landgericht (tribunale regionale di) Saarbrücken, dinanzi al quale il sig. Emrek ha proposto
appello, ritiene, invece, che l’attività del sig. Sabranovic fosse diretta verso la Germania. Si
chiede, tuttavia, se, nel caso di specie, debba sussistere un nesso di causalità tra il mezzo, vale
a dire il sito Internet, utilizzato per dirigere l’attività commerciale verso lo Stato membro del
domicilio del consumatore e la conclusione del contratto con il consumatore medesimo.
La Corte di giustizia rileva, anzitutto, che il tenore stesso del regolamento non richiede
espressamente la sussistenza di un nesso di causalità. La Corte ha già avuto modo di
dichiarare che il requisito essenziale per applicare la disposizione in questione è quello legato
all’attività commerciale o professionale diretta verso lo Stato del domicilio del consumatore,
requisito che il Landgericht considera soddisfatto.
In secondo luogo, la Corte ritiene che postulare l’ulteriore requisito del nesso di causalità, non
previsto dal regolamento, risulterebbe in conflitto con l’obiettivo perseguito da quest’ultimo,
ossia quello della tutela dei consumatori, considerati parti deboli dei contratti che concludono
con un professionista. Infatti, la necessità della previa consultazione di un sito Internet da
parte del consumatore potrebbe far sorgere problemi di prova, in particolare nel caso in cui il
contratto, come nella specie, non sia stato concluso a distanza attraverso il sito medesimo. Le
difficoltà legate alla prova dell’esistenza di un nesso di causalità potrebbero dissuadere i
consumatori dall’adire i giudici nazionali del loro domicilio e indebolirebbero la tutela dei
consumatori perseguita dal regolamento.
La Corte risponde, dunque, che il regolamento non postula la sussistenza di un nesso di
causalità tra il mezzo, vale a dire un sito Internet, utilizzato per dirigere l’attività
commerciale o professionale verso lo Stato membro del domicilio del consumatore, e la
conclusione del contratto con il consumatore medesimo. Tuttavia, tale nesso di causalità,
pur non costituendo un requisito, può nondimeno rappresentare un indizio che il giudice
nazionale può prendere in considerazione per determinare se l’attività sia effettivamente
diretta verso lo Stato membro di domicilio del consumatore.
La Corte rammenta di aver già individuato, nella sua precedente giurisprudenza, un elenco
non esaustivo di indizi che possono risultare d’ausilio per il giudice nazionale nella
valutazione della sussistenza del requisito essenziale relativo all’attività commerciale diretta
verso lo Stato membro di domicilio del consumatore. Rientrano fra tali indizi, in particolare,
«l’avvio di contatti a distanza» e «la conclusione a distanza di un contratto stipulato con un
consumatore», che sono idonei a dimostrare la riconducibilità del contratto ad un’attività
diretta verso lo Stato membro di domicilio del consumatore.
La Corte dichiara al riguardo che spetta giudice del rinvio effettuare una valutazione
complessiva delle circostanze in cui il contratto con il consumatore oggetto del
procedimento principale è stato stipulato, al fine di determinare se, sulla base
dell’esistenza o dell’assenza di elementi ricompresi, o meno, nell’elenco non esaustivo
compilato dalla Corte sia applicabile la competenza speciale a favore del consumatore.
In conclusione, la Corte interpreta l’articolo 15, paragrafo 1, lettera c), del regolamento
n. 44/2001 nel senso che non postula la sussistenza di un nesso di causalità tra il mezzo,
vale a dire un sito Internet, utilizzato per dirigere l’attività commerciale o professionale
verso lo Stato membro di domicilio del consumatore e la conclusione del contratto con il
consumatore medesimo. Tuttavia, la sussistenza di un simile nesso di causalità costituisce un
indizio di riconducibilità del contratto ad un’attività di tal genere.
5. Ambiente
Corte di giustizia (Quinta sezione), 17 ottobre 2013, causa C-533/11,
Commissione europea c. Regno del Belgio sostenuto dal Regno Unito
«Inadempimento di uno Stato — Direttiva 91/271/CEE — Trattamento delle
acque reflue urbane — Sentenza della Corte che dichiara un inadempimento —
Mancata esecuzione — Articolo 260 TFUE — Sanzioni pecuniarie — Imposizione
di una somma forfettaria e di una penalità»
Nella procedura segnalata la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato dalla
Commissione nei riguardi del Regno del Belgio per non avere adottato le misure richieste
dall’esecuzione della sentenza della Corte dell’8 luglio 2004, Commissione/Belgio (C-27/03).
Con questa sentenza, la Corte aveva dichiarato l’inadempimento del Belgio per aver violato
diverse disposizioni di tale direttiva sulla base del rilievo che 114 agglomerati della Regione
fiamminga, 60 agglomerati della Regione vallona e l’agglomerato di Bruxelles non si erano
conformati ai requisiti della direttiva.
Quando è stato introdotto il ricorso da parte della Commissione europea, l’infrazione
persisteva per un agglomerato fiammingo, 21 agglomerati valloni nonché l’agglomerato di
Bruxelles. Successivamente, all’udienza, la Commissione ha convenuto che le misure
necessarie non erano state adottate riguardo a soli cinque agglomerati. Alla luce di tali
elementi, la Commissione ha modificato le sue domande circoscrivendo ulteriormente
l’oggetto della controversia.
Nella sua sentenza, anzitutto, la Corte dichiara che, alla scadenza del termine fissato nel
parere motivato del 26 giugno 2009, il Belgio non aveva adottato tutte le misure necessarie
per conformarsi integralmente alla sentenza del 2004 ed è, pertanto, venuto meno agli
obblighi cui è tenuto in forza del Trattato sul funzionamento dell’UE.
Quanto alla determinazione dell’importo della somma forfettaria, la Corte ricorda che
l’inadempimento è persistito per circa 9 anni, il che è eccessivo, anche se deve riconoscersi
che gli adempimenti da eseguire richiedevano un periodo significativo di diversi anni e che
l’esecuzione della sentenza del 2004 va considerata ad un punto avanzato, se non quasi
completa.
Per quanto riguarda la gravità dell’infrazione, la Corte rileva che, classificando l’integralità
del suo territorio quale «area sensibile», ai sensi della direttiva, il Belgio ha riconosciuto la
necessità di una tutela ambientale rafforzata dello stesso. Orbene, secondo la Corte, il
mancato trattamento delle acque reflue urbane arreca un pregiudizio all’ambiente.
Tuttavia, la Corte ricorda che il Belgio ha affrontato investimenti impegnativi per
l’esecuzione della sentenza del 2004, compiendo progressi considerevoli. I progressi,
peraltro, erano già sostanziali alla scadenza del termine fissato dal parere motivato. Inoltre, la
Corte sottolinea che il Belgio ha pienamente cooperato con la Commissione nel corso del
procedimento.
In tale contesto, la Corte ritiene di procedere a un’equa valutazione delle circostanze del caso
fissando una somma forfettaria dell’importo di EUR 10 milioni che il Belgio dovrà versare.
Inoltre, tenuto di tutte le circostanze, la Corte considera adeguata l’imposizione di una
penalità dell’importo di EUR 4 722 al giorno.
Quanto alla periodicità della penalità, conformemente alla proposta della Commissione,
dato che la produzione della prova della conformità alla direttiva 91/271 può richiedere un
certo tempo, e per tener conto del progresso eventualmente compiuto da detto Stato membro,
la Corte considera adeguato un calcolo della penalità effettuato sulla base di periodi di sei
mesi, riducendo il totale relativo a tali periodi (vale a dire una penalità di EUR 859 404 per
semestre di ritardo) di una percentuale corrispondente alla proporzione che rappresenta il
numero di abitanti equivalenti che si trovano in situazione di conformità con la sentenza del
2004.
6. Trasporto
Corte di giustizia (Prima sezione), 3 ottobre 2013, causa C-369/13, Commissione
europea c. Repubblica italiana, sostenuta da Repubblica ceca,
«Inadempimento di uno Stato — Trasporto — Direttiva 2001/14/CE — Articoli 4,
paragrafo 1, e 30, paragrafo 3 — Ripartizione della capacità di infrastruttura
ferroviaria — Imposizione dei diritti di utilizzo — Diritti per l’utilizzo
dell’infrastruttura — Indipendenza del gestore dell’infrastruttura»
Nella procedura segnalata la Corte è stata investita del ricorso con il quale la Commissione
europea chiedeva di dichiarare l’inadempimento dell’Italia per non aver adottato le misure
legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi all’articolo 6, paragrafo
3, e all’allegato II della direttiva 91/440/CEE del Consiglio, del 29 luglio 1991, relativa allo
sviluppo delle ferrovie comunitarie (GU L 237, pag. 25), come modificata dalla direttiva
2006/103/CE del Consiglio, del 20 novembre 2006 (GU L 363, pag. 344: la «direttiva
91/440»), nonché agli articoli 4, paragrafi 1 e 2, 14, paragrafo 2, e 30, paragrafi 1 e 3, della
direttiva 2001/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001, relativa
alla ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria e all’imposizione dei diritti per
l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria (GU L 75, pag. 29), come modificata dalla direttiva
2007/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2007 (GU L 315, pag. 44:
la «direttiva 2001/14»).
Il diritto italiano ripartisce la gestione delle «funzioni essenziali» tra, da un lato, Rete
Ferroviaria Italiana SpA («RFI»), il gestore dell’infrastruttura sulla base di una concessione
del Ministero dei Trasporti, e, dall’altro, questo stesso Ministero. RFI, pur essendo dotata di
personalità giuridica autonoma, fa parte del gruppo Ferrovie dello Stato Italiane («gruppo
FS»), che comprende altresì Trenitalia SpA, la principale impresa ferroviaria italiana. RFI è
incaricata del calcolo dei diritti di accesso alla rete per ogni operatore e della loro riscossione,
sulla base delle tariffe fissate dal Ministro.
L’Ufficio per la Regolazione dei Servizi Ferroviari («URSF») costituisce l’organismo di
regolamentazione, dotato di autonomia organizzativa e contabile nei limiti delle risorse
economico-finanziarie assegnategli.
Con il suo ricorso, la Commissione ha fatto valere, anzitutto, che la normativa italiana non
garantisce l’indipendenza di gestione del gestore dell’infrastruttura. Il diritto dell’Unione,
infatti, conferisce agli Stati membri il compito di istituire un quadro per l’imposizione dei
diritti nel rispetto dell’indipendenza gestionale del gestore dell’infrastruttura, cui spetta
determinare i diritti per l’utilizzo dell’infrastruttura e provvedere alla loro riscossione. Per
contro, secondo la Commissione, riservandosi il potere di fissare il livello dei diritti di accesso
alla rete, l’Italia priverebbe il gestore di uno strumento essenziale di gestione.
Nella sua sentenza, la Corte rammenta, anzitutto, che il diritto dell’Unione persegue
l’obiettivo di assicurare l’indipendenza del gestore dell’infrastruttura ferroviaria, attraverso il
sistema di determinazione dei diritti di utilizzo. I sistemi di determinazione dei diritti di
utilizzo e di assegnazione della capacità devono incoraggiare i gestori ad ottimizzare l’utilizzo
dell’infrastruttura nell’ambito stabilito dagli Stati membri. Il ruolo dei gestori non può quindi
limitarsi a calcolare l’importo del diritto in ciascun caso concreto, applicando una formula
fissata in precedenza mediante decreto ministeriale. Al contrario, essi devono disporre di un
certo grado di flessibilità nella fissazione dell’importo dei diritti.
La Corte rileva che la normativa italiana prevede che la determinazione dei diritti, fissata di
concerto con il Ministro, vincoli il gestore. Sebbene il Ministro eserciti un mero controllo di
legittimità, detto controllo dovrebbe tuttavia spettare all’organismo di regolamentazione, nel
caso di specie all’URSF. La Corte ne trae la conclusione che la legge italiana non
consente di assicurare l’indipendenza del gestore dell’infrastruttura.
Con la sua seconda censura, la Commissione addebita alla normativa italiana di non rispettare
l’indipendenza dell’organismo di regolamentazione, in quanto l’URSF è costituito da
funzionari del Ministero e quest’ultimo continua ad esercitare un’influenza sul gruppo FS, che
detiene Trenitalia.
La Corte osserva, in senso contrario, che, con i loro interventi legislativi successivi, le autorità
italiane hanno inciso sulla costituzione dell’organismo di regolamentazione e hanno ridefinito
progressivamente la sua autonomia organizzativa e contabile. Essa ricorda inoltre che,
secondo la direttiva, l’organismo di regolamentazione può essere il Ministero dei Trasporti.
La Commissione non può dunque far leva sulla sola circostanza che l’URSF appartiene a tale
Ministero per concludere che esso non è indipendente.
La Corte conclude pertanto che la Commissione non ha fornito gli elementi necessari per
dimostrare la mancanza di indipendenza dell’organismo di regolamentazione.
La vicenda si inserisce in una serie di ricorsi per inadempimento promossi dalla
Commissione nei confronti di vari Stati membri per il mancato rispetto dei loro obblighi (C528/10,
Commissione/Grecia,
sentenza
dell’8
novembre
2012;
C-557/10,
Commissione/Portogallo, sentenza del 25 ottobre 2012; C-473/10, Commissione/Ungheria,
C-483/10,
Commissione/Spagna,
C-555/10,
Commissione/Austria,
C-556/10,
Commissione/Germania: sentenze del 28 febbraio 2013, segnalata nel Bollettino del mese di
marzo 2013; C-625/10, Commissione/Francia: sentenza del 18 aprile 2013, segnalata nel
Bollettino del mese di maggio 2013; C-512/10, Commissione/Polonia: sentenza del 30
maggio
2013,
segnalata
Commissione/Repubblica
nel
ceca,
Bollettino
del
C-627/10,
mese
di
giugno
2013;
Commissione/Slovenia,
C-545/10,
C-412/11
Commissione/Lussemburgo: sentenze dell’11 luglio 2013, segnalate nel Bollettino del mese di
settembre 2013).
7. Aiuti di stato
Corte di giustizia (Ottava sezione), 17 ottobre 2013, causa C-344/12,
Commissione europea c. Repubblica italiana,
«Inadempimento di uno Stato — Aiuti di Stato — Aiuto concesso dalla Repubblica
italiana in favore dell’Alcoa Trasformazioni — Decisione 2010/460/CE della
Commissione che dichiara l’incompatibilità di tale aiuto e ne ordina il
recupero — Omessa esecuzione entro il termine impartito»
Nella procedura segnalata la Corte è stata investita del ricorso con il quale la Commissione
europea chiedeva di dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo adottato, entro i termini
impartiti, tutte le misure necessarie per attuare la decisione 2010/460/CE della Commissione,
del 19 novembre 2009, relativa agli aiuti di Stato C-38/A/04 (ex NN 58/04) e C 36/B/06
(ex NN 38/06) cui l’Italia ha dato esecuzione a favore di Alcoa Trasformazioni (GU 2010,
L 227, pag. 62), fosse venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli articoli da
2 a 4 di tale decisione nonché dell’articolo 288 TFUE.
L’Alcoa Trasformazioni srl è una società di diritto italiano appartenente al gruppo Alcoa. Essa
produce alluminio primario in Italia. Dal 1996 essa ha beneficiato di una tariffa agevolata per
l’elettricità destinata a due stabilimenti di produzione, uno in Sardegna (Portovesme) e l’altro
in Veneto (Fusina), grazie a un contratto con il fornitore di energia elettrica (ENEL). Tale
tariffa, inizialmente fissata per un periodo di dieci anni, era stata autorizzata dalla
Commissione, la quale aveva ravvisato l’insussistenza di un aiuto di Stato in quanto,
all’epoca, si trattava di un’operazione commerciale ordinaria conclusa alle condizioni di
mercato.
La tariffa è stata prorogata a due riprese – dapprima fino al giugno 2007, poi fino al 2010 –
senza essere adattata all’evoluzione del mercato. Nel 2009, la tariffa era sovvenzionata da una
tassa imposta ai consumatori di elettricità e non corrispondeva più alle condizioni del
mercato. L’importo equivaleva alla differenza tra il prezzo contrattuale pattuito con il
fornitore di energia elettrica (ENEL) e il prezzo agevolato. Nel 2009 la Commissione ha
ritenuto che tali proroghe fossero volte a ridurre i costi operativi dell’Alcoa, procurandole
quindi un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti. Dette proroghe costituivano pertanto aiuti di
Stato incompatibili con il mercato comune, che l’Italia doveva recuperare, interessi compresi.
L’Italia doveva inoltre annullare tutti i pagamenti futuri e comunicare l’importo complessivo
dell’aiuto da recuperare, le misure già adottate per conformarsi alla decisione nonché i
documenti attestanti che era stato imposto al beneficiario di provvedere al rimborso dell’aiuto.
Secondo l’Italia, l’importo da recuperare ammontava all’incirca ad EUR 295 milioni, di cui
EUR 38 milioni di interessi.
La Commissione, ritenendo che l’Italia non avesse rispettato né l’obbligo d’informazione né
l’obbligo di recupero, ha proposto ricorso per inadempimento dinanzi alla Corte di giustizia.
Nella sua sentenza, la Corte ricorda anzitutto che lo Stato membro destinatario di una
decisione che gli impone di recuperare aiuti illegali è tenuto ad adottare ogni misura idonea ad
assicurarne l’esecuzione e deve giungere a un effettivo recupero delle somme dovute. Il
recupero va effettuato senza indugio e un recupero successivo ai termini impartiti non può
soddisfare i requisiti del Trattato. Poiché la decisione 2010/460 è stata notificata il 20
novembre 2009, il termine scadeva pertanto il 20 marzo 2010.
Orbene, a tale data, non era stato recuperato l’intero aiuto. Al contrario, il procedimento di
recupero era ancora aperto dopo la proposizione del suddetto ricorso, ossia più di due anni e
mezzo dopo la notifica della decisione.
Secondo costante giurisprudenza, il solo mezzo di difesa che uno Stato membro può opporre
ad un ricorso per inadempimento promosso dalla Commissione è quello dell’impossibilità
assoluta di dare correttamente esecuzione alla decisione di cui trattasi (sentenze del 20
settembre 2007, Commissione/Spagna, C-177/06, Racc. pag. I-7689, punto 46; del 13
novembre 2008, Commissione/Francia, C-214/07, Racc. pag. I-8357, punto 44, e del 14
luglio 2011, Commissione/Italia, punto 33, segnalata nel Bollettino di Settembre 2011).
Tanto nei suoi contatti con la Commissione prima della proposizione del suddetto ricorso
quanto nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte, l’Italia non ha mai fatto valere
un’impossibilità assoluta di esecuzione della decisione. Essa si è limitata a comunicare alla
Commissione difficoltà giuridiche o pratiche, nonché la propria intenzione di giungere a una
soluzione negoziata con l’Alcoa.
Per tali motivi, la Corte dichiara che l’Italia è venuta meno al proprio obbligo di
recuperare gli aiuti di Stato concessi all’Alcoa sotto forma di tariffa agevolata per
l’elettricità.
Si segnala peraltro che un ricorso contro la decisione di avvio della fase d’indagine formale
dell’aiuto era stato respinto dalla sentenza del Tribunale del 25 marzo 2009 (T-332/06).
L’impugnazione proposta dalla ricorrente è stata respinta dalla sentenza del 21 luglio 2011
(C-194/09 P). Peraltro, è pendente un ricorso volto all’annullamento della decisione
2010/460 (T-177/10). La domanda di sospensione dell’esecuzione della decisione è stata
respinta con ordinanza del presidente del Tribunale del 9 luglio 2010 (T-177/10 R),
confermata con ordinanza del presidente della Corte del 14 dicembre 2011 (C-446/10 P(R)),
che ha respinto l’impugnazione dell’Alcoa avverso l’ordinanza del presidente del Tribunale.
Corte di giustizia (Settima sezione), 10 ottobre 2013, causa C-353/12,
Commissione europea c. Repubblica italiana,
«Inadempimento di uno Stato — Aiuti di Stato — Aiuto a favore della Ixfin SpA —
Aiuto illegittimo e incompatibile con il mercato interno — Recupero — Mancata
esecuzione»
Nella procedura segnalata la Corte è stata investita del ricorso proposto dalla Commissione
europea nei confronti dell’Italia per non aver preso nei termini stabiliti tutti i provvedimenti
necessari per recuperare l’aiuto dichiarato illegittimo ed incompatibile con il mercato interno
dalla decisione 2010/359/CE della Commissione, del 28 ottobre 2009, relativa all’aiuto di
Stato C 59/07 (ex N 127/06 e NN 13/06) al quale l’Italia ha dato esecuzione a favore di Ixfin
SpA (GU 2010, L 167, pag. 39).
Nella sentenza la Corte ricorda che la soppressione di un aiuto illegittimo mediante il
recupero è la logica conseguenza della declaratoria della sua illegittimità. Di
conseguenza, lo Stato membro destinatario di una decisione che gli impone di recuperare aiuti
illegittimi è tenuto, ai sensi dell’articolo 288, quarto comma, TFUE, ad adottare ogni misura
idonea ad assicurare l’esecuzione di tale decisione (v., tra le altre, sentenza del 21 marzo
2013, Commissione/Italia, C-613/11, punto 32). Tale Stato deve attuare un recupero effettivo
delle somme dovute (sentenza del 1° marzo 2012, Commissione/Grecia, C-354/10, punto 57).
Il recupero deve effettuarsi senza indugi e, più precisamente, entro il termine previsto nella
decisione, adottata ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 2, TFUE, che ingiunge il recupero di
un aiuto di Stato o, eventualmente, entro quello successivamente fissato dalla Commissione.
Un recupero tardivo, successivo ai termini stabiliti, non può ritenersi conforme alle
prescrizioni del Trattato (sentenza del 13 ottobre 2011, Commissione/Italia, C-454/09, punto
37). La Corte, richiamando la giurisprudenza relativa alle imprese beneficiarie di aiuti
dichiarati incompatibili con il mercato interno e che sono in stato di fallimento o soggette a
procedura fallimentare diretta alla realizzazione dell’attivo e all’accertamento del passivo,
ribadisce che il fatto che tali imprese siano in difficoltà o in stato di fallimento non ha alcuna
incidenza sull’obbligo di recupero (v., segnatamente, sentenza dell’11 dicembre 2012,
Commissione/Spagna, C-610/10, punto 71 e la giurisprudenza ivi citata).
In siffatta ipotesi, il ripristino della situazione anteriore e l’eliminazione della distorsione
di concorrenza risultante dagli aiuti illegittimamente erogati possono, in linea di
principio, essere attuati mediante l’iscrizione al passivo fallimentare del credito relativo
alla restituzione degli aiuti in questione (sentenza Commissione/Spagna, cit., punto 72).
Nella fattispecie, la Repubblica italiana era tenuta, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, della
decisione 2010/359, a procedere al recupero dell’aiuto concesso alla Ixfin entro quattro mesi
dalla notifica di tale decisione. Poiché quest’ultima è stata notificata a detto Stato membro il
29 ottobre 2009 e non è stata concessa né richiesta alcuna proroga del termine fissato nella
disposizione sopra citata, tale termine è scaduto il 1° marzo 2010. Orbene, secondo la Corte, è
pacifico che, a quest’ultima data, le somme corrispondenti all’aiuto in esame non sono state
recuperate. Infatti, come ammette la Repubblica italiana, l’iscrizione al passivo del credito
relativo alla restituzione dell’importo della quota capitale dell’aiuto di cui trattasi è
intervenuta solo il 24 aprile 2012, cioè oltre due anni dopo la scadenza del termine fissato
nella decisione 2010/359.
Inoltre, il credito relativo agli interessi riguardanti tale aiuto che devono essere
recuperati in conformità dell’articolo 2, paragrafo 2, della decisione 2010/359 non è
ancora stato iscritto al passivo del fallimento nell’ambito della procedura fallimentare
dell’impresa beneficiaria dell’aiuto di cui trattasi.
La Corte respinge l’argomentazione secondo la quale, per poter considerare recuperato l’aiuto
di cui trattasi, è sufficiente aver chiesto l’iscrizione del credito relativo a tale aiuto al passivo
del fallimento della società interessata. Infatti, il Ministero ha presentato dinanzi al Tribunale
di Napoli una domanda di ammissione al passivo del fallimento della Ixfin solo il 7 giugno
2010, cioè dopo la scadenza del termine fissato nella decisione 2010/359. A tale riguardo non
è rilevante il fatto che il Ministero avesse chiesto già nel 2006 all’Avvocatura distrettuale
dello Stato di Napoli di provvedere all’iscrizione di tale credito nella massa fallimentare della
Ixfin, in quanto una domanda di iscrizione è stata formalmente presentata dinanzi al giudice
nazionale competente solo il 7 giugno 2010.
Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica italiana relativo al carattere complesso
delle procedure nazionali di fallimento, occorre ricordare che, secondo una
giurisprudenza costante, il solo mezzo di difesa che uno Stato membro può opporre
contro un ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione sulla base
dell’articolo 108, paragrafo 2, TFUE è quello relativo all’impossibilità assoluta di dare
correttamente esecuzione alla decisione di cui trattasi (v., in particolare, sentenze del 22
dicembre 2010, Commissione/Italia, C-304/09, Racc. pag. I-13903, punto 35, e del 21 marzo
2013, Commissione/Italia, cit., punto 36). Orbene, nel caso di specie, la Repubblica italiana
non ha invocato, né nei contatti intercorsi con la Commissione né nell’ambito del
procedimento dinanzi alla Corte, un’impossibilità assoluta di dare esecuzione alla
decisione 2010/359.
Invero, detto Stato membro si è limitato a comunicare le difficoltà giuridiche, politiche o
pratiche che l’attuazione di tale decisione presentava. Orbene, la Corte ha già statuito a tale
proposito che la condizione relativa alla sussistenza di un’impossibilità assoluta di esecuzione
non è soddisfatta qualora lo Stato membro convenuto si limiti a comunicare difficoltà
siffatte, senza assumere alcuna vera iniziativa nei confronti delle imprese interessate al fine di
recuperare l’aiuto e senza proporre alla Commissione modalità alternative di esecuzione della
decisione in questione che avrebbero consentito di superare tali difficoltà (v., in particolare, le
citate sentenze del 22 dicembre 2010, Commissione/Italia, punto 36, e del 21 marzo 2013,
Commissione/Italia, punto 37).
Inoltre, nei limiti in cui gli argomenti della Repubblica italiana relativi al carattere complesso
delle procedure nazionali di fallimento sono intesi a dimostrare che il termine previsto
dall’articolo 3, paragrafo 2, della decisione 2010/359 è irragionevole, è sufficiente
rammentare che, secondo costante giurisprudenza, uno Stato membro non può invocare
l’illegittimità di una decisione come argomento difensivo avverso un ricorso per
inadempimento basato sull’omessa esecuzione di tale decisione, eccezion fatta per l’ipotesi in
cui quest’ultima debba essere considerata inesistente (sentenza del 13 ottobre 2011,
Commissione/Italia, cit., punto 41). Del pari, la Repubblica italiana non può rimettere in
questione, nell’ambito del ricorso, il suo obbligo di procedere, in conformità dell’articolo 2,
paragrafo 2, della decisione 2010/359, al recupero degli interessi riguardanti l’aiuto di cui
trattasi per il periodo determinato da tale disposizione.
Da quanto precede risulta che il presente ricorso è fondato nella parte in cui la Commissione
contesta alla Repubblica italiana di non aver preso, entro i termini imposti, tutti i
provvedimenti necessari per recuperare presso la Ixfin l’aiuto dichiarato illegittimo e
incompatibile con il mercato interno dalla decisione 2010/359. Per quanto riguarda l’obbligo
della Repubblica italiana di comunicare alla Commissione entro i due mesi successivi alla
notifica della decisione 2010/359 le informazioni elencate all’articolo 4 di tale decisione, la
Corte rileva che nessuna di tali informazioni è stata comunicata a detta istituzione entro
il termine summenzionato.
In conclusione, la Corte dichiara che la Repubblica italiana, non avendo preso, entro i
termini imposti, tutti i provvedimenti necessari per recuperare presso la Ixfin l’aiuto di
Stato dichiarato illegittimo e incompatibile con il mercato interno dall’articolo 1 della
decisione 2010/359, e non avendo comunicato alla Commissione, entro il termine
assegnato, le informazioni elencate all’articolo 4 di tale decisione, è venuta meno agli
obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 288, quarto comma, TFUE nonché
degli articoli da 2 a 4 della predetta decisione.
Altre segnalazioni
Comunicato stampa 23 ottobre 2013 (estratto): Il numero di avvocati generali
alla Corte è portato a nove
A tenore della dichiarazione n. 38 allegata all’atto finale della Conferenza intergovernativa
che ha adottato il Trattato di Lisbona, «se, in conformità dell’articolo 252, primo comma,
[TFUE], la Corte di giustizia chiederà che il numero degli avvocati generali sia aumentato di
tre (ossia undici anziché otto), il Consiglio, deliberando all’unanimità, approverà tale
aumento. In tal caso, la conferenza conviene che la Polonia disporrà, come già avviene per
Germania, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito, di un avvocato generale permanente e non
parteciperà più al sistema di rotazione, mentre l’attuale sistema di rotazione riguarderà cinque
avvocati generali anziché tre».
Il 16 gennaio 2013 la Corte di giustizia ha chiesto di aumentare di tre il numero degli avvocati
generali. Essa ha in particolare sottolineato che, a seguito delle adesioni successive di nuovi
Stati membri all’Unione europea e a causa tanto dell’adeguamento del quadro istituzionale
dell’Unione legato all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, quanto delle nuove
competenze che detto Trattato le ha conferito, il numero di cause è da alcuni anni in costante
aumento.
Il Consiglio ha deciso, con decisione del 25 giugno 2013, di aumentare il numero di avvocati
generali a nove, con effetto dal 1° luglio 2013, e a undici, con effetto dal 7 ottobre 2015.
Con decisione del 16 ottobre 2013 i rappresentanti dei governi degli Stati membri hanno
nominato il sig. Maciej Szpunar in qualità di avvocato generale per il periodo compreso tra il
16 ottobre 2013 ed il 6 ottobre 2018.