Più aiuti, più poveri - La Parrocchia di Rovellasca
Transcript
Più aiuti, più poveri - La Parrocchia di Rovellasca
Più aiuti, più poveri (Gianni Ballerini in Nigrizia, aprile 2008) È una tesi che accarezza da tempo. E nel suo ultimo libro (Economia canaglia, Il Saggiatore) non la ingentilisce certo con perifrasi. «Gli aiuti stranieri sono la vera causa della malattia dell’Africa». Per l’economista Loretta Napoleoni non ci sono vie di mezzo: il termine “aiuti” dovrebbe finire nel cimitero delle parole. Svuotato, com’è, dall’ipocrisia di quel mondo ricco che se ne gonfia la bocca per illuminare le sue grandi convenienze materiali. «Lo scopo di quel denaro è far rimanere l’Africa sottomessa alle regole dell’economia delle potenze occidentali». Ci faccia capire: lei pensa che sia necessario migliorare l’efficacia degli aiuti o che bisogna proprio abolirli? Abolirli. Lo sa dove finiscono? Nelle tasche dei signori della guerra, o dei governi corrotti. Faccio sempre due esempi. Il primo è quello del Live Aid di Bob Geldof del 1985, per aiutare l’Etiopia. I soldi raccolti hanno incremento le attività dei gruppi armati della regione. Il secondo riguarda il Mali. Un paese che negli anni ’50, ’60 e in parte anche nei ’70 viveva una situazione economica fantastica. Cresceva con un processo di modernizzazione di stampo occidentale. E proprio per questo ha attratto grossi aiuti finanziari. Che sono stati utilizzati male. La politica agricola è stata disastrosa e quel denaro ha incentivato alcune classi, le più abbienti e intellettualmente avanzate, a emigrare. E non sono più tornate. Oggi il Mali è un deserto. Ma gli aiuti servono. Ne è convinto? In realtà, i paesi che li ricevono non sono in grado di gestirli, mentre quelli che non li ricevono, come il Botswana, sono costretti a massimizzare quel poco che hanno. L’economista svedese Fredrik Erixon ha dimostrato che dagli anni ’70 il volume di aiuti ricevuti dai paesi africani è stato inversamente proporzionale alla crescita economica. E quale è la sua ricetta? Dare la possibilità all’Africa di immettersi sul mercato internazionale alle stesse condizioni dell’Occidente. Ma non glielo consentono, perché da una parte i paesi ricchi elargiscono aiuti al continente, dall’altra alzano le barriere doganali e sovvenzionano i loro agricoltori. La Banca mondiale ha calcolato che, se si abolissero dazi e sovvenzioni, i proventi dell’agricoltura africana lieviterebbero di 100 miliardi di dollari, 20 in più rispetto agli 80 che i paesi industrializzati hanno inviato all’Africa nel 2006. Ma l’Occidente non si può permettere una simile politica: che fine farebbero i suoi contadini? E poi la politica dell’aiuto ci fa troppo comodo. Conosce Mumo Kisau? No. È un economista che ha lavorato per diverse organizzazioni umanitarie in Africa. Sostiene che per ogni dollaro che raggiunge quel continente sotto forma di sovvenzioni, tre dollari restano nel paese d’origine. Gli aiuti creano un mercato per i prodotti occidentali. Così, seguitiamo a dare a quel continente malato tutto l’aiuto possibile per continuare a essere malato. È possibile che dagli anni ’60 a oggi abbiamo sommerso l’Africa di miliardi di dollari in aiuti e il continente resta più povero di prima? Vuol dire che la nostra strategia è sbagliata. Perché il problema dell’Africa non è economico. Ma politico. Di buon governo. Ma la sua visione statica (attendere che gli africani si muovano da soli) non mostra dei limiti quando si tratta di affrontare una situazione di emergenza? Quando si tratta di uscire dalla trappola della povertà? Lo tsunami è un’emergenza e giustamente ci si mobilita. Ma è un fenomeno eccezionale. Noi, invece, abbiamo impostato il rapporto con l’Africa come se ci fosse una perenne emergenza. E ogni volta si aumenta la quantità degli aiuti. A mancare, in realtà, sono le politiche di lungo periodo, le uniche ad aiutare veramente quel continente a svilupparsi economicamente. La soluzione? È nei fatti. Il modello di sviluppo africano sarà una copia di quello cinese: governi sempre più autoritari dal punto di vista politico e sempre più liberisti economicamente. Un modello non democratico, con uno stato che avrà il controllo su alcuni settori della vita pubblica, nei quali l’individuo non potrà avere né accesso né partecipazione. La Cina sta scippando l’Africa all’Occidente senza che questo se ne accorga, ancorato com’è al perdente modello colonialista. Non condivide, quindi, neppure la politica dell’Onu sugli Obiettivi del Millennio, dove tra gli impegni assunti c’è il dimezzamento della povertà, entro il 2015, grazie all’aumento della percentuale del Pil dei paesi ricchi da destinare ai paesi in via di sviluppo? È una politica perdente. L’Onu ha appena ammesso che le manca mezzo miliardo di dollari per dare nel 2008 ai paesi poveri gli stessi aiuti alimentari del 2007. Ciò dimostra che l’intervento economico non basta. Anzi, non va bene. Lo sa cosa accade oggi? A livello mondiale viviamo una forte fase recessiva, nella quale i prezzi delle materie prime continuano a salire. A soffrirne maggiormente saranno i paesi poveri, perché la prima voce che il mondo ricco taglierà dai propri bilanci sarà proprio quella degli aiuti allo sviluppo. Raccontiamolo a Bono degli U2 e a tutti quei vip che si sono messi a fare i paladini dell’Africa. Lei è convinta che un motore di crescita per quel continente potrebbe essere la finanza islamica. Perché? Innanzitutto, in Africa non esiste un sistema bancario consolidato. Quello occidentale non ha attecchito. Del resto, in zone dove la povertà è così profonda non servono istituti finanziari che prestano soldi per attività importanti. Serve un sistema bancario tipo microcredito. Un sistema nato dalla finanza islamica e che prevede la compartecipazione tra società finanziaria e individuo, per piccolissime attività. È questa la formula vincente per il continente. Chiude il libro sostenendo che «l’Africa fornirà le risorse necessarie alla nuova leadership economica globale», guidata dalla Cina. Che differenza passa, allora, se lo sfruttatore è la Cina piuttosto che l’Occidente? Non è pensabile un percorso autonomo per il continente? La differenza è che la relazione con l’Occidente è sempre stata di dipendenza, per via della colonizzazione. La Cina sfrutta l’Africa. Ma non la colonizza. E, quindi, la possibilità del continente di poter guadagnare da questa situazione è molto superiore rispetto a prima, quando eravamo noi il solo interlocutore. Pechino non colonizzerà, ma certo non chiede pedigree democratici ai paesi africani con cui chiude affari… Perché noi ci preoccupiamo della violazione dei diritti? Smettiamola con questa ipocrisia. La Cina, sui diritti umani, tratta gli africani come tratta i cinesi. È coerente. Noi, invece, pretendiamo di essere i paladini della giustizia e poi ci comportiamo come ai tempi della colonizzazione.