ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I
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ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I
ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I SEMINARIO I – 10.3.2011 L’interpretazione della legge. L’analogia. MATERIALI 1. L’interpretazione analogica in generale …………………….……………………………....p. 1; 2. L’interpretazione estensiva ……………………………………………………………..…..p. 5; 3. Segue: applicazione a casi particolari ……………………………………………………...p. 10. L’interpretazione analogica in generale Sez. 2, Sentenza n. 4754 del 14.4.1995 Il ricorso alla analogia è consentito dall'art. 12 delle preleggi solo quando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Nel settembre 1984 Vittoria Castellano convenne in giudizio, avanti il Tribunale di Napoli, Maria Giuseppa Gargiulo esponendo: - che era proprietaria, in S. Angelo di Sorrento, di un appartamento al primo piano dello stabile di Via Maiano n. 52, confinante con altro di proprietà della convenuta; - che costei, tra l'estate e l'autunno del 1983, aveva sopraelevato il proprio edificio e, violando gli accordi tra loro intercorsi con scrittura privata del 19.9.1983 e trasgredendo la legge e i regolamenti edilizi locali, aveva collocato il solaio di copertura del corpo di fabbrica sopraelevando al limite della soglia di una finestra lucifera di essa Castellano, in appoggio al muro in cui questa si apriva, ed aveva poi realizzato sullo stesso solaio una veranda alta circa tre metri a breve distanza da quel muro. Chiese, pertanto, la condanna della Gargiulo alla demolizione totale o parziale di dette opere, al ripristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni. La convenuta, costituitasi, contestò la fondatezza della pretesa avversaria, invocando proprio la menzionata scrittura 19.9.1983 e negando di essere contravvenuta a norme di legge o di regolamento. Dopo l'acquisizione di documenti e l'espletamento di una consulenza tecnica il Tribunale adito, respinta ogni altra domanda attorea, condannò la Gargiulo ad abbassare da m. 2,25 a m. 2,15, come previsto dalla ripetuta scrittura privata, l'altezza del lato inferiore della luce del pavimento della cucina della Castellano. Proposti gravami, da quest'ultima in via principale e della Gargiulo in via incidentale, la Corte d'appello di Napoli ha emesso la sentenza precisata in epigrafe con cui li ha rigettati entrambi. In risposta alle deduzioni dell'appellante principale la Corte napoletana, premesso che il Comune di S. Angelo era dotato, all'epoca dei fatti, di un P.R.G. regolarmente approvato, sicché, a norma dell'art. 4 della L. 1.6.1971 n. 291, erano inapplicabili al caso di specie le limitazioni di cui alla legge 6.8.1967 n. 765, premesso, inoltre, che neppure era applicabile l'art. 9 del D.M. 2.4.1968 n. 1444, secondo cui la distanza tra fabbricati non può essere inferiore all'altezza del fabbricato più alto, in quanto esso riguarda le pareti finestrate e tale non era quella della Castellano avente una sola finestra lucifera, ha osservato che, siccome per la zona A-2, in cui ricadevano le costruzioni delle parti contendenti, il suddetto P.R.G. non prevedeva alcuna distanza ma vietava ogni attività costruttiva - ne' poteva condividersi l'opinione secondo la quale in questo caso debbono valere in via analogica le norme regolamentari dettate per le zone ove più severi sono gli standards edilizi -, poteva trovare applicazione soltanto l'art. 873 cod. civ., salva la possibilità per la parte interessata di provocare con procedura amministrativa l'abbattimento della costruzione eseguita in zona inedificabile. Ha osservato, poi, che a detta norma codicistica le parti, come era loro consentito, avevano inteso derogare mediante la scrittura privata 19.9.1983, il che era chiaramente desumibile dal quarto patto della stessa con cui la Gargiulo si era solo obbligata "a costituire una zona di asservimento antistante la finestra di proprietà Castellano" della dimensione di metri tre per due o, comunque, di mq. 6, sicché entro tale zona minima era limitata l'inedificabilità, mentre per la restante area di sua proprietà la convenuta-appellata poteva liberamente sopraelevare senza dover osservare nessuna particolare distanza dal fabbricato attoreo; e poiché ella aveva osservato il patto, lasciando libera una zona persino maggiore (mq. 7), di nulla poteva dolersi la Castellano per la costruzione della veranda ancorché questa fosse situata a distanza inferiore ai tre metri previsti dall'art. 873 cod. civ.. Quanto all'appello incidentale, la Corte di merito 1 ha osservato che apoditticamente e genericamente la Gargiulo sosteneva di non essere tenuta ad abbassare il lato inferiore della finestra lucifera della controparte, senza neppure contestare quanto chiaramente stabilito con il patto numero 2 della scrittura privata di cui sopra. Ricorre per cassazione Vittoria Castellano sulla base di un solo mezzo al quale Maria Giuseppa Gargiulo replica con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato a due mezzi. MOTIVI DELLA DECISIONE I due ricorsi, in quanto rivolti contro la stessa sentenza, vanno riuniti a norma dell'art. 335 cod. proc. civ.. Con l'unico motivo del ricorso principale - denunziandosi violazione e falsa applicazione dell'art. 873 cod. civ., delle norme di cui al P.R.G. del Comune di S. Agnello di Sorrento, dell'art. 9 del D.M. 2.4.1966 n. 1444 e della scrittura privata 19.9.1983, in riferimento all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., nonché contraddittoria o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in riferimento all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. - si sostiene, in primo luogo, che l'avere le parti stabilito, con la suddetta scrittura, che vi fosse una zona franca di asservimento al fine di non limitare in alcun modo "la veduta e la luce" che filtrava attraverso la finestra della proprietà Castellano non comportava assolutamente che costei avesse anche acconsentito alla realizzazione, oltre tale zona, di una qualche costruzione a meno di tre metri dal muro di confine, in quanto una simile deroga al regime delle distanze prescritte dall'art. 873 cod. civ. sarebbe dovuta essere concordata espressamente e in maniera chiara ed univoca, in modo che ella potesse opportunamente valutare l'entità della sua rinuncia. Si deduce, poi, che una deroga, quand'anche ravvisabile, sarebbe stata nulla ed inefficace in presenza di un P.R.G. che non prevedeva nella zona alcuna attività costruttiva, strumento le cui norme hanno, per costante ed uniforme giurisprudenza, carattere integrativo rispetto al codice civile e non tollerano deroghe convenzionali. Si insiste, cioè, sulla tesi, respinta in sede di merito, secondo cui, vietando il P.R.G. di S. Agnello ogni attività edilizia, ad eccezione dell'ordinaria manutenzione, nella zona A-2 dove erano situati gli immobili delle parti in contesa, e solo per questo non essendovi previsti esplicitamente distacchi tra costruzioni per la zona predetta, tali distacchi andavano determinati mediante applicazione analogica delle disposizioni più severe dettate dallo stesso P.R. per le zone in cui era consentito costruire, ossia di quelle norme che imponevano, per la zona A-6, un distacco minimo di venti metri. Si rimprovera, infine, alla Corte napoletana di aver escluso l'applicabilità al caso di specie del D.M. 2.4.1968 n. 1444 sol perché la parete della Castellano non era "finestrata", senza considerare che non occorre che entrambe le pareti fronteggiantisi siano tali ma basta che lo sia una sola di esse: e la veranda realizzata dalla Gargiulo lo era ampiamente. Nessuna delle su esposte censure merita accoglimento. Quanto alla prima deve osservarsi che la Corte di merito, affermando che parti, con la scrittura privata del 19.9.1983, avevano inteso concordare una deroga alla disciplina delle distanze nelle costruzioni - nel senso che la Castellano aveva rinunciato al rispetto della distanza minima di tre metri dal muro di sua proprietà posto sul confine e la Gargiulo ad avvalersi della facoltà, ex art. 904 cod. civ., di costruire in aderenza o in appoggio a quel muro e di chiudere la luce che in esso si apriva -, non ha fatto altro che risolvere una quaestio voluntatis attraverso un'operazione interpretativa tesa alla ricerca della comune intenzione delle contraenti. Orbene, a tale soluzione la ricorrente Castellano si limita a contrapporre il proprio punto di vista, secondo cui nessuna deroga si era inteso apportare al regime elle distanze legali per ciò che riguardava la costruzione della veranda, ma non denunzia alcuna violazione dei canoni ermeneutici che presiedono all'interpretazione dei contratti (art. 1362 e segg. cod. civ.), ne' lamenta specificamente una qualche carenza o contraddittorietà della motivazione, limitandosi alla generica 2 enunciazione iniziale di tale vizio senza precisare minimamente in che cosa esso sia consistito, sicché la doglianza così come formulata deve ritenersi inammissibile (v. sent. 11.2.1989 n. 861, 28.6.1989 n. 3157). La seconda censura, con cui si vuol sostenere la nullità ed inefficacia della deroga in questione a causa del divieto di ogni attività costruttiva nella zona sancito dal P.R.G. di S. Agnello, è basata, come si è visto, sulla tesi che in presenza di detto divieto debbano valere in via analogica le prescrizioni sulle distanze dettate dallo steso P.R. per le altre zone e, in particolare per quelle con più severi e restrittivi standards edilizi. Una siffatta tesi, però, è priva di qualsiasi supporto normativo e logico, per cui la censura che su essa fa leva non ha alcun fondamento. La Corte napoletana ha correttamente evidenziato che, ove al divieto regolamentare di costruire in una determinata zona si dovesse sostituire, nei rapporti tra privati confinanti, l'obbligo di osservare le distanze prescritte dallo stesso strumento urbanistico per altre zone, si verrebbe quasi a legittimare, mediante il semplice arretramento della costruzione alla distanza "analogicamente" applicata, un'opera edilizia che in quella zona non dovrebbe affatto esistere. A monte di tale considerazione, però, vi è la giuridica impossibilità del ricorso all'analogia in un caso come quello che ci occupa. L'art. 12 delle Preleggi, infatti, conseguente l'applicazione analogica solo "se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione", cioè allorquando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativi altrimenti incolmabile in sede giudiziaria, il che non è affatto riscontrabile nell'ipotesi in esame. Per rendersene conto basta osservare che la mancanza, in uno strumento urbanistico, di prescrizioni sulle distanze per una determinata zona del territorio, a causa della scelta del legislatore locale di vietare in tale zona qualsiasi attività costruttiva, lungi dal creare lacune nella regolamentazione dei rapporti di vicinato, fa sì che resti applicabile ad essi la disciplina dettata dagli artt. 873 e segg. del codice civile, con la conseguenza che, in caso di violazione del divieto di costruire, il privato proprietario che ne abbia subito danno ha diritto, ai sensi dell'art. 872 dello stesso codice, di esserne risarcito ma non può pretendere la riduzione in pristino ove non risulti contemporaneamente trasgredito l'obbligo di rispettare le distanze previste da dette norme codicistiche, sempre, beninteso, che non sia intervenuta con la controparte, come nel caso di specie, una deroga pattizia alle medesime (trattandosi senza dubbio di norme derogabili). Esclusa, dunque, ogni applicazione analogica, resta fermo il principio, già affermato da questa S.C., secondo il quale una norma del piano regolatore che vieti nuove costruzioni in una zona determinata non è di per sè integrativa della disciplina delle distanze dettata dal codice civile in tema di rapporti di vicinato, dal momento che una tale norma può tendere a soddisfare interessi d'ordine generale trascendenti l'interesse dei singoli proprietari confinanti, sicché la tutela accordata al privato nel caso di violazione della norma stessa rimane limitata al risarcimento del danno eventualmente subito (v. sent. 12.11.1983 n. 6743). L'ultima censura, quella di mancata applicazione dell'art. 9 del D.M. 2.4.1968 n. 1444 riguardante le distanze minime tra pareti finestrate, è anch'essa priva di fondamento. In proposito la Corte territoriale ha osservato che la parete della Castellano non era finestrata, essendovi un'unica apertura avente carattere di semplice luce. È assorbente, comunque, considerare, al fine della reiezione della doglianza, che la invocata disposizione del D.M. 2.4.1968, attuativo dell'art. 41 quinquies, 8 comma, della L.U., prevede distanze minime tra pareti finestrate solo per i nuovi edifici ricadenti in zone diverse dalle "A" e, in particolare, nelle zone "C", mentre per le zone "A", cui appartengono gli immobili delle parti in contesa, si limita a prescrivere che la distanza tra gli edifici, per operazioni di risanamento conservativo e per eventuali ristrutturazioni, non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti. Ciò senza dire che la norma attuativa in parola, rivolgendosi al legislatore locale per imporgli dei limiti inderogabili cui attenersi nella pianificazione del territorio comunale, non può divenire operante allorquando, come nel caso in esame, lo strumento urbanistico non detti, per una certa zona, delle regole da seguire nella realizzazione delle opere edilizie ma vieti 3 in essa qualsiasi attività costruttiva, così da non assumere, come si è detto poc'anzi, alcun carattere integrativo delle disposizioni del codice civile sulle distanze. Alla stregua delle osservazioni che precedono il ricorso principale deve essere rigettato. Quanto al ricorso incidentale va rilevato che manca in esso qualsiasi esposizione dei fatti della causa, limitandosi la ricorrente ad operare un rinvio a quanto esposto nella sentenza MOTIVI DELLA DECISIONE impugnata, il che non basta a soddisfare il tassativo precetto dettato a pena di inammissibilità dall'art. 366, 1 comma n. 3, cod. proc. civ.. Nè, d'altra parte, dallo svolgimento e dalla illustrazione dei motivi in diritto è dato desumere gli elementi indispensabili per una precisa cognizione della vicenda processuale e dei fatti che la hanno originata. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. Data la reciproca soccombenza, le spese del presente procedimento vanno compensate. P.Q.M. LA CORTE Riuniti i ricorsi, rigetta quello principale e dichiara inammissibile quello incidentale. Compensa tra le parti le spese del procedimento di Cassazione. 4 L’interpretazione estensiva Cass., Sez. 5, Sentenza n. 3874 del 02/04/1986 Ud. (dep. 19/05/1986 ) Rv. 172733 L'interpretazione estensiva, che non va confusa con l'applicazione analogica, si ha quando l'ambito di applicazione di una norma penale viene esteso ad un caso che, pur non essendo espressamente ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma stessa risalendo alla intenzione del legislatore, cui si riferisce l'articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale. Di guisa che la massima "ubi lex voluit dixit ubi non dixit noluit" vale per escludere l'interpretazione analogica e non già quella estensiva che avviene per necessità logica e non per similitudine di rapporti.* Cass., Sez. L, Sentenza n. 4373 del 25/10/1989 (Rv. 463952) L'art. 12 delle preleggi contiene tutti i criteri ermeneutici della legge, ed in particolare sia il criterio dell'interpretazione estensiva, che consente l'utilizzazione di norme regolanti casi simili (e non già identici), sia quello dell'interpretazione analogica (analogia legis), che permette l'utilizzazione di norme che disciplinano materie analoghe, ossia istituti diversi aventi solo qualche punto in comune con il caso da decidere, mentre l'art. 14 delle stesse preleggi - come reso evidente dai lavori preparatori - non detta alcun criterio di esegesi legislativa, limitandosi a stabilire che le leggi penali e quelle che fanno eccezione ad altre leggi non si applicano (in via d'interpretazione analogica) oltre i casi ed i tempi in esse considerati. Cass., Sez. 4, Sentenza n. 11380 del 27/04/1990 Ud. (dep. 10/08/1990 ) Rv. 185084 Con l'analogia, non va confusa l'interpretazione estensiva, che si ha quando l'ambito di applicazione di una norma penale viene, per necessità logica e non per similitudine di rapporti, esteso ad un caso, che non essendo ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma stessa, risalendo all'intenzione del legislatore, cui si riferisce l'art. 12 delle Disposizioni della legge in generale. (con riferimento alla norma che, in materia di prevenzione infortuni, vieta la esecuzione di lavori in prossimità di linee elettriche a distanza inferiore a cinque metri dalle costruzioni o dei ponteggi, la Corte ha ritenuto che nell'espressione ponteggi rientrino anche le gru ed ha affermato il suddetto principio).* Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9205 del 23.3.1999 L'interpretazione estensiva di disposizioni "eccezionali" o "derogatorie", se pur in astratto non preclusa, deve ritenersi comunque circoscritta alle ipotesi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portata della regola con l'introduzione di nuove eccezioni, bensì si limiti ad individuare nel contenuto implicito di una eccezione già codificata altra fattispecie avente identità di ratio con quella espressamente contemplata. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con citazione del 20 maggio 1992, il Comune di Bonito conveniva dinanzi al Tribunale di Ariano Irpino gli eredi di Michelangelo Ciriello - Elisa Belmonte, Carla Libera e Gerardo Ciriello chiedendone la condanna alla restituzione, pro quota, di quanto ricevuto dal loro dante causa per la ricostruzione di un fabbricato rurale ex l. 219/81. A sostegno della domanda l'Ente deduceva: 5 che con decreto sindacale n.12/84 veniva assegnato a Ciriello Michelangelo contributo di L.62.595.631 per la ricostruzione ex L.219/81 di fabbricato rurale in Bonito alla c.da Cinquegrana; che, deceduto il Ciriello, il decreto veniva volturato a nome della moglie Belmonte Elisa e dei figli Ciriello Libera Carla e Ciriello Gerardo con provvedimento del Sindaco n. 49/88; che, in base ad attestati e stati di avanzamento lavori, sottoscritti dai tecnici, dalla ditta costruttrice e dal proprietario, il Comune erogava in più ratei la complessiva somma di L.53.205.900; che successivamente, accertato che i lavori del fabbricato in argomento non erano mai stati nemmeno iniziati, il Sindaco con i decreti nn.61/91 del 9.9.91 e 111/92 del 3.3.92 revocava il decreto 12/84, con il quale aveva concesso i contributi per la ricostruzione dell'immobile e disponeva il recupero delle somme erogate, invitando i beneficiari a restituire quanto indebitamente percepito; che il TAR di Salerno, adito da Belmonte Elisa, con ordinanza del 4.12.91 riconosceva legittimo il decreto di revoca (qualificato, al di là del nomen iuris, come provvedimento di decadenza) concedendo alla Belmonte il solo beneficio della rateizzazione. I convenuti in primo grado, costituendosi, affermavano che il loro dante causa aveva richiesto il contributo per ricostruire il fabbricato rurale nel comune di Melito Irpino, cioè in comune diverso da quello cui l'istanza era rivolta e che, a seguito di parere favorevole della Commissione di cui all'art. 14 della L. 219/81, il Sindaco di Bonito aveva ugualmente disposto l'erogazione del contributo, che doveva quindi ritenersi concesso proprio per la costruzione in Melito Irpino, per la quale nel frattempo era stata ottenuta concessione edilizia in base alla stessa normativa del postterremoto ed era stato redatto verbale di inizio lavori in presenza di un funzionario dell'Ufficio Tecnico comunale di Bonito, con atto vistato anche dal Sindaco, che aveva poi corrisposto il dovuto come prescritto per legge nel corso dei lavori; solo dopo che era stato stabilito anche il pagamento del saldo dovuto ed era stata volturata la pratica in favore degli eredi dell'originario beneficiario del contributo, era stato emesso improvvisamente il decreto di revoca di quest'ultimo e la richiesta di restituzione delle somme erogate. Eccepivano poi comunque il difetto di legittimazione attiva del Sindaco, dovendo ritenersi viceversa legittimato lo Stato per avere il primo nella specie agito quale ufficiale di governo. Deducevano ancora l'assoluta carenza di potere del sindaco nella revoca del contributo e domandavano la disapplicazione di tale provvedimento, non inquadrabile tra quelli discrezionali della P.A., in quanto incidente su un diritto soggettivo dei cittadini, quale quello al contributo, riconoscibile anche in caso di ricostruzione in altro comune, previo rilascio della concessione edilizia per la stessa legge 219/81, dovendosi ritenere che, con la revoca, il comune di Bonito avesse introdotto una decadenza dal diritto al contributo non prevista dalla legge e connessa alla costruzione in comune diverso da quello ove era l'edificio danneggiato. In punto di esegesi della normativa in applicazione, sostenevano infine che, essendo prevista dall'art. 10 del T.U. n.76 del 1990 la possibilità di realizzare la ricostruzione in altra area e anche, per le seconde case, in altro comune con un contributo del 30%, doveva implicitamente ritenersi consentita anche la ricostruzione della prima casa in altro comune, dovendosi ritenere altrimenti la norma incostituzionale, perché ingiustificata era la disparità di trattamento tra i proprietari di prima casa e quelli di due case. Con sentenza del 7 giugno 1995, il Tribunale adito accoglieva, però, la domanda del Comune. Proponevano allora gravame gli eredi Ciriello, reiterando tutte le eccezioni ed argomentazioni che assumevano erroneamente disattese in primo grado. Ma la Corte di Napoli confermava a sua volta la statuizione dei primi giudici, osservando che: sussiste la legittimazione attiva del Comune, in quanto l'assegnazione ed erogazione dei contributi in esame (artt. 6 e 7 legge 219/81 e 7 e 8 decreto legislativo 76/90) sono di competenza dei comuni, e nella fattispecie la citazione si fonda sulla inesistenza dei presupposti del diritto a ricevere il contributo, con conseguente diritto alla ripetizione dell'indebito; il contributo in esame spetta soltanto ai proprietari che devono ricostruire case distrutte nello stesso sito e non altrove, salvo alcune eccezioni previste dalla legge ma non ricorrenti nella fattispecie, per 6 cui gli appellanti non avevano alcun diritto alle somme corrisposte per la costruzione di altra abitazione in comune diverso (Melito Irpino), e neppure l'eventuale autorizzazione del Comune di Bonito in tal senso (comunque inesistente) sarebbe stata valida. Con la conseguenza che restavano assorbite le censure rivolte alla configurabilità della "decadenza" dal diritto al contributo in esame, una volta che il diritto stesso non era mai sorto. Contro questa sentenza, depositata il 7 ottobre 1996, gli eredi Ciriello ricorrono ora per cassazione. Resiste il Comune di Bonito con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. L'impugnazione si compone di tre complessi motivi, con il primo e terzo dei quali i ricorrenti ripropongono, rispettivamente, l'eccezione di difetto di legittimazione attiva e la contestazione in radice della possibilità di "revocare" un diritto già concesso, a fortiori (come ex adverso preteso) con effetto ex tunc; mentre, con il secondo e centrale mezzo (a sua volta scandito in più profili di censura, sul duplice versante della violazione di legge e del vizio di motivazione), essi criticano l'esclusa sussistenza e/o giuridica rilevanza della autorizzazione a costruire in altro Comune. Ed al riguardo obiettano che a tali conclusioni la Corte territoriale sia erroneamente pervenuta: a) per mancata valutazione delle risultanze processuali, avendo i ricorrenti provato sia la richiesta di ricostruzione nel Comune di Melito Irpino, sia la intervenuta autorizzazione; b) con non esatta esegesi della normativa di riferimento, la quale viceversa subordinerebbe il diritto al contributo ai soli due requisiti della proprietà dell'immobile distrutto o danneggiato e del nesso di causalità tra il danno e l'evento sismico, non vietando la ricostruzione in altro Comune, che dovrebbe pertanto ritenersi legittima in base ad una interpretazione sistematica ed estensiva della disciplina medesima. 2.1. La prima censura è infondata. È pur vero che il Sindaco - come sostengono i ricorrenti - è "ufficiale di governo" quando opera come organo locale di protezione civile ai sensi dell'art. 16 D.P.R. 1981 n. 66. Vero è anche, però, che in tale qualità, il suo intervento è limitato e contingente, essendo egli chiamato, nel quadro di quella normativa, ad operare nell'imminenza o in presenza di calamità naturali, per dare soccorso ed assistenza sanitaria ed ospedaliera alla popolazione colpita; ripristinare la viabilità, gli acquedotti ed ogni altro pubblico servizio; disporre altresì l'occupazione d'urgenza degli immobili per fronteggiare situazioni di emergenza. Ben diversi, più complessi, e istituzionalmente propri dei Comuni sono viceversa i compiti in materia di ricostruzione, che nel caso in esame vengono in discussione. Ai sensi dell'art. 3 del T.U. n. 76 del 1990, il CIPE assegna infatti, oltreché alle Regioni, ai Comuni i fondi per la ricostruzione nell'ambito dei rispettivi interventi di competenza. I fondi assegnati ai Comuni sono da questi ultimi direttamente gestiti attraverso i propri organi individuali e collegiali. I compiti dei Comuni nella gestione di tali fondi non sono affatto solo operativi. Gli enti locali istruiscono le pratiche di ricostruzione, operano i controlli stabiliti dalla legge, assegnano e determinano i contributi a mezzo del Sindaco, che ha anche il potere di provvedere alla loro revoca e di provvedere all'esperimento delle azioni necessarie per ottenerne la restituzione. Sono i Comuni attraverso i loro organi collegiali a stabilire le priorità di intervento (v. L.32/92, che, all'art. 3, co. 5 , in tema di finanziamento per gli interventi di cui al T.U. 76/90, demanda ai Consigli comunali il compito di fissare con propria deliberazione i criteri di utilizzo dei fondi secondo i criteri generali fissati dalla stessa legge). In presenza di questo dato normativo, si spiega del resto come, in materia, - contestualmente all'affermazione di sussistenza della giurisdizione dell'A.G.O. - sia stata in parallelo costantemente ritenuta la legittimazione passiva dei comuni in ordine alle domande di erogazione dei contributi, cui i cittadini hanno diritto in ipotesi di calamità naturali, escludendosi qualsiasi discrezionalità dell'ente locale nell'assegnazione e nella corresponsione, trattandosi di attività vincolata, meramente 7 attuativa di quanto stabilito dalla legge (cfr., Cass. N. 9215/87, v. anche Sez.Un. 4188 e 4189/96 e Cass. N. 1082/91, relativamente ai contributi di cui alla 219/81 e al D.L.vo 76/90, e Cass. S.U. n. 1004/93 e Cass. N. 2224/94, concernenti queste ultime i contributi previsti per i soggetti colpiti dal bradisismo di Pozzuoli). Per cui esattamente ne ha quindi dedotto la Corte napoletana che, se il Comune è sicuro legittimato passivo a fronte delle domande di contributi non può ad esso non riconoscersi anche la legittimazione attiva, in ordine alla richiesta di intervento dell'autorità giudiziaria ordinaria per ottenere il rimborso di ciò che per il medesimo titolo esso abbia indebitamente versato. 2.2. La fattispecie considerata è d'altra parte pianamente riconducibile al paradigma generale dell'indebito oggettivo, che comporta il diritto del solvens ad ottenere la restituzione di quanto pagato sine titulo (art. 2033 c.c.). Tale diritto - nella corretta interpretazione dell'atto introduttivo del giudizio operata dalla Corte di merito - il Comune, in buona sostanza, ha, nel caso in esame, appunto azionato sul presupposto che il contributo in questione non spettasse al Ciriello e fosse stato dai suoi eredi indebitamente riscosso. E ciò toglie rilievo all'obiezione, logicamente preliminare, riproposta con il terzo motivo del ricorso - che è, quindi, pure esso infondato - a tenore del quale non sarebbe stato consentito al Comune di "revocare" il contributo di ricostruzione una volta concesso: non venendo qui, invero, in discussione la cancellazione, ex tunc o ex nunc, di un diritto preesistente bensì (l'accertamento del) la sussistenza, ab origine, del diritto medesimo. Il diritto al contributo di ricostruzione sorge, cioè, ex lege, nella ricorrenza dei presupposti e delle condizioni da questa previsti, senza la mediazione costitutiva del provvedimento amministrativo, che ha funzione invece meramente ricognitiva e contenuto vincolato, con esclusione, quindi, di alcun connotato di discrezionalità in ordine all' "an" sia della concessione che della successiva revoca di quel contributo: dal che appunto, la giurisdizione in materia dell'A.G.O. 2.3. Punto nodale della controversia è quindi a questo punto proprio quello relativo alla esegesi della normativa postsisma quanto al quesito se essa preveda - come tornano a sostenere i ricorrenti con il residuo secondo motivo della impugnazione - o non (come hanno viceversa ritenuto i giudici a quibus) una generale e indiscriminata facoltà di utilizzazione (e previa ottenibilità) del contributo di ricostruzione anche per immobili siti fuori dal Comune direttamente interessato dal sisma. Solo in caso di risposta affermativa a tale quesito potendo, infatti, poi assumere rilievo la tesi - del pari riproposta con il mezzo in esame - che i ricorrenti, nella fattispecie, siano stati in concreto autorizzati ad utilizzare il contributo erogato dal Comune di Bonito per la ricostruzione di un immobile nel Comune limitrofo di Melito. Dacché - se, viceversa, non previsto dalla legge - il diritto a contributo per una utilizzazione siffatta mai avrebbe potuto comunque discendere dal provvedimento autorizzatorio, ove pur effettivamente adottato. Sul delineato problema ermeneutico, va premesso che l'interpretazione estensiva di disposizioni "eccezionali" o "derogatorie" (come nella specie auspicata), se pur in astratto non preclusa, deve ritenersi comunque circoscritta alle ipotesi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portata della regola con l'introduzione di nuove eccezioni, bensì si limiti ad individuare nel contenuto implicito di una eccezione già codificata altra fattispecie avente identità di ratio con quella espressamente contemplata. Ora appunto, nel contesto normativo in esame, il principio regolatore dell'erogazione di "contributi e finanziamenti per la ricostruzione" è quello, sub art. 9 co. 1 l. 219/1981, per cui la ricostruzione, così agevolata, deve avvenire nello stesso luogo in cui si trova l'immobile distrutto o irrimediabilmente danneggiato dal sisma, mirando detta legge non solo a fornire abitazione ai soggetti rimastine sprovvisti ma anche, e soprattutto, a garantire il risanamento e lo sviluppo dei territori colpiti dal sisma, favorendo la ricostruzione delle realtà urbane e socio-economiche preesistenti all'evento calamitoso e disincentivando l'abbandono, da parte della popolazione, dei luoghi di originaria residenza. Tale principio è solo attenuato per gli 8 immobili ubicati fuori dal centro abitato la cui ricostruzione, ex art. 10, co. 8, può avvenire anche in altro sito (ma) dello stesso Comune. Ed è sostanzialmente derogato unicamente in favore dei proprietari residenti fuori dal Comune colpito dal sisma ai quali è consentita, in via alternativa, la ricostruzione nel Comune di residenza (ex art. 9, co. 1 lett. b L. 219/81 nel testo sostituito dalla L. 187/1982); e dei proprietari che "entro sei mesi dalla entrata in vigore della L. 219/81", abbiano "rinunciato al contributo per la ricostruzione dell'alloggio distrutto, utilizzando una somma di pari importo per l'acquisto di un immobile nell'ambito della stessa provincia" e facendo con ciò acquisire "al patrimonio del Comune le aree di sedime degli edifici di loro proprietà". La ratio di tali "eccezioni" è specificamente, quindi, legata nell'un caso, al presupposto della non appartenenza del beneficiario alla comunità locale già alla data del sisma; e, nell'altro caso, ad un preciso, e temporalmente limitato, meccanismo agevolativo del possibile acquisto immediato di abitazione in altro comune (della stessa Provincia) con effetto abdicativo, in favore del comune erogante, della proprietà dell'area su cui insisteva l'edificio ricostruendo. Ed è ben evidente che nessuna delle due riferite disposizioni è estensivamente riferibile ed applicabile alla fattispecie in discussione, che invece riflette una pretesa di libera utilizzazione del contributo per la ricostruzione in altro comune, ne' giustificata dal collegamento con la residenza (in quello) ne' bilanciata dalla rinunzia alla proprietà del suolo sottostante all'edificio distrutto dal terremoto. La censura di violazione di legge contenuta nel secondo mezzo impugnatorio è pure essa quindi infondata; restando, per quanto già detto, assorbita quella residua di vizio di motivazione in punto di (esclusa) sussistenza del preteso provvedimento autorizzatorio. Il ricorso va pertanto integralmente rigettato. Possono compensarsi tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese. 9 Segue: applicazione a casi particolari 1) Cass., n. 5975 del 25.3.2004 In tema di condominio di edifici la regola posta dall'art. 1124 cod. civ. relativa alla ripartizione delle spese di manutenzione a ricostruzione delle scale (per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzione di piano, per l'altra metà in misura proporzionale alla altezza di ciascun piano dal suolo) è applicabile per analogia, ricorrendo l'identica "ratio", alle spese relative alla manutenzione e ricostruzione dell'ascensore già esistente. Nell'ipotesi, invece, d'installazione "ex novo" dell'impianto dell'ascensore trova applicazione la disciplina dell'art. 1123 cod. civ. relativa alla ripartizione delle spese per le innovazioni deliberate dalla maggioranza (proporzionalità al valore della proprietà di ciascun condomino). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO I condomini Francesco Majocco e Adolfo Achille Ricca (con atto di citazione 27.4.1995) convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Torino il Condominio di via Assarotti 11 (in seguito solo Condominio) e, premesso di essere proprietari di unità immobiliari site a piano terra dell'edificio, con ingresso diretto dall'androne carraio e in modo del tutto indipendente dal vano scale e dal relativo impianto di ascensore, chiedevano che fosse annullata la delibera condominiale del 23.7.1995 con la quale l'assemblea aveva ripartito le spese di esercizio del 1994, relative all'esecuzione dei lavori di installazione delle reti di protezione dell'ascensore per l'adeguamento alla nuova normativa di sicurezza di cui alla legge n. 46/1990, secondo le quote millesimali dei condomini. Sostenevano gli attori che la ripartizione di dette spese doveva essere operata, per analogia con le spese relative alle scale, secondo i criteri di cui all'art. 1124 c.c., con esclusione delle unità site al piano terreno. Costituitosi, il Condominio chiedeva il rigetto della domanda, deducendo, innanzi tutto, che l'art. 1 del regolamento condominiale ricomprendeva l'ascensore tra le parti comuni e che l'art. 9 prevedeva la suddivisione delle relative spese secondo le quote millesimale di proprietà. Osservava poi che gli interventi di adeguamento dell'ascensore alle normative CEE, essendo diretti al conseguimento di obiettivi di sicurezza e incolumità delle persone, andavano oltre le spese di straordinaria amministrazione; e che, facendo aumentare il valore di tutte le proprietà individuali, dovevano essere ripartite in ragione delle rispettive proprietà millesimale. Il Tribunale, in accoglimento della domanda degli attori, annullava la delibera condominiale. Il gravame proposto dal Condominio era accolto, per quanto di ragione, dalla Corte d'appello di Torino, la quale (con sentenza n. 305/2000), in riforma della decisione del Tribunale, dichiarava che alle spese di adeguamento dell'ascensore dovevano concorrere, secondo i criteri indicati dall'art. 1124 c.c., anche i condomini Majocco e Ricca. Osservava la Corte torinese che alla fattispecie era applicabile l'art. 1124 c.c, in tema di ripartizione delle spese di manutenzione e ricostruzione delle scale, stante la sostanziale identità e complementarietà della funzione dell'ascensore rispetto a quella delle scale. Riteneva che l'obbligo di partecipare alle spese di adeguamento dell'impianto di ascensore gravava anche sui proprietari delle unità immobiliari site al piano terreno, in quanto l'espressione "a cui servano", contenuta in detta norma, stava ad indicare un rapporto funzionale e strutturale stabile e non un concreto uso od una effettiva utilizzazione nel senso di cui all'art. 1123, 2 comma, c.c. Aggiungeva a conferma dell'applicabilità dell'art. 1124 c.c. il fatto che l'impianto di ascensore conferiva un maggior valore ed un maggior prestigio all'intero edificio, che tale impianto serviva anche per la manutenzione delle parti comuni (in primis il tetto) e che il suddetto articolo, includendo anche le cantine fra le unità che concorrono alla spesa, non dava rilevanza alla posizione della singola unità dell'edificio condominiale. Ai fini di coordinare la norma di cui all'art. 1124 c.c. con l'art. 12 del Regolamento 10 del Condominio - che in tema di "Riparto di spese per l'ascensore" stabilisce che "Le spese per la manutenzione ordinaria e straordinaria per l'esercizio dell'ascensore sono ripartite fra i condomini che se ne servono, secondo le singole quote della tabella allegata al presente regolamento" riteneva la Corte torinese che le spese di adeguamento dell'impianto di ascensore alle normative CEE non potevano considerarsi ne' di ordinaria ne' di straordinaria manutenzione, ma erano assimilabili a quelle di ricostruzione, comportando un rifacimento e un miglioramento strutturale ai fini di meglio assicurare l'incolumità delle persone. Di conseguenza non trovava applicazione l'art. 12 del Regolamento condominiale, ma l'art. 1124 c.c. nella parte concernente la ricostruzione. Pertanto la Corte subalpina riteneva illegittima la delibera del 27.3.1995 nella parte in cui poneva a carico dei condomini Majocco e Ricca la spesa di adeguamento dell'impianto di ascensore in proporzione ai millesimi di proprietà ex art. 1123, 1^ comma, c.c., anziché secondo il criterio stabilito dall'art. 1124, 1^ comma, c.c. Contro tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione Francesco Majocco ed Elisa Ricca, quest'ultima quale erede di Adolfo Achille Ricca, deducendo quattro motivi di censura. Il Condominio ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale in base a due motivi. Entrambe le parti hanno depositato memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE Preliminarmente, in udienza, è stata disposta la riunione, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., dei ricorsi (principale e incidentale) perché proposti contro la stessa sentenza. A) 1. Col primo motivo, denunciando violazione dell'art. 12 del Regolamento condominiale, i ricorrenti principali censura-no la sentenza impugnata per non aver considerato che le norme di cui agli artt. 1123 e 1124 c.c. sono derogabili dal Regolamento condominiale di natura contrattuale e che, nel caso specifico, tale regolamento (art. 12) stabilisce che le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria per l'esercizio dell'ascensore sono ripartite fra i soli condomini "che se ne servono". Restano, pertanto, esclusi dalla ripartizione i condomini le cui unità immobiliari, come quelle del Majocco e Ricca, si trovano a piano terra e non utilizzano l'ascensore. 2. Col secondo motivo, denunciando violazione dell'art. 1124 c.c, falsa applicazione, nonché errore di motivazione, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata laddove ha ritenuto applicabile al caso di specie l'art. 1124 c.c. in materia di manutenzione e ricostruzione delle scale, interpretando l'espressione ivi contenuta "a cui servono" nel senso di "rapporto funzionale e strutturale stabile e non di concreto uso od effettiva utilizzazione". Sostengono che (secondo la giurisprudenza di merito) i proprietari "a cui le scale servono" sono coloro che per accedere alla proprietà esclusiva devono necessariamente servirsi delle medesime; non possono essere addebitate, quindi, quote di alcun genere a chi, per accedere alla proprietà esclusiva, non utilizzi le scale, ovvero, in relazione al caso di specie, l'impianto di ascensore. 3. Col terzo motivo, denunciando erronea motivazione su un punto decisivo della controversia, i ricorrenti censurano l'impugnata sentenza per aver ritenuto l'impianto di ascensore compreso fra le cose comuni, senza considerare che l'esenzione dalle spese di una determinata categoria di condomini prevista dal Regolamento condominiale (art. 12), unitamente al costante orientamento manifestato dal Condominio fin dalla sua costituzione, sono elementi tali da dare, all'inserimento dell'impianto di ascensore fra le parti comuni dell'edificio, l'esatto significato che non è quello di appartenenza a tutti i condomini, ma solo a quelli che ne fanno uso. Affermano i ricorrenti che il 11 Regolamento condominiale può essere interpretato, e addirittura modificato, per facta concludentia e che le unità immobiliari site a piano terra nessun maggior pregio o valore possono conseguire dalla presenza dell'impianto di ascensore, nè questo serve per la manutenzioni di parti comuni dell'edificio, quali il tetto. 4. Col quarto motivo, denunciando erroneità della motivazione su un punto decisivo della controversia, nonché violazione di legge, art. 1124 c.c. e principi di diritto, i ricorrenti sostengono che erroneamente la Corte d'appello ha considerato l'intervento in questione sull'impianto di ascensore quale ricostruzione e, come tale, non rientrante nella previsione dell'art. 12 del Regolamento condominiale. In realtà i lavori di adeguamento alla normativa CEE, consistenti nel caso specifico in semplice innalzamento di qualche centimetro della preesistente grata di protezione, rientrano nelle opere di ordinaria o straordinaria manutenzione. I condomini Majocco e Ricca, le cui unità immobiliari hanno accesso diretto dall'androne carraio dell'edificio, sono esonerati dalla partecipazione alle spese dell'impianto di ascensore (sia ordinarie che straordinarie) in virtù dell'art. 12 del Regolamento condominiale, il quale, a-vendo natura contrattuale, costituisce deroga al disposto dell'art. 1124 c.c, che, tuttavia, esclude dalla partecipazione alla spesa i condomini che non si servono dell'ascensore. B) Il Condominio a sostegno del ricorso incidentale deduce quanto segue. 1) Violazione e falsa applicazione dell'art. 1124 c.c. per aver ritenuto la Corte d'appello l'intervento in questione assimilabile alla ricostruzione. Sostiene il Condominio che le spese di adeguamento dell'ascensore alla normativa CEE non dipendono da interventi correlati con l'intensità dell'uso, con la vetustà, con guasti accidentali, ma da esigenze di sicurezza mediante introduzione di nuovi elementi strutturali. Ciò comporta l'esclusione dell'applicazione dell'art. 1224 c.c.. Inoltre, quando risulta una relazione strumentale fra una parte o un impianto dell'edificio e l'uso comune, sussiste il vincolo pertinenziale che vale a qualificare comune una parte dell'edificio in applicazione dei criteri previsti dall'art. 1117 c.c., il quale stabilisce una presunzione di comproprietà fra i condomini relativamente alle parti nominate, fra le quali anche gli ascensori. Aggiunge il ricorrente che se è vero che l'uso dell'ascensore è destinato a servire i condomini in misura diversa, a seconda dell'utilità in relazione all'altezza del piano, è pur vero tuttavia che anche i partecipanti che hanno porzioni al piano terreno possono trarre utilità dall'impianto, in quanto l'ascensore non solo arreca un maggior pregio alle unità immobiliari ma soprattutto permette il raggiungimento di parti comuni che altrimenti sarebbe più difficoltoso. 2. Col secondo motivo, denunciando erronea motivazione su un punto fondamentale della controversia, il Condominio si duole che la Corte d'appello non abbia considerato che, trattandosi di bene comune che comunque "serve" anche ai piani terra, la suddivisione delle spese non può che essere praticata secondo i criteri stabiliti dall'art. 1123 c.c.. Sostiene il ricorrente che la spesa di adeguamento dell'ascensore alla normativa CEE è una spesa straordinaria, ma con una accezione speciale che trascende quella tradizione e rende inapplicabile al caso l'art. 12 del Regolamento condominiale. C) I motivi, da trattare congiuntamente perché strettamente connessi, del ricorso principale meritano accoglimento per quanto di ragione in base alle seguenti considerazioni. Come questa Corte ha avuto modo di affermare, in tema di condominio di edifici la regola posta dall'art. 1124 c.c. relativa alla ripartizione delle spese di manutenzione e ricostruzione delle scale (per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzione di piano, per l'altra metà in misura proporzionale alla altezza di ciascun piano dal suolo) è applicabile per analogia, ricorrendo l'identica ratio, alle spese relative alla manutenzione e ricostruzione dell'ascensore già esistente. Nell'ipotesi, invece, d'installazione ex novo dell'impianto dell'ascensore trova applicazione la disciplina dell'art. 1123 c.c. relativa alla ripartizione delle spese per le innovazioni deliberate dalla maggioranza (proporzionalità al valore della proprietà di ciascun condomino) (cfr., fra tante, Cass: 25.3.1999, n. 2833; 16.5.1991, n. 5479). 12 L.' stato anche detto che la disciplina di cui agli artt. 1123-1125 c.c., sul riparto delle spese inerenti ai beni comuni, è suscettibile di deroga con atto negoziale, e, quindi, anche con il regolamento condominiale che abbia natura contrattuale. Pertanto, con riguardo alla ripartizione delle spese per la manutenzione, ricostruzione e installazione dell'ascensore, deve ritenersi legittima non solo una convenzione che ripartisca tali spese tra i condomini in misura diversa da quella legale, ma anche quella che preveda l'esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall'obbligo di partecipare alle spese medesime. In quest'ultima ipotesi, nel caso cioè in cui una clausola del regolamento condominiale stabilisca in favore di taluni condomini l'esenzione totale dall'onere di contribuire a qualsiasi tipo di spese (comprese quelle di conservazione), in ordine a una determinata cosa comune (come ad es. l'ascensore), si ha il superamento nei riguardi della suddetta categoria di condomini della presunzione di comproprietà su quella parte del fabbricato (v. Cass. 26.1.1998, n. 714; 16.12.1988, n. 6844). D) Nel caso specifico il Regolamento condominiale di natura contrattuale stabilendo all'art. 12 che "Le spese per la manutenzione ordinaria e straordinaria per l'esercizio dell'ascensore sono ripartite fra i condomini che se ne servono, secondo le singole quote della tabella allegata al presente regolamento", prevede, a contraris, l'esenzione, in deroga alla disciplina di cui agli artt. 1123-1125 c.c, dal concorso a tali spese di una determinata categoria di condomini, precisamente di quella che non si serve dell'ascensore, con tutte le conseguenze derivanti da tale esonero. L'impugnata sentenza non ha applicato i suddetti principi giurisprudenziali conseguenti a tale esonero, perché ha ritenuto che le spese di adeguamento dell'ascensore alla normativa CEE attengono non alla manutenzione ordinaria o straordinaria (in relazione alla quale è prevista - art. 12 del Regolamento di condominio - l'esenzione dal concorso per i condomini che non si servono dell'ascensore), bensì alla ricostruzione di tale bene, donde l'applicazione per analogia dell'art. 1124 c.c. in tema di ricostruzione delle scale. E) Ma la motivazione addotta per considerare tali spese come di ricostruzione risulta affatto insufficiente e carente, perché assertivamente fa riferimento a intervento tecnico finalizzato a introdurre elementi strutturali e costruttivi nuovi, senza però dire e spiegare in che cosa tale intervento tecnico sia consistito. Tanto più che gli interventi di adeguamento dell'ascensore alla normativa CEE, essendo diretti al conseguimento di obiettivi di sicurezza della vita umana e incolumità delle persone, onde proteggere efficacemente gli utenti e i terzi, attengono all'aspetto funzionale dello stesso, ancorché riguardino l'esecuzione di nuove opere, l'aggiunta di nuovi dispositivi, l'introduzione di nuovi elementi strutturali. F) Inoltre l'impugnata sentenza non ha tenuto conto che le norme sul condominio non classificano con precisione le diverse spese e non adoperano neppure una terminologia uniforme. L'art. 1123 c.c., al primo comma, enumera le spese per la "conservazione" per il "godimento", per la "prestazione dei servizi" e per le "innovazioni", mentre al terzo comma cita genericamente le spese di "manutenzione"; gli artt. 1124 e 1125 c.c.. fanno menzione delle spese di "manutenzione" e "ricostruzione", assoggettandole alla stessa disciplina; l'art. 1126 c.c. elenca quelle per le "riparazioni" e le "ricostruzioni". A parte il rilievo che la dottrina, accanto alla suddivisione tra spese per la conservazione e la manutenzione (dirette a conservare l'esistenza delle cose e ad impedirne il deterioramento), spese per il godimento (dirette al diverso fine dell'uso) e spese per la ricostruzione (volte a ripristinare il bene comune andato distrutto), introduce l'ulteriore distinzione tra spese necessarie (dirette ad assicurare alle cose comuni la destinazione e il servizio, che costituiscono le finalità del condominio), spese utili (dirette a migliorare le parti comuni) e spese voluttuarie (destinare ad abbellire le parti comuni), va anche sottolineato, sempre con riferimento alla normativa sul condominio, che l'art. 1104 c.c. distingue sostanzialmente due specie di spese comprensive di tutte le altre: spese per la conservazione e spese per il godimento della cosa comune. Le spese per la 13 conservazione attengono all'integrità del bene (e riguardano le erogazioni per la conservazione in senso stretto, per la manutenzione ordinaria e straordinaria e per le riparazioni), ovvero alla sua ricostruzione e ripristino (somme occorrenti per il rifacimento) ed afferiscono all'utilità oggettiva del bene. Le spese per il godimento attengono all'uso delle cose (ovvero degli impianti o servizi comuni): godimento che scaturisce da un fatto soggettivo, personale, mutevole. L'impugnata sentenza con motivazione insufficiente e inadeguata ha ritenuto di includere le spese di adeguamento dell'ascensore alla normativa CEE tra quelle di ricostruzione dell'impianto, escludendo che le stesse potessero rientrare tra quelle di conservazione ossia di manutenzione (straordinaria). G) Sotto altro profilo, l'impugnata sentenza non ha neppure tenuto conto che, in base all'art 1124 c.c., le spese di manutenzione e ricostruzione delle scale e, quindi, dell'ascensore, sono assimilate e assoggettate alla stessa disciplina, senza alcuna distinzione tra l'une e l'altre (così come, per l'art. 1125 c.c., le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai), sicché la clausola di regolamento condominiale convenzionale che esoneri una determinata categoria di condomini dal pagamento delle spese di manutenzione (ordinaria e straordinaria) ove sia intesa nel senso di modificare anche detta assimilazione legale, distinguendo le varie spese, richiede una motivazione adeguata. H) In base alle considerazioni esposte, il ricorso principale va accolto per quanto di ragione, con conseguentemente assorbimento del ricorso incidentale; l'impugnata sentenza deve essere cassata e la causa rimessa per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'Appello di Torino, che si atterrà ai principi sopra esposti e provvederà anche sulle spese del giudizio di Cassazione, facendone questa Corte espressa rimessione (art. 385, ult. cpv., c.p.c.). P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie per quanto di ragione il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Torino, che provvedere anche sulle spese del giudizio di Cassazione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 9 dicembre 2003. Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2004 2) Cass., Sez. 3, Sentenza n. 2855 del 11.2.2005 In tema di locazione di immobili, sebbene il pagamento del canone costituisca la principale e fondamentale obbligazione del conduttore, la sospensione parziale o totale dell'adempimento di tale obbligazione, ai sensi dell'art. 1460 cod. civ., può essere legittima non solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte, ma anche nell'ipotesi di inesatto inadempimento, purchè essa appaia giustificata in relazione alla oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, riguardata con riferimento all'intero equilibrio del contratto e all'obbligo di comportarsi secondo buona fede; ne consegue che, se il conduttore ha continuato a godere dell'immobile sebbene non pienamente a causa dei vizi della cosa imputabili al locatore, non è giustificabile a norma dell'art. 1460, secondo comma, cod. civ., il rifiuto di prestare l'intero canone, potendo però giustificarsi una riduzione dello stesso che sia proporzionata all'entità del mancato godimento, in analogia a quanto previsto dall'art. 1584 cod. civ.. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto notificato il 24.10.2000, Abbruzzese Franco Giovanni, premesso di aver concesso in locazione ad uso commerciale a Dell'Isola Gennaro l'immobile sito in via Vespucci 54 di Pisticci per il canone mensile di L. 110.000 e che il conduttore, benché diffidato, non aveva corrisposto i 14 canoni relativi ai mesi di settembre ed ottobre 2000, intimava al Dell'Isola sfratto per morosità, nel contempo convenendolo davanti al tribunale di Matera, sez. distaccata di Pisticci, al fine di sentire convalidare lo sfratto ed emettere decreto ingiuntivo per il pagamento della somma di L. 220.000. Si costituiva il Dell'Isola, che chiedeva il termine di grazia per il pagamento dei canoni non versati ed assumeva che, a seguito di reintegrazione nella detenzione dell'immobile da lui ottenuta nei confronti dell'Abbruzzese, aveva ivi trovato sei bare con i relativi paramenti funebri, di cui era stato nominato custode dall'Ufficiale giudiziario; che tanto aveva impedito il godimento del locale, che risultava inagibile ed occupato dalle casse da morto di proprietà dell'Abbruzzese. Esibiva, altresì, richiesta al G.E. di trasferire le sei bare nel cimitero di Pisticci ed autorizzazione dell'autorità cimiteriale, in questo senso, del 29.1.2001 a fronte del corrispettivo di L. 10.000 giornaliere. Il tribunale, con sentenza del 13.6.2002, dichiarava la risoluzione del contratto di locazione e condannava il convenuto al rilascio dell'immobile ed al pagamento di E. 113, 62, per canoni ancora dovuti. Avverso questa sentenza proponeva appello il Dell'Isola. La corte di appello di Potenza, con sentenza depositata il 18.7.2003, rigettava l'appello. Riteneva la corte di merito che con l'appello il conduttore si doleva di non aver potuto utilizzare il locale non solo per la presenza delle sei bare con i paramenti funebri, ma anche per la sottrazione degli attrezzi e dei pezzi necessari per la sua attività di elettrauto e per avere il conduttore rimosso i servizi igienici, la qual cosa aveva comportato la sospensione della licenza commerciale da parte del Comune di Pisticci; che tale ultima eccezione era nuova e quindi non ammissibile in appello, a norma dell'art. 437 c.p.c. Quanto alla presenza delle sei bare, postevi dal locatore, successivamente alla originaria consegna del locale, riteneva la corte di merito che non erano stati acquisiti elementi tali da far ritenere l'inidoneità del locale ad essere adibito all'uso convenuto; che il conduttore ben avrebbe potuto accantonare e coprire le bare, in modo da non costituire ostacolo all'attività; che il Dell'Isola avrebbe potuto custodire altrove le bare, prima di quanto ebbe a fare. Riteneva la corte territoriale che, poiché la morosità era pari certamente almeno a due mensilità, doveva ritenersi grave l'inadempimento, e dichiarare risolto il contratto di locazione. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione Dell'Isola Gennaro. Resiste con controricorso Abbruzzese Franco Giovanni. MOTIVI DELLA DECISIONE 1.1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 1455 e dell'art. 437 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3, e violazione dell'art. 112 c.p.c.. Lamenta il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata abbia ritenuto che l'assunta inagibilità del locale fosse limitata solo alla presenza delle bare, mentre essa atteneva anche alla rimozione dei servizi igienici da parte del locatore ed alla rimozione degli strumenti di lavoro e dei pezzi di ricambio; che tale eccezione di inadempimento era stata allegata già nel giudizio di primo grado, assumendosi l'inagibilità dell'immobile; che conseguentemente vi era stata violazione dell'art. 437 c.p.c. e dell'art. 112 c.p.c.. 1.2. Con il terzo motivo di ricorso (riservando questa Corte al prosieguo l'esame del secondo) il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 437 c.p.c, per non aver la corte ammesso le prove testimoniali dedotte, che erano indispensabili, eventualmente anche avvalendosi dei poteri officiosi. 2.1. Ritiene questa Corte che i suddetti motivi, essendo strettamente connessi, vadano esaminati congiuntamente. Essi sono infondati e vanno rigettati. Va preliminarmente osservato che nelle controversie assoggettate al rito del lavoro, come quelle di locazione, l'inammissibilità di nuove eccezioni nel giudizio d'appello stabilita dall'art. 437 comma 2 c.p.c., riguarda oltre le eccezioni in senso proprio, le contestazioni della fondatezza della domanda che si risolvono nella deduzione di elementi di fatto già conosciuti nel corso dell'istruttoria di primo grado ed ivi non dedotti, essendo precluso all'appellante di ampliare il tema del dibattito in relazione alle sue esigenze difensive. Infatti va considerata nuova l'eccezione fondata su elementi e circostanze non prospettate in precedenza, che introduca nel processo un nuovo tema di indagine e 15 che alteri l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia, introducendo l'esame di fatti nuovi (Cass 27/01/1995, n. 983; Cass. 11/11/1994, n. 9457; Cass. 30/05/2003, n. 8739). 2.2. Nella fattispecie in primo grado si era genericamente eccepita la non agibilità del locale per la presenza delle sei bare, senza alcun riferimento alla mancanza del bagno, del servizio idrico e delle attrezzature di lavoro. Ne consegue che correttamente il giudice di appello, al quale - in quanto giudice di merito - è riservata l'interpretazione della domanda o delle eccezioni proposte dalle parti, ha ritenuto che solo in relazione alla presenza di dette bare andava valutata l'inagibilità del locale, mentre l'assunta inagibilità per rimozione del bagno e degli strumenti di lavoro ad opera del locatore, costituiva l'introduzione di una nuova eccezione, perché fondata su fatti nuovi, che non erano stati oggetto del primo giudizio. 2.3. Il rigetto del primo motivo di impugnazione comporta anche il rigetto del terzo motivo, in quanto, come rilevato dalla corte di appello, la prova testimoniale dedotta aveva ad oggetto essenzialmente al suddetto profilo fattuale. Inoltre va osservato che il comma 2 dell'art. 437 c.p.c., nello stabilire che il collegio può ammettere, anche di ufficio, i mezzi istruttori ritenuti indispensabili ai fini della decisione della causa, attribuisce al giudice di appello un potere discrezionale il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità anche nell'ipotesi in cui manchi un'espressa motivazione della mancata ammissione di ulteriori mezzi di prova, atteso che l'omessa motivazione lungi dal configurare un omesso esame - configura un'implicita negazione della indispensabilità, costituente presupposto giustificativo dell'esercizio del potere discrezionale (Cass. 05/03/2001, n. 3200). 3.1. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 437 c.p.c., in relazione all'art. 115 c.p.c.. Secondo il ricorrente, per poter affermare l'idoneità del locale all'esercizio dell'attività di elettrauto, anche in presenza delle sei bare, si sarebbe dovuto dimostrare la dimensione del locale, che, invece, era di circa 50 mq.. Inoltre la presenza di sei bare con i paramenti funebri distoglieva l'afflusso della clientela. 3.2. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 437 c.p.c. ed il mancato esame di documenti. Si duole il ricorrente che la corte territoriale non abbia tenuto conto dei documenti prodotti con l'atto di appello, tra cui quelli relativi alle autorizzazioni a rimuovere le bare ed a depositarle presso il Cimitero di Pisticci. 3.3. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1455 c.c., in relazione all'art. 5 della legge n. 392/1978, nonché il vizio motivazionale dell'impugnata sentenza che ha ritenuto che il mancato pagamento di due mensilità costituisse inadempimento di maggiore gravità rispetto a quello del locatore, mentre il primo era di gravità al più' pari ed inoltre cronologicamente successivo e da esso dipendente. 3.4. Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1455 c.c., in relazione all'art. 1227 c.c.. Il ricorrente censura l'impugnata sentenza nella parte in cui ritiene che il conduttore avrebbe dovuto operarsi prima per custodire altrove le bare; che ciò integra un comportamento colposo del creditore, a norma dell'art. 1227/ c. 2, c.c., per non avere evitato il danno, usando l'ordinaria diligenza; che nella fattispecie questa operazione non era di lieve sforzo (essendo pari a L. 10.000 giornaliere) nel mentre lo stesso pagava anche il canone di L. 110.000 mensili, per cui il conduttore non era tenuto a detto comportamento. 4.1. Ritiene questa Corte che i suddetti motivi, essendo strettamente connessi, vadano esaminati congiuntamente. Essi sono fondati e vanno accolti. Osserva preliminarmente questa Corte che in punto di fatto risulta pacifico che le sei bare in questione furono immesse nel locale, dopo che era sorta la locazione e durante il periodo in cui il locatore aveva riottenuto la detenzione temporanea dello stesso per l'esecuzione di opere di ristrutturazione, e che furono ivi lasciate a seguito dell'esecuzione coattiva dell'ordinanza di reintegrazione nella detenzione qualificata del conduttore. Il problema che si pone è se detto comportamento del locatore possa qualificarsi di inadempimento ai suoi obblighi nascenti dal contratto di locazione e se possa essere fatto valere dal conduttore ai 16 fini dell'eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), come giustificativa del proprio inadempimento nel pagamento del canone, ed, infine, ai fini della gravità dell'inadempimento del conduttore, ai sensi dell'art. 1455 c.c.. 4.2. Osserva preliminarmente questa corte che tra le obbligazioni principali del locatore vi sono quelle di consegnare la cosa in buono stato di manutenzione, di mantenere la cosa in stato di servire all'uso e di garantirne il pacifico godimento (art. 1575 c.c.). 4.2. Anche il locatore è tenuto all'esecuzione di buona fede del contratto, sulla base del principio generale di cui all'art. 1375 c.c.. Occorre a tal proposito ricordare che questa Corte Suprema, dopo avere in un primo tempo negato a detto principio un rilievo giuridico autonomo (v. Cass., n. 3250 del 20 luglio 1977: "La violazione dei doveri di correttezza e di buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.) ove non siano considerati in forma primaria ed autonoma da una norma - come nell'ipotesi di concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3, cod. civ. - costituisce solo un criterio di qualificazione e di valutazione del comportamento dei contraenti. Pertanto, un comportamento ad essi contrario non può essere reputato illegittimo e, quindi, fonte di responsabilità ove al contempo non concreti la violazione di un diritto altrui, già direttamente riconosciuto da una norma giuridica". cfr. Cass., n. 5610/80), ha in un secondo tempo riconosciuto che la buona fede costituisce oggetto di un vero e proprio dovere giuridico (Cass., n. 960 del 18 febbraio 1986. "La buona fede, intesa in senso etico, come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all'altra, ma anche se il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale, che integrano, appunto, il contenuto della buona fede". Conf. Cass., n. 1460/73; Conf. Cass., n. 89/66) e costituisce quindi una possibile fonte di responsabilità (detto principio giuridico di carattere generale ha trovato applicazione nella giurisprudenza di questa Corte Suprema in numerose fattispecie: (cfr. ad es. - tra l'altro in tema di risarcimento del danno - Cass. 5/11/1999, n. 12310; Cass., n. 2167/96; Cass., n. 9775/96; Cass., n. 11040/97; Cass., n. 11041/97; Cass., n. 6475/85). 4.3. In altri termini, la violazione del dovere di comportamento imposto dal principio di buona fede (art. 1375 c.c.) è già di per sè inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno cagionato a causa della violazione medesima. Infatti, come si legge nella Relazione al codice civile, il principio di correttezza e di buona fede "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore" (ivi, - 558). Esso opera, quindi, come un criterio di reciprocità che, nel nuovo quadro di valori introdotto dalla Carta Costituzionale, costituisce specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" tutelati dall'art. 2 cost. (Cass. 13 gennaio 1993, n. 343): la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. 4.4. La buona fede, quindi, si pone come governo della discrezionalità nell'esecuzione del contratto, nel senso che essa opera sul piano della selezione delle scelte discrezionali dei contraenti, assicurando che l'esecuzione del contratto avvenga in armonia con quanto emerge dalla ricostruzione dell'operazione economica che le parti avevano inteso porre in essere, filtrata attraverso uno standard di normalità sociale, e, quindi, di ragionevolezza. Il debitore, pertanto, nell'adempiere l'obbligazione deve compiere tutto quanto è necessario, secondo i predetti standards, per il soddisfacimento dell'interesse del creditore, senza che ciò costituisca per lui un rilevante aggravio aggiuntivo. Certamente, quindi, è da escludere che sussista l'esecuzione di buona fede del contratto, allorché il debitore, lungi dal preservare gli interessi del creditore, ha affrontato anzi ulteriori costi che rendono meno satisfattorio l'adempimento, per quanto formalmente effettuato. 4.5. La corte di merito, quindi, avrebbe dovuto porsi anzitutto il problema se il locatore, scegliendo di procurarsi e poi lasciare nel locale le sei bare con i rispettivi paramenti funebri, avesse dato 17 un'esecuzione di buona fede agli obblighi derivanti a suo carico dal contratto di locazione, e ciò indipendentemente dal punto se il conduttore poi avesse effettivamente utilizzato o meno il locale, con la presenza della bare. Infatti, in caso di risposta negativa, rimaneva accertato l'inadempimento del locatore e si poneva solo il problema del rapporto tra detto inadempimento e quello del conduttore, consistente nel mancato pagamento del canone per due mesi. 5.1. Secondo un orientamento di questa Corte, in tema di locazione di immobili, non può disconoscersi che il pagamento del canone costituisce la principale e fondamentale obbligazione del conduttore, al quale non è consentito astenersi dal versare il corrispettivo o di determinare unilateralmente il canone nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione del godimento del bene, anche quando si assuma che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore e ciò perché la sospensione totale o parziale dell'adempimento di detta obbligazione, ai sensi dell'art. 14 60 c.c., è legittima soltanto quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte (in tale senso Cass. 5.10.1998, n. 9863; Cass. n. 3411 del 1983; Cass. 23.5.1962, n. 1172). 5.2. Il principio non pare condivisibile, poiché esso porta ad escludere l'applicabilità dell'eccezione di cui all'art. 1460 in ipotesi di inesatto adempimento, limitandola all'exceptio inadimpleti contractus. Infatti il 2^ c. dell'art. 1460 c.c., ove non si voglia ritenere meramente ripetitivo del primo, secondo la più attenta dottrina, va riferito anche al caso in cui la controparte potrebbe aver già adempiuto la propria prestazione, ma in maniera inesatta. In questo caso l'eccezione sarebbe quella di non rite adimpleti contractus. Sennonché l'exceptio non rite adimpleti contractus, a cui è egualmente applicabile l'art. 14 60 c.c., postula la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti se ne facciano, ma in relazione alla oggettiva proporzione degli inadempimenti stessi, riguardata con riferimento all'intero equilibrio del contratto ed alla buona fede (Cass. 9 agosto 1982, n. 4457; Cass. 22 gennaio 1985, n. 250; Cass. 20 giugno 1996, n. 5694). Pertanto se il conduttore ha, in ogni caso, continuato a godere dell'immobile, per quanto lo stesso presentasse vizi, e quindi ha ricevuto la prestazione, per quanto nei termini predetti, non può lo stesso sospendere l'intera sua prestazione, perché in questo caso mancherebbe la proporzionalità tra i due inadempimenti. Nell'individuazione di questa proporzionalità, da valutarsi nell'ambito dell'economia del contratto di locazione, possono tenersi in conto per analogia i principi di cui all'art. 1584 c.c., per cui se residua pur sempre un godimento dell'immobile da parte del conduttore, nonostante i vizi della cosa locata imputabili al locatore, non è giustificabile, a norma dell'art. 1460, e. 2, c.c, il rifiuto di prestazione dell'intero canone, potendo giustificarsi solo una riduzione dello stesso proporzionata all'entità del mancato godimento. 5.3. Quindi nella fattispecie la sentenza impugnata avrebbe dovuto anche valutare se detto inadempimento del locatore era tale da rendere inidoneo completamente all'uso il locale o solo parzialmente, tenendo conto che, ai fini dell'idoneità all'uso, trattandosi di attività svolta in contatto diretto con il pubblico, va considerato anche l'eventuale riflesso del fatto-inadempimento del locatore nei confronti dell'utenza. Nella prima ipotesi, ove cioè la corte territoriale avesse ritenuto che la consegna del locale con le sei bare non costituisse esecuzione di buona fede del contratto, ispirata ai principi di solidarietà, ma inadempimento totale dell'obbligazione, avrebbe dovuto ritenere giustificato il consequenziale inadempimento del conduttore nel pagamento delle due mensilità. 5.4. Nel caso che fosse stato ritenuto l'immobile solo parzialmente idoneo all'uso, e, quindi, non tale da giustificare il totale mancato pagamento del canone, egualmente di tanto doveva tenersi conto ai fini dell'accertamento della gravità dell'inadempimento, ai sensi dell'art. 1455 c.c., per la pronuncia di risoluzione del contratto per morosità del conduttore. Infatti nei contratti con prestazioni corrispettive, quale è quello in esame, il giudice di merito, nel valutare la fondatezza della domanda di risoluzione per inadempimento, deve tener conto, anche in 18 difetto di una formale eccezione ex art. 14 60 c.c., delle difese con cui il convenuto opponga a sua volta l'inadempienza della parte attrice, posto che la gravità dell'inadempimento, che ai sensi dell'art. 1455 c.c. legittima la risoluzione, deve essere accertata sulla base di un criterio relativo, nel quadro complessivo del rapporto e dei reciproci interessi dei contraenti (Cass. 19/02/1993, n. 2022; Cass. 03/07/2000, n. 8880). Ne consegue che la sentenza impugnata, che non si è attenuta ai suddetti principi, ne' ha effettuato le suddette valutazioni, è viziata. 6.1. Fondata è anche la censura, sotto il profilo della violazione dell'art. 1227, e. 2, dell'impugnata sentenza nella parte in cui ritiene che ben avrebbe potuto il Dell'Isola, nominato custode delle bare, attivarsi, prima di quanto ebbe a fare, per custodire altrove le medesime. Infatti l'ordinaria diligenza di cui al comma secondo dell'art. 1227 c.c. non va identificata con quella di cui all'art. 1176 c.c. (Cass. N. 2900 del 1972). Il dovere del danneggiato va invece inteso come sforzo di evitare il danno attraverso un'agevole attività personale, oppure mediante un sacrificio economico relativamente lieve. Sono comprese nell'ambito dell'ordinaria diligenza soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (Cass. N. 10763/99; Cass. N. 4232/1997). La valutazione dell'entità del sacrificio economico, dovuta dal creditore-danneggiato, va poi effettuata non in assoluto, ma in relazione all'economia contrattuale ed ai danni da inadempimento che lo stesso subisce. 6.2. Ne consegue che la corte di merito, al fine di potere ritenere che il conduttore doveva procedere precedentemente al trasporto delle bare altrove, avrebbe dovuto anzitutto accertare che ciò era già in precedenza possibile e poi ritenere che il sacrificio economico subito dal conduttore (L. 10.000 giornaliere) era di lieve entità nell'ambito di un contratto di locazione, il cui canone mensile era di L. 110.000. 7. Fondata è anche la censura relativa all'omessa valutazione della prova documentale prodotta in relazione alla rimozione delle bare ed alla loro allocazione nel cimitero di Pisticci. Benché detta prova documentale sia stata prodotta solo con l'atto di appello, essa non è inammissibile a norma dell'art. 437 c.p.c.. Infatti nel rito del lavoro, le preclusioni e le decadenze, comminate per la deduzione tardiva dei mezzi di prova, riguardano soltanto le prove costituende, mentre la produzione di documenti, specie se sopravvenuti nelle more del giudizio, può avvenire persino nel corso del giudizio di appello, purché, in questo caso, i documenti stessi siano specificamente indicati dalle parti nel ricorso dell'appellante o nella memoria difensiva dell'appellato, e depositati contestualmente a tali atti salvo il caso di documenti sopravvenuti nel corso del giudizio di secondo grado - ferma restando, in ogni caso, la necessità che la produzione dei documenti sia effettuata prima delle discussione orale (Cass. civ., sez. lav., 19/05/2003, n. 7845; Cass. 27/11/2003, n. 18138). 8. In definitiva vanno rigettati il primo ed il terzo motivo di ricorso e vanno accolti il secondo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo. Va cassata, in relazione ai motivi accolti, l'impugnata sentenza. La causa va rinviata alla Corte di appello di Salerno, che si uniformerà ai suddetti principi di diritto e provvedere anche sulle spese di questo giudizio di Cassazione. P.Q.M. Accoglie il secondo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo e rigetta il primo ed il terzo motivo di ricorso. Cassa, in relazione ai motivi accolti, l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla Corte di appello di Salerno. Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2005. Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2005 19 3) Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16515 del 5.8.2005 In tema di violazioni del codice della strada, la circolazione contromano, prevista e sanzionata dall'art. 143, commi 11 e 12, cod. strada, è configurabile tanto quando il veicolo percorra una strada a doppio senso di circolazione nella corsia destinata all'opposto senso di marcia, che allorché percorra in senso opposto a quello consentito una strada a senso unico, risiedendo la "ratio" della previsione nell'intralcio e nel pericolo per la sicurezza della circolazione in relazione alla presenza di veicoli che sopraggiungano in senso contrario, "ratio" in particolar modo ravvisabile nella seconda ipotesi di condotta, che non vi è motivo, pertanto, di punire in maniera più lieve rispetto alla prima. Una siffatta interpretazione delle disposizioni dell'art. 143 non è analogica, dovendosi intendere per circolazione "contromano" quella che avviene nella direzione opposta alla direzione consentita; sebbene, infatti, tale direzione vietata sia evocata dal termine in esame, inteso in senso stretto, per contrapposizione all'altra "mano" (ossia lato della strada) in cui è lecito marciare nella medesima direzione ("mano" che non esiste in caso di strada a senso unico), tuttavia un significato più ampio del termine, che ponga cioè l'accento essenzialmente sulla direzione errata, non è da escludere, dovendosi pertanto ritenere, per la necessaria razionalità del sistema sanzionatorio, che il legislatore "minus dixit quam voluit", intendendosi quel termine in senso ampio e non stretto. Riferimenti normativi: Cod. Strada art. 143 CORTE COST., Cod. Strada art. 143 CORTE COST. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Risulta dalla sentenza impugnata quanto segue. Il 30 maggio 2001, verso le 23, 30, agenti della Polizia Municipale di Cervia contestavano all'avv. Giancarlo Savoia, dopo aver intimato l'alt all'autovettura di cui era alla guida, la violazione dell'art. 143, comma 12, del codice della strada per avere "circolato contromano nella curva che da via Ficocle immette sulla SS. n. 16 in ora notturna e quindi di scarsa visibilità". L'avv. Savoia proponeva immediatamente opposizione davanti al Giudice di pace di Ravenna, eccependo la nullità del verbale per varie ragioni e, in particolare, per l'erroneità della data dell'accertamento, indicata nel 31 - anziché 30 - maggio 2001. Radicatosi il contraddittorio, il funzioriario delegato dal Sindaco di Cervia ammetteva l'errore nell'indicazione della data e faceva presente che comunque gli agenti avevano successivamente confermato l'accertamento, rettificandone la data e procedendo a nuova notifica del verbale nei modi e termini di legge. Il Giudice di pace definiva la causa con sentenza del 23 novembre 2001, dichiarando "estinto il giudizio per cessata materia del contendere". Nelle more di tale giudizio l'avv. Savoia proponeva, davanti allo stesso Giudice di pace di Ravenna, tempestiva opposizione anche avverso il verbale notificatogli successivamente (il 5 giugno 2001), recante il numero 18872/2001/V - Prot. 3660, datato 30 maggio 2001 e contenente l'avvertenza che lo stesso annullava e sostituiva integralmente il precedente atto pari numero, in quanto la data dell'accertamento era il 30 - e non 31 - maggio 2001, Deduceva l'opponente: difetto della contestazione immediata dell'infrazione, essendo stata dichiarata nulla, per espressa ammissione della Polizia Municipale, quella eseguita il 30 maggio; insussistenza della violazione contestata, riferendosi l'art. 143, comma 12, c.d.s., alla diversa ipotesi in cui il veicolo occupi parte della carreggiata di sinistra, mentre nella specie la strada era a senso unico e munita di divieto di accesso per chi proveniva dalla statale. Il Giudice di pace, con sentenza del 31 gennaio 2002, respingeva l'opposizione, osservando: 20 - che "con la richiamata sentenza del 23 novembre 2001 non è stata sancita, da questo giudice, alcuna nullità del verbale oggetto dell'impugnazione", ma era stata dichiarata cessata la materia del contendere, "prendendo atto della rettifica operata dalla Polizia Municipale, in applicazione del principio dell'autotutela, al verbale di contestazione immediata (...); della già avvenuta rinotifica dello stesso verbale così rettificato e della circostanza che anche tale secondo atto era stato sottoposto a gravame instaurando così un secondo giudizio sul medesimo fatto contravvenzionale"; - che la rettifica operata dalla Polizia Municipale riguardava esclusivamente un vizio formale dell'atto - l'indicazione della data di accertamento e contestazione - e non il fatto o la norma violata o la circostanza dell'avvenuta contestazione immediata dell'infrazione; - che, dunque, concernendo il giudizio sempre il medesimo fatto illecito, non poteva revocarsi in dubbio che tale illecito fosse stato immediatamente contestato al trasgressore, il quale era stato posto, fin dal primo momento, in condizioni di ipotesi difendere (finalità perseguita dall'art. 200 c.d.s.), tant'è che aveva proposto immediatamente opposizione avverso il primo verbale; - che l'art. 143, comma 12, c.d.s. sanziona il comportamento dell'automobilista che circola contromano in corrispondenza di una curva; circolare "contromano" non può significare altro che circolale nella "direzione opposta a quella normale o regolare per il traffico stradale", com'era avvenuto nella specie, essendo, pacificamente, a senso unico il tratto di Via Ficocle imboccato - nel senso opposto a quello consentito - dal trasgressore. 2. - Avverso tale sentenza l'avv. Savoia propone ricorso per Cassazione con tre motivi. L'intimato Comune di Cervia non svolge difese. MOTIVI DELLA DECISIONE 3. - Con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 39 c.p.c, lamenta che il Giudice di pace non abbia d'ufficio sollevato l'eccezione di litispendenza o, quantomeno, disposto la riunione dei due procedimenti relativi al medesimo illecito amministrativo e pendenti davanti al medesimo giudice, ed abbia nella sentenza fatto riferimento ad elementi estranei agli atti perché acquisiti nel diverso procedimento relativo alla prima opposizione, violando anche il canone del ne bis in idem. 4. - Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile. 4.1. - È infondato nella parte in cui deduce la violazione dell'art. 39 c.p.c., perché le cause relative alle opposizioni avverso i due verbali di contravvenzione nella specie succedutisi non erano identiche, avendo ad oggetto motivi di opposizione in parte diversi riferiti a due diversi atti amministrativi. Più esattamente, nella specie era, semmai, applicabile l'art. 274 c.p.c, trattandosi di cause semplicemente connesse pendenti davanti allo stesso giudice, che dunque potevano essere riunite; ma il mancato esercizio del potere discrezionale di riunione dei giudizi, ai sensi dell'art. 274 cit., non da luogo a nullità e non è censurabile in Cassazione. 4.2. - Le censure relative all'utilizzo, da parte del giudice, di elementi acquisiti in diverso procedimento e di violazione del ne bis in idem, poi, sono inammissibili per la assoluta genericità dei relativi riferimenti. 5. - Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 200 e 143, comma 12, c.d.s., il ricorrente lamenta che il Giudice di pace non abbia annullato il verbale per difetto della contestazione immediata dell'infrazione e mancanza della indicazione, nel verbale medesimo, dei motivi che l'avevano resa impossibile. Osserva che, se il primo verbale era autonomo dal secondo ed era stato annullato dalla stessa Polizia municipale, come stabilito dal Giudice di pace nella sua prima sentenza (relativa alla prima opposizione), non era poi consentito basarsi su di esso per ritenere effettuata la contestazione immediata dell'infrazione. 6. - Il motivo è inammissibile, perché parte da un presupposto in fatto - che, cioè, con la sentenza del 23 novembre 2001 il Giudice di pace avesse accertato la nullità del primo verbale - contrario a quanto stabilito dalla sentenza qui impugnata, la quale, invece (secondo quanto sopra testualmente riportato in narrativa) espressamente lo esclude e precisa che la prima sentenza aveva soltanto dichiarato cessata la materia del contendere prendendo atto, in particolare, della mera "rettifica" del verbale di contestazione immediata ad opera del secondo verbale notificato. 21 Tale statuizione, in quanto statuizione in fatto (riguardante il contenuto di una sentenza pronunciata in un diverso giudizio), avrebbe dovuto essere censurata mediante la deduzione di specifici vizi logici, ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., che, però, il ricorso non contiene. 7. - Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 143, comma 12, in relazione all'art. 154, comma 3, c.d.s., il ricorrente osserva: - che l'art. 143, comma 12, cit., "prevede che si abbia circolazione contromano allorché un veicolo occupi una parte più o meno grande della carreggiata di sinistra", mentre "nella fattispecie (...) la bretella di strada in cui venne effettuata l'immissione era ed è a senso unico, e munita di un divieto d'accesso per chi provenga dalla strada statale"; onde andava, semmai, applicata la sanzione stabilita per la "violazione di uno dei divieti generali previsti dall'art. 116/1 punto b) del Regolamento al Codice della strada e cioè quella di essersi immesso in un senso vietato di una strada"; - del resto, l'art. 143, comma 12, cit., fa riferimento alla circolazione contromano quando la strada sia divisa in più carreggiate separate, mentre nella specie la via Ficocle (imboccata dal ricorrente) "è divisa da un'isola di canalizzazione che separa, dal lato Nord la sola immissione nella Strada statale 16 Adriatica e, dalla parte Sud sia l'uscita che l'entrata"; sicché andava, semmai, configurata l'ipotesi di cui all'art. 154, comma 3, punto b), c.d.s. 8. - Il motivo non può essere accolto. 8.1. - La prima censura pone la questione se la circolazione contromano, punita con le sanzioni comminate dall'art. 143, commi 11 e 12, c.d.s., si configuri soltanto ove il trasgressore percorra una strada a doppio senso di circolazione nella corsia destinata alla marcia in senso opposto, ovvero anche allorché percorra in senso opposto a quello consentito una strada a senso unico. Il ricorrente sostiene la prima soluzione, ma tale soluzione è errata. L'art. 143 c.d.s. non esclude, e neppure espressamente consente, che le fattispecie di illecito previste ai suoi commi 11 e 12 comprendano anche la circolazione in senso vietato nelle strade a senso unico; nè da una definizione di circolazione contromano. La ratio delle previsioni in questione, però, risiede evidentemente nell'intralcio e nel pericolo per la sicurezza della circolazione in relazione alla presenza di veicoli che sopraggiungono in senso contrario. E tale ratio vale indiscutibilmente sia per l'ipotesi che il trasgressore circoli su una strada a doppio senso, sia - e, anzi, in particolar modo - per ipotesi in cui circoli su una strada a senso unico. Non vi è ragione, pertanto, di punire la prima condotta in maniera più lieve rispetto alla seconda; il che si verificherebbe, invece, ove si ritenessero le fattispecie di cui art. commi 11 e 12 dell'art. 143 cit. limitate soltanto alla prima ipotesi, in quanto per la seconda non resterebbe che applicare - come sostiene il ricorrente - le generiche fattispecie di violazione dei divieti indicati dalla segnaletica stradale, assai più blandamente sanzionate (art. 6, commi 4 lett. b) e 14, e art. 7, commi 1 e 14, c.d.s., fatti salvi dall'art. 146, comma 2, dello stesso codice). L'interpretazione qui sostenuta non è analogica - e dunque non viola il divieto di cui all'art. 1 l. n. 689 del 1981, richiamato dall'art. 194 c.d.s. - in quanto per circolazione contromano s'intende la circolazione che avviene nella direzione opposta a quella consentita e, sebbene tale direzione vietata sia evocata dal termine in esame, inteso in senso stretto, per contrapposizione all'altra mano (ossia lato della strada) in cui è lecito marciare nella medesima direzione (mano che non esiste in caso di strada a senso unico), tuttavia un'accezione più ampia del termine, che ponga, cioè, l'accento essenzialmente sulla direzione errata, la necessaria razionalità del sistema sanzionatorio (sopra non è da escludere; sicché deve ritenersi, richiamata), che il legislatore minus dixit quam voluit, dovendosi intendere quel termine in senso ampio e non stretto. 8.2. - La seconda censura, il cui senso, invero, non è del tutto chiaro, è in ogni caso inammissibile per novità, in quanto si basa su una circostanza di fatto - la sussistenza di una svolta con isola di canalizzazione - non menzionata dalla sentenza impugnata (che parla di curva) ed introdotta in giudizio soltanto con il ricorso per Cassazione. 9. - In conclusione, il ricorso va respinto. Non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali perché l'intimato non ha svolto difese. P.Q.M. 22 La Corte rigetta Così deciso in Roma, Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2005 il il 4 marzo ricorso. 2005. 4) Cass., Sez. 1, Sentenza n. 6441 del 17.3.2009 In tema di diritto dello straniero al ricongiungimento familiare, il cittadino extracomunitario legato ad un cittadino italiano ivi dimorante da un'unione di fatto debitamente attestata nel paese d'origine del richiedente, non può essere qualificato come "familiare" ai sensi dell' art. 30, primo comma, lettera c), del d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto tale nozione, delineata dal legislatore in via autonoma, agli specifici fini della disciplina del fenomeno migratorio, non è suscettibile di estensione in via analogica a situazioni diverse da quelle contemplate, non essendo tale interpretazione imposta da alcuna norma costituzionale. Ne tale più ampia nozione può desumersi dagli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo o dall'art. 9 della Carta di Nizza (recepita nel Trattato di Lisbona, ratificato dall'Italia l'8 agosto 2008, ma non ancora da tutti gli Stati membri) in quanto tali disposizioni escludono il riconoscimento automatico di unioni diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni, salvaguardando l'autonomia dei singoli Stati nell'ambito dei modelli familiari. Infine, non può trovare applicazione la più recente normativa di derivazione comunitaria, in quanto il d.lgs. n. 5 del 2007 si applica soltanto ai familiari di soggiornanti provenienti da paesi terzi e il d.lgs. n. 30 del 2007 tutela la libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini UE e dei loro familiari nel territorio di uno stato membro diverso da quello di appartenenza, e non il diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino di uno Stato membro regolarmente residente e dimorante nel suo paese d'origine. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il cittadino neozelandese M.D.W., avendo già ottenuto visto d'ingresso e permesso di soggiorno per motivi di studio per la durata di un anno, facendo valere il riconoscimento della qualità di "partner de facto" del cittadino italiano T.R. da parte delle competenti autorità neozelandesi, ha chiesto al questore di Livorno la conversione del titolo di soggiorno in permesso per motivi familiari ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1, lett. c) in relazione alla L. n. 218 del 1995, artt. 24 e 65. Il provvedimento del 15 ottobre 2004 del questore, che ha dichiarato irricevibile l'istanza, è stato dichiarato illegittimo dal tribunale di Firenze con decreto del 4 luglio 2000, ma la Corte d'appello di Firenze, con decreto del 6 dicembre 2006, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto la domanda del M. affermando che: a) la condizione di partner de facto, attestata dalle autorità neozelandesi, secondo il nostro ordinamento giuridico è diversa da quella di "familiare", che può essere riconosciuta soltanto a soggetti legati da vincoli parentali e, solo in alcuni casi, anche di affinità; b) non è possibile una lettura costituzionalmente orientata di tale disciplina che consenta di pervenire a interpretazioni estensive, perché la Corte costituzionale ha costantemente affermato la legittimità costituzionale delle norme che non consentono di estendere alle convivenze di fatto la disciplina della famiglia legittima (sentenze nn. 313/2000, 2 e 166 del 1998, 127/1997, 237/1986, 45/1980), anche con specifico riferimento alla normativa in materia d'immigrazione e in particolare con riferimento alla norma che limita il divieto di espulsione allo straniero coniugato o parente entro il quarto grado di cittadino, escludendo lo straniero convivente more uxorio (sentenza n. 23 313/2000); c) la legge neozelandese che riconosce la qualità di conviventi di fatto a persone dello stesso sesso, tanto più se dovesse intendersi anche come costitutiva dello status di "familiare", è contraria all'ordine pubblico italiano; d) l'art. 3, comma 2, lett. b) della direttiva n. 2004/38/CE, che riconosce il diritto di soggiorno nel territorio degli stati membri ai partner stranieri che abbiano una relazione stabile debitamente attestata, non è applicabile nella specie perché il M. non è cittadino di uno stato dell'Unione Europea e perché, comunque, l'equiparazione dell'unione registrata al matrimonio, al fine del riconoscimento della qualità di "familiare" e quindi del diritto di ingresso e di soggiorno, deve essere prevista dalla legislazione nazionale dello Stato membro ospitante; e) l'art. 12 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo e l'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea riservano alle legislazioni nazionali la competenza a disciplinare il diritto ad instaurare rapporti coniugali o unioni familiari di tipo diverso, e poiché il nostro ordinamento riconosce le unioni di tipo coniugale solo nelle ipotesi di convivenze tra persone di sesso diverso, il recepimento di una normativa di altro Stato (tra l'altro non comunitario) che riconosca la qualità di convivente di fatto a persone dello stesso sesso produrrebbe effetti contrari all'ordine pubblico. Avverso il decreto della corte d'appello di Firenze il M. e il T. hanno proposto ricorso per Cassazione articolato in cinque motivi, illustrati con memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell'art. 112 c.p.c. in quanto la Corte territoriale avrebbe ritenuto che la domanda proposta davanti al tribunale di Firenze fosse diretta a ottenere il recepimento nel nostro ordinamento della normativa neozelandese che riconosce la qualità di conviventi di fatto a persone dello stesso sesso, mentre la domanda stessa aveva ad oggetto soltanto il riconoscimento, ai sensi della L. n. 218 del 1995, di uno status già acquisito dallo straniero nell'ordinamento giuridico di appartenenza. Il motivo non è fondato. La Corte territoriale ha correttamente individuato ed esaminato la domanda proposta dagli attuali ricorrenti, come diretta a contestare la legittimità del provvedimento di rigetto (per "irricevibilità") della richiesta di permesso di soggiorno per motivi familiari ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1, lett. c). Nell'iter argomentativo diretto a individuare l'esatta portata della nozione di "familiare" (di cui alla citata disposizione normativa, la Corte territoriale ha anche affrontato il problema della possibile rilevanza della qualità del T. di "partner de facto" del cittadino neozelandese, attestata dalle autorità dello stato di appartenenza di questo, negandola per la ritenuta contrarietà all'ordine pubblico della norma straniera sulla base della quale sarebbe stata rilasciata l'attestazione. Tuttavia il decisum del provvedimento impugnato è limitato alla questione relativa all'applicazione della disciplina dell'immigrazione e non investe, principaliter, il riconoscimento di status o, comunque, di qualità personali, come gli stessi ricorrenti ammettono nell'articolazione del terzo motivo di ricorso, e pertanto la censura appare inconferente. 2. Con il secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 24 e 65 in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 28, comma 2, e artt. 30 e 31, i ricorrenti sostengono che, ai fini dell'applicazione dell'art. 30 cit. il giudice nazionale non doveva valutare se lo status di convivente di fatto sia equiparabile a quello di familiare alla stregua delle norme nazionali, ma accertare se, secondo la disciplina neozelandese applicabile in virtù della L. n. 218 del 1995, art. 24, il M. debba considerarsi "familiare" del cittadino italiano. Nè il limite dell'ordine pubblico può derivare dalla sola mancanza di una disciplina legislativa interna in materia di rapporti di tipo familiare tra persone dello stesso sesso, che, peraltro, trovano tutela nell'art. 2 Cost. che prende in considerazione tutte le formazioni sociali nelle quali, secondo il sentire sociale che riconosce diverse tipologie di rapporti familiari, si realizzano i valori della persona. D'altra parte, 24 anche nel diritto interno (D.P.R. n. 54 del 2002, art. 3, comma 3 e il D.Lgs. n. 72 del 2007) la nozione di familiare è più ampia di quella di persona legata da rapporto di coniugio e si estende al partner. Anche con il terzo motivo i ricorrenti, deducendo la violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 24 e 65 in relazione all'art. 16 della stessa legge e vizio di omessa e contraddittoria motivazione, censurano, sotto ulteriori profili, l'affermazione della contrarietà all'ordine pubblico del riconoscimento della qualità di familiare al partner dello stesso sesso, osservando che a tale conclusione può pervenirsi soltanto sulla base di un contrasto con principi che trovino espressione nella Costituzione e abbiano, per le loro caratteristiche economiche, sociali, morali e politiche, importanza fondamentale. Inoltre sul punto è necessaria una analitica motivazione che invece la Corte territoriale non avrebbe fornito. Peraltro, ribadiscono i ricorrenti, la domanda del M. non è diretta a ottenere il riconoscimento di uno status o l'equiparazione del rapporto di convivenza con quello di coniugio, ma, sulla base della presa d'atto di una qualità riconosciutagli dal proprio ordinamento di appartenenza, mira a ottenere la produzione di un effetto sostanziale nel nostro ordinamento consistente nel rilascio di un titolo di soggiorno per motivi familiari, effetto che non può considerarsi inaccettabile per l'ordinamento interno, nell'ambito del quale la convivenza esprime valori di solidarietà in sintonia con il costume sociale. Può infine essere congiuntamente esaminato, essendo strettamente connesso, anche il quinto motivo con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e vizio di motivazione perché il rifiuto di rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari costituirebbe illegittima interferenza nella vita privata e familiare, intendendosi con quest'ultima espressione, in conformità con la giurisprudenza di Strasburgo, il riferimento anche a relazioni diverse da quelle fondate sul matrimonio. 3. I motivi non sono fondati. Come si è già rilevato nell'esame del primo motivo, la Corte territoriale non è stata chiamata ad accertare e dichiarare lo status o un diritto della personalità del M., accertamento in relazione al quale avrebbe dovuto farsi riferimento alla sua legge nazionale, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 24, ma a verificare la sussistenza del requisito soggettivo richiesto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1, lett. c). Tale essendo l'oggetto del presente giudizio, il giudice del merito correttamente ha limitato il suo esame alla disciplina di diritto interno relativa all'immigrazione, sia pure alla luce delle norme sovranazionali e, in particolare, di quelle di provenienza comunitaria, competenti secondo il sistema delle fonti delineato dalla carta costituzionale. Vero è che il provvedimento impugnato non si è limitato alla predetta verifica, che, essendosi conclusa nel senso dell'impossibilità di intendere la nozione di "familiare" di cui all'art. 30 cit. come comprensiva anche di quella di partner de facto del cittadino neozelandese debitamente attestata dalle autorità dello Stato straniero, sarebbe stata sufficiente a sorreggere la decisione, ma, con ratio decidendi del tutto autonoma, ha anche affermato, "peraltro", che, se al fine di decidere, e quindi dell'applicazione della disciplina dell'immigrazione, fosse stato necessario fare applicazione della legge neozelandese che riconosce le convivenze di fatto tra soggetti dello stesso sesso, tale applicazione sarebbe stata in contrasto con l'ordine pubblico italiano. Entrambe le rationes decidendi sono oggetto di censura, ma è evidente che, in ordine logico deve essere esaminata prioritariamente la questione relativa alla corretta interpretazione della nozione legislativa di "familiare" utilizzata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, perché in caso di infondatezza delle censure mosse nei confronti della soluzione raggiunta sul punto dalla corte territoriale rimarrebbe assorbita la problematica relativa alla correttezza dell'utilizzazione del limite dell'ordine pubblico. 4. La normativa contenuta nel titolo quarto del D.Lgs. n. 286 del 1998 (diritto all'unità familiare e tutela dei minori), e in particolare quella di cui all'art. 30 cit., avente ad oggetto il permesso di soggiorno per motivi familiari, presuppone la nozione di "familiare", che il legislatore ha delineato in via autonoma, agli specifici fini della disciplina del fenomeno migratorio. Come risulta dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29, comma 1, nel testo risultante dalle modifiche 25 introdotte dapprima con la L. n. 189 del 2002, art. 23, comma 1, e successivamente con il D.Lgs. n. 5 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e) richiamato dall'art. 30, la nozione di "familiare" comprende: a) il coniuge; b) i figli minori; c) i figli maggiorenni non autosufficienti per ragioni di salute; d) i genitori a carico che non dispongano di adeguato sostegno familiare nel paese di origine o di provenienza. A fronte della lettera delle indicate disposizioni si pone tuttavia il problema di verificare se l'esclusione dal novero dei "familiari" aventi diritto al permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 30 dei soggetti, dello stesso o di diverso sesso, conviventi e legati da una stabile relazione affettiva, oggetto di registrazione o di semplice attestazione, si ponga in contrasto con norme costituzionali, in particolare con gli artt. 2, 3 e 2 9 Cost. in modo da imporre, in prima battuta, l'adozione del canone ermeneutico secondo cui il principio di supremazia costituzionale impone all'interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che rende la disposizione conforme a Costituzione, e, in caso di esito negativo di tale percorso interpretativo, di sollevare questione di legittimità costituzionale. Chiamata a verificare la compatibilità della nozione di "familiare" individuata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29 (in particolare dal comma 1, let. e) come modificato dalla L. n. 189 del 2002) con le indicate norme costituzionali, la Corte costituzionale ha avuto modo di escludere il contrasto (ord. n. 368/2006, n. 464/2005 e sent. n. 224/2005) sulla base del rilievo che "l'inviolabilità del diritto all'unità familiare...deve ricevere la più ampia tutela con riferimento alla famiglia nucleare, eventualmente in formazione, e quindi in relazione al ricongiungimento dello straniero con il coniuge e i figli minori" mentre negli altri casi il legislatore, che in materia gode di un'ampia discrezionalità limitata solo dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli, può bilanciare il diritto dello Stato a regolamentare l'ingresso in Italia e il diritto degli stranieri all'unità familiare, che rispetto al primo assume pari dignità e rango (così espressamente ord. 464/2005 cit.). Più specificamente la Corte Costituzionale ha esaminato e risolto l'ulteriore problema della possibilità di estendere per analogia la nozione di "familiare" a situazioni diverse da quelle espressamente previste. A tal fine, mentre si è ritenuto (sent. n. 198/2003) che debba essere riconosciuta ai minori già sottoposti a tutela ai sensi dell'art. 343 c.c. al compimento della maggiore età, la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno, così come è previsto per i minori in affidamento (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 32, comma 1), stante l'identità di presupposti e di caratteristiche del rapporto di tutela con il rapporto di affidamento, viceversa in materia di divieto di espulsione previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. e), la giurisprudenza della Corte Costituzionale (ord. n. 313/2000, 192 e 444/2006, richiamate anche dalla più recente ord. n. 118/2008) è costante nel negare la possibilità di estendere, attraverso un mero giudizio di equivalenza tra le due situazioni, la disciplina prevista per la famiglia legittima alla convivenza di fatto, richiamando l'affermazione secondo la quale "la convivenza more uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri (...) che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima (sentenze n. 45 del 1980, n. 237 del 1986, n. 127 del 1997)". Ne deriva che l'interpretazione estensiva della nozione di "familiare" delineata nella legislazione sull'immigrazione invocata dai ricorrenti non può ritenersi imposta da alcuna norma costituzionale. 5. Nè la nozione di "familiare" risultante dal combinato disposto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 29 e 30 può essere ampliata, al fine di ricomprendervi anche i soggetti legati da una stabile relazione affettiva realizzata attraverso una convivenza di tipo non matrimoniale, registrata o attestata, per effetto dell'art. 12 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (le cui norme costituiscono fonte integratrice del parametro di costituzionalità introdotto dall'art. 117 Cost., comma 1: sentenze nn. 348 e 349/2007) o alla luce dell'art. 9 della Carta di Nizza, parte integrante del trattato di Lisbona ratificato dall'Italia l'8 agosto 2008, ma non ancora efficace in attesa delle ulteriori necessarie ratifiche da parte degli altri Stati dell'Unione, 26 anche se, per il suo valore ricognitivo delle tradizioni costituzionali comuni in materia di diritti fondamentali, costituisce uno strumento interpretativo privilegiato al quale i giudici sovranazionali (Corte Giust., Grande Sezione, 3 settembre 2008, cause C - 402/05 P e C - 415/05 P, Kadi; Corte giust. 11 luglio 2008, causa C - 195/08 PPU, Inga Rinau; Corte giust.(Grande sezione) 29 gennaio 2008, causa C275/06, Productores de Musica de Espana (Promusicae); Corte giust. 27.6.2006, causa C540/03,Parlamento c. Consiglio; Corte giust. 13 marzo 2007, causa C432/05, Unijbet; Corte giust. 18 dicembre 2007, causa C - 341/05), Lavai; Corte giust., 11 dicembre 2007, causa C - 438/05, ViJcing; Corte giust. 3 maggio 2007, causa C - 303/05, Advocaten voor de Wereld; Corte giust. 14 febbraio 2008, causa c - 244/06, Dynamic medien vertiebs gmbH; Corte giust.,14 febbraio 2008, causa C - 450/06, Varec) e quelli degli Stati membri ricorrono sempre più spesso (per quanto riguarda la Cassazione, si veda ad esempio n. 15822/2002, 21748/2007, 10651/2008, 23934/2008; Cass. pen. 7 luglio 2008, Barbetta). Se è vero che la formulazione del citato art. 9 da un lato conferma l'apertura verso forme di relazioni affettive di tipo familiare diverse da quelle fondate sul matrimonio e, dall'altro, non richiede più come requisito necessario per invocare la garanzia dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del rapporto, resta fermo che anche tale disposizione, così come l'art. 12 CEDU, rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l'esercizio del diritto, con ciò escludendo sia il riconoscimento automatico di unioni di tipo familiare diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni che l'obbligo degli stati membri di adeguarsi al pluralismo delle relazioni familiari, non necessariamente eterosessuali. Quanto infine all'ipotizzato contrasto della disciplina interna in esame con gli artt. 8 e 14 della CEDU, per l'arbitraria ingerenza nelle scelte del modello familiare, avente anche portata discriminatoria sulla base degli orientamenti sessuali, escluso questo secondo profilo, in quanto la mancata equiparazione al coniuge è prevista in relazione a qualsiasi tipo di convivenza non matrimoniale, e non soltanto per quelle tra persone dello stesso sesso, deve rilevarsi che l'art. 8 CEDU, comma 2, consente l'ingerenza dell'autorità pubblica agli specifici fini previsti, tra i quali devono ritenersi compresi anche quelli perseguiti dalla disciplina del fenomeno migratorio. 6. Alle stesse conclusioni ora raggiunte si deve pervenire anche tenendo conto della più recente disciplina comunitaria, avente ad oggetto i ricongiungimenti familiari. Infatti sia la direttiva del consiglio europeo del 22 settembre 2003 n. 20 03/86/CE, che ha stabilito regole comuni per il diritto al ricongiungimento familiare per i cittadini di paesi terzi legittimamente residenti nell'Unione, attuata con D.Lgs. n. 5 del 2007, che la direttiva del parlamento e del consiglio europeo del 29 aprile 2004 n. 2004/38/Ce, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nei territorio degli Stati membri, attuata con D.Lgs. n. 30 del 2007, non sono applicabili nella specie. Non la prima, perché, come risulta espressamente dall'art. 3, comma 3 di tale direttiva, la stessa, non si applica ai familiari di cittadini dell'Unione, ma a quelli dei "soggiornanti" (art. 2, lett. c), e cioè ai familiari di cittadini di paesi terzi legalmente soggiornanti nello Stato membro, ma neppure la seconda, per l'assorbente ragione che la direttiva n. 38/2004 ha ad oggetto (art. 1) la situazione del cittadino dell'Unione che abbia esercitato il diritto di libera circolazione e di soggiorno nel territorio di uno Stato diverso da quello di appartenenza, mentre nella specie si discute del diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino italiano dimorante e residente in Italia. Con tale rilievo resta quindi superata anche l'affermazione della corte territoriale secondo la quale, comunque, l'estensione della nozione di familiare non potrebbe avvenire sulla base della direttiva n. 38/2004, sia perché difetterebbero i presupposti indicati nell'art. 2, comma 1, lett. b), n. 2 (equiparazione delle unioni registrate al matrimonio secondo la legislazione dello Stato membro ospitante, peraltro, nella specie neppure invocata dalle parti) e del nel D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b) (attestazione della relazione stabile con cittadino dell'Unione da parte dello Stato al quale lo stesso appartiene). D'altra parte, più in generale, tale direttiva, come la precedente n. 86/2003, al di fuori di alcune ristrette ipotesi di automatico riconoscimento del diritto all'ingresso e al soggiorno (ad esempio nel caso previsto dall'art. 4, comma 1 della direttiva n. 86, che lo limita al 27 coniuge e ai figli minori) appare ispirata al rispetto delle legislazioni interne dei singoli Stati membri per quanto riguarda l'inclusione o l'esclusione della rilevanza di unioni diverse dal matrimonio eterosessuale. 7. Il rigetto delle censure dirette nei confronti dell'interpretazione della nozione di "familiare" recepita dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30 rende ultroneo l'esame delle critiche rivolte alla diversa ratio decidendi basata sull'invocazione del limite dell'ordine pubblico. 8. Con il quarto motivo si deduce la violazione della L. n. 62 del 2005, art. 2, e dell'art. 12 del trattato istitutivo dell'Unione europea, sostenendo che l'applicazione del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 30, producendo una disparità di trattamento nei confronti del cittadino italiano rispetto al cittadino di un Stato dell'Unione (c.d. discriminazione a rovescio), violerebbe la L. n. 62 del 2005, art. 2, lett. h) ("i decreti legislativi assicurano che sia garantita una effettiva parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell'Unione europea, facendo in modo di assicurare il massimo livello di armonizzazione possibile tra le legislazioni interne dei vari Stati membri ed evitando l'insorgere di situazioni discriminatorie a danno dei cittadini italiani nel momento in cui gli stessi sono tenuti a rispettare, con particolare riferimento ai requisiti richiesti per l'esercizio di attività commerciali e professionali, una disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini degli altri Stati membri".) e l'art. 12 del Trattato, che vietano discriminazioni dei cittadini dell'Unione sulla base della nazionalità. In via subordinata, i ricorrenti sollecitano la rimessione alla Corte costituzionale della questione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, con riferimento all'art. 3 Cost., in quanto impedirebbe al cittadino italiano, a differenza degli altri cittadini di Stati dell'Unione, il soggiorno e il ricongiungimento con partner extracomunitario con il quale abbia una relazione stabile attestata dallo Stato del cittadino comunitario. Il motivo non è fondato. Da quanto rilevato nel precedente paragrafo deriva che la diversità di trattamento denunciata non deriva dall'applicazione del diritto comunitario che disciplina fattispecie del tutto diverse da quella di cui si tratta, avente ad oggetto la pretesa di un cittadino extracomunitario al ricongiungimento con cittadino italiano dimorante e residente in Italia, mentre, come ha precisato la Corte costituzionale con la sentenza n. 443 del 1997, il fenomeno delle cosiddette "discriminazioni a rovescio", rilevante esclusivamente sul piano interno, consiste in situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro che si verificano come effetto indiretto dell'applicazione del diritto comunitario. Inoltre la diversità di trattamento non è legata alla nazionalità, ma alla circostanza che sia stato o non esercitato il diritto di circolazione e di soggiorno in uno Stato dell'Unione diverso da quello di appartenenza. Nè, infine appare rilevante la questione di costituzionalità, così come prospettata in termini generali, in quanto il cittadino italiano potrebbe ottenere il riconoscimento del diritto al ricongiungimento con un partner di un unione registrata o attestata nel paese che riconosca alla prima gli stessi effetti del matrimonio o non richieda che l'attestazione debba provenire necessariamente da parte dello stato di appartenenza (come previsto dall'art. 3, comma 2, lett. b) della direttiva n. 38/2004), mentre la restrizione del suo diritto discende soltanto dal fatto oggettivo del mancato esercizio del diritto di circolazione o soggiorno in altro Stato dell'Unione, che il diritto comunitario considera come requisito per l'applicazione della disciplina più favorevole. Ciò senza considerare che, per le ragioni indicate nel paragrafo n. 3, la mancata equiparazione al coniuge del partner di unione registrata o attestata, ai fini della disciplina dell'immigrazione, non appare in contrasto con alcun principio costituzionale. In conclusione il ricorso deve essere respinto. Nulla sulle spese in quanto gli intimati non hanno svolto attività difensiva. P.Q.M. LA CORTE Rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 30 settembre 2008. Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2009 28