esistono norme morali valide per tutti gli uomini

Transcript

esistono norme morali valide per tutti gli uomini
ESISTONO NORME MORALI VALIDE PER TUTTI GLI
UOMINI
O TUTTO E’ RELATIVO?
Ti voglio proporre un altro problema di grande impatto esistenziale: cosa si intende per bene e
per male? E' lecito o no l'ABORTO? Sono moralmente leciti i rapporti prematrimoniali? E'
morale o immorale usare gli altri come mezzi finalizzati al proprio utile? E' lecito, per
perseguire un fine buono, far ricorso a qualsiasi mezzo? E poi ancora: esistono o no delle
norme che valgono per tutti gli uomini, oppure le regole morali sono soggettive?
Si tratta di un percorso che parte dal tuo vissuto, dai tuoi valori, dalle tue convinzioni. Sarà su
questo vissuto che vedremo di costruire delle risposte filosofiche prendendo, naturalmente,
come punto di riferimento i filosofi. Senti: RITIENI CHE VI SIANO DELLE NORME DI
COMPORTAMENTO CHE VALGONO PER TUTTI GLI UOMINI?
Certo: se non ci fossero, si potrebbero giustificare tutte le efferatezze commesse ad esempio
contro gli Ebrei (vedi l'Olocausto) e contro i negri (vedi la tragedia della tratta).
La tua è una convinzione, credo, largamente condivisa. Ma senti: su che cosa si fondano, per
te, norme che valgono per tutti gli uomini?
Non vedo altra fonte se non Dio (che per me è il Dio cristiano): come potrebbero delle norme
essere imposte a tutti gli uomini - anche ai più riottosi, anche ai più prepotenti - se avessero
un fondamento puramente umano?
La tua è una convinzione diffusa: i credenti cristiani non credono, forse, che Dio abbia rivelato
all'uomo come deve comportarsi? Tieni presente, però, una possibile obiezione: come
potrebbero delle norme di una religione avere un valore universale? E allora dove trovare un
fondamento?
Credo che vada trovato non in una religione rivelata, ma nel Dio a cui gli uomini arrivano
grazie alla ragione: le norme hanno un valore universale proprio perché tutti possono accedere
a Dio grazie alla ragione che è comune a tutti gli uomini.
Come farebbero delle norme fondate su Dio avere un valore per chi è ateo o agnostico?
SE LE NORME MORALI FOSSERO FONDATE SU UN DIO DIMOSTRATO CON LA RAGIONE, come
potrebbero aver un valore per gli atei e gli agnostici? Non ti sembra, dunque, che occorra
cercare altrove il fondamento?
Certo: a questo punto della ricerca per me l'unico fondamento che può dare alle norme un
valore universale è la razionalità, razionalità che come è noto è ciò che caratterizza l'uomo e
quindi è comune a tutti gli uomini.
La tua è una convinzione diffusissima nella storia della filosofia: gli stessi illuministi - ne hai
sentito parlare, vero? - erano di questo avviso.
Se teniamo in considerazione l'obiezione che mette in dubbio la possibilità di seguire procedure
razionali comuni per arrivare a delle conclusioni comuni, sembra che siamo in un... cul de sac.
Siamo, cioè, sulla strada del... relativismo. Vediamo se siamo in grado di evitare il relativismo.
Proviamo con un esempio concreto: su che cosa potrebbe essere fondato il principio (condiviso
da molti) secondo cui l'interruzione della gravidanza è male, peccato?
Mi sembra ovvio: l'interruzione di una gravidanza è un vero e proprio omicidio.
E' l'opinione di alcuni (non solo cattolici). Vi è, però, chi nega che l'embrione vada considerato
come uomo a tutti gli effetti.
Esaminiamo l'IPOTESI SECONDO LA QUALE NON ESISTONO NE' VALORI NE' NORME
ASSOLUTE, UNIVERSALI. Se così fosse, che conseguenza si avrebbe?
Si potrebbe giustificare qualsiasi delitto (anche genocidio) in nome di "valori" nobilissimi.
La tua è un'opinione tutt'altro che sballata: nella storia non abbiamo incontrato delitti contro
l'umanità perpetrati in nome di valori sbandierati come nobili?
Nell'ipotesi che non vi siano norme assolute, quindi, si avrebbe da una parte l'esaltazione
dell'uomo, ma dall'altra si potrebbe arrivare a giustificare qualsiasi delitto. Senti: vuoi chiarire
in che senso l'uomo - in mancanza di norme assolute - verrebbe esaltato?
Nel senso che l'uomo non si trova delle norme già pronte, ma le deve cercare, vagliando i pro
e i contro di ogni scelta.
Indubbiamente l'uomo che non ha... la mamma che gli indica la strada, si sente obbligato a
cercarla e quindi è potenziato come uomo. Non è, però, esclusa una componente di angoscia:
l'uomo privo di certezze assolute può essere perennemente in preda al dubbio e quindi
all'angoscia.
Prendiamo in considerazione UN CASO CONCRETO: E' MORALE O IMMORALE L'EVASIONE
FISCALE?
Non mi pare si possa chiamare morale o immorale: l'evasione fiscale è semplicemente una
violazione di leggi dello Stato e nient'altro.
L'evasione fiscale è indubbiamente una violazione di leggi dello Stato, ma non ritieni che
ognuno, prescindendo da leggi, "debba" contribuire ai servizi dell'intera comunità? E' un
quesito: pensaci!
Inizia qui il primo viaggio teso ad interrogare i primi pensatori che si sono esplicitamente
occupati della problematica etica. Il principale quesito che ti propongo: TUTTO, IN CAMPO
MORALE, E' RELATIVO?
Di "valori", sono ricchi i grandi poemi: dalla forza al coraggio all'onore all'astuzia all'intelligenza
(in Omero) al lavoro, al dovere e alla forte sete di giustizia contro i prepotenti (in Esiodo). Si
tratta di valori che riflettono esigenze di ceti sociali diversi (quello aristocratico in Omero,
quello contadino in Esiodo) e di civiltà antichissime (IX e VIII secoli). Una riflessione "filosofica”
si ha, tuttavia, solo con Democrito (V e IV secoli). Quale potrebbe essere, secondo te, la sua
visione etica?
Provo ad intuire. Considerato il suo materialismo, credo che per lui il bene sia l'equivalente del
"piacere" sensibile: quale altro bene - uno "spirituale? - potrebbe concepire uno che ha un
orizzonte esclusivamente materialistico?
E' la tua una deduzione sicuramente forzata. Si tratta, comunque, di una convinzione
abbastanza diffusa (almeno nel passato). Democrito è convinto, è vero, che il bene sia la
felicità, ma questa felicità non si identifica (tutt'altro!) con il piacere sensibile.
PER DEMOCRITO LA FELICITA' NON RISIEDE NE' NEI PIACERI, NE' NELLE RICCHEZZE, MA
NELL'ANIMA: nella ragione come guida, nell'equilibrio, nel rispetto di se stessi, nel non volere
(non solo commettere) ingiustizie. E per i sofisti (i primi pensatori a focalizzare l'interesse
sull'uomo e non sul cosmo)? Puoi intuire in base a quanto già sai?
Di una cosa sono sicuro: i sofisti - che come è noto sono relativisti - non possono che
affermare la... relatività dei valori, non possono, cioè, che negare dei valori morali assoluti.
E' vero: per i sofisti non esistono criteri assoluti di verità e quindi neanche criteri assoluti per
stabilire i "valori”. E' anche vero, però, che i sofisti non legittimano qualsiasi opinione morale:
per loro dovrebbe essere seguito il criterio dell'utile, cioè ciò che giova sia all'individuo che alla
comunità. Questo in generale. Vi sono anche dei sofisti che hanno, però, posizioni diverse.
I SOFISTI ritengono che la "VIRTU'" NON sia UN QUALCOSA DI DATO DAGLI DEI O DALLA
CLASSE SOCIALE, ma qualcosa che si può e che si deve insegnare. Gli stessi sofisti, come è
noto, insegnano a pagamento la virtù politica, l'abilità, cioè, di partecipare attivamente - con
l'arte della retorica - alle scelte che riguardano la comunità.
Socrate, per certi aspetti, è sulla stessa lunghezza d'onda dei sofisti. Anche per lui, infatti, la
virtù non è un dono, ma una conquista faticosa. E cos'è questa virtù - l’arte, cioè, di vivere
bene, di vivere in modo ottimale il proprio essere “uomo”? Per Socrate è “sapere”, cioè...
(prova ad intuire)
un sapere frutto della ricerca: virtuoso, cioè, è colui che conosce il Bene e il Male e li conosce
perché li ha cercati dentro di sé ragionando.
Tu parli di “Bene” e di “Male”, ma dovresti sapere che per Socrate l’uomo non è mai in grado di
scoprire Verità assolute.
PER SOCRATE NON ESISTONO IL BENE, IL MALE, IL GIUSTO, L'INGIUSTO... (o, meglio, non
sono accessibili all’uomo). Per lui virtuoso è chi non segue le mode, la tradizione, ma riflette,
ragiona, mette in discussione tutto e ricerca (dialogando con se stesso) ciò che è bene fare in
una determinata circostanza. E chi è allora il malvagio?
Naturalmente chi non è sapiente, chi cioè non ha ricercato dentro di sé e non ha quindi trovato
con la riflessione critica ciò che deve essere fatto in una circostanza concreta, chi in altre
parole è ignorante.
Se fosse così, non ti pare che Socrate attenui la responsabilità morale del malvagio definendolo
semplicemente “ignorante”?
Il rischio c’è, ma non vedo un’altra possibile spiegazione se si parte dal presupposto che virtù è
sapere.
Infatti: è quanto pensa Socrate che arriva a dire (così, almeno, si dice di lui) che "nessuno
pecca volontariamente". CHI FA IL MALE, secondo Socrate, LO FA PERCHE' PER LUI E' BENE, lo
fa, cioè, perché non conosce il vero bene (un bene minuscolo, naturalmente). Da qui l'accusa
di "intellettualismo etico". Sai cogliere il significato di tale accusa?
Certo (lo desumo da quanto appena detto):
Socrate, secondo l'accusa, avrebbe
sopravvalutato - in campo etico - il ruolo della ragione, dimenticando che uno può conoscere il
bene e "non volerlo".
Sono questi, infatti, i termini dell'accusa: Socrate avrebbe sottovalutato il ruolo della volontà e
degli istinti. Socrate arriva a sostenere che è migliore chi pecca sapendo di peccare rispetto a
chi fa il bene per abitudine, a caso. Cosa vorrà dire?
E' una tesi che mi sconcerta: infatti smentisce l'altra tesi secondo cui chi fa il male lo fa perché
non conosce il bene, perché è ignorante.
E' vero. Da una parte, cioè, appare come una smentita della tesi secondo cui non si può fare il
male conoscendo il male, dall'altra, però, conferma il primato della coscienza, della riflessione
razionale come guida delle azioni. "CONOSCI TE STESSO". Socrate INVITA A NON SEGUIRE
L'ANDAZZO, LE MODE (sia rivoluzionarie che conservatrici), dei Valori considerati come
assoluti, immutabili, ma a riflettere, a dialogare con sé ad esaminare i pro e i contro prima di
decidere, a scegliere cioè con consapevolezza critica. Ma in concreto "cos'è che l'uomo deve
fare"?
Che mi risulta Socrate (e questo emerge da tutto quanto abbiamo finora visto) non offre
precetti, comandamenti precisi, in quanto per lui non ci sono formule immutabili, dei criteri
assoluti di bene e male.
Ma... se non dà indicazioni precise, di fatto lascia la scelta concreta all'individuo e quindi ricade
nel relativismo dei sofisti. O no?
E’ vero, ma è anche vero che per Socrate è compito di ogni uomo cercare ciò che è bene per
lui e la comunità.
E’ così. Socrate col suo interrogare gli interlocutori sulle "definizioni" (di virtù, di giustizia...)
avverte l'esigenza di uscire dal relativismo dei sofisti, ma nella misura in cui non approda a
Valori assoluti, rimane nell'ambito del relativismo. I suoi valori non si identificano in contenuti
specifici, ma nel primato della ragione sugli istinti, nella riflessione, nella consapevolezza.
Nietzsche lo accusa di aver ucciso gli istinti, la gioia di vivere. Hai avuto questa impressione?
No, non ho avuto questa impressione. Nella misura in cui Socrate invita l'uomo a riflettere, ad
usare sempre la ragione, lo invita ad essere pienamente umano, a realizzarsi come uomo: uno
non è gratificato quando si sente realizzato?
E' questa l'interpretazione più diffusa: per Socrate il primato della ragione non significa
annullamento degli istinti, ma la loro disciplina, il loro controllo perché non danneggino
nessuno. LA VIRTU' - abbiamo detto - non è per Socrate un dono, ma UNA FATICOSA
CONQUISTA, un sapere (quello di essere uomini, il mestiere di vivere bene) - naturalmente
insegnabile - che è il più difficile di tutti. Socrate arriva ad indicare un valore arditissimo per il
pensiero greco: è preferibile subire il male che commetterlo!
L'interpretazione di Nietzsche vale sicuramente per i cinici (una scuola socratica) per cui il
virtuoso è...
l'asceta (mi sembra la logica conseguenza di quanto detto).
E' proprio così: i cinici (si chiamano così perché vivono una vita... da cani) disprezzano le
comodità della vita e hanno come ideale il vivere secondo natura, senza bisogni artificiali,
senza agi (indotti, diremmo, noi dalla pubblicità).
PER I CINICI IL BENE E' LA VIRTU' E LA VIRTU' E' VIVERE DISPREZZANDO LE COMODITA', gli
agi, i bisogni artificiali (cioè non naturali). I cirenaici (un'altra scuola socratica) al contrario
sono degli... edonisti, cioè...
Non conosco il termine "edonisti", ma credo (dato che i cirenaici sono su una posizione opposta
a quella dei cinici) che considerino il bene come piacere: una vita all'insegna del piacere non è
opposta ad una di tipo ascetico?
E' vero. I cirenaici ritengono che il fine dell'uomo sia il piacere, il piacere sensibile, il piacere
dell’attimo: non è il caso di pensare al passato che non c'è più né al futuro che non sappiamo
se verrà.
Riflettiamo un po’. C'è chi è convinto che un materialista sia di per sé immorale. Tu cosa ne
pensi?
Credo proprio di sì: se tutto è materia, se non esistono valori spirituali, se non esiste la
prospettiva di una vita ultraterrena, tutto è lecito.
Tu non conosci nessuno che pur negando qualsiasi prospettiva spirituale è spinto da una forte
carica di solidarietà? Ce ne sono di tali persone. Tali persone, quindi (lo stesso Democrito che
hai incontrato), testimoniano che l'essere materialisti non significa affatto essere immorali.
Democrito e Socrate sono convinti che l'uomo debba avere come guida per il suo
comportamento la ragione. Cosa ne dici?
Lo credo anch'io: l'uomo si distingue dagli animali proprio perché ha la ragione, da qui quindi
la necessità che si comporti non seguendo gli istinti, ma la ragione.
E' una convinzione praticamente universale. Certo, però, bisogna accertare se tale ragione è in
grado di dettare delle norme valide per tutti.
SOCRATE, come sai, NON HA L'AMBIZIONE DI DEFINIRE UNA VOLTA PER TUTTE COSA E'
"BENE" E COSA E' "MALE" ed è convinto che sia ogni uomo a ricercare (riflettendo molto,
dialogando con se stesso) cosa è bene fare in una determinata situazione. Cosa ne pensi?
Socrate per molti aspetti mi affascina, ma qui mi delude: se non si esce dal relativismo,
addirittura dal situazionismo (il bene e il male cambiano a seconda delle situazioni), si rischia
di giustificare tutto.
La tua esigenza (di arrivare a delle "certezze" che valgono per tutti) è più che legittima, così
pure la tua preoccupazione che senza certezze universali si possa giustificare tutto. Non ti
sembra, tuttavia, che l'impostazione di Socrate possa... responsabilizzare l'uomo, la sua
coscienza?
Socrate teorizza il primato della coscienza. In questo, indubbiamente, responsabilizza l'uomo.
Non ti sembra, però, pericolosa questa strada?
Certo che è pericolosa! Se non esistono dei valori "assoluti" (dei valori, cioè, che vanno al di là
della mia coscienza e valgono per tutti), vi è il rischio di giustificare tutto, anche i delitti più
efferati.
La tua preoccupazione è legittima: non è impossibile giustificare un delitto sulla base della
"propria" coscienza.
Socrate è stato accusato di "intellettualismo etico". Cosa ne dici?
Non la considero un'accusa: solo uno che è fortemente consapevole di che cosa deve fare,
agisce di conseguenza.
E' questa un'opinione interessante. Vuoi dire - mi pare - che per fare qualcosa occorre essere
fortemente motivati e quindi fortemente consapevoli.
Cos'è che ti sembra attuale (e quindi utile anche per te) di Socrate?
Il suo invito a non seguire le mode, gli slogan, le verità confezionate (dai mass media) e ad
agire sempre in seguito ad una ricerca personale, ad una profonda riflessione.
Condivido la tua lettura. Sulla problematica morale di Socrate ti suggerisco "Invito a dialogare
con Socrate via computer" (Armando Editore). Si tratta di una brillante simulazione del dialogo
platonico "Eutifrone" ideata da don Barker, Steve Scott e Padric Doughter tradotta e rinnovata
in versione italiana da Livio ROSSETTI e David LANARI. L'oggetto del dialogo: la pietà.
Affrontiamo Platone. Platone, come sai, va oltre il suo maestro nel prendere le distanze dal
relativismo dei sofisti: per lui i Valori ci sono e non sono... umani, ma trascendenti l'uomo
stesso, cioè...
La risposta mi sembra ovvia: i valori non sono una creazione umana, ma hanno un
fondamento divino.
E' vero: i Valori (le idee-valori) hanno un’esistenza trascendente rispetto all'uomo. Non si
tratta, ovviamente, di Valori rivelati da Dio, ma di Valori che in quanto eterni, immutabili,
hanno praticamente caratteristiche divine, contrapposte a quelle delle cose.
I Valori morali (come i valori estetici e politici) per Platone hanno un'esistenza che trascende il
mondo sensibile e sono eterni, immutabili. Tu hai certamente sentito parlare di "amore
platonico”. Di che si tratta?
A quanto mi risulta è un amore non sensuale, squisitamente spirituale.
E' vero. Per Platone l'eros (l'amore) è sete, brama di bellezza, una brama che non deve
limitarsi alla bellezza corporea, ma deve trascenderla in quanto la vede come un'imitazione
della Bellezza in sè, del Bello cioè come Valore divino.
Cosa c'entra - dirai - l'amore platonico col discorso dell'etica? C'entra nel senso che per Platone
è la bellezza che con la sua forza risveglia nell'uomo il ricordo dei Modelli eterni: l'eros, quindi,
si trasforma in una passione per la Verità. Chiariamo. Platone - come sappiamo - ha una
visione dualistica dell'uomo: il corpo è una sorta di carcere per l'anima. Com'è allora che
l'uomo deve agire?
Mi sembra ovvio: deve agire in modo ascetico se vuole liberarsi dal carcere (dal mondo delle
passioni, della sensibilità).
Il tuo discorso è coerente, ma Platone - nonostante tutto - è molto meno ascetico di quanto tu
immagini. Ti suggerisco l'immagine che usa Platone: l'anima è un cocchio alato che è trainato
da due cavalli ed è guidato da un auriga. Cosa vorrà dire?
L'immagine credo di poterla interpretare in questo modo: l'auriga è sicuramente la ragione e i
due cavalli le passioni umane.
E' questo il senso che ne dà Platone: l'auriga è la ragione e i cavalli rappresentano le passioni.
Un senso - mi pare - chiaro.
I cavalli (le passioni, i desideri, le tensioni, le opinioni...) svolgono un ruolo fondamentale. In
che senso?
Nel senso che se si eliminassero, il cocchio non potrebbe muoversi.
E' vero. La ragione, comunque, svolge un ruolo ancor più importante. I cavalli - uno focoso
(l'anima irascibile) e l'altro tardo (l'anima concupiscibile) - sono condizioni indispensabili
perché il cocchio si muova. Sotto questo profilo il messaggio platonico è tutt'altro che ascetico.
E il ruolo della ragione?
Mi sembra semplice la risposta: se l'auriga non fosse in grado di guidare i due cavalli e fosse
trascinato o dall'uno o dall'altro, il cocchio non arriverebbe ovviamente al traguardo.
E' quanto pensa Platone. Un pensiero che risulta in modo abbastanza chiaro dall'immagine.
Al di là dell'ottica dualistica, Platone, quindi, si trova sulla stessa lunghezza d'onda di Socrate
nel sostenere che è la ragione che deve guidare le passioni. Il mito di Er - secondo cui è l'uomo
il responsabile del suo destino, anche se condizionato dall'educazione avuta dall'anima nelle
esistenze precedenti - è una conferma di questa sintonia. Siamo, dunque, in un'ottica
"umanistica”. E come si spiega, in questa ottica, la condanna dell'arte?
L'arte (penso alle tragedie) può nuocere agli uomini perché li coinvolge nelle passioni e nei vizi
dei personaggi delle vicende rappresentate.
Platone utilizza sia questa argomentazione (la tragedia eccita le passioni degli spettatori) che
un’altra: l'incombere, sottolineato dalla tragedia, del Fato sull'uomo.
Platone condanna l'arte anche per un'altra ragione, cioè...
perché (penso in particolare alla pittura) l'arte allontana l'uomo dai Modelli in quanto imita ciò
che è già imitazione (cioè la natura).
Riflettiamo un po'. Cosa dici dell'esigenza platonica di agganciare la morale a Valori non
mutevoli, non legati ai singoli uomini, ma immutabili, eterni, che valgono per tutti gli uomini?
Mi sembra un'esigenza sacrosanta. Va bene ricercare, mettere in discussione tutto (come fa
Socrate), ma non si può cercare tutta la vita.
E' un'opinione più che legittima. Ma ti sembra un'esigenza che si può soddisfare?
La dottrina di Platone mi pare una risposta credibile.
Dove sarebbero questi valori? Perché mai non tutti sono d'accordo su che cosa è
effettivamente il "bene" per l'uomo?
Il messaggio di Platone ti sembra attuale?
Mi sembra di sì non solo perché il suo è un invito a porre ordine alle nostre passioni (un ordine
razionale), ma anche perché ho la sensazione che l'immagine del cocchio in qualche modo dica
quanto, in un contesto ovviamente diverso, afferma la psicoanalisi freudiana: ho letto di una
divisione della psiche in Io, Id e Super-io.
Il riferimento a Freud è intelligente: anche Freud, infatti, parla di una componente della psiche
(l'Io) che ha il compito di controllare sia la sfera istintuale (l'Id) che la... polizia interna
rappresentata dal Super-io. Tale polizia interna, tuttavia, non è da considerarsi come una
passione alla stregua di Platone.
Democrito, Socrate e Platone sono - al di là della loro impostazione generale - sulla stessa
lunghezza d'onda: per loro l'uomo si realizza come uomo nella misura in cui usa la ragione
come guida del suo comportamento. E Aristotele? Procediamo con ordine. Per lui l'uomo agisce
in funzione di un fine positivo. Ad es. perché l'uomo desidera le ricchezze, la salute?
E' semplice: perché sono dei mezzi che ci consentono di essere felici.
E' quanto pensa Aristotele: la ricchezza e la salute, ad esempio, sono desiderate per la
soddisfazione e i piaceri che possono dare.
Per Aristotele l'uomo desidera il bene ed in ultima analisi desidera la felicità (che per lui è il
bene sommo): tutti i beni, in altre parole, che desideriamo, sono desiderati come mezzi per
essere felici. Ma quand'è che l'uomo può dirsi felice?
Quando ha tutto quello che gli serve (ricchezza, salute, amicizie...) per essere felice.
Aristotele non nega che l'essere ricchi e l'essere in buona salute possano rendere più facile la
via che porta alla felicità squisitamente "umana", ma è lungi dal pensare che la ricchezza, ad
esempio, possa provocare tout court questa felicità umana.
Per Aristotele l'uomo è felice quando realizza se stesso come uomo, quando cioè vive seguendo
la ragione. Anche Aristotele, quindi, si trova sulla lunghezza d'onda di Socrate... Chi agisce
secondo ragione è virtuoso e quindi è felice. Ma... in concreto in che cosa consiste la virtù? Per
lui consiste nello scegliere il "giusto mezzo". Cosa vorrà dire?
Mi sembra intuibile: è virtuoso, ad es., chi sceglie il giusto mezzo tra la viltà e il coraggio.
Ti sembra il giusto mezzo evitare la viltà e il coraggio? Allora quale sarebbe il comportamento
virtuoso? Per Aristotele il giusto mezzo è la via intermedia tra il difetto e l'eccesso. Ora in
questo caso non ti sembra che il difetto sia la viltà (e l'hai detto) e l'eccesso sia il non temere
assolutamente il pericolo (cioè l'essere temerario)?
La capacità di riconoscere il giusto mezzo - cioè la via intermedia tra il difetto e l'eccesso - è
chiamata da Aristotele "saggezza" che è una virtù intellettuale. La virtù (come per Socrate, ad
esempio) non è qualcosa di dato, ma è una conquista, una conquista che deriva
dall’"esercizio”. Ma per Aristotele il vivere seguendo la ragione, con "saggezza", non è ancora il
massimo a cui può tendere l'uomo. Quale sarebbe questo massimo?
Ci provo: l'uomo realizza il grado più alto di felicità nella vita politica: la saggezza è la tipica
virtù dei politici.
Hai indubbiamente fatto un collegamento intelligente: tra la saggezza che presiede la scelta del
giusto mezzo e la saggezza (e non la sapienza) che dovrebbe essere la guida dei governanti. Il
massimo, però, della felicità, per Aristotele è rappresentato dalla vita teoretica, dalla vita cioè
contemplativa.
La felicità somma, per Aristotele, è rappresentata dalla pura conoscenza (conoscenza in sé,
non subordinata a nessuna finalità pratica), conoscenza che rende l'uomo simile a Dio (che,
come sai, è "pensiero di pensiero”). Aristotele, tuttavia, non ritiene che tale vita sia da
proporre come un modello per tutti: solo un'elite intellettuale può permettersi questa vita
"divina”. Ma anche la virtù del giusto mezzo non è per lui un modello universale. La virtù degli
schiavi è l'ubbidienza. E non solo. La virtù dell’ubbidienza è anche dei figli e delle donne che
devono essere sottomessi al capofamiglia. Schiavi, figli e donne realizzano se stessi ubbidendo.
Aristotele, per completare, dà molta importanza all’"amicizia” e, rispetto a Platone, conferisce
all'arte una funzione di purificazione delle passioni.
Riflettiamo un po'. Cosa dici dell'affermazione aristotelica secondo la quale l'uomo in ultima
analisi desidera quello che desidera in funzione della felicita'?
Mi sembra una lettura corretta dell'uomo: tutti gli uomini - anche gli stessi cristiani - agiscono
in funzione della felicità (o squisitamente umana o eterna).
Se fosse così, come spiegheresti i cinici? A meno che tu non ritenga che i cinici e gli asceti alla stregua dei masochisti - provino la felicità proprio nella mortificazione, nel sentire
sofferenza. Potrebbe essere interessante affrontare la lettura "psicoanalitica”, ad esempio, del
masochismo. Se ti interessa, leggi qualcosa di Freud al riguardo.
Cosa dici della virtù intesa come habitus ad evitare l'eccesso e il difetto?
Mi sembra, sì, un modello di saggezza, ma ho la sensazione che se tutti l'avessero seguito, non
avremmo avuto, gli eroi, i santi, i rivoluzionari...
Un'osservazione intelligente, perspicace: se tutti si fossero comportati in questo modo, certo
non avremmo avuto gli eroi, i santi, i rivoluzionari.
Cosa dici della tesi di Aristotele secondo cui non esiste una virtù comune a tutti gli uomini (un
conto sono gli schiavi, i figli, le donne la cui virtù è l'ubbidienza ed un conto gli uomini liberi
che devono seguire il giusto mezzo)?
Ha una sua logica. Ogni uomo deve realizzare se stesso: come potrebbe un figlio realizzarsi se
pretendesse di disubbidire a suo padre che lo educa e che ha la responsabilità su di lui?
Hai scelto l'esempio del figlio che potrebbe al limite reggere nella misura in cui un minorenne
avrebbe il dovere di ubbidire al capofamiglia che ne è il responsabile a tutti gli effetti, ma come
potresti giustificare l'ubbidienza delle donne e degli schiavi se non all'interno di una mentalità
che vede queste persone come inferiori, incapaci di intendere e di volere?
Affrontiamo ora le scuole ellenistiche. Il tema? La felicità.
Epicuro è, per certi aspetti, sulla stessa lunghezza d'onda dei cirenaici. Egli considera, infatti, il
bene come...
piacere.
Ti ricordi bene: Epicuro non è certo seguace dei cinici. Egli è sulla lunghezza d'onda dei
cirenaici, anche se non propone lo stesso messaggio dei cirenaici. Per lui il piacere non è il
godere l'attimo fuggente, ma un'assenza di turbamento, cioè la felicità che per Epicuro è
caratteristica...
degli dei: essi infatti - lo ricordo bene - vivono felici, imperturbabili, senza preoccuparsi degli
uomini.
E' quanto pensa Epicuro: la felicità intesa come imperturbabilità è la caratteristica degli dei. Gli
dei, infatti, vivono beati. Epicuro propone agli uomini il modello di vita degli dei: non piaceri
immediati, non il... carpe diem di oraziana memoria (ti ricordi?), ma l'assenza di
preoccupazioni, l'assenza di dolore. Da qui l'invito a liberarsi dai bisogni superflui, non
necessari, non naturali, in sintonia con...
i cinici
Può sembrare paradossale rispetto a quanto detto prima, ma è così: siamo di fronte ad una
tesi che ha una forte somiglianza con quella dei cinici.
Ma...come è possibile coniugare l'edonismo (nella misura in cui Epicuro afferma il piacere come
bene) e l'ascetismo? Non siamo di fronte ad una contraddizione evidente?
No: non c'è contraddizione perché il piacere epicureo ha una valenza negativa: si tratta solo
dell'assenza di dolore, di preoccupazioni.
Devi tener presente che per Epicuro è la stessa liberazione dai bisogni superflui che porta
l'uomo a liberarsi da preoccupazioni.
Abbiamo visto l'assonanza, per un certo aspetto, con i cirenaici e, per un altro aspetto, con i
cinici. Ma... Epicuro si trova lontano rispetto alla linea prevalente che va da Demcocrito a
Socrate a Platone ad Aristotele che afferma il primato della ragione?
Non credo (sulla base, almeno, di quanto detto fino ad ora): se non va ricercato il piacere
dell'attimo fuggente, vuol dire che per Epicuro a guidare la scelta dell'uomo non possono
essere le passioni, ma deve essere la ragione.
E' questa la convinzione di Epicuro. Secondo lui l'uomo deve fare un calcolo razionale sui
possibili effetti di una determinata scelta: se questi effetti sono preoccupazioni, allora tale
scelta non è da prendere.
Epicuro, quindi, invita a calcolare razionalmente le conseguenze di una determinata scelta: se,
ad esempio, una... cotta, una... mangiata destano preoccupazioni, provocano dolore, si deve
rinunciare ad esse. L'edonismo di Epicuro, dunque, è di tipo raffinato, razionale: da qui, ad
esempio, il culto dell'amicizia (come bene in sé), l'inno alla solidarietà (è più piacevole fare il
bene che riceverlo).
Riflettiamo un attimo. Cosa dici della concezione etica di Epicuro?
Una concezione nobile, aristocratica: l'ideale dell'assenza di turbamento, dell'assenza di dolore,
dell'assenza di emozioni, non è certo accessibile alla massa, ma solo ad un'élite di saggi.
E' di fatto aristocratica, nel senso che una morale siffatta è accessibile a pochi. Questo, però,
non toglie che ogni uomo debba tendere a questo ideale.
Cosa dici della "felicità”? Ti sembra un valore?
Non la considero semplicemente come un valore, ma come IL VALORE: cosa c'è al mondo che
vale di più dell'essere felici?
Una considerazione indubbiamente legittima. Non ti sembra, però, egoista?
Per nulla. Io voglio dire che il massimo valore a cui tendono gli uomini (tutti gli uomini) sia,
appunto, la felicità.
Forse non hai torto a dire che la massima aspirazione dell'uomo sia essere felice. Ovviamente
la felicità per chi rischia di morire di fame può essere un piatto di minestra, cioè qualcosa di
diverso rispetto a quanto desideri tu.
Cosa dici della "felicità" nella accezione epicurea?
Mi sembra troppo razionale: esige troppo controllo, controllo che di fatto soffoca la spontaneità
dell'uomo. E poi, se non si sperimentassero le ansie, le preoccupazioni, come si farebbe ad
apprezzare la serenità interiore?
Di sicuro siamo di fronte ad un piacere raffinato che si può perseguire solo con un
autocontrollo. Soffoca la spontaneità? Di certo soffoca l'espressione immediata degli istinti (o
no?). Tu dici, poi, che per apprezzare la serenità interiore, bisognerebbe sperimentare le ansie,
le preoccupazioni: mi pare un discorso sensato.
AVREBBE SENSO LA MORALE, SE L'UOMO NON FOSSE LIBERO? Interrogheremo gli stoici. Ti
sembra possibile una morale stoica?
No: come sarebbe possibile una morale all'interno di una concezione secondo la quale il cosmo
è un ordine necessario?
L'osservazione è intelligente: se tutto fosse necessario, dove andrebbe a finire la libertà di
scelta, libertà che è la condizione fondamentale della morale?
Sembra proprio un problema l'esistenza di una morale in una concezione secondo la quale
tutto è necessario. Hai presente perché secondo lo stoicismo l'uomo non può essere libero di
scegliere?
Mi sembra di sì: l'uomo non è libero perché è interamente determinato da leggi che regolano la
materia (come è noto per gli stoici anche l'anima è in ultima analisi costituita da atomi
materiali).
L'atomismo qui non c'entra proprio: per gli stoici l'anima è sì materiale (si tratta di un principio
attivo, però, non passivo), ma non è costituita da atomi.
L'uomo non è libero (e non può esserlo) in quanto non è un... individuo, ma parte del Tutto
che è Dio, l'Ordine razionale. Ma... eppure lo stoicismo parla di libertà. In quale possibile
senso?
Mi viene in mente una possibile spiegazione: qui libertà potrebbe significare (utilizzo un
concetto - mi pare - in sintonia con quanto dice Freud) libertà dall'ignoranza, conoscenza cioè
di ciò che ci determina.
Tra i filosofi che hanno sostenuto una concezione monistico-panteistica è diffusa la convinzione
che la libertà non è altro che una presa di coscienza di non essere liberi, cioè libertà
dall'ignoranza.
In concreto quale potrebbe essere la morale di chi è arrivato alla consapevolezza (il saggio
stoico) di essere parte di un Ordine necessario? Prova ad intuire.
Non vedo un altro possibile senso che questo: l'accettazione consapevole del Destino.
E' fondamentalmente la convinzione degli stoici: per loro l'essere virtuoso consiste nel
conformarsi all'ordine razionale del Cosmo.
Per gli stoici gli animali hanno "l'istinto" come guida infallibile al fine della sopravvivenza, gli
uomini la "ragione". E' sulla ragione (sulla base di quanto essa dice) che fondano il concetto di
"dovere" inteso come conformità all'ordine razionale. Ed è tanto forte questa etica del dovere
che gli stoici arrivano a giustificare il suicidio. In che senso? Prova ad intuire.
Non capisco il senso: se tutto fosse necessario, il suicidio non sarebbe frutto di una libera
scelta.
Il tuo giudizio è fondato e riguarda non solo l'atto in questione (cioè il suicidio), ma qualsiasi
scelta dell'uomo. In uno scenario in cui tutto è necessario, ogni scelta non sarebbe libera.
E' la ragione la fonte dei doveri: è la ragione, ad esempio, che mi dice se ciò che dettano gli
istinti è dovere o contro il dovere o indifferente. Il dovere, però, non è il bene. Il bene è la
virtù che è la stabile disposizione a conformarsi alla natura. Con chi sono in sintonia gli stoici
con questa equazione (bene=virtù)?
Mi sembra ovvio: non possono che essere sulla lunghezza d'onda di Platone che in nome del
suo dualismo ( o meglio della sua concezione secondo cui l'anima deve liberarsi dalla prigione
del corpo) identifica il bene con la virtù.
Platone - come abbiamo appena visto - è un po’ un dualista sui generis nel campo dell'etica:
infatti per lui ciò che è corpo, piacere, passioni non è da annullare, ma da guidare, controllare.
Platone è tutt'altro che ascetico. Sono i cinici che hanno visto nella virtù il sommo bene.
Il virtuoso è il saggio: solo il sapiente, infatti, conosce l'ordine necessario del mondo.
Torniamo, quindi, ad una vecchia tesi, quella di...
di Socrate: per lui la virtù è sapere.
E' vero. Gli stoici portano alle estreme conseguenze la tesi di Socrate (o, meglio attribuita a
Socrate): solo il sapiente fa il bene e fa tutto bene, mentre lo stolto fa tutto male.
La virtù è il solo bene. E cosa sono allora la ricchezza, il piacere, la salute...? Per gli stoici sono
"cose indifferenti". Tra la salute e la malattia, ad esempio, però, è la salute che è degna di
essere preferita: le cose indifferenti che sono degne di essere preferite sono "valori”.
Concludiamo: cosa si intende per "apatia" stoica? Cerca di intuire.
Il saggio - immagino - consapevole dell'ordine necessario del mondo e della vita rimane
apatico, senza iniziativa (l'iniziativa non può essere umana perché l'uomo non è individuo, ma
solo una parte di Dio).
Non è questo il senso di "apatia": apatia, in greco, significa assenza di emozioni ed è l'ideale
del saggio. Il saggio, cioè, deve liberarsi dalla paura, dalla brama...
Le emozioni non sono niente di naturale: sono solo il prodotto di giudizi erronei, di giudizi di
chi è stolto, di chi, cioè, non conosce l'ordine necessario e la perfezione dell'universo. Da qui
l'esigenza che avverte il sapiente di liberarsene.
Riflettiamo un attimo. Cosa pensi della morale stoica?
Sono convinto che abbia ragione nella misura in cui sostiene che l'etica si fonda sul sapere: chi
non ha una visione del mondo fondata, chi in altre parole è prigioniero dell'ignoranza, dei suoi
pregiudizi, come fa a sapere come comportarsi?
E' un'osservazione pertinente: come si potrebbe sapere come l'uomo deve comportarsi, se
l'uomo rimanesse nell'ignoranza, non conoscesse, cioè, la verità? Ma... nel caso specifico dello
stoicismo non ti sembra che la concezione panteistica metta in crisi il concetto stesso di morale
umana?