La presentazione di Don Chisciotte

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La presentazione di Don Chisciotte
Unità
13
I TEMI: avventure nella storia
Miguel de Cervantes
La presentazione
di Don Chisciotte
1 tabarro: mantello da uomo.
2 staia: antica unità di misura. Uno staio misura
177 metri.
In un borgo della Mancia, di cui non voglio fare il nome, viveva, non
molto tempo fa, un cavaliere di quelli che tengono la lancia nella
rastrelliera, un vecchio scudo, un magro ronzino e un levriero da caccia. Tre quarti delle sue rendite se ne andavano in un piatto più di
vacca che di castrato, avanzi in insalata per cena, frittata con ciccioli
il sabato, lenticchie il venerdì con l’aggiunta di qualche piccioncino
la domenica. Il resto si consumava tra un tabarro1 di fino panno nero,
calzoni e soprascarpe per i giorni di festa, e un vestito di fustagno, ma
del migliore, per tutti i giorni. Aveva una governante di più di quarant’anni, una nipote che non ne aveva ancora venti e un garzone per
lavorare i campi e per la spesa, buono anche a sellare il ronzino e a
maneggiare la roncola. L’età del nostro gentiluomo sfiorava la cinquantina; era forte, secco, col viso magro, molto mattiniero e appassionato di caccia. C’è una discordanza tra gli autori riguardo al suo
vero cognome; ma poco importa per il nostro racconto: l’essenziale è
che esso non si scosti minimamente dalla verità.
Bisogna dunque sapere che questo gentiluomo, nei momenti di ozio
(ossia nella maggior parte dell’anno), si dedicava ai romanzi cavallereschi con tanta passione che arrivò quasi a trascurare totalmente
l’esercizio della caccia e perfino l’amministrazione della sua proprietà;
e giunse a tanto quella sua folle mania, che vendette diverse staia2 di
terra per comprare romanzi da leggere, e ne portò a casa quanti riuscì
a procurarsene, ma più di tutti gli piacevano quelli dello scrittore Feliciano de Silva, perché quei suoi discorsi intricati gli parevano una
meraviglia, specialmente quando leggeva le dichiarazioni amorose o
le lettere di sfida.
Insomma, fu tanto preso da quelle letture che passava le nottate, dal
crepuscolo all’alba, e i giorni, dalla mattina alla sera, sempre a leggere;
e così, a forza di dormir poco e leggere molto, gli si inaridì il cervello
al punto da perdere il senno. La fantasia gli si riempì di tutto quello
che leggeva nei libri: incantamenti, contese, battaglie, sfide, dichiarazioni, amori, tempeste e simili stravaganze. E si convinse talmente che
tutto quell’arsenale d’immaginarie invenzioni fosse verità, che per lui
non c’era al mondo altra storia più certa.
Così, col cervello ormai confuso, gli venne l’idea più stravagante che
mai sia venuta a un pazzo al mondo, cioè che per accrescere il proprio
nome e servire il proprio paese fosse opportuno e necessario farsi cavaliere errante e andarsene per il mondo con le sue armi e il suo cavallo a cercare avventure e a cimentarsi in tutte le imprese in cui
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aveva letto si cimentavano i cavalieri erranti, vendicando i torti ed
esponendosi a pericoli da cui potesse, superandoli, trarre onore e fama
immortale. Il poveretto si vedeva già incoronato, grazie al valore del
suo braccio, per lo meno imperatore di Trebisonda; e così, con queste
fascinose prospettive, si affrettò a porre in atto il suo progetto. La
prima cosa che fece fu di lucidare certe armi che erano state dei suoi
bisavoli e che, arrugginite e ricoperte di muffa, se ne stavano da lunghi
secoli accantonate e dimenticate in un angolo. Le ripulì dunque e le
accomodò alla meglio, ma si accorse di un grave inconveniente, perché mancava una vera celata a incastro; tuttavia vi trovò abilmente
rimedio perché costruì una mezza celata di cartone, che incastrata in
modo opportuno, dava l’aspetto di una celata intera. Vero è che per
provare se era robusta e se poteva reggere un colpo di spada, egli afferrò la sua e le assestò due colpi, e già col primo, in un attimo, rovinò il lavoro di un’intera settimana. La facilità con cui l’aveva distrutta non gli fece una buona impressione, e perché ciò non si ripetesse,
tornò a rifarla mettendoci all’interno delle sbarrette di ferro. Rimase
soddisfatto della sua solidità e così, senza fare altra prova, la giudicò
e stimò una finissima celata a incastro.
Passò poi a esaminare il suo ronzino, e benché fosse pieno di fenditure agli zoccoli e di acciacchi, gli parve che né Bucefalo di Alessandro
né Babieca del Cid gli potessero stare alla pari. Stette quattro giorni ad
almanaccare che nome gli potesse mettere, perché – diceva a se stesso
– non era giusto che il cavallo d’un cavaliere così famoso e straordinario rimanesse senza un nome illustre. Quindi cercava di trovargliene uno che ricordasse quel ch’era stato prima di appartenere a un
cavaliere errante e mostrasse quel ch’era adesso; così, dopo aver formato, cancellato e scartato, allungato, disfatto e rifatto molti nomi,
nella mente e nella fantasia, finì per chiamarlo Ronzinante, nome a
parer suo maestoso e sonoro, che ben spiegava ciò che quello era stato ante, cioè «prima», quand’era ronzino, e quello che era divenuto
ora, innante, ossia «primo» fra tutti i ronzini del mondo.
Dato un nome, che tanto lo soddisfaceva, al suo cavallo, volle ora
trovarsene uno per sé, e ci mise altri otto giorni, finché decise di chiamarsi Don Chisciotte. Ma ricordandosi che il valoroso Amadigi non
si era accontentato di chiamarsi Amadigi e basta, ma aveva aggiunto
il nome del suo regno e della sua patria per renderli famosi, anch’egli
volle da buon cavaliere aggiungere al suo nome quello della sua patria
e chiamarsi Don Chisciotte della Mancia e così gli parve di averla onorata, traendone da essa il cognome.
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, riduz. e trad. di D. Ziliotto, Salani