standstill per - Avvocati e Commercialisti
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L’ANALISI OBIETTIVO PMI | UN’ALLEANZA CON I CREDITORI STANDSTILL PER LA PICCOLA IMPRESA Si potrebbe rinunciare a far valere i crediti per un periodo sufficiente a consentire la ripresa finanziaria del debitore, mentre le banche dovrebbero mantenere le linee di credito di Luca Breveglieri* L a crisi c’è e la si avverte. L’inadempimento dei clienti e la mancanza di nuove commesse, che consentano di ricorrere al credito, costringono gli imprenditori a fare i conti con situazioni di illiquidità che non lasciano altra alternativa se non sottrarsi agli impegni di pagamento presi quando non a rischiare concretamente il fallimento: e ciò, nonostante le loro imprese siano sane e potenzialmente profittevoli. Detta situazione di illiquidità fa quindi venir meno le risorse necessarie per pagare il “passato” dell’impresa prima ancora di quelle per finanziare il “futuro” e per garantire così la continuità aziendale. Assillati dai debiti scaduti e tormentati dallo spettro di quelli di futura scadenza, gli imprenditori adottano politiche di abbattimento dei costi (anche sofferte, come nel caso dei tagli delle spese per le maestranze, attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali), che spesso non sono sufficienti. Come detto, sul piatto c’è la so52 TOPLEGAL Febbraio 2010 pravvivenza dell’impresa, esposta a serio rischio nell’ipotesi in cui le difficoltà finanziarie transeunti si cronicizzassero, fino ad integrare gli estremi della vera e propria insolvenza rilevante ai fini dell’assoggettamento a fallimento. E, insieme con la sopravvivenza dell’impresa, sul piatto c’è, nella prospettiva di una ripresa, il mantenimento della continuità aziendale e la salvaguardia dei rapporti con i partner strategici e della quota di mercato, così faticosamente acquisiti in anni di consacrata attività. Generalmente, le piccole imprese hanno una rilevante esposizione debitoria verso i propri fornitori e comunque verso creditori diversi dalle banche, mentre non hanno una rilevante esposizione verso le banche: i finanziamenti delle banche a favore delle piccole imprese, infatti, quando non sono garantiti dall’imprenditore sono in gran parte “autoliquidanti” (sconto di fatture, factoring, anticipazioni su contratti con cessione dei relativi crediti etc.). Conseguentemente, quando una crisi di liquidità colpisce una piccola impresa e salve le ovvie eccezioni, generalmente le banche sono indifferenti: il loro rischio, in caso di fallimento, è limitato alle ipotesi (ormai residuali) di revocatoria. Al contrario, i fornitori della piccola impresa (anche i privilegiati, non solo i chirografari) rischiano di perdere il loro credito. Quando le grandi imprese o i grandi gruppi si trovano in situa- zione di illiquidità, generalmente cercano accordi di “standstill” con le banche: in funzione di una ristrutturazione dell’impresa che consenta la generazione di nuove risorse per il pagamento del “passato”, chiedono (e spesso ottengono, per quanto su detto) che queste ultime mantengano gli affidamenti in essere e rinuncino ad esigere per un certo periodo di tempo il pagamento dello “scaduto”. È di tutta evidenza che detti accordi, quand’anche fossero accessibili, non sono di alcuna utilità per le piccole imprese, posto che i debiti verso le banche (quando ci sono) costituiscono una parte marginale rispetto ai debiti verso i fornitori. Per prevenire una crisi fatale, la piccola impresa dovrebbe invece ottenere un accordo di “standstill” da parte dei fornitori per il periodo necessario a superare la crisi, chiedendo alle banche di mantenere gli affidamenti, anche dipendenti dalle nuove commesse, che consentano di pagare i debiti non differibili (lavoratori, istituti previdenziali, imposte etc.) e di mantenere la continuità aziendale. La convenzione, in concreto, potrebbe avere un contenuto più o meno articolato. Il leit motiv, per altro, sarebbe sempre lo stesso. “Tutto fermo”: i creditori rinunciano a far valere i loro crediti per un periodo sufficientemente lungo da consentire la ripresa finanziaria del loro debitore, mentre le banche mantengono le linee di credito. Come sopra descritta, la struttura dell’accordo di “standstill” ricalca, per lo meno in parte, lo schema del pactum de non petendo. Figlio del diritto romano, è noto in che cosa tale ultimo istituto consista. Prendendo a prestito le parole utilizzate, ancorché in un passato oramai non recente, dal Supremo Organo di Legittimità, “Il c.d. “Pactum de non petendo” … realizza, sul piano sostanziale, un accordo finalizzato alla dilazione dei termini di scadenza di un L’ANALISI credito, eventualmente già scaduto o anche a scadere (Cass. Civ., Sez. I, 26 febbraio 1990, n. 1439). In tempi più ravvicinati, l’istituto è stato dipinto come un accordo tra debitore e creditore, “la cui negoziazione è rimessa alla disponibilità delle parti siccome rappresenta espressione dell’autonomia negoziale, (che) realizza in sostanza un rinuncia temporanea del singolo creditore alla soddisfazione del suo credito” (Cass. Civ., Sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27386). Il pactum de non petendo – è stato altresì detto in ottica definitoria – è una convenzione volta “alla modifica dei termini contrattuali … (che non determina l’estinzione dell’originario rapporto obbligatorio, in quanto i crediti sono temporaneamente inesigibili ma non estinti)”, il quale ha la funzione di “incidere sulle modalità di esecuzione dell’obbligazione preesistente, senza alternarne l’oggetto o il titolo”, con il “primo ed immediato obiettivo” di proteggere l’ “imprenditore dalle eventuali azioni esecutive dei creditori” (Tribunale Civile di Reggio Emilia, ordinanza 14 maggio 2007, reperibile sul sito Internet dell’Associazione Ufficiali Giudiziari in Europa: www.auge.it). Il tratto caratteristico del pactum de non petendo è, dunque, dal lato dei debiti già scaduti, di posticipare l’esigibilità dei correlativi crediti, rimettendo, per così dire, in termini il debitore già moroso ed elidendo la sua inadempienza. Quanto ai debiti ancora a scadere, l’elemento distintivo del pactum de non petendo sta nel fatto che esso rinvia l’esigibilità dei correlativi crediti a data successiva, di modo che, fino a tale successiva data e malgrado la scadenza del termine originariamente previsto per il pagamento, il debitore che non paga non sarà inadempiente. Tramutando crediti già esigibili in crediti temporaneamente inesigibili o, secondo il caso, postergando l’esigibilità di crediti non ancora esigibili, il pactum de non petendo ha, in sintesi, l’effetto di “congelare” debiti già scaduti o in scadenza fino al nuovo termine convenzionalmente fissato per la loro maturity. Al quale effetto si affianca quello, di non poco conto, di impedire o paralizzare, fino al sopraggiungere di detto nuovo termine, le azioni esecutive per il recupero forzoso del credito da parte del creditore che vi abbia aderito. Non è questa la sede per soffermarsi sulla tematica, che pure attiene il profilo degli effetti del pactum de non petendo, inerente la sua idoneità a rimuovere l’insolvenza, intesa come stato rilevante ai sensi della Legge Fallimentare, in cui eventualmente si trovi l’imprenditore e precludere, così, la sua dichiarazione di fallimento. I contributi dottrinari e giurisprudenziali in materia sono, d’altro canto, copiosissimi, specie in relazione all’annosa questione se sia o meno necessario, ai detti scopi, che il pactum de non petendo intervenga con l’intero ceto creditorio. Nondimeno, nell’attuale scenario di recessione globale, il pactum de non petendo, accompagnato, nel contesto di un accordo di “standstill”, dall’impegno delle banche a mantenere le linee di credito accordate all’imprenditore, può rivelarsi senz’altro utile in funzione della prevenzione di un dissesto irreversibile dell’impresa. Va da sé che la fattibilità, prima ancora che il successo, degli accordi di “standstill”, opportunamente tagliati a misura dell’imprenditore di volta in volta coinvolto, presuppone aziende sane con un buon equilibrio patrimoniale e la capacità di generale redditi, oltre alla compresenza di tutti i fattori che consen- tono di evitare, con il pactum de non petendo, il verificarsi di quello stato di insolvenza che impone il ricorso alle procedure concorsuali. Rimane da chiedersi cosa potrebbe (o dovrebbe) spingere i creditori a stringere convenzioni di tal fatta con l’impresa debitrice. In tale prospettiva, senza tralasciare il sempre valido argomento di persuasione basato sull’assunto che in caso di dissesto irreversibile e di conseguente dichiarazione di fallimento, la liquidazione in sede concorsuale dei beni del debitore non garantirebbe l’integrale soddisfazione dei crediti, convince quanto è stato affermato in dottrina: “L’interesse che muove i creditori ad una tale forma di negoziazione delle proprie ragioni non è solo quello al soddisfacimento integrale dei credito ma, in modo più lungimirante, quello del mantenimento sul mercato del proprio debitore e della salvaguardia dell’avviamento nella prospettiva della conservazione dei rapporti commerciali o finanziari. Questa esigenza è sempre più avvertita in un contesto economico in cui le forme di interdipendenza tra le imprese possono moltiplicare gli effetti indotti della crisi delle stesse, basti ad esempio pensare alla diffusione dei contratti di subfornitura”. In fin dei conti, anche ex latere creditoris potrebbe trattarsi di una questione di sopravvivenza. TL * name partner di Breveglieri Verzini e associati TOPLEGAL Febbraio 2010 53