il cinema è un`arma per lottare

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il cinema è un`arma per lottare
INTERVISTA
Bahman Ghobadi:
il cinema è un’arma per lottare
Molti dei suoi film sono ambientati in Kurdistan, al confine tra Paesi diversi.
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Come Il tempo
dei cavalli ubriachi, che ha vinto la Caméra d’or per la migliore opera prima al Festival di Cannes
2000.
.
O come Marooned in Iraq (Intrappolato in Iraq, 2002) che racconta di un vecchio musi-
cista che attraversa il confine per recuperare la
ella seduta di apertura della XIII Conferenza del
Partito democratico del Kurdistan (Kdp), l’11 dicembre scorso, alla presenza di 1300 membri e dei
maggiori leader politici iracheni il presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani (leader del Kdp) ha parlato apertamente di autodeterminazione dei curdi. Ne discutiamo con il regista iraniano di etnia curda Bahman
Ghobadi, che nei suoi film ha tante volte dato voce a questa minoranza. Lasciato l’Iran per motivi politici, ora vive a Erbil, nel Kurdistan iracheno. A dicembre ha incontrato il pubblico a Torino, in occasione di Sottodiciotto
Filmfestival, la kermesse europea che ragiona sulla rappresentazione dell’universo giovanile.
N
figlia che l’ex moglie, tanto amata e in fin di vita per le armi chimiche di Saddam Hussein, ha
avuto da un altro uomo.
.
di Farian Sabahi
In prima battuta i suoi film sembrano delle commedie
e gli attori si lasciano andare a battute divertenti.
Ma, poco alla volta, la trama lascia spazio alla tragedia.
Perché questo cambiamento di registro?
Sono timido, per carattere. Svelo il mio dolore poco per
volta. In persiano esiste un’espressione idiomatica: si dice “tagliare la testa con il cotone” e ora le spiego che cosa intendo. Il pubblico non è colpevole, non posso mostrare subito la violenza, creando tanto dolore. Mi devo
muovere con accortezza. Vorrei far amare i miei personaggi, vorrei che lasciassero una traccia. Abbandonando
la sala, dopo i titoli di coda, il pubblico deve però avere
la consapevolezza della tragedia che colpisce il popolo
curdo. I miei personaggi devono accompagnare lo spettatore, almeno per un po’. Il cinema è come l’amore: non
puoi attaccare subito, ci vuole tempo per lasciare il segno.
Lei è stato aiuto regista di Abbas Kiarostami nella pellicola
Il vento ci porterà via e attore nel film Lavagne
di Samira Makhmalbaf. Come si è avvicinato al cinema?
Ho vissuto a lungo a Baneh, in una piccola città di con-
fine tra l’Iran e l’Iraq. Al tempo dello scià era l’unica località del Kurdistan dove ancora non c’erano cinema. Oggi, invece, in tutto il Kurdistan c’è soltanto una sala! Il
mio incontro con il cinema è stato mediato dal cibo: da
bambino adoravo mangiare i panini con il wurstel, ma
mio zio me li comprava soltanto quando andavamo al cinema. Non potevo addentarlo finché non iniziava il film.
Ricordo che mangiavo il panino e, distratto, pure la carta in cui era avvolto. Il panino al cinema era una sorta di
rito, una cerimonia.
Quali sono i suoi sentimenti verso questa forma d’arte?
Per il cinema non provo amore, lo considero un’arma
nella lotta per il mio Paese. Ogni tanto mi suscita persino sentimenti negativi, molto forti, forse per le difficoltà
che abbiamo noi cineasti in Iran, dove bisogna lottare
contro la burocrazia e la censura. Ed è proprio a causa di
queste difficoltà che sono invecchiato precocemente.
Non ho mai avuto una sedia da regista, comoda, per proIl centro di Erbil visto dalla Cittadella.
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Quale futuro immagina per questa terra divisa e contesa?
Sono iraniano e sono curdo, l’Iran è il mio corpo e il Kurdistan è il cuore. Desidero un Kurdistan autonomo, all’interno dell’Iran, ma sono pronto a rinunciare a un Kurdistan indipendente se questo fosse fatto a spese dell’Iran,
privandolo di una sua parte. Vorrei che ogni provincia dell’Iran avesse una sua autonomia, con uguali diritti.
Corbis / P. Cheung
Afp / Getty Images / S. Hamed
Qual è la metafora che lei utilizza
per affrontare la questione curda?
C’era una volta una bella ragazza che un brutto giorno
è saltata su una mina e ogni pezzo del suo corpo è stato
gettato in un posto diverso: in Iraq, in Iran, in Turchia e
in Siria. Quella bella ragazza si chiamava Kurdistan.
Bahman Ghobadi, regista, sceneggiatore
e produttore cinematografico iraniano di etnia curda.
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frenici, come lo siamo noi iraniani: avremmo bisogno di
un buon psicologo! La politica entra ovunque. Anche nel
cinema e nell’arte. Non puoi allontanarti dalla politica,
intrisa di corruzione.
Lei è ormai un regista famoso,
quali sono gli ostacoli che ancora deve affrontare?
Non posso più tornare in Iran. E quindi la difficoltà
maggiore è dover girare in una lingua straniera, diversa
dal persiano, con attori che abitano fuori dal Paese, senza la possibilità di tornare in patria anche se, in fin dei
conti, non ho fatto nulla di male.
Come spesso avviene nel cinema iraniano, molti
dei protagonisti delle sue pellicole sono bambini: perché?
Ogni bambino rispecchia un pezzo della mia infanzia.
La scena in cui il bambino si picchia da solo, per esempio, è un remake di come, per punirmi quando combinavo un guaio, mio padre mi chiedeva di prendermi a sberle da solo. Come la piccola Agrin, vittima di violenza sessuale, ogni tanto anch’io mi facevo prendere dallo sconforto. Ogni tanto cercavo di impormi sui miei coetanei,
e ogni tanto ero il monello che combinava dei pasticci.
Ma, nella realtà, non sono mai riuscito a diventare come
Satellite, il ragazzino in gamba di Turtles can fly, e guarire così i miei complessi. Come tanti iraniani, e come
tanti curdi, a causa della guerra Iran-Iraq (1980-1988) sono diventato adulto all’improvviso senza poter vivere
pienamente la mia infanzia.
Perché ha scelto il titolo Turtles can fly (Le tartarughe
possono volare, 2004) per la pellicola ambientata in un
campo profughi curdo, sul confine tra Iraq e Turchia, poco
prima dell’invasione americana dell’Iraq nel marzo 2003?
La tartaruga è un animale dal nome strano. Quando ero
bambino, durante la guerra, cercavo di separare la tartaruga dal suo guscio, con la speranza di farla andare più
veloce. La tartaruga era metafora di quella bambina che
non poteva vedere: pensavo avesse un guscio sugli occhi
che le impediva di vedere e quando è caduta in acqua
avevo avuto l’impressione che le sue mani fossero simili a quelle della tartaruga. Ma le tartarughe non possono
volare. Quando guardo al Kurdistan penso a una tartaruga che non raggiunge la meta. E questo non mi dà pace.
SOTTO Un momento precedente
alla proiezione del film Gatti Persiani.
A FRONTE Il presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani.
Getty Images / S. Hussein
Il cinema iraniano ha sempre dato voce alla protesta,
fin dal tempo dello scià con il film Gav (La vacca, 1970)
di Dariush Mehrjui, con La casa è nera di Forough Farrokhzad
(1963) e i documentari di Kamran Shirdel sui quartieri poveri
di Teheran. Anche nelle sue pellicole
c’è un messaggio politico, di protesta. Per quale motivo?
Odio la politica, ma la mia terra ne è intrisa e ormai i
militari hanno scalato le vette del potere. Di conseguenza non posso fare cinema evitando di parlare di politica.
Questo vale per i film che ho girato nel Kurdistan, e pure per Gatti persiani, dove dei giovani vanno a una festa
e rischiano di non uscirne vivi. I miei film sono schizo-
Perché i suoi film hanno spesso nomi di animali?
Non vorrei che le mie pellicole si perdessero, tra le migliaia che vengono prodotte ogni anno! Ogni film è come
un figlio, rifletto a lungo sul suo nome. E quindi in ogni
mio film c’è un animale, che amo e assume un ruolo, diventando un simbolo.
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Come nasce Gatti persiani, il film ambientato a Teheran,
dove i protagonisti sono dei giovani musicisti obbligati
a suonare di nascosto, frustrati dalle leggi
della Repubblica islamica e decisi a lasciare il Paese?
Prima di girare questa pellicola avevo avuto una brutta crisi depressiva. Non riuscivo a creare nulla che mi piacesse. Un giorno un amico mi disse che facevo esattamente quello che volevano le autorità: ero inchiodato a letto,
e stavo male. Per tirarmi su di morale decisi di rimettermi a suonare. Ed è così che ho incontrato i ragazzi del
film: non sono attori, ognuno di loro dice quello che pensa, e il gruppo musicale Nikai ha veramente suonato per
tre mesi in una stalla. L’unico attore è Nader, il giovane
che recita la parte del produttore: l’ho conosciuto a Mashhad dove vendeva dvd al mercato nero. Con il girato
avrei potuto fare un documentario, ma non sono famoso
come Michael Moore e non ho i finanziamenti di cui dispone lui. Per questo ho deciso di creare una pellicola in
parte documentario e in parte fiction, dove di fatto non
sono regista, ma un ponte tra questi ragazzi che, tramite
me, hanno potuto far sentire la loro voce nel mondo.
Qual è il messaggio di Gatti persiani (2009),
Premio speciale della giuria del Certain Regard a Cannes?
Il film spiega il divario che esiste tra le autorità e il popolo iraniano. In Iran ci sono tanti giovani che hanno voglia
di libertà, ogni anno sono in 150mila a lasciare il Paese.
E il titolo, Gatti persiani, come le è venuto in mente?
Nella Repubblica islamica cani e gatti sono haram, impuri e quindi fuorilegge. Per questo non possono uscire
di casa. Eppure, paradossalmente, i gatti persiani sono i
più belli e i più costosi al mondo! Gli artisti iraniani sono un po’ come questi gatti: siamo i migliori, ma le autorità ci obbligano a stare rinchiusi in casa. I musicisti protagonisti del mio film non hanno un soldo in tasca. Ma
quando è uscito il loro album in Francia hanno venduto
moltissime copie. Sono bravi, ma al potere c’è un manipolo di ignoranti che si impone su un popolo colto. Prima di questo film non avevo avuto il coraggio di affrontare queste tematiche. Poi ho capito di avere paura e di
dover combattere questo mio sentimento negativo. Con
questi giovani appassionati di musica, che ho seguito con
la telecamera per una ventina di giorni, ho imparato tanto. In primis il coraggio.
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Afp / Getty Images / S. Hamed
gettare i miei film. Ho girato le prime scene con grande
fatica, vendendo frigoriferi e risparmiando per pagare le
spese di produzione. Per questo ho un sentimento duplice verso il cinema, di amore e odio.
E quindi nella migliore tradizione del cinema iraniano,
basti pensare ad alcune pellicole di Mohsen Makhmalbaf.
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