Ti voglio bene - Blog-ER

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Ti voglio bene - Blog-ER
TI VOGLIO BENE
di Martina Evangelisti
Sono entrata perché cercavo il telefono portatile. Erano le cinque del pomeriggio e il silenzio mi
premeva sulle orecchie, il buio della nebbia soffocava le finestre. I libri pieni di compiti disfatti e
poi non fatti erano chiusi dentro la borsa di scuola, aperta a squarciagola sul piumone verde acido.
Ero sola e avevo voglia di parlare con qualcuno, bisogno di oliare le note arrugginite di una voce
roca.
Ho trovato il telefono sul tuo comodino. Era nascosto accanto all’abatjour sotto un cruciverba, due
libri, un paio di occhiali e una penna. Strano, quando lo cerchi tu è sempre in camera mia, quando lo
cerco io è sempre nella tua. Non c’è casualità nella ricerca di un telefono in casa nostra. Per questo
già sapevo dove trovarlo. Ancora prima di passare dal bagno o scendere in cucina.
Ho cercato di sfilarlo dal suo nascondiglio prevedibile senza far cadere il cruciverba, i due libri, gli
occhiali e la penna. O per lo meno senza far cadere gli occhiali. Ma era inevitabile, come il fatto che
il telefono fosse in camera tua: sono scivolati subito dopo la penna. Senza rompersi, però. Quegli
occhiali sono come te, hanno gli anticorpi: un apparato di difese immunitarie per proteggersi da me.
Li ho presi, ho ripiegato le asticelle. Li ho rimessi al loro posto accanto all’abatjour, appesi tra i due
libri ed il cruciverba. La penna è rotolata sotto al letto.
Ho impugnato il telefono, mi sono attardata con le dita sopra ai tasti zero e cinque. I numeri bianchi
come ombre sbiadite sotto le mie mani sudate.
Ero in piedi nella tua camera e mi sentivo una ladra, un’inquilina a cui avevano dato le chiavi
dell’appartamento sbagliato.
Mi sono seduta sul letto.
Nella mia testa ti ho vista aprire la porta, entrare dentro, toccarti i capelli, aprire il cofanetto sul
mobile, toglierti gli anelli, chiudere il cofanetto, girarti, accorgerti di me. Ti ho vista arrossire, ho
visto arrossire me. Questa non è una zona neutra. Noi siamo fatte per incontrarci in salotto, in
cucina, sul secondo gradino delle scale. I nostri sono discorsi di convenienza, di quelli che si fanno
davanti a un tovagliolo piegato, tra il primo piatto e la verdura. Sappiamo fare le attrici solo su
palchi anonimi. Siamo una soap opera da primo pomeriggio.
Ho appoggiato i miei pensieri sul tuo cuscino, i miei capelli neri sulla tua federa chiara.
Diciassette anni sporchi sulla tua vita ordinata.
Io ero lunga poco più del comodino quando giocavamo su questo letto. I miei ricordi sono luci
bianche tra le lenzuola, sono risate, dita, e solletico sotto i piedi. Io mi nascondevo tra le tue braccia
perché ero convita che ci fosse qualcosa nel corridoio. Gli incubi, un orso, l’uomo nero. Quel
corridoio alle otto di mattina era il riassunto di tutte le paure. Tu mi stringevi e giocavi con me. Dal
corridoio sparivano i fantasmi.
Poi una mattina mi sono svegliata ed il fantasma ero io. Un incubo, un orso, un uomo nero sulla tua
coscienza. Ero cresciuta e avevo perso pezzi. Avevo lasciato i sorrisi e le confidenze in quel
corridoio, relegandolo per sempre a zona d’ombra, costruendoci in mezzo un muro di mattoni e
insofferenza.
Ho affondato la guancia il più possibile dentro il cuscino e ho fatto scivolare di nuovo il telefono
portatile sul tuo comodino, più in bilico di prima, un equilibrista in pericolo tra una barriera di
riviste e un bordo arrotondato.
Se tu fossi stata qui mi avresti detto “adesso cade”, pur sapendo che non sarebbe successo. Mi
avresti guardata come si guarda un uragano, una tempesta, un punto interrogativo, un’eclissi a
mezzogiorno. Non ti saresti potuta trattenere dall’imputare a me l’entropia, l’inverno, i tuoi mal di
testa. Sarei scivolata come un ombra di disprezzo sul tuo sguardo. E io ti avrei stampato sulla faccia
lo stesso disprezzo, occhi verdi su occhi verdi. Giorni neri su giorni neri. E ne saremmo uscite tutte
e due con un'altra ferita, un altro mattone su quel muro nel corridoio.
Ma tu non c’eri e la tua assenza per me era un balsamo e uno strappo nella carta. Un cerotto e una
goccia di limone su una ferita. Un vuoto tra gli spazi vuoti di questa casa.
Mi sono alzata. Ho tolto le ciabatte. Ero senza calzini, i miei piedi piccoli si lasciavano dietro aloni
umidi sul parquet.
Ho marchiato il pavimento di impronte, come un cane. Poi sono finita di fronte al tuo armadio e
l’ho aperto. Dietro le ante ho incontrato l’odore della tua crema per il corpo cucito in ogni
centimetro di stoffa, assorbito da ogni piega dei pantaloni.
Di te so che il tuo colore preferito è il rosso, che i tuoi anni sono quaranta e che quella crema sa di
mandorle. Il resto lo dice il tuo armadio. Dice che sei calda e ruvida, come i dolcevita di lana che
nascondi sul fondo dei cassetti. Dice che sei sola. Dice anche che hai una figlia, altrimenti nessuno
avrebbe strappato i tuoi collant. Dice che il tuo umore spesso è nero. Dice che sei una donna
rassegnata a indossare solo vestiti con le spalline per non mostrare come il peso della vita si è
appoggiato sulla tua schiena. Dice che sei bellissima senza rendertene conto.
Ho incrociato le gambe in terra di fronte ai tuoi vestiti. Ho lasciato che mi parlassero di te. Ho
respirato l’aria che ti porti addosso, la tua seconda pelle.
Uscendo di casa ti sei tirata alle spalle il tuo rancore, salendo in macchina ti sei messa ad urlare
senza che io ti vedessi.
Per te è più facile odiarmi dietro una porta sbattuta, non credere che non lo sappia. Io ero sulle scale
e ho gridato sul ticchettio dei tuoi tacchi un vaffanculo senza voce, muovendo solo le labbra. Ho
detestato il rumore del silenzio, perché al posto suo volevo un pianto e dei singhiozzi, una carezza
sui capelli.
Hai chiuso la porta, hai fatto tremare i muri. Mi hai lasciata dentro a marcire, a cercare chiazze
grigie e verdi di muffa sulle pareti e sul soffitto, a parlare da sola di risentimenti che bruciano
dentro le ossa.
Hai il tuo nuovo lavoro, hai i tuoi nuovi soldi. Hai cambiato i mobili in salotto, hai cambiato il
colore delle tende, quello dei capelli. Hai cambiato compagno e hai preteso di amarlo. Hai imparato
a cucinare giapponese. Hai scoperto dopo che a lui piaceva il cinese. Ti sei stropicciata le mani, non
hai saputo che mentirgli, non gli hai detto che per te erano la stessa cosa.
E hai fatto imbiancare i muri. Io adesso non ho più nemmeno le chiazze di muffa. Nemmeno dietro
a un cassettone, ho controllato. Questa casa ha perso il ricordo di noi, neanche lei sa più chi siamo.
Ero seduta lì, a gambe incrociate davanti al tuo armadio aperto. Osservavo quel momento come
fosse un film, una pellicola a colori che andava avanti senza sonoro. Mi vedevo spettatrice e attrice
e tecnica delle luci e regista. Ero seduta lì ed ero un pezzo di puzzle finito sotto al letto, ero la
tessera che mandava in disgrazia l’intera costruzione, quella che sarebbe stata dimenticata e poi
trovata e poi dimenticata ancora. Quella che sarebbe stata aspirata dalla donna delle pulizie per poi
soffocare in mezzo alla polvere.
Allungavo a ripetizione le mani tra le due ante. Ho sfiorato prima un completo, poi un paio di jeans,
poi un vestito di seta blu notte.
Mi sentivo un bambino con dita di marmellata. Di quelli che toccano il tovagliolo, il bicchiere, la
gamba del tavolo, il tappeto, il divano e l’abito appena stirato della mamma, quasi a farlo apposta.
Di quelli che lasciano le chiazze.
Io ho lo smalto rosso che ti fa corrugare la fronte, quello che ti arriccia la bocca e ti avvicina sul
naso la linea delle sopracciglia, quello che non ti piace. Quello che hai nascosto sul fondo
dell’armadio delle medicine, dietro la scatola del Moment e quella dell’aspirina, quello che io ho
ritrovato subito. Le mie unghie rosse fanno a pugni con il tuo french da manicure. Quello smalto è
la mia marmellata sulle dita.
Ho preso tra le mani i tuoi vestiti, nonostante quel colore sfacciato mi rendesse sporca per loro. Ero
il bambino che stampava ditate sulla camicetta della mamma e non lo faceva apposta, o forse sì.
Ho sfilato dalla gruccia l’abito blu. È uno dei più belli, è quello che ti sta meglio. Non lo metti mai.
Dici che non ne hai l’occasione, che di serate eleganti non ne vedi da una vita.
Lo hai indossato una volta sola, credo, a un matrimonio, anni fa.
Ricordo che c’erano vasi di orchidee dappertutto quel giorno, in quell’hotel sul mare con i camerieri
anche alla porta del bagno. C’eri tu dentro il tuo vestito blu, la sposa dentro la sua gonna a ruota
bianca. E tutti gli uomini fissavano te.
Io mi nascondevo tra le orchidee bianche e rosa. Ti guardavo, come gli altri. Odiavo la tua bellezza
inconsapevole, odiavo la mia, da quattordicenne acerba.
Più tardi, in bagno, avrei chiesto al nipote di un qualche parente se mi trovava bella. Lui era un
sedicenne interessante, con quei suoi occhi azzurri e quello sguardo da uomo sciupato. In bagno
avrebbe preso la mia testa tra le mani. La sua stretta mi avrebbe tirato i capelli. Mi avrebbe baciata
senza grazia, con la lingua, per poi dirmi che potevo essere bella quanto volevo, che comunque non
ci sapevo fare. Io sarei rimasta davanti allo specchio mentre lui usciva, a guardare il trucco che mi
sbavava sugli occhi lucidi. A piangere perché non ero te.
Quel giorno ero una bambina che piangeva davanti allo specchio di un bagno qualunque. Qualche
anno più tardi, dentro lo specchio appeso sull’anta sinistra del tuo armadio, ero un riflesso con il tuo
vestito blu in mano.
Ricordavo ancora il sapore di quel primo bacio. Ricordavo la tua espressione solare, i tuoi capelli
mossi come in un catalogo. Ricordavo le lacrime gocciolate sul lavandino, nere di rimmel.
Davanti al tuo armadio mi sono tolta la felpa, la canottiera, i jeans. Sono rimasta in reggiseno
accanto al tuo specchio, ad osservarmi diversa da te. Filiforme senza forme. Poco cambiata da
quando avevo quattordici anni, poco più alta, poco più donna.
Sono scivolata dentro il tuo vestito aprendo la cerniera sul fianco, facendo dei nodi sulle spalline
perché non mi scendesse troppo lungo sul petto dove lo riempivo molto meno di te.
Avrei voluto che tu mi vedessi. Avrei voluto il tuo giudizio. Avrei cercato i miei occhi dentro i tuoi,
avrei provato a guardarmi da lì.
Sono salita sul letto, in piedi. Ho alzato le mani in aria ma non sono riuscita a toccare il lampadario.
Sono scesa. Ho ritrovato la stabilità per terra, ho cercato sul pavimento le certezze cadute dalle
mani.
Mi sono abbracciata le gambe dentro il tuo profumo. Sapeva di mare, di sole, di sabbia, di giorni di
vento. Portava l’odore dolcemente salato della tua vita. Parlava una lingua arrabbiata che si
artigliava a questi vestiti ma non riusciva a tenere la presa. Come i tuoi rimproveri imbranati che
decollano sopra le nuvole del suono e poi si incrinano a metà, non perché il carburante è finito, ma
perché pioverà e forse tu piangerai.
Una volta ho annusato la trama di un tuo maglione cercando il ricordo delle tue lacrime. Ma lì non
c’era. Lo avevi cancellato con straordinari al lavoro e varechina.
Ho raggiunto di nuovo il telefono e l’ho preso in mano. Ho chiamato senza voglia di chiamare
nessuno. Ho chiamato per costringermi a parlare, per non sprofondare nel silenzio. Ho chiamato a
caso. Ho chiamato il primo numero che mi sono ricordata. Ho chiamato il tuo numero.
Tu, Tu. Pronto?
Ho sentito il tuo respiro gonfiare la cornetta.
No, non ero pronta. Ho riattaccato. Ho spento la tua voce dall’altro capo del telefono. Ho riacceso il
silenzio e ti ho riportata qui. L’interruzione avrebbe soffiato via la tua presenza. E io non volevo
perderti. Non alle sei di sera con la luce che scendeva e la notte che diluiva sui tetti. Non quando
rischiavo di non ritrovare le mie certezze nemmeno sul pavimento.
Poi ho sentito un gracchiare di ruote sulla ghiaia. Una chiave che girava. Una porta che si apriva.
Ho sentito il clic della luce in salotto e ho saputo che tu eri in casa.
Ho trattenuto il respiro, al buio, come quando giocavo a nascondino da bambina. Quando nel
silenzio sentivo solo il rimbombo del mio cuore dentro le orecchie.
Ora che c’eri non ti volevo già più. Volevo tornare nel vuoto da sola, con il tuo ricordo. Affrontare
un’assenza sarebbe stato più facile.
Ho sentito i tuoi tacchi sulle scale, il tuo respiro che riempiva i muri.
Sei entrata in camera toccandoti i capelli, hai aperto il cofanetto sul mobile, ti sei tolta gli anelli, hai
chiuso il cofanetto, ti sei girata, hai acceso la luce e ti sei accorta di me, seduta sul parquet
prefabbricato con addosso il tuo vestito blu. L’armadio era aperto alle mie spalle. La gruccia era sul
letto.
Avrei voluto parlarti, ma non sapevo di cosa. Avrei dovuto dirti che ero venuta in camera tua per
cercare il telefono, che avevo fatto cadere i tuoi occhiali, che la tua penna era finita sotto al letto.
Ma non ho detto niente.
I battiti mi pulsavano ancora nella testa, come quando ero bambina, come quando giocavo a
nascondino.
Tu mi guardavi in silenzio.
Ero una tua copia appena abbozzata. Troppo truccata per essere te, diresti tu. Troppo imperfetta per
essere te, direi io.
Eravamo due mondi in collisione. Abbastanza vicini per sfiorarci, abbastanza lontani per far finta di
niente.
Non mi hai chiesto perché ti ho chiamata, non mi hai chiesto nulla.
Ti sei seduta per terra, di fronte a me. Hai riso.
Sei più alta di me, hai i piedi più grandi, i capelli più chiari, ma il suono di quella risata scoppiata su
un pavimento alle sei del pomeriggio era uguale, era identico al mio.
Allora anche io ho riso, con gli occhi bagnati. E non sapevo dire perché lo facevo. Sapevo solo che
la leggerezza di quel momento era come il solletico sotto i piedi tra le lenzuola. Pensavo a questo
mentre ti vedevo sorridere.
“Ti voglio bene.” Hai detto così.
Punto. Tre parole. Si contano sulle dita di una mano e non la riempiono nemmeno tutta. Mi sono
precipitate dentro come un sasso in fondo a un pozzo.
Ti voglio bene.
Ho pianto senza capire. Con la certezza che domani avremmo litigato di nuovo, con la paura di
guardarti negli occhi.
“Anche io.” Ho detto così. Molto meno espressivo. Ma le parole mi morivano in gola.
Mi hai presa tra le braccia, mi hai accarezzato la testa.
Io ho appoggiato le mie lacrime sulla tua spalla. Diciassette anni in frammenti sul tuo tailleur fresco
di bucato.
Diciassette anni sporchi sulla tua vita ordinata.