A002214 Da PSICOLOGIA CONTEMPORANEA, del 15/8/2010, pag
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A002214 Da PSICOLOGIA CONTEMPORANEA, del 15/8/2010, pag
A002214, 1 A002214 FONDAZIONE INSIEME onlus. Da PSICOLOGIA CONTEMPORANEA, del 15/8/2010, pag. 42, <<DORMIRE CON I GENITORI. TRA EDIPO E ATTACCAMENTO>> di Franco Nanni, (vedi nota a fine pezzo). Per la lettura completa del pezzo si rimanda al periodico citato. Il termine cosleeping, letteralmente “dormire insieme”, viene di norma utilizzato per indicare tutte quelle situazioni in cui il bambino dorme assieme alla madre o a entrambi i genitori. Come vedremo più avanti (Tab. 1), si usa comunque distinguere un cosleeping “primario” da altre modalità. In tutta prima infanzia (fino a tre anni) sembra essere ovunque molto diffusa la richiesta da parte del bambino di addormentarsi vicino ai genitori; sono invece molto diverse le modalità con cui i genitori rispondono a questa richiesta, che nei paesi occidentali viene trattata come una esigenza speciale e distinta dalle . altre, etichettata spesso come vizio nonostante si possa invece inquadrare perfettamente nell'insieme più ampio dei normali comportamenti di attaccamento. John Bowlby e Mary Ainsworth, per primi, conferirono dignità scientifica a un fenomeno di per sé stesso facilmente osservabile: il bambino, infatti, già nei primi mesi inizia a manifestare impulsi che lo spingono a cercare vicinanza con gli adulti di riferimento, di norma principalmente la madre, poi il padre e altre figure affettive. Questa vicinanza ha lo scopo di proteggerlo dai pericoli e di controbilanciare altre:,motivazioni, prima fra tutte la curiosità di esplorare. La ricerca di vicinanza si fa più intensa quando il bambino è spaventato, a disagio o ammalato; appare quindi del tutto ragionevole includere il sonno tra le situazioni che stimolano maggiormente la ricerca di prossimità, in quanto si tratta di una condizione di oggettiva vulnerabilità verso i pericoli presenti nell'ambiente in cui l'uomo si è evoluto. Alla luce della teoria dell'attaccamento sembrerebbe dunque un'ovvietà affermare che la richiesta del cosleeping da parte del piccolo sia ben motivata, e che sia opportuno soddisfarla sic et simpliciter, quanto meno nei primissimi anni di vita. Questa idea conferma nelle stime della diffusione del cosleeping primario: in tutti i paesi e le culture tradizionali tribali e pre-industriali e quasi universale e si protrae anche ben oltre il terzo anno di età; nei paesi industriali asiatici esso è praticato dal 30% fino a oltre il 50% delle famiglie per alcuni anni. Nei paesi industriali occidentali invece esso è stimato tra il 5% e il 10% nei primi tre anni. D'altra parte, occorre anche aggiungere che raccomandazioni e avvertimenti contrari al cosleeping si trovano a partire da Sant'Agostino, soprattutto per il rischio di soffocare i figli. Illustri autori si sono pronunciati in seguito nella stessa direzione. A002214, 2 Benjamin Spock nel 1945 scriveva: <<E un'importante regola quella di non prendere per nessuna ragione i bambini nel letto dei genitori>>. In seguito anche Thomas Berry Brazelton e Richard Ferber ammonirono i genitori contro i rischi del cosleeping, anche se, in anni più recenti, Brazelton ha modificato la sua posizione. In questo dibattito, la psicoanalisi occupa un posto importante. Sigmund Freud nel 1908 riporta il celebre caso del piccolo Hans; questi aveva condiviso la stanza con i genitori fino a quattro anni e soffriva di forti fobie che Freud attribuiva sì all'ansia che la madre lo abbandonasse, ma, inquadrandone il significato nella teoria edipica, le spiegava come conseguenza del timore di punizioni per i desideri incestuosi del bambino. Questa teoria fece sì che negli scritti successivi Freud enfatizzasse maggiormente il rischio di “viziare” i bambini sollecitandone le fantasie sessuali (per un'analisi dal punto di vista del complesso di Edipo, si veda Novara, 2010). Tale timore, associato a quello che il bambino assista al coito tra i genitori, ha poi in larga parte occupato la scena fino a quando la teoria dell'attaccamento non ha riportato in primo piano i bisogni biologicamente determinati del bambino e conferito un carattere di realtà alle sue angosce di separazione. Bowlby stesso ha ripreso il caso del piccolo Hans, evidenziando come il cercare le coccole della madre, entrando nel lettone, rappresenti l'espressione del suo bisogno di essere rassicurato. Durante gli anni Novanta anche la ricerca grazie soprattutto a scienziati come James McKenna, Sarah Mosko e Chris Richard, ha evidenziato come madre e neonato siano una coppia ben costruita dall'evoluzione per dormire (e imparare a dormire) insieme. Sono stati confrontati i tracciati encefalografici, i ritmi del respiro, i movimenti, la temperatura corporea e altri parametri fisici, dimostrando che quando mamma e piccolo dormono vicini mostrano interessanti parallelismi nelle fasi del sonno e in altri aspetti dei loro elettroencefalogrammi, e modulano inconsapevolmente la loro distanza a seconda della temperatura corporea e ambientale; inoltre, nelle mamme risultano facilitati e incrementati tutti i comportamenti nutritivi, protettivi e di controllo, gran parte dei quali vengono effettuati senza un completo risveglio, conseguendo quindi anche una migliore qualità del sonno. Non dovrebbe sorprendere quindi che l'Accademia Americana di Pediatria nelle sue linee guida del 2005 raccomandi il contatto precoce e anche notturno tra mamma e piccolo, fino ad affermare testualmente: <<Madre e bambino devono dormire vicini per facilitare l'allattamento al seno>>. A002214, 3 TABELLA 1 TIPO DI COSLEEPING Primario o neonatale Secondario, reattivo o di ritorno ETÀ DI ESORDIO Dalla nascita Dopo l’acquisizione di autonomia motoria. Tardivo Oltre i 4, 5 anni e fino o confusivo all’adolescenza (e oltre?). CARATTERISTICHE ACCESSORIE. Ogni notte e per tutta la sua durata. Adottato per scelta o per tradizione. Collegato all’allattamento al seno. Iniziato dal bambino come richiesta di attaccamento, o dall’adulto per stanchezza a causa dei frequenti risvegli dei figli. Può essere episodico o riguardare parte della notte. Stabile, con scambi di letto. Fin qui abbiamo parlato del cosleeping primario. Il discorso si complica quando si considera invece il cosleeping praticato in età più avanzate. Genitori, psicologi e pediatri sembrano concordare almeno su due punti: il fatto che un bambino dopo i due o tre anni continui a dormire vicino ai genitori deriva da cattive abitudini precoci (“viziato” da un cosleeping primario), e può essere causa di danni psicologici più o meno gravi; tra questi spicca ovviamente il mancato sviluppo dell'autonomia. Per quanto siano necessarie ancora ricerche appositamente disegnate allo scopo, possediamo già diversi risaltati di studi che, se comparati e interpretati, consentono di avanzare importanti dubbi su entrambe le affermazioni. L’idea che il cosleeping secondario derivi dal “vizio” primario è facilmente confutabile esaminando alcuni studi sulla frequenza del fenomeno: i primi due riguardano Italia (bambini romani) e Svizzera, paesi nei quali il cosleeping primario non è incoraggiato ed è effettivamente poco praticato. Appare chiaramente che il cosleeping, quasi inesistente nei primi mesi, si fa più frequente nei più grandicelli raggiungendo un picco intorno ai 4-5 anni, dopodiché questa pratica torna a farsi via via meno ricorrente, pur restando su valori non irrilevanti. In entrambi gli studi si può rilevare un brusco innalzamento del fenomeno dopo i 12 mesi, ovvero quando la quasi totalità dei bambini inizia a camminare. Per quanto questi dati non percorrano l'evoluzione dei soggetti, ma esaminino fasce di età parallele, sembra ragionevole interpretarli così: in culture avverse a questa pratica gran parte dei cosleeper diventa tale dopo i 12 mesi, quando è possibile A002214, 4 raggiungere il lettone autonomamente e in piena fase sensibile della relazione di attaccamento. Sembra quindi che evitare il cosleeping primario non prevenga quello successivo: i genitori obbediscono inizialmente al consiglio di evitare il cosleeping ma, non appena la motivazione di attaccamento si fa più forte, molti figli si svegliano di notte, si spaventano e vanno a cercare conforto vicino a mamma e papà. Un'altra ricerca su bambini coreani, paese nel quale il cosleeping è pratica comune e maggioritaria fin dalla nascita, ci mostra che dopo l'anno di vita il fenomeno resta ovviamente molto diffuso, ma, anziché aumentare come in Occidente, inizia lentamente a diminuire. Questo sembra coerente con l'ipotesi che, rispettando in modo responsivo i bisogni precoci di attaccamento del bambino al momento del sonno, questi ha maggiore facilità, in seguito, a dormire da solo senza particolari timori. I dati sembrano indicare che in Corea i genitori non abbiano particolare fretta di liberarsi dei figli durante la notte. È importante evidenziare, però, che, laddove il cosleeping è pratica comune, non si devono immaginare i bambini stretti tra i genitori in un lettone a due piazze: si usano futon e arredi comodi che tengono conto di queste abitudini senza creare situazioni precarie o di “sovraffollamento”. Occorre dunque applicare una certa dose di relativismo al modo di dormire con i propri figli, se non vogliamo erroneamente interpretare molte culture come patologiche tout court. Al momento non disponiamo di sufficienti studi longitudinali che permettano di seguire il percorso dei singoli bambini nel tempo, osservando come e quando i cosleeper primari passano al sonno autonomo; resta però certo, date le cifre, che in Occidente la maggior parte dei bambini cosleeper inizia a esserlo dopo i 12 mesi su iniziativa dei bambini stessi, spinti essenzialmente dalla motivazione all'attaccamento, spesso ricevendo dai genitori risposte confuse, ambivalenti, di resistenza, che spesso, anche se di malavoglia, si trasforma in tolleranza, come documentano vari studi e principalmente quello di Latz che mette a confronto bambini USA e giapponesi. Questo genere di atteggiamenti, rendendo precaria la relazione di attaccamento, potrebbero essere una delle cause di cosleeping tardivi e ostinati. Già nel 1993 James McKenna avanzava l'ipotesi, coerente con i dati odierni, che il cosleeping in età neonatale possa essere una valida prevenzione del cosleeping tardivo, e possa prevenire anche lo sviluppo di successivi disturbi del sonno. Su quest'ultimo punto l'opinione comune è che il cosleeping causi disturbi del sonno, ma le risultanze delle ricerche non autorizzano questa lettura causale: gli studi più recenti sembrano invece confermare che, se è vero che il cosleeping secondario e/o tardivo è spesso associato a disturbi del sonno, esso viene però adottato per lo più dopo la loro comparsa; il cosleeping A002214, 5 secondario sembra quindi essere un tentativo di coping e di gestione dei disturbi del sonno dei bambini (ecco perché viene definito da Meret Keller e Wendy Goldberg “reattivo”). Questi autori mostrano in un loro studio che il cosleeping reattivo è praticato da genitori che sono personalmente contrari a questa pratica, ma che finiscono per accettarla, dopo aver tentato di trovare altre soluzioni alle ansie notturne dei figli. Questa ipotesi di lettura dei dati comparati e del tutto coerente anche con quanto affermato dalla teoria dell'attaccamento: l'insicurezza del bambino di 4 anni e più, il suo accresciuto bisogno di rassicurazione, lo stare “appiccicato” alla mamma perfino nel lettone, non deriverebbero dal non essere stato stimolato precocemente all'autonomia, quanto dall'esatto opposto, cioè dalla pregressa scarsa supportività da parte dei caregiver, dalla mancata interiorizzazione di una base sicura, o da angosce di perdita dei genitori (separazioni, lutti, ecc.). Il cosleeping secondario, e soprattutto quello tardivo, paiono essere nella maggior parte dei casi fenomeni diversi e perfino opposti a quello primario: il bambino persiste in un comportamento di attaccamento molto infantile anche oltre i 3-4 anni perché non ha superato l'ansia di separazione vissuta nella fase di attaccamento, forse anche a causa di una troppo precoce spinta al sonno solitario. La difficoltà di rassicurazione così frequente nei cosleeper tardivi può essere dovuta anche alle minori capacità di contenimento e alla maggior ansia dei genitori. È molto diffusa l'idea che i cosleeper siano tutti indistintamente bambini insicuri: essa non regge alla luce delle ricerche di Keller e Goldberg. Questi autori hanno opportunamente suddiviso i cosleeper in primari (early nella loro terminologia) e secondari (reactive), mostrando come i primi, ma non i secondi, abbiano punteggi significativamente maggiori dei solitary sleeper per quanto riguarda la self-reliance (fiducia in sé stessi) e l'indipendenza sociale, e che le madri degli early cosleeper abbiano i punteggi maggiori in assoluto per la loro capacità di stimolare e supportare le autonomie del bambino. Naturalmente l'autonomia nel dormire viene da questi bambini conquistata più tardi, semplicemente perché non viene loro richiesto. Non viene però confermata l'opinione comune che la spinta al sonno solitario costituisca un training per altre autonomie, né il suo corollario che la tardiva conquista del sonno solitario tarpi le ali all'acquisizione di altre forme di autonomia. Vi sono altri studi mirati a dimostrare qualche effetto negativo della pratica del cosleeping primario, ma nessuna delle ipotesi formulate ha ricevuto conferma, e al momento non esistono evidenze di conseguenze negative sul piano psicologico causate dal cosleeping. A002214, 6 Per quanto riguarda altri possibili effetti, anche questi spesso citati, come il dormire male e i rischi di soffocamento del bambino, essi non sono generalizzabili in quanto risultano correlati a condizioni specifiche: l'uso di letti non adatti, improvvisati e troppo stretti, e l'uso di sostanze psicoattive da parte della madre, in particolare sedativi e/o stupefacenti. Se le risultanze di questi studi venissero ulteriormente replicate e ampliate, esse consentirebbero di vedere sotto una luce più equilibrata le immagini, spesso stereotipate, di madri troppo facilmente indicate come iperprotettive e fatte oggetto di accuse non sempre confermate dai fatti. Per quanto occorrano ancora ricerche più mirate, l'insieme dei dati esistenti fa pensare al cosleeping secondario e tardivo come a fenomeni autonomi, da non confondere con quello primario, e causati più da una mancanza di coccole che da un loro eccesso, più dall'angoscia di perdita che da troppa rassicurazione. A002214, 7 Riferimenti bibliografici ATTILI G. (2007), Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente, Raffaello Cortina, Milano. BOWLBY J. (1982a), Attaccamento e perdita. Vol. i —L'attaccamento alla madre (trad. it.), Bollati Boringhieri, Torino, 2000. BOWLBY J. (1982b), Attaccamento e perdita. Vol. 2 - La separazione dalla madre: angoscia e rabbia (trad. it.), Bollati-Bonnghieri, Torino, 2000. FREUD S. (1908), «Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo Hans)», In Opere, vol. 5., Bollati-Boringhieri, Torino, 1985. KELLER M. A., GOLDBERG W. A. 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(1945), The common sense book of child and baby care, Duell, Sloan, & Pearce, New York, L’autore Franco Nanni, psicologo scolastico, lavora come psicologo a indirizzo clinico e di comunità all'interno di alcuni Istituti scolastici statali. È in corso di stampa I maestri del dolore (Pendragon).