Da cittadini a spettatori: è arrivata la psicopolitica

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Da cittadini a spettatori: è arrivata la psicopolitica
23-07-2016
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Da cittadini a spettatori: è arrivata la psicopolitica
di Francesco Paolella
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Che cosa accade se l'azione sociale e politica riduce il cittadino alla
passività dello spettatore? Se lo chiede il filosofo filosofo coreano
Byung-Chul Han, nel suo nuovo libro, Psicopolitica. La nostra
democrazia digitale funziona soprattutto per soggetti solitari,
consumatori inesauribili ma apatici
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Servirebbe un po' di silenzio e di buio. Uno spazio dove rifugiarsi, non libero, ma
almeno vuoto. L'importante sarebbe che fosse un vuoto singolare, nascosto,
invisibile, irraggiungibile. Ma come vincersi tanto di scegliere di vivere al buio, nel
vuoto? Servirebbe la quiete degli angoli scuri, trascurabili. Invece la connessione
è ovunque, l'illuminazione degli schermi è continua e continuamente ci chiama,
il dispositivo ci provoca all'azione (digitale), a condividere, a commentare, a
commentare di nuovo. E tutta l'azione “politica” (in senso lato) si riduce alla
passività dello spettatore. La nostra democrazia digitale funziona soprattutto
per soggetti solitari, consumatori inesauribili, e ovviamente “imprenditori di se
stessi”. Raramente si trova in un libro un incipit così efficace, Accade con l'ultimo
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lavoro del filosofo coreano Byung-Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le
nuove tecniche del potere (traduzione di Federica Buongiono, Nottetempo,
Roma, 2016). Ecco l'incipit: «La libertà sarà stata un episodio».
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Tre motivi per favorire il più
possibile l'impresa sociale nel
nostro Paese
Han diventa così l'annunciatore della fine (serena, volontaria, mai traumatica)
della libertà, così come abbiamo pensato e voluto la libertà moderna.
Il totalitarismo digitale sfrutta la libertà di ognuno: non la costringe, non la
controlla troppo, anzi la suscita continuamente, la rende più produttiva e
compiaciuta. Oggi il soggetto è un servo assoluto, perché non ha più nemmeno
un padrone contro cui ribellarsi.
Il consumo di informazioni, di immagini, di emozioni, proprio dell'economia
digitale, funziona perché ognuno (come lavoratore, come spettatore, come
consumatore, come elettore, tutti ruoli fusi assieme in un profilo) sente nelle
proprie mani un potenziale illimitato e illimitatamente libero. Purtroppo
l'esistenza materiale, e lo stesso mercato, non soddisfano per tutti (anzi...)
questo bisogno di libertà sconfinata e scriteriata. Da ciò deriva una lotta
interiore sempre più violenta: ecco l'epoca della depressione, dell'aggressività
contro se stessi.
“
Nelle società della prestazione neoliberale chi
fallisce, invece di mettere in dubbio la società e il sistema,
ritiene se stesso responsabile e si vergogna del fallimento
Byung-Chul Han
La libertà si è svuotata; il potere produttivo del singolo è espropriato. L'illusione
di essere comunque liberi, soggetti capaci di negare e creare, va di pari passo
con l'illusione della privacy e del possesso – nonostante tutto – della propria
immagine.
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Vince la trasparenza: il nuovo panottico digitale, ben più efficace e discreto di
quello più vecchio, disciplinare, non ammette ombre, anomalie, distorsioni. Tutto
è trasparente, deve esserlo, ma senza che la realtà dei rapporti di potere sia mai
davvero emergente. L'informazione non produce che un circuito sterile di
scandali e lamentele. Han ha ragione nell'affermare che la mediocrità, la media
statistica, un tempo aborrita da romantici e filosofi, si è imposta naturalmente,
irresistibilmente. E la lezione migliore che possiamo trarre da questo e
dagli altri lavori di Han, è quella di fuggire la retorica esausta sul
neoliberismo e di rendersi conto che ormai è il potere è uscito dai
palazzi di governo, dai centri della speculazione e persino dagli uffici
dei capi nelle fabbriche. O meglio: c'è ancora e sta anche bene in
salute, ma non ha più bisogno di sorvegliare e punire per funzionare.
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La rete ha distribuito e distribuisce, solleticando il narcisismo di cui ognuno è
fornito, l'illusione di aver sotto controllo il proprio sé pubblico, pur denudandosi,
volontariamente e continuamente, come dalle vetrine di un negozio.
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Non gli serve più sorvegliare, perché ci si sorveglia a vicenda. E ognuno si
corregge da sé, in vista della piena conformità. Non serve più individuare un
biopotere fuori, da qualche parte: ogni soggetto si da tutto, spontaneamente e
interamente, in una sottomissione inconsapevole. Le repressioni e tutte le varie
tecniche disciplinari diventano inutili e sono antiquate. La psicopolitica digitale
studiata da Han, ha abbandonato ormai i corpi per dedicarsi alle anime (che, si
sa, dei corpi sono le prigioni): si dedica alle emozioni, alla gioia delle prestazioni,
alla fatica del lavoro, imposta e vissuta come un gioco, e alla religione del tempo
libero, imposto e vissuto come un lavoro. Ed è proprio nel mondo del lavoro (che
è ormai il mondo tout court) che il nuovo fanatismo della prestazione esplode
con più evidenza. Lo schermo con cui si lavora (prima di tutto sulla propria
immagine) non si spegne mai. Non si smette mai di produrre (informazioni,
opinioni, gusti ecc., anche solo con un “like”) e di lasciar sfruttare il proprio
lavoro, lasciando trasformare il proprio sé in un quanto statisticabile: il soggetto
perde la propria memoria, perde la propria capacità di creare memoria,
consegnandosi a una archiviazione continua e totale fuori di sé, e si trasforma in
una cifra per big data.
I padroni sono benevoli: non minacciano ma motivano. Fanno sognare
traguardi e premi. Gli uffici assomigliano sempre più a dei centri di fitness.
Anche nel mondo del lavoro il potere più attendo all'estetica che all'ortopedia. Il
soggetto è chiamato a farsi imprenditore di se stesso, investendo tutto su di sé,
sul proprio potenziale e intanto lavorando gratis. Libertà e sfruttamento
coincidono. L'anarchia si è avverata.
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