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Milanesi del Medioevo, “ricamatori” MARIA PAOLA ZANOBONI Fu soprattutto dalla metà del Quattrocento (grazie anche all’attenuarsi dei provvedimenti delle leggi che limitavano il lusso) che si verificò una vera e propria esplosione del gusto per abiti ed ornamenti ricamati, sia nelle corti rinascimentali, sia anche presso i ceti sociali più modesti, che non si facevano mancare, quando era possibile, almeno un vestito ornato magari dai fiori bianco-rosati del pesco. Ferrara, Milano e Firenze furono in quest’epoca i centri più importanti. A Ferrara la corte estense, utilizzando maestranze prevalentemente milanesi, diede uno straordinario impulso alla produzione di “completi da camera” ricamati, una moda che attraverso i matrimoni di Isabella e Beatrice d’Este contagiò le corti di Mantova e di Milano, e quella aragonese, imparentata sia con gli Estensi che con gli Sforza. La moda del ricamo non si limitava infatti soltanto agli addobbi liturgici o agli abiti principeschi, ma si estendeva a tutto ciò che poteva essere ornato: dalle borse, alle cinture, ai tessuti d’arredamento, e soprattutto ai “completi da camera”, l’insieme cioè dei tendaggi posti a protezione del letto che addobbavano lussuosamente con tessuti di seta e d’oro o di arazzo le dimore signorili e principesche, dispiegandosi in abbondanti drappeggi coordinati con le coperte e i cuscini. Celebri quelli fatti realizzare nel 1457 da Borso d’Este, lavorati da ricamatori per la maggior parte milanesi. L’uno in velluto e l’altro in damasco, erano composti ciascuno da un cortinaggio drappeggiato con frange pendenti in seta ed oro per il baldacchino; da un cortinaggio della stessa misura per la testiera, da una coperta in velluto e da tre cortinaggi di taftà per la parte laterale. Ogni pezzo era ornato con ricami in oro e seta raffiguranti le insegne ducali, palme da dattero, unicorni, steccati, motivi vegetali. Addobbi simili decoravano anche le stanze di Beatrice d’Este, moglie di Ludovico il Moro e quelle di Bianca Maria Sforza, moglie dell’imperatore Massimiliano (1493). Quest’ultimo a sua volta nel 1498 commissionò un completo da camera ricamato i cui disegni sarebbero stati eseguiti dal pittore Ambrogio de Predis. Fu realizzata soltanto la splendida coperta in raso nero operato con motivi a fogliame, lavorata in oro, argento e seta, bordata da un ricamo a festoni e frutti, e recante al centro lo stemma imperiale. Per pagare i 2000 ducati che gli erano stati richiesti per questo oggetto, l’Imperatore fu costretto a contrarre un prestito con i banchieri Fugger. A Milano con le nozze dei duchi Gian Galeazzo Sforza (1489) e Ludovico il Moro (1491) il ricamo raggiunse il suo apogeo. Il matrimonio tra Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona venne celebrato in Donne che ricamano, miniatura sec. XV. 63 Duomo, il 2 febbraio 1489: le strade che dal castello portavano alla cattedrale erano state splendidamente addobbate con panno bianco, tappezzerie, festoni di ginepro e melarance; il duca e la duchessa vestiti di bianco procedevano a cavallo, sotto un bianco baldacchino, preceduti e seguiti da innumerevoli paggi, cortigiani, dignitari di corte e uomini di governo splendidamente vestiti, tanto che “non si vedeva se non broccati d’oro, d’argento e gioie”, come riferiva l’ambasciatore estense. La nobiltà milanese in quell’occasione fece a gara nel procurarsi le vesti più preziose, al punto che alcuni arrivarono a spendere fino a 7000 ducati per una sola manica. Il “completo da camera” nuziale, costituito dalla coperta, scarlatta, e dal “capocielo”, era mirabilmente ricamato con perle, simboli araldici (i “leoni con le secchie”), e amorini argentei intenti a giocare. I festeggiamenti veri e propri per le nozze di Gian Galeazzo ed Isabella furono però rimandati di un anno a causa della morte di Ippolita d’Aragona, madre della sposa. Si tennero dunque il 13 gennaio 1490 con la celeberrima “Festa del Paradiso”, al cui allestimento prese parte anche Leonardo da Vinci. Isabella indossava un abito “alla spagnola” con un mantello di seta bianca sopra una giubba di broccato d’oro in campo bianco, ornato da un gran numero di gioie e perle; Gian Galeazzo era vestito di broccato d’oro e portava al collo un rubino balascio assai grande e un diamante e una grossa perla sul berretto; un abito di velluto scuro foderato di zibellino, con una cappa di panno nero foderata di broccato d’oro in campo bianco era invece indossato da Ludovico il Moro. Abiti di vari colori, in broccato e velluto, o in seta vestivano il seguito, mentre tappezzerie in broccato d’argento, arazzi e tappeti addobbavano la sala del castello di Porta Giovia in cui si teneva la festa. Ugualmente giubbe in velluto verde con ricami d’oro, sopravvesti in raso turchino istoriate con colombe, simboli araldici o motivi vegetali, vestivano paggi e dignitari durante la cerimonia nuziale ed i tornei di festeggiamento per il matrimonio di Beatrice d’Este e Ludovico il Moro (gennaio 1491). Anche le celebrazioni per la nascita (1493) di Massimiliano Sforza, primogenito di Beatrice e Ludovico, furono tutto un tripudio di tendaggi, cuscini e coperte ricamati, secondo una passione che la duchessa aveva ereditato dalla corte estense da cui proveniva. Ornava il letto della puerpera un completo in velluto decorato con due serpenti attorcigliati intorno ad un’asta d’ar- 64 gento (simbolo araldico detto del “caduceo”). Addobbi bianchi, rossi e turchini, con falchi ricamati in oro decoravano la stanza del neonato, avvolto in una coperta di broccato d’oro. Completamente dorata anche l’elegante culla in cui le frange d’oro si alternavano a cordoncini di seta turchina. Caratteristiche del ricamo milanese erano l’imbottitura, utilizzata per renderlo tridimensionale; l’abbondante utilizzazione di filo d’oro o di argento dorato, e l’impiego altrettanto abbondante di perle, pietre preziose, smalti; e soprattutto l’uso di maggette (anellini argentati o dorati applicati con filo di seta) destinate a creare l’effetto di una luminosità abbagliante, molto superiore a quella ottenibile col filo d’oro. La sua fattura rimase però più antiquata rispetto a quella dei manufatti fiorentini nei quali veniva utilizzata la nuova tecnica del “punto serrato”, appresa dai fiamminghi, e consistente nel realizzare le immagini con punti colorati applicati trasversalmente su di un fondo di fili d’oro paralleli. Se ne otteneva l’incredibile risultato di un continuo baluginìo dell’oro, completamente esposto nelle parti più chiare del disegno, e mai completamente coperto in quelle più scure. Con tale tecnica fu realizzato, ad esempio, il parato di San Giovanni, uscito dalla bottega di Antonio Pollaiolo (1466-1480), tuttora visibile al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Al di là del generico attributo di “ricamatori” con cui vengono designati i personaggi nei documenti d’archivio, rimangono però oscuri l’effettiva posizione sociale che ciascuno di essi occupava, la capacità di stabilire contatti o rapporti di patronage, il ruolo svolto dal singolo all’interno del contesto produttivo. Anche quando, come in questo caso, il “prodotto” confinava con l’opera d’arte, richiedeva infatti ugualmente un notevolissimo apparato organizzativo: la capacità di instaurare contatti con la committenza, di sostenere i costi di approvvigionamento delle preziose materie prime, l’abilità nell’assunzione di apprendisti e lavoranti sufficientemente dotati ai quali affidare parte del lavoro, e, non ultima, la capacità e la forza contrattuale necessarie a farsi remunerare in tempi brevi, o anche, semplicemente a farsi remunerare (cosa non del tutto ovvia presso le corti rinascimentali). Sotto la denominazione di “ricamatori” si celavano dunque di volta in volta personaggi dai connotati più diversi: dai semplici lavoranti di un grande atelier, a coloro che, inizialmente dediti di persona all’attività, grazie alle proprie capacità imprenditoriali e all’inse- da poter chiedere palazzi e feudi, con le annesse rendite e diritti giurisdizionali, a concreta garanzia delle somme da riscuotere. Probabilmente fu proprio la straordinaria capacità di diversificare i suoi affari e gli impieghi di capitale, assumendo anche in prima persona il controllo della produzione della materia prima, unita al peso e alla forza contrattuale su ogni ceto della società milanese fornitigli dalla capillarità dei contatti e rapporti di patronage che l’adesione alle principali confraternite cittadine gli aveva procurato, a permettere a Nicolò di non curarsi della perenne insolvenza dei duchi e della corte, che aveva angustiato invece suo padre e che continuava ad angustiare la maggior parte dei ricamatori milanesi. Bibliografia F. Malaguzzi Valeri, Ricamatori e arazzieri a Milano nel ‘400, in “Archivio Storico Lombardo” XXX (1903), pp.34-63. M. Schuette S. Muller Christensen, Il ricamo nella storia e nell'arte, Roma, Edizioni Mediterranee, 1963. F. Bologna, Dalle arti minori all’industrial design, Bari, Laterza, 1972. Ferrara, Palazzo Schifanoia, “Il trionfo di Minerva” (sec. XV). rimento in un determinato milieu cittadino erano riusciti a far carriera, diversificando enormemente i propri investimenti e giungendo a controllare giri d’affari stratosferici, attraverso una strategia fatta di manovre economiche, ma anche (e forse soprattutto) di contatti sociali che li mettevano in grado di dettare le condizioni di pagamento ai loro principali committenti: i principi e le corti. Personaggio di questo genere fu quel Nicolò da Gerenzano (1450/1513) il cui padre aveva ricamato la giubba di raso turchino a gigli d’oro indossata da Galeazzo Maria Sforza durante la celebre visita a Firenze nel 1471, giubba con cui il duca di Milano venne immortalato proprio da Piero Pollaiolo nel ritratto conservato agli Uffizi. Sfruttando al massimo le conoscenze, i contatti e i legami acquisiti a Milano, grazie alla posizione di rilievo ottenuta all’interno della confraternita per la costruzione di San Satiro, e grazie alla propria capacità di inserimento ai vertici dei principali luoghi pii cittadini, Nicolò riuscì ad ottenere nella società non solo milanese, ma di tutta la penisola, un peso e una forza contrattuale tali A. Garzelli, Il ricamo nell’attività artistica di Pollaiolo, Botticelli, Bartolomeo di Giovanni, Firenze 1973. Tessuti serici italiani, 1450-1530, catalogo della mostra, a cura di Chiara Buss, Marina Molinelli, Grazietta Butazzi, Milano, Electa, 1983. A. Ghinato, L’arazzeria estense XIV-XV secolo, in Storia illustrata di Ferrara, Milano 1987, pp.289-303. A. Ghinato, Tecniche e organizzazione del lavoro nell’arazzeria a Ferrara, in Tecnica e società nell’Italia dei secoli XII/XVI, Pistoia 1987, pp.113-133. M. T. Binaghi Olivari, I ricamatori milanesi tra rinascimento e barocco, in I tessili nell’età di Carlo Bascapè vescovo di Novara (1593-1615), Novara 1994. M. T. Binaghi Olivari, Il ricamo italiano nel Quattrocento e il baldacchino di Lodi, in L’oro e la porpora. Le arti a Lodi nel tempo del vescovo Pallavicino (1456/1497), Cinisello Balsamo, Silvana, 1998, pp.109-114. F. Poletti, Antonio e Piero Pollaiolo, Cinisello Balsamo, Menarini, 2001. M. P. Zanoboni, I Da Gerenzano “ricamatori ducali” alla corte sforzesca, in M. P. Zanoboni, Rinascimento sforzesco. Innovazioni tecniche, arte e società nella Milano del secondo Quattrocento", Milano, CUEM, 2005, pp.23-86 ([email protected] - www.accu.it). M. P. Zanoboni, I salariati nel Medioevo, Ferrara, Nuove Carte, 2008 (www.nuovecarte.net; [email protected]). 65