risultati del 1969
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risultati del 1969
1969 autunno caldo -1- lotte e conquiste contestazione dell’organizzazione del lavoro, lotta contro l’aumento generale dei prezzi. Gli scioperi e le lotte mobilitavano la classe dei salariati nella loro stragrande maggioranza, unendo insieme gli operai delle fabbriche più moderne e quelli delle fabbriche più arretrate, i lavoratori delle regioni economicamente e politicamente più dinamiche e quelli delle regioni in ritardo; le lotte avevano la tendenza a prolungarsi e ad ampliarsi senza una rigida connessione con le vicende congiunturali dell’economia dei singoli paesi. Nel 2009, quaranta anni dopo la situazione non è allegra e in Europa si ricorre al sequestro di dirigenti per sbloccare le trattative. In Italia si sale sui tetti… Come recitava lo slogan di cui sopra Agnelli era impantanato nel suo Vietnam nelle officine di Torino. Un autunno caldo e “selvaggio” Nel 1969 la ripresa della conflittualità operaia era un fenomeno che non riguardava solo l’Italia, era comune a Francia, Germania Occidentale e Gran Bretagna, tant’è vero che l’allora direttore de La Stampa, Alberto Ronchey, in un editoriale pubblicato il 14 settembre 1969, pochi giorni dopo l’apertura del rinnovo del contratto dei metalmeccanici, scriveva: “la lotta degli operai Fiat ci ha messo sotto gli occhi forme e contenuti della lotta di classe in Europa: gli scioperi selvaggi”. Le richieste apparivano più omogenee di quelle di precedenti rinnovi contrattuali e si riassumevano nello slogan più salario, meno orario e nelle rivendicazioni egualitarie tendenti a una riduzione delle differenziazioni esistenti nella classe operaia e tra operai e impiegati; quindi riduzione dell’orario di lavoro, richiesta di più giorni di ferie, Cosa sta succedendo agli operai in Italia, perché le risposte agli effetti della crisi sono così lente, di basso impatto, quando ci sono, altrimenti c’è solo sottomissione, acquiescenza. Nessun serio segno di rivolta, poche o nulle le reazioni. Eppure la crisi nei primi mesi del 2009 ha colpito con metodo. Parliamoci chiaro, fra operai. Gli effetti della crisi si sono abbattuti su centinaia di migliaia di operai, nei primi sei mesi di questo anno non si contano più i ricorsi alla cassa integrazione, i licenziamenti attraverso la mobilità, le fabbriche che sono state chiuse. Per chi è rimasto a lavorare i salari sono scesi e le condizioni di lavoro sono peggiorate. Le morti sul lavoro sono un indice chiaro della nostra condizione sotto il comando dei padroni, la corsa al profitto schiaccia letteralmente gli operai esponendoli a rischi di ogni genere e tipo. C’è ne abbastanza per una rivolta, o almeno per una serie di scioperi seri, per manifestazioni oltre le solite processioni. Invece niente, se abbiamo l’onestà intellettuale di non nasconderci la realtà, dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad una relativa passività degli operai, ad una silenziosa discesa verso il basso accettata come una sorte del destino. 1969 autunno caldo -2- gabbie salariali IERI - Lo spir it o Ga bbi e sa l a r i a l i . Pr i m a del l a l or o a bol i zi on e, i n It a lia erano in vigore le ga bbi e sa lariali: i minimi contrattuali er a n o di ffer en t i a secon da del l e pr ov i n ce, in modo da tenere conto delle diverse situazioni nelle quali operavano i m pr ese e l a v or a t or i Le zone salariali, considerate dall' industria un elem en t o di flessibilità del sistem a retributiv o per ch é fa v orev oli alle im prese insediate nelle r eg ioni m eno sv iluppate, sono state av v ersate da i sindacati *** Gli scioperi contro la disparità g eog r a fica di t r a ttam ento tra i lav oratori si su sseg u on o n el 1 969 una serie di scioperi. A g en n aio decine di scioperi cittadini e regionali. Il 1 2 febbr a io Cgil, Cisl e Uil proclam ano uno scioper o n a zion a le Il 1 8 m a r zo Cg il, Cisl e Uil raggiungono un a ccor do con Confindustria sull' abolizione delle zon e sa la r ia li e l' unificazione progressiv a dei salari. I m inim i saranno uguali in tutta Italia a pa r t ir e da l 1 ° lu g lio 1 9 7 2 *** La Lega Le zone salariali tornano d' attualità a lla fin e deg li a n n i Ottanta. Il sindacato del Ca rroccio, al congresso di fondazione, rilancia l' idea di u n a con t r a t tazione differenziata tra Nor d e Su d: nasce uno dei cav alli di battaglia della Leg a *** OGGI Nel suo discorso, il ministro insiste su un punto: la possibilità di deroga rispetto ai contratti nazionali. Non vuol dire altro che Nel suo schema, che è poi quello della Confindustria come dell'accordo separato del 15 aprile, c'è l'idea di siglare contratti nazionali che escludano la Cgil, per poi passare a contratti territoriali e/o aziendali che vadano sotto i minimi. Il tutto, solo con i sindacati che abbiano la delega a firmare. Siamo di fronte a un enorme sopruso, alla negazione dei diritti di democrazia: i lavoratori non hanno mai votato su queste regole, e intanto si indebolisce e supera il contratto nazionale. Di che modello sociale si tratta? Dalle parole del ministro emerge un sistema di relazioni incentrate sull'esaltazione della competitività e sulla liquidazione di ogni forma di solidarietà generale tra i lavoratori e tra le generazioni. Primo, si ribadisce lo svuotamento dei contratti nazionali di categoria, rinviando ogni forma di simulata contrattazione al secondo livello. Secondo livello che - sotto i colpi della crisi, in un paese segnato dalla frantumazione del sistema industriale in piccole e piccolissime aziende e con un M ezzogiorno in cui i contratti aziendali sono inesistenti - è solo un lusso per pochi. Secondo, con una truffaldina mossa del cavallo il ministro boccia le gabbie salariali di Bossi (tanto ci sono già, sia per i lavoratori che per i pensionati) ma le ripropone in termini, se possibile, ancor peggiori: salari differenziati decentrando i contratti, definiti dalle parti sociali sulla base del costo della vita e della produttività. Siccome, dice Sacconi, non siamo tutti uguali, bisogna differenziare, cioè dividere. Terzo, che ne facciamo di chi resta indietro, di chi perde il lavoro o guadagna poco perché è meno «competitivo», di chi non ha accesso a sostegni e solidarietà? Presto detto: garantiamo a questi pezzenti un welfare caritatevole basato sul «dono», fino a usare il termine stesso di «carità». Si chiama sussidiarietà per nascondere un progetto fondato sullo svuotamento del welfare pubblico, sostituito da assicurazioni private (contrattate tra le parti sociali complici) su salute e previdenza, accompagnate o sostituite da donazioni caritatevoli da parte di chi più ha. Una strage dei diritti, sostituiti dalle donazioni dei ricchi di buona volontà. Le disuguaglianze non sono un effetto collaterale delle politiche economiche, ne sono un elemento costitutivo. 1969 autunno caldo 3- Lo statuto dei lavoratori Le lotte de l 1969 produsse ro e ffe tto anche a live llo le gislativo. Infatti e cco la legge n. 300 del 20 maggio 1970, recante "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.", . Si divide in un titolo dedicato al rispetto della dignità del lavoratore, in due titoli dedicati alla libertà ed all'attività sindacali, in un titolo sul collocamento ed in uno sulle disposizioni transitorie. Lo Statuto sancisce, in primo luogo, la libertà di opinione del lavoratore (art.1), che non può quindi essere oggetto di trattamento differenziato in dipendenza da sue opinioni politiche o religiose e che, per un successivo verso, non può essere indagato per queste nemmeno in fase di selezione per l'assunzione. Questi passi trovano una loro spiegazione di migliore evidenza segnalando che, nel dopoguerra, si verificarono numerosi casi di licenziamento di operai che conducevano attività politica o che, anche indirettamente, si rivelavano militanti di forze politiche o sindacali non gradite alle aziende. L'attività lavorativa, l'apporto operativo del lavoratore, è poi svincolata da alcune forme di controllo che la norma giudica improprie e che portano lo Statuto a formulare specifici divieti quali, ad esempio: divieto, per il datore di lavoro, di assegnare del personale di vigilanza al controllo dell'attività lavorativa dei lavoratori (secondo l'art.3 tale personale di vigilanza può esercitare esclusivamente la vigilanza sul patrimonio aziendale) divieto d'uso di impianti audiovisivi (art.4) e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Diverse sentenze dei pretori del lavoro hanno orientato la giurisprudenza ad un'estensione e classificazione più dettagliati degli impianti aziendali utilizzabili per un controllo a distanza del lavoratore. Fra questi rientrano i navigatori satellitari posti nelle auto aziendali o in dotazione ai cellulari di lavoratori che hanno l'obbligo della reperibilità. Anche l'installazione nei database di file di log pubblici consente uno strumento di controllo della produttività del lavoratore. T ali sistemi mostrano in un file di testo, oppure in una tabella di più facile interpretazione, ora e data di tutte le operazioni in visualizzazione e aggiornamento compiute da un utente, mostrando il relativo nome. T alora, sono visibili solamente agli informatici che hanno privilegi di amministratore di sistema e comunque possono essere inviati a quanti richiedono un controllo "personalizzato". Possono essere interni ad un database oppure del sistema operativo intero, e registrare quindi qualunque operazione un utente faccia nel proprio terminale. Anche le visite personali di controllo sul lavoratore (si badi bene che ci si riferisce all'art. 6 dello statuto e non all'art.5 che riguarda invece gli accertamenti sanitari), ovvero le perquisizioni all'uscita del turno (principalmente effettuate per verificare che il lavoratore non si sia appropriato di beni prodotti o di altro materiale di proprietà dell'azienda), sono sottoposte a limitazioni di dettagliata rigorosità. Al fine di limitare inoltre impropri eccessi del datore di lavoro, eventualmente risultanti in indebite pressioni, sono vietati accertamenti diretti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, delegando agli enti pubblici competenti tali accertamenti (art.5 visita fiscale). Di particolare interesse, oltre a tutti gli articoli del primo titolo (artt.1-13, riguardanti anche il regime sanzionatorio, gli studenti lavoratori, ecc.) è il regime applicativo dello statuto. Leggendo l'art.35 dello statuto ci rendiamo conto come gli articoli dal 19 al 27 e, l'ormai famoso, art. 18 (oggetto di tante dispute e lotte), si applichino ad aziende con "...sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti..." (ridotti a cinque per le imprese agricole). Questa buona porzione dello statuto del lavoratori riguarda innanzitutto l'attività sindacale e, per l'art.18, l'annoso problema del reintegro nel posto di lavoro. La disposizione dell'art.36 e quella dell'art.37 (che limita fortemente l'applicazione dell'intero statuto nel campo dell'impiego pubblico), riducono in maniera considerevole il numero di lavoratori che possono usufruire in maniera completa della protezione offerta dallo statuto. Storicamente l'Italia non è stata sede (e la tendenza è confermata anche al giorno d'oggi) di aziende con un elevato numero di dipendenti; la maggior parte delle aziende italiane rientrano, infatti, nel novero delle "piccole e medie imprese)" alle quali buona parte dello statuto non si applica. Proprio per queste ultime motivazioni si è sentita l'esigenza negli ultimi anni, sia da destra che da sinistra, di un adeguamento del testo della legge o comunque l'esigenza di una tutela differenziata e approfondita di quelle categorie di lavoratori non rientranti nelle casistiche previste dall'attuale previsione dello Statuto dei lavoratori. 1969 autunno caldo 4 - le 150 ore per lo studio LE 150 ORE, UN ESPERIMENTO DI VITA E DI CULTURA Gli anni Se ttanta furono, in Italia com e a ltrove , m om e nti di spe rim e ntazione straordinaria sul pia no cultura le e socia le oltre che politico. Uno tra que sti: il riavvicinam e nto tra proce ssi sociali, pratiche politiche e form e d’e laborazione della cultura e de lla conosce nza. Le 150 ore —m arzo 1973- furono una “scuola ope ra ia ” di cui furono prota gonisti prim a gli ope rai e poi le donne , insieme alle a va ngua rdie stude nte sche e poi femministe de gli anni se ttanta. Sulla base de lla conquista sindacale de i lavoratori m e talm e ccanici ne i contratti di lavoro, e rano riconosciute ai lavoratori 150 ore lavorative re tribuite ogni tre anni, ad uso “scolastico e culturale ”, purché e ssi ne m e tte sse ro altre 150 de l proprio te m po libe ro. Il sindacato sce lse di dare la priorità al re cupe ro, pe r tutti i lavoratori, del diploma de lla scuola de ll’obbligo; la ste ssa forza che ave va re so possibile tale conquista re se anche re alizzabile il fatto che lo stato m e tte sse a disposizione le scuole pubbliche pe r ospitare i corsi, pom e ridiani o se rali, e riconosce sse al program m a presentato dal sinda ca to il valore e quivale nte a l diplom a ufficia le de lla scuola e le m e ntare . In due anni 100.000 lavoratori m e talm e ccanici tornarono a scuola, se guiti be n pre sto da altre cate gorie di lavoratori, poi da disoccupati e casalinghe . Non si trattava della scuola per adulti di modello anglosassone. Si trattava di un esperimento culturale gestito in prima persona dalle avanguardie del sindacato. Esse avocarono a sé la scelta d’obiettivi e metodi di studio, contrattarono con lo stato i riconoscimenti formali per i programmi di studio, formarono gli insegnanti. Gli alunni erano le avanguardie operaie che avevano guidato le lotte del sessantotto con gli studenti e gli insegnanti erano quegli stessi studenti, che si riversarono in massa in queste scuole. Fu un serio tentativo di riappropriazione e cambiamento della cultura, della sua destinazione, del suo uso, del suo senso, da parte delle classi subalterne, nello spirito della migliore tradizione gramsciana, nel dibattito aperto dall’arrivo in Italia di Paulo Freire, nell’incontro tra la tradizione filosofica “classica” delle classi lavoratrici e quella postmarxista. Dicevano gli obiettivi generali dei programmi di studio: “rafforzamento del controllo collettivo sulle condizioni di lavoro e sul processo produttivo, recupero dell’esclusione scolastica senza nulla concedere ad un processo di rincorsa dell’esistente, messa in questione della funzione sociale della scuola e della sua neutralità; individuazione del ruolo dell’intellettuale nei confronti delle classi operaie e subalterne”. Non si trattava di fornire volgarizzazioni facili ad uso dei “poveri” ma di scegliere il meglio della cultura borghese, ridiscuterla, trovarne il senso e gli usi possibili a partire da altre posizioni storiche. Questo processo di riflessione collettiva ebbe il potere di attrarre non solo gli intellettuali del sindacato, gli insegnanti delle scuole medie e superiori ma anche molti accademici. Essi aprirono le porte dei loro istituti agli operai, invitarono i sindacalisti a tenere lezione all’università, rimisero in discussione l’uso e il potere sociale del loro sapere. Furono istituiti seminari monografici a livello universitario, liberi da riconoscimenti formali per le avanguardie politiche e culturali sui temi considerati più urgenti: teoria politica, analisi economica, situazione internazionale, uso operaio della scienza borghese, etc. Il dibattito interno si focalizzò soprattutto attorno alle questioni relative alla formazione di una coscienza non subalterna: cos’è la coscienza operaia? come si forma e si trasforma la coscienza di classe? di Paola Me lchiori 1969 autunno caldo 5 – il diritto alla salute Lo slogan "La salute non si vende" divenne, nei primi anni '70, uno dei maggiori obiettivi del periodo, il punto di partenza di nuove conquiste, il simbolo del rifiuto della monetizzazione della salute. Il segno inequivocabile che stava maturando sempre più la convinzione che la nocività del lavoro non era ineliminabile, ma nasceva da precise scelte finalizzate alla massima produttività senza tener conto della salute dei lavoratori. Il problema perciò andava affrontato agendo direttamente sul ciclo produttivo, sull'ambiente e sull'organizzazione del lavoro. Da qui anche il secondo slogan di quel periodo, la "non delega": la difesa della salute sul posto di lavoro non andava delegata ad altri ma gestita in prima persona dai lavoratori stessi. L'intervento dei medici e dei tecnici continuava ad essere considerato di fondamentale importanza, ma era il lavoratore in prima persona che diventava finalmente protagonista della difesa della propria incolumità. In che modo? Attraverso il "gruppo omogeneo", l'insieme cioè dei lavoratori che, svolgendo mansioni analoghe, erano esposti agli stessi rischi per la salute. La salute quindi non più come un bene del singolo ma come un bene collettivo di tutto il gruppo omogeneo. Tutto ciò portò anche ad una evidente modifica organizzativa: gli enti locali, i comuni ed i consorzi di comuni, inizialmente delle regioni più progressiste (EmiliaRomagna, Lombardia, Toscana), seguite poi anche da altre regioni del centronord Italia, cominciarono ad organizzare i primi servizi pubblici di medicina del lavoro, che si caratterizzarono subito per la modalità di operare a fianco dei lavoratori. A rendere praticabile questa strada contribuì un'altra importante novità di quegli anni: dalle università cominciarono ad uscire i medici che avevano vissuto il '68, con un bagaglio culturale e di preparazione professionale adeguati ai tempi ed ai mutamenti intervenuti. C iò servì a condizionare fortemente la stessa metodologia operativa. Le indagini nelle fabbriche cominciarono ad affrontare ed a studiare in modo strettamente congiunto ciò che fino ad allora veniva messo spesso su piani distinti, i fattori di rischio ambientali e lo stato di salute dei lavoratori, valutando la loro interdipendenza. Ne è l'esempio il metodo di indagine in fabbrica che andò articolandosi in varie tappe tra loro strettamente collegate: agli incontri preliminari con i consigli di fabbrica e le aziende per studiare il ciclo produttivo, l'organizzazione del lavoro, le schede tossicologiche dei prodotti, i principali problemi presenti, seguiva l'assemblea generale di fabbrica ed un sopralluogo accurato reparto per reparto. Tutto ciò serviva per mettere a punto il programma operativo vero e proprio, che prevedeva il massimo coinvolgimento dei lavoratori attraverso le assemblee di gruppo omogeneo. In esse venivano ricercati e individuati i danni e disturbi prevalenti, discussi i fattori di nocività, approfondite e perfezionate le proposte dei tecnici e dei lavoratori. Seguivano poi le rilevazioni ambientali dei fattori di rischio, i controlli sanitari e le visite mediche mirate agli effettivi rischi presenti. La sintesi era una relazione finale che, presentata ai lavoratori e all'azienda, serviva come base per la programmazione dei risanamenti ambientali e dei futuri controlli ambientali e sanitari. Su di essa, come sugli altri vari momenti precedenti, in base all'art. 9 della legge 300/70 i lavoratori esprimevano la loro "validazione consensuale". C onvalidavano cioè (o non convalidavano) l'ipotesi dell'esistenza o meno dei rischi in base alle conoscenze che essi stessi (tecnici grezzi) avevano dell'ambiente in cui trascorrevano otto ore al giorno. C ominciava a quel punto la parte più difficile: il risanamento ambientale, la gestione ed il controllo permanente dei fattori di nocività presenti. Giuseppe Parolari 1969 autunno caldo 6 – i delegati e i consigli Nell’estate del 1969, con epicentro nella Torino rovente per lo straordinario conflitto nella Fiat, avviene una svolta che ritengo centrale nella comprensione delle successive dinamiche politicosociali. Mentre formalmente appaiono ovunque volantini e comitati siglati “studenti e operai”, in realtà i due movimenti di massa prendono strade diverse e divaricanti. Il movimento politico di massa studentesco, libertario e innovativo, esce, per così dire, da se stesso, si infila nel tradizionalismo politico e culturale e, via via, si intruppa nell’universo competitivo dei micro-partiti. Questo avviene in perfetta sincronia con una mobilitazione operaia che esprime invece il momento più alto della sua creatività e della sua originalità istituente di massa, con la nascita dei delegati e dei consigli di fabbrica. Guido Romagnoli, quando parla di un “movimento dei consigli” in polemica con A. Pizzorno, intende affermare che delegati e consigli non sono (come afferma Pizzorno, in curiosa sintonia con gli “estremisti” dei gruppi) la risposta sindacale organizzativa al movimento spontaneo di lotta operaia. La nascita dei delegati trova la propria matrice originaria – continua Romagnoli all’interno della ampia politicizzazione del sociale, per cui emergono quelle molteplici strutture associative dell’autonomia e della solidarietà dei soggetti che entrano in conflitto ed in competizione con le strutture gerarchiche di dominio. Ida Regalia annota che il delegato «nasce come una forma appena poco più organizzata della partecipazione diretta, quello che minimizza il distacco tra mandanti e mandato. Il delegato è eletto su scheda bianca, all’interno di un piccolo gruppo omogeneo, è revocabile, ed elettori ed eleggibili sono tutti i lavoratori, non solo gli associati». Il sindacato, incorporando questo istituto autonomo della democrazia operaia, realizza una espansione, una forza, una capacità di influenza straordinari, ma al prezzo di introdurre al suo interno due principi in tensione: il mandato revocabile e la rappresentanza come ruolo, il mandato da parte di tutti i lavoratori e la rappresentanza dei soli iscritti, la logica di movimento e la logica di organizzazione. Nel processo di istituzionalizzazione del sindacato questa ambivalenza, sempre risorgente dalla struttura consigliare, è stata il tormento delle oligarchie dirigenti. Dopo riforme reiterate, volte a controllare e a snaturare i consigli di fabbrica, la partita è stata isolta definitivamente con lo scioglimento dei consigli, la cancellazione del nome e l’annullamento della memoria. Oggi abbiamo finalmente un sindacato “coerente”, che ottiene il livello massimo della rappresentanza istituzionale in virtù del grado minimo della sua rappresentatività sociale. PIno Ferraris