Istituto MEME: Il figlicidio - Dinamiche psicologiche, criminologiche e

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Istituto MEME: Il figlicidio - Dinamiche psicologiche, criminologiche e
Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
“Il figlicidio: dinamiche psicologiche, criminologiche e
psicopatologiche”
Scuola di Specializzazione:
Scienze Criminologiche
Relatore:
Avv. Riccardo Romano
Contesto di Project Work:
Tesista specializzando:
Anno di corso:
Studio Legale
Dott.ssa Nicoletta Ciani
Secondo
Modena, 5 settembre 2009
Anno accademico 2008 - 2009
ISTITUTO MEME S.R.L MODENA – ASSOCIATO UNIVERSITÈ EUROPÈENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L BRUXELLES
NICOLETTA CIANI - SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE – PRIMO ANNO A.A. 2007 - 2008
INDICE
INTRODUZIONE ………………………………………………………… pag 4
1. EXCURSUS STORICO-ANTROPOLOGICO SUL FIGLICIDIO
1.1 Il figlicidio …………………………………………………………………… pag 8
1.2 Excursus antropologico ……………………………………………………… pag 8
1.3 Excursus mitologico………………………………………………………….. pag 11
1.4 Medea: ambivalenza di un mito……………………………………………… pag 12
1.5 Le fiabe……………………………………………………………………….. pag 13
1.6 La famiglia omicida…………………………………………………………... pag 15
1.7 Excursus storico-giuridico…………………………………………………..... pag 16
1.8 L’infanticidio nel Codice Penale attuale: l’art. 578…………………………... pag 19
2. DAL MALTRATTAMENTO AL FIGLICIDIO
2.1 Violenza intrafamiliare………………………………………………………. pag 22
2.2 Condotte figlicida……………………………………………………………. pag 23
2.3 Fattori di rischio del maltrattamento e abuso verso il minore……………….. pag 27
2.4 Tipologie situazionali e motivazionali del figlicidio………………………… pag 30
3. PATOLOGIA MENTALE E FIGLICIDIO
3.1 L’esperienza della maternità…………………………………………………. pag 32
3.2 Psicopatologie puerperali…………………………………………………….. pag 33
3.3 Patologie psichiatriche non legate al puerperio……………………………… pag 41
3.4 La negazione della gravidanza……………………………………………….. pag 48
4. OMICIDIO-SUICIDIO E FAMILICIDIO
4.1 Omicidio-suicidio…………………………………………………………….. pag 51
4.2 Il familicidio………………………………………………………………….. pag 57
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4.3 Reazioni del nucleo familiare al figlicidio…………………………………… pag 60
5. PROSPETTIVA GIURIDICA SULL’INFANTICIDIO E SUL
FIGLICIDIO
5.1 Il concetto di imputabilità: excursus storico………………………………….. pag 62
5.2 La capacità di intendere e di volere…………………………………………… pag 66
5.3 La pericolosità sociale……………………………………………………….... pag 71
5.4 La perizia psichiatrica nel procedimento penale……………………………… pag 74
5.5 Le misure di sicurezza………………………………………………………… pag 76
CONCLUSIONI …………………………………………………….. pag 79
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ………………………………... pag 82
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INTRODUZIONE
Secondo i dati Eures (2002) del rapporto sugli omicidi domestici in Italia (www.eures.it)1, nel
2000 la percentuale degli omicidi domestici è stata pari al 28,7% rispetto a quelli
complessivamente avvenuti. La ricerca rivela come in rapporto alla relazione autore-vittima i
fenomeni omicidiari maggiormente rappresentati siano quelli del marito che uccide la moglie
(violenza orizzontale) e quello dei genitori che uccidono i figli (violenza verticale) (Ciappi, 2002).
Alla luce dei dati empirici e della ricerca scientifica (Canepa, 1985; Ciappi, 2002; Bourget &
Labelle, 1992; Bramante, 2005; Merzagora Betsos, 2003), gli omicidi in famiglia sembrano
verificarsi con una frequenza particolarmente drammatica ed hanno ben poco a che vedere con la
spettacolarità mediatica. Infatti spesse volte succede che i mezzi di informazione enfatizzino
l’evento delittuoso solo al fine di richiamare l’attenzione del pubblico, tralasciando la
drammaticità delle dinamiche affettive che si nascondono dietro tali reati.
Tali reati sono la manifestazione ultima e finale del lato deviato e disturbato dei rapporti familiari
e dei legami di sangue (Bramante, 2005; Merzagora Betsos, 2003). Appare dunque doveroso
proporre letture e strumenti di analisi che vadano ad indagare più in profondità i meccanismi
sociali, i modelli relazionali e le strutture sistemiche che regolano e definiscono gli spazi ed i ruoli
all’interno del nucleo familiare (Malagoli Togliatti, 2002). In questo senso è importante
considerare il nucleo familiare come luogo principale in cui trovano origine le aspettative
individuali e sociali, interne ed esterne al nucleo, ed il sistema di valori che ne è alla base; laddove
il ruolo sociale dei singoli membri del nucleo entri in conflitto con le aspettative individuali dei
singoli, i meccanismi aggressivi che questo processo genera tendono a scaricarsi proprio sugli altri
membri della famiglia, considerati come i principali responsabili (diretti o indiretti) di questo
conflitto.
La violenza, all’interno della famiglia, comunque venga agìta, è qualcosa che trasgredisce
profondamente non solo i diritti umani e il codice penale ma anche la fiducia nei primissimi
rapporti affettivi che ciascuno di noi instaura. A questo proposito tra i delitti che si consumano tra
le mura domestiche, quello di infanticidio – figlicidio è un reato che risveglia reazioni sociali
spesso contraddittorie e difformi: da un lato l’uccisione di un figlio da parte dei genitori viene
considerata una grave trasgressione ad un ruolo e ad una regola di comportamento reputati naturali
e quasi biologici (Bramante, 2005; Merzagora Betsos, 2003, Nivoli, 2002); dall’altro la stessa
letteratura specialistica sul tema (Catanesi & Troccoli, 1994; Ponti & Gallina Fiorentini, 1981;
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Consult. 15/09/2007, ore 15.00.
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Selmini, 1987; Stanton & Simpson, 2000) sottolinea l’esistenza in ambito giuridico di un
atteggiamento di comprensione che porta a trattare l’infanticida con maggior indulgenza,
“giustificando” l’atto da essa compiuto, in base alle particolari condizioni psichiche in cui si
trovava al momento del parto.
In questi ultimi anni, la cronaca nera italiana ed internazionale è stata fortemente caratterizzata da
omicidi avvenuti in ambito intrafamiliare. I mass media si sono occupati con un interesse
ossessivo soltanto di alcuni di loro, quelli più “particolari”, o perché efferati o perché sadicamente
cruenti. Per mesi abbiamo sentito parlare del delitto di Cogne o del caso di “Maddie”, bambina
inglese sparita in Portogallo dove si trovava con i genitori per le vacanze pre-estive. Dalle
testimonianze raccolte, la bambina sarebbe sparita durante la notte dal suo letto mentre i genitori si
trovavano a cena in un ristorante vicino.
Con il passare del tempo si è sgretolato lo stereotipo che vedeva la prevalenza delle infanticide
come costituite da donne che attraversavano grosse difficoltà economiche, sociali, che hanno per
questo dovuto affrontare il parto da sole perché avevano tenuto celata la gravidanza (D’Orban,
1970; Greger, 1969; Hoffer & Hull, 1984).
Oggi i recenti studi criminologici sul tema (Bramante, 2005; Di Bello e Meringolo, 1997;
Merzagora Betsos, 2003; Palermo, 2002, Stanton & Simpson, 2007) evidenziano due spetti
significativi:
1. la presenza di situazioni e dinamiche più complesse di quanto non si segnalasse in
passato;
2. il maggior rilievo che vengono oggi ad assumere le componenti di carattere
psicopatologico.
Dal punto di vista delle dinamiche psicopatologiche si rileva che, con grande prevalenza, esse
attengono a tematiche depressive, senso di inadeguatezza, auto-svalutazione, perdita della (o non
acquisita) capacità di svolgere il ruolo materno, ruminazioni suicidiarie. Frequenti sono pure i
pregressi comportamenti anomali verso il bambino, spesso non desiderato, ed i convincimenti
pessimistici e ansiosi sul futuro fisico o mentale del figlio, talora accompagnati da idee ossessive e
coattive di poter nuocere ai figli. Sono abbastanza comuni tematiche negative nei confronti del
partner (gelosia, relazioni disturbate, intenti vendicativi nei suoi confronti privandolo del figlio
ecc.). Le tematiche di depressione sarebbero dunque le più presenti (Bourget & Grace, 2007;
Papapietro & Barbo, 2005) e il figlicidio si realizzerebbe per lo più nella forma dell’omicidio
allargato (Merzagora Betsos, 2003); in tale prospettiva la madre con intenzionalità suicida
vorrebbe portare con sé il figlio uccidendolo, posto che questi, in situazioni psichiche morbose o
disturbate, può essere percepito a livello profondo, con meccanismo simil-psicotico, non come
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individuo autonomo, ma come prolungamento e propaggine della propria persona, privo pertanto
di individualità (Bramante, 2005).
In letteratura (Bourget & Grace, 2007; Nivoli, 2002; Stanton & Simpson, 2007) non mancano casi
nei quali viene posto in essere da parte della madre un comportamento nel quale si evidenzia
indifferenza, disaffettività, insensibilità, prepotenza, ecc. Al di là delle forme depressive prevalenti
ma non esclusive, sono segnalate altre condizioni psicopatologiche caratteristiche quali: le psicosi
(specialmente le schizofrenie) a sfondo paranoideo, ove il figlio è percepito come un persecutore,
o come soggetto che deve essere protetto a tutti i costi da un mondo maligno, intrusivo, invadente;
i disturbi di personalità in cui vi è maggiore facilità al passaggio all’acting out (ad esempio i
disturbi borderline di personalità) (Bramante, 2005; Bourget & Grace, 2007; Di Bello &
Meringolo, 1997; Merzagora Betsos, 2003; Nivoli, 2002, Stanton & Simpson, 2007).
In base a questi dati si è ritenuto interessante esplorare e analizzare la realtà dell’Ospedale
Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, l’unico in Italia ad ospitare una sezione
femminile di madri omicide.
L’obiettivo dello studio esplorativo è di fornire informazioni circa l’epidemiologia, le
caratteristiche degli autori, delle vittime, del reato e dei diversi fattori che entrano in gioco nei casi
di infanticidio – figlicidio, cercando dunque di identificare gli individui maggiormente a rischio
per questo tipo di violenza.
La volontà di analizzare questi aspetti, nasce dall’interesse epistemologico ed empirico di porre
chiarezza sui processi di rischio alla base di un comportamento così distruttivo e problematico.
Molto spesso vi è in tema di figlicidi una equiparazione frettolosa di situazioni che possono essere
diversissime (Merzagora Betsos, 2003).
Infatti, oltre ai casi di Medea e di Munchausen per procura, si possono descrivere una serie di
tipologie situazionali e motivazionali del figlicidio materno, in un continuum che va dall’assenza
di patologia, via via verso la patologia più grave (Nivoli, 2002).
Lo scopo di questo studio è quello di cercare di colmare, almeno parzialmente, il gap conoscitivo
che caratterizza le dinamiche psicologiche, familiari, criminologiche e psicopatologiche alla base
del figlicidio, indagando inoltre le caratteristiche e le differenze individuali e comportamentali che
possono essere riscontrate precedentemente e conseguentemente al fatto reato.
Naturalmente, in ciascuno dei casi osservati intervengono un numero molto ampio di concause (di
natura psicologica, relazionale e sociale) che contribuiscono a delineare la complessità del
fenomeno, e non appare dunque scientificamente corretto considerare “sufficiente” o “esaustiva”
una singola chiave di lettura proposta per interpretare i singoli episodi.
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Si evidenzia un legame sottile e preciso tra le relazioni affettive intrafamiliari e patologia mentale
e nei casi estremi, tra quest’ultime e il reato.
Il reato fa venire allo scoperto le vere componenti del disagio familiare e sociale in cui la persona
si trova immersa (Papapietro & Barbo, 2005).
Ogni storia è un caso a sé, l’unico elemento comune è che si tratta di persone che soffrono e come
tali vanno accompagnate in un processo di presa di consapevolezza, di responsabilizzazione e di
cura.
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1. EXCURSUS STORICO-ANTROPOLOGICO SUL FIGLICIDIO
1.1 Il figlicidio
La tematica del figlicidio è conosciuta da tempo (Carloni & Nobili, 1975; Rascovsky, 1973) ed
essa ha assunto un rilievo via via sempre più importante, giustificato se non altro dalle evidenze
epidemiologiche: per far un esempio, una indagine ISTAT (2001) su tutti gli omicidi volontari nel
territorio nazionale commessi nel 1998 e riguardante un totale di 670 casi riportava 128 casi di
omicidi commessi in famiglia; tra questi, il 17% è rappresentato da casi di figlicidio. E’ molto
probabile che il dato sottostimi il fenomeno, non comprendendo, come rileva Nivoli (2002) “molti
decessi di bimbi catalogati come incidenti o disgrazie e che possono in realtà nascondere progetti
omicidiari di madri che hanno compiuto un omicidio per omissione con gravi carenze di cure e di
attenzione (bimbi che “soffocano nella culla”, che “cadono dalla finestra” ecc.). Sul tema del
figlicidio umano comunque ha gravato a lungo un processo di negazione collettiva che ne ha
impedito a lungo la presa di coscienza e l’analisi scientifica (Fornari, 1966); omissione non
casuale ma, come ha scritto il grande studioso di etnopsichiatria G. Devereux, “scotomizzazione
psicologicamente e culturalmente determinata” (Devereux, 1972, p. 65).
In ogni caso in questi ultimi tempi la cronaca nera italiana è stata fortemente interessata da delitti
gravi e violenti che hanno comportato la rottura di quel rapporto tra madre e figlio che è stato
sempre visto come il massimo dell’amore possibile (Nivoli, 2002). La famiglia, luogo di affetti
positivi e di legami che uniscono profondamente i suoi membri, gli uni agli altri, nella società
contemporanea, non sempre si presenta come luogo di sicurezza e amore, ma al contrario, talora,
può essere scenario di efferati delitti. L’amore materno riconosciuto come una necessità unica e
assoluta, matrice di crescita e di vita, diventa in alcuni casi dispensatore di morte e violenza. Tutto
questo suscita nell’opinione pubblica dissenso, eppure se ci fermiamo un attimo a riflettere ci
accorgiamo che il figlicidio e l’infanticidio rientrano in quei drammi che nella storia del genere
umano sono sempre stati presenti in ogni latitudine e luogo (Carloni & Nobili, 1975).
1.2 Excursus antropologico
Il figlicidio, il suo significato e la sua valenza culturale, si differenziano a partire dal punto di vista
caratteristico della diverse culture. A questo proposito Rascovsky (1973) sottolinea che “il
figlicidio è una caratteristica della specie umana che si ritrova in tutti i gruppi sociali ed in tutte le
culture primitive ed attuali e che si traduce in varie modalità di comportamento che vanno dal
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sacrificio vero e proprio dei bambini alle forme più raffinate ma non per questo meno violente di
oppressione dell’infanzia” (p. 8).
In Australia e Nuova Guinea il figlicidio è una pratica diffusa, in particolare Róheim (1973)
sottolinea come in Australia vengano riconosciute due forme di tecnofagia (tutt’ora in uso): presso
le tribù settentrionali quando si è affamati vengono scelti i bambini piccoli per poter essere
mangiati. Presso le tribù meridionali, invece, la regola seguita fa riferimento a motivi celebrativi
ed è quella di mangiare ogni secondo figlio per fare in modo che la forza del primogenito venga
raddoppiata. Viene poi sottolineata una differenza peculiare tra uomini e donne rispetto a queste
pratiche che prevedono l’uccisione dei figli: i primi, in quanto capi tribù agiscono in base a dei
principi e delle regole dettate dalla cultura di appartenenza, mentre le donne vengono più spesso
guidate nel loro comportamento da motivazioni più immediate quali possono essere le necessità
incombenti poste dalla fame.
Esistono anche luoghi significativi che ricordano alla tribù ed ai forestieri la presenza di queste
pratiche, “Kunnanpiri (escrementi di uccello) è uno spazio in cui si trovano molte ossa di bambini
mangiati dalle proprie madri perché magri e deperiti “ (Róheim, 1973, p. 81).
Il cannibalismo si manifesta nella cultura australiana anche attraverso un’altra usanza che consiste
nel fare abortire le donne della tribù per mangiarne il feto (Róheim, 1973). Naturalmente queste
pratiche sono diffuse anche in altre aree del mondo come per esempio in Perù dove “l’avidità di
carne umana è così forte che alcune tribù non si limitano a mangiare i nemici catturati durante le
battaglie ma divorano anche i propri figli generati con donne catturate in guerra. Addirittura la
madre viene mangiata quando non è più in grado di procreare” (Volhard, 1949, p. 404).
Dobbiamo però sottolineare come esistano diverse ragioni e diverse forme di cannibalismo
(Volhard, 1973):
• Profano, dove la carne umana non viene differenziata rispetto ad altri tipi di carne;
• Giuridico, dove vengono mangiate le persone che facevano parte della tribù
originariamente, ma avendo commesso un crimine sono state ripudiate e trattate alla stregue
di bestie;
• Magico, che deriva dalla credenza che mangiando carne umana si possano acquisire forze
magiche;
• Rituale, in cui viene mangiata carne umana in occasione di speciale importanza, spesse
volte connesse al culto degli dei. I bambini vengono qui mangiati dai genitori o dai loro
rappresentanti in cerimonia in base ad un dovere di obbedienza al rito. Questa forma di
cannibalismo viene vista come un atto di venerazione e amore avente lo scopo di conservare
dentro di sé l’anima della vittima sacrificata agli dei.
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Non bisogna comunque dimenticare come anche la storia delle popolazioni occidentali sia segnata
da atroci uccisioni dei propri figli che spesso venivano mangiati come per esempio in Russia nel
periodo post-rivoluzionario (Carloni, Nobili, 1975).
È importante sottolineare la continuità nel tempo storico e sociale di queste tragedie familiari,
nella società contemporanea esistono purtroppo esempi di figlicidio di estrema complessità e
gravità. Un esempio di recente cronaca, significativo in questo senso, è quello di Maddie, una
bambina inglese di 4 anni che risulta scomparsa in circostanze sospette il 3 maggio scorso, durante
una vacanza compiuta con la famiglia in Portogallo Nel diario personale della madre, la bimba
viene descritta come “iperattiva”, una bimba che “le consuma le forze”.
In questa tragica vicenda diverse versioni si incrociano: secondo i giornali portoghesi la piccola
Madeleine McCann è morta per “omicidio o negligenza” da parte dei suoi genitori accusati di
avergli somministrato una dose eccessiva di sedativi. Secondo i genitori Maddie è viva ed è stata
rapita. Ad oggi dopo 7 mesi di indagini la polizia ritiene responsabile della sua morte i genitori.
Infatti nella stanza dove Maddie dormiva e nell’auto, noleggiata dopo la scomparsa, ci sarebbero
tracce di sangue e dna compatibile con quello di Maddie. E cani addestrati avrebbero percepito
odore di morte in quella camera, sul pupazzo di Maddie (che Kate porta sempre con sé) e sulla
Bibbia della madre.
Dunque sulla base delle prove trovate dalla polizia, emergerebbe la descrizione di due genitori non
così amorevoli come tutti vorrebbero credere: Kate mette a letto i bambini prima di uscire a cena,
e per far dormire Maddie le dà un sedativo. Un sedativo? Interrogata, la madre ammette che sì,
ogni tanto lo faceva. Una testimone, una donna che, al resort, aveva la stanza accanto ai McCann,
racconta che la sera precedente alla sua scomparsa Maddie aveva pianto per 75 minuti, prima che i
genitori tornassero. Il 3 maggio, secondo l’accusa, qualcosa va storto. La dose del farmaco è
eccessiva, la piccola muore. I genitori, presi dal panico, avrebbero occultato il corpo, poi fatto
sparire.
Un altro caso che ha suscitato sgomento è avvenuto il 5 Dicembre in Germania, dove in due città
diverse due madri hanno ucciso i loro figli. I corpi senza vita di cinque bambini di età fra i 3 e i 9
anni sono stati trovati in una casa a nord di Berlino. Nel dare notizia, la polizia ha aggiunto che la
madre dei piccoli, sospettata di essere responsabile della loro morte violenta, è stata arrestata e
condotta in una clinica psichiatrica. Sempre in Germania la polizia ha trovato in Sassonia, i resti di
tre neonate che tutto lascia ritenere figlie di un insospettabile signora di 28 anni, che ha anche due
bambini di sette e un anno con il suo attuale compagno. La donna è in stato di fermo. Una delle
neonate morte è stata trovata in un congelatore, un’altra nascosta sul balcone dell’abitazione di
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parenti della donna. Queste terribili morti sottolineano la complessità dei rapporti familiari e la
continuità storica sociale di infanticidi e figlicidi.
1.3 Excursus mitologico
I miti sono intesi come sogni universali dell’umanità che ne esprimono i desideri ed i più segreti
conflitti inconsci (Hilmann, 2003). Per questo la presenza in molti di essi di condotte figlicide ci
porta a pensare che questo rappresenti un tabù di difficile elaborazione per l’umanità.
Il mito contiene in sé continue antitesi e opposizioni binarie che cerca in qualche modo di
sostenere e risolvere: donna – uomo, Senex – Puer, ecc.
Nel caso del mito di Edipo che qui vogliamo brevemente analizzare, l’antitesi presente è quella tra
amore e odio.
Questo mito contiene in sé l’ambivalenza dei sentimenti dei figli verso i genitori e parimenti dei
genitori verso i figli.
Il complesso di Edipo che si inspira a questo mito è stato concettualizzato da Freud (1905), il
quale afferma che nel figlio prevale il desiderio di morte del rivale rappresentato dal genitore dello
stesso sesso, e desiderio sessuale nei confronti del genitore di sesso opposto.
Edipo rappresenta colui che infrange il tabù relativo al divieto di uccidere il Totem (cioè il capo, il
padre).
Questa chiave di lettura però non considera la presenza radicata e universale dei sentimenti
aggressivi dei genitori nei confronti dei figli.
Viene volutamente negata questa tendenza, ma se ci soffermiamo ad analizzare ciò che viene
narrato nel mito allora possiamo prendere atto del fatto che fu Laio (padre di Edipo) che ordinò di
abbandonarlo sul monte Citerone, appeso ad un albero per i piedi. Fu solo l’intervento fortuito di
un pastore che lo salvò da una morte certa.
Dunque sulla base di questa rianalisi del mito di Edipo, possiamo considerare la tendenza e
l’impulso figlicida come primario. A dimostrazione di quanto osservato ci sono miti di diverse
culture che ne affermano il carattere primario: Urano aveva un profondo orrore dei figli e, appena
Gea glieli partoriva, li imprigionava nelle viscere della terra.
A questo proposito inoltre “il circolo omicida” si ripete dato che uno dei figli di Urano, Crono,
con l’aiuto della madre castrerà il padre e ne diventerà il successore. La profezia che la medesima
sorte toccherà a lui per mano dei suoi figli induce Crono a mangiare i suoi figli per salvarsi dalla
morte (Nivoli, 2002).
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Il tema dell’assassinio del figlio ricorre anche nella religione: Dio ordina ad Abramo di uccidere il
figlio Isacco, Erode fa strage degli innocenti al di sotto dei due anni e costringe Gesù alla fuga in
Egitto.
Come possiamo poi dimenticare le parole dello stesso Gesù, poco prima di morire sulla croce,
rivolte a Dio come estremo atto di dolore e di accusa: “Padre, padre, perché mi abbandoni?”
(Matteo 27, 11 – 54).
Una modalità attraverso cui sostituire e compiere simbolicamente l’uccisione del figlio è quella
dei riti iniziatici che segnano il passaggio dall’infanzia alla raggiunta maturità, permettendo
l’entrata ufficiale della persona nell’organizzazione sociale.
Il rito costituisce in questo caso una sorta di patto tra le persone più anziane del gruppo di
appartenenza e la nuova generazione. Attraverso lo svolgersi del rituale il giovane accetta
l’autorità degli adulti, a patto che la ricompensa sia l’integrazione sociale e la dichiarazione di
adultità dello stesso.
In conclusione possiamo affermare che i riti rappresentano un meccanismo importante in grado di
catalizzare l’aggressività dei genitori.
1.4 Medea: ambivalenza di un mito
La storia di Medea ha affascinato da sempre scrittori ed artisti tanto che la lista dei rifacimenti
delle scritture sarebbe lunghissima. Per analizzarla dobbiamo evidenziare la presenza centrale
nella storia e nei miti dell’archetipo della Grande Madre, creatrice universale (Jung, 1985).
La maternità, rappresenta infatti un’esperienza primaria che getta le basi di ogni futura esistenza
fisica e psichica. Inoltre l’archetipo costituisce il fondamento del “Complesso materno” che nella
più antica tradizione legata alla psicopatologia riconosce la madre come parte attiva
dell’insorgenza di problemi e disturbi nel figlio.
Secondo la psicanalista Jean S. Balen (1991) nella donna sono presenti più dee ed il fatto di
esserne consapevoli fornisce la chiave per la comprensione di sé. A questo proposito la storia
tragica di Medea, che è una delle più cupe dell’universo del mondo antico, ci mostra come qui
l’archetipo della Grande Madre trovi nella sua figura la massima espressione negativa.
Medea viene vista come figura dell’alterità (donna, sapiente e straniera).
Medea è, in questo testo, esemplare, sorprendente soprattutto per il nostro tempo segnato
profondamente da uno dei temi fondanti di questo mito: il problema dell’alterità. Problema che
porta con sé il tentativo di tenere a distanza gli altri, visti come erranti nella comprensione della
nostra persona. Tutto questo porta spesso conflittualità tra sé e gli altri e spesso culmina in
tragedia; ricorre quindi anche il secondo tema portante del mito: l’uccisione dei figli. “È fatale che
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muoiano, e se debbono morire sarò io che darò loro la morte, io stessa, che li ho partoriti!”
(Euripide) Il mito narra: Medea, maga, figlia del re delle Colchide, si innamora del greco Giasone
che è giunto nel suo lontano paese per impossessarsi del Vello d’oro. Per Giasone Medea tradisce
il padre, uccide il fratello, abbandona la patria ma l’atto che la distingue per la sua selvaggia
tragicità è l’uccisione dei figlio attraverso cui essa si vendica dell’abbandono di Giasone. Il tragico
infanticidio costituisce per lei un punto di non ritorno.
Dunque Medea porta con sé una profonda ambivalenza: è colei che dona la vita ma che possiede
in sé anche lati oscuri. È una madre generatrice che può allo stesso tempo divorare ed usare il
proprio amore come strumento di potere e di dominio. Ecco che il dramma che ci evidenza questo
mito colpisce tanto profondamente e spinge ancora una volta a negare. Come? Un esempio è
quello della scrittrice tedesca Wolf (1996) che ci offre nella sua riscrittura del mito una Medea non
violenta, assunta come capro espiatorio dai Corinzi che la ritengono responsabile della peste che
ha colpito la città e per ritorsione lapidano i suoi figli. Aldilà delle possibili diverse interpretazioni
il complesso di Medea, nato da questo mito greco, sta a delineare quel quadro sindromico nel
quale il genitore di sesso femminile, posto in situazioni di stress emotivo e/o conflittuale con il
partner, utilizza il proprio figlio per scaricare la propria aggressività e frustrazione, arrivando
anche ad azione omicidiaria del piccolo, strumento di potere e di rivalsa sul coniuge (Resnick,
1969).
1.5 Le fiabe
Il simbolo è spesso di difficile immediata comprensione, ma indica con la sua presenza una
essenza da decifrare. È dunque una barriera alla veloce percezione del senso, ma insieme legame
misterioso, unico linguaggio veramente universale che accomuna esseri umani di età e geografie
diverse.
Una delle zone privilegiata per l’emergere del simbolo è dunque certamente la fiaba. Quest’ultima
in un certo senso spiega la relazione esprimendo i fantasmi soggiacenti del rapporto adulto –
bambino.
Se pensiamo per un attimo alle relazioni ed ai rapporti dei personaggi che vengono narrati nella
fiaba ci accorgiamo che la famiglia è spesso caratterizzata da una certa instabilità: nonni al posto
dei genitori, tanti orfani, padri vedovi ed inconsolabili, sorelle e fratelli anche in un numero
spropositato, madrine, tutori. Ciò che colpisce di più è che quasi sempre sono presenti all’interno
della famiglia le matrigne, tante! Specie se paragonate alle poche (e scialbe) madri che restano
nell’ombra o addirittura non ci sono fin dall’inizio del racconto. Spesso la loro assenza è proprio
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l’evento che darà origine ad una concatenazione causale di altre situazioni che saranno vissute dai
poveri orfani o bimbi abbandonati nel corso della storia.
La presenza “assidua” delle matrigne all’interno di molte fiabe, può farci riflettere
sull’ambivalenza che caratterizza il rapporto madre-bambino.
Un rapporto caratterizzato da sentimenti di amore, ma anche da odio e aggressività che sono
dunque rappresentati attraverso la figura “poco rassicurante” della matrigna. È fondamentale
sottolineare come anche l’aggressività sia un importante componente dell’amore materno (Brustia,
1996).
In fondo, Hansel e Gretel o lo stesso Pollicino avevano una mamma che non aveva esitato a
esporre i loro bimbi alle fiere del bosco, senza togliersi certo il “pane di bocca”, come vorrebbe la
tradizione (Grimm, 1814). E anche la mamma di Cappuccetto Rosso lasciava andare sua figlia in
un bosco in cui si potevano incontrare lupi cattivi! E quante streghe, maghe, orchesse, suocere o
sorellastre, stanno lì a segnalare archetipi di una madre cattiva dispotica e invidiosa.
Come la mamma di Biancaneve la cui esistenza è ricordata solo in riferimento all’evento
simbolico che sarà all’origine del nome della fanciulla. Ella si punge un dito cucendo alla finestra
vedendo il sangue cadere sul davanzale di legno, coperto di neve, pronuncia questa frase:
“Se potessi avere una bambina dai capelli neri come l’ebano, dalle labbra rosse come il sangue e
dalla pelle bianca come neve!”, da qui il nome Biancaneve e l’aspetto caratteristico della
protagonista che ha appunto folti capelli neri e labbra di un rosso intenso (Grimm, 1814).
All’origine di questa assenza delle madri nella fiabe pare corrispondere un tabù per cui non è
accettabile che la mamma possa essere “cattiva”, dunque la sua parte oscura viene esorcizzata
dalla creazione di un suo alter-ego: la matrigna. Questa assolve il ruolo femminile nella famiglia
immaginaria ed archetipica ed al tempo stesso si carica delle valenza crudeli senza per questo
mettere in discussione la totale bontà che alla figura materna si deve e si vuole attribuire
(Bettelheim, 1976).
Così, mentre l’autorità spetta comunque al padre (o alla figura maschile in genere), se presente,
che quindi è assolto da accuse di severità, crudeltà, freddezza, proprio perché sono attributi che gli
competono in quanto giudice e sovrano, la creazione della matrigna risolve il conflitto esistente tra
ventre che genera (dunque buono) e comportamenti malvagi.
Tutta questa strutturazione ed articolazione della fiaba in termini così complessi, volti a “tutelare”
la madre buona, fa pensare che la crudeltà delle madri dev’esserci sempre stata (Carloni & Nobili,
1975). Anche in questa elaborazione dell’inconscio collettivo, come sembra essere la fiaba, la
censura ha prevalso. La forza del simbolo però riporta in superficie quanto negato.
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Quanto finora sostenuto come si declina nell’ambito del reale? Come si manifesta la criminalità
femminile e come viene affrontata dal punto di vista giuridico?
1.6 La famiglia omicida
La famiglia omicida può essere definita come quella in cui la degenerazione della violenza e i
conseguenti delitti sono maturati all’interno della cerchia più prossima degli affetti. L’omicidio
che avviene tra le mura domestiche rappresenta un fenomeno che seppur limitato, presenta un
forte interesse dettato dalle sue particolari caratteristiche.
Le statistiche rivelano come i casi di omicidio avvenuti in Italia contano 213 vittime, conseguenti
a 191 eventi omicidiari compiuti da 231 autori.
Per quanto riguarda la distribuzione sul territorio, tra le regioni del Nord il numero più alto degli
omicidi in famiglia si trova in Lombardia (27), in Veneto (16), in Piemonte (11) e in EmiliaRomagna (10). Tra le regioni del Sud il primato spetta alla Sicilia e alla Campania (30).
La ricerca rivela come in rapporto alla relazione autore-vittima i fenomeni omicidiari
maggiormente rappresentati siano quelli del marito che uccide la moglie (coniuge 27,7%), dove il
motivo passionale è di solito la spinta che porta all’esito estremo.
Un altro nodo cruciale del conflitto è riferito alla relazione genitori-figli. In generale sono più
spesso i genitori ad essere vittime dei propri figli (15%), anche se l’alternativa inversa non
presenta una percentuale così alta di scostamento (12,7%).
L’omicidio in famiglia risultava la tipologia omicidiaria maggiormente presente nel panorama
omicidiario italiano fino al 2003, mentre nell’ultimo degli anni considerati è stato scalzato dagli
omicidi maturati nell’ambito della criminalità organizzata (Eures, 2005).
In riferimento a questi delitti consumati in famiglia, si può osservare come la donna risulta essere
in questi fattispecie di delitti più rappresentata sia come autrice sia come vittima.
Tendenzialmente, in merito alla criminalità femminile, se è vero che essa presenta un andamento
discendente, è pur vero che le percentuali di donne coinvolte aumentano nei reati che hanno come
teatro la famiglia.
I risultati delle ricerche (Eures, 2000, 2002, 2003 e 2004) indicano dunque che lo studio
dell’omicidio deve oggi maggiormente concentrarsi sulle cosiddette patologie della normalità e
soprattutto, sulle reazioni individuali al disagio, allo stress e alla frustrazione, in una dimensione
sociale caratterizzata dall’indebolimento e dalla perdita di ruolo di alcuni tradizionali attori della
“mediazione sociale” (la famiglia e le Istituzioni, ma anche i sindacati e le altre organizzazioni
rappresentative).
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Le possibilità di prevenzione, in questo contesto, sembrano infatti decisamente ridursi, in assenza
di modelli interpretativi e strategie di attenzione capaci di cogliere le nuove cause degli omicidi.
Viene evidenziato come l’omicidio domestico sia spesse volte un fenomeno che prende corpo
dall’aggressività che nasce dalle ripetute difficoltà e richieste che provengono dall’ambiente a cui
spesso è difficile far fronte. Proprio la famiglia risulta essere il canale di sfogo di questa
aggressività, eppure i valori morali, sociali riconosciuti come primari nella nostra società
sottolineano l’importanza fondamentale di tutelare i diritti umani con particolare riferimento anche
agli individui di minore età.
Il reato di infanticidio è l’espressione massima della mancanza di tutela del minore. Lo sgomento
suscitato da questo tipo di delitto si è espresso nel corso del tempo anche dal punto di vista
legislativo dove la risposta penale ha visto alternarsi diverse interpretazioni relative alla punizione
da infliggere a chi cagionava la morte di un bimbo indifeso.
1.7 Excursus storico-giuridico
Nell’antichità (e tutt’oggi) possiamo osservare come la famiglia e il controllo sociale che si aveva
su di essa fosse molto importante.
La famiglia nella società romana era il nucleo originario e fondante. Essa era l’insieme dei beni
(degli schiavi se presenti) e delle persone soggette alla patria potestas del Pater Familias (Nivoli,
2002).
Nell’antica Roma sposarsi e generare una discendenza erano, allo stesso tempo, un obbligo ed una
necessità sociale. Tutto si compiva all’interno della famiglia: la procreazione, l’istruzione dei figli,
le cerimonie religiose, le attività economiche. Di conseguenza la struttura della famiglia si
rifletteva nella struttura della società.
Il marito, uomo, aveva tutti i poteri, la potestas sui beni e le persone che facevano parte della
famiglia. Soltanto lui poteva comprare e vendere, lui si occupava in prima persona
dell’educazione dei figli, lui compiva i sacrifici e dirigeva le cerimonie religiose in onore delle
divinità del focolare. I figli, maschi e femmine, erano del tutto sottomessi al padre.
Per questo motivo al momento della loro nascita il bimbo/a veniva deposto in terra ai piedi del
padre che se decideva di accettarlo nella propria famiglia lo prendeva in braccio in segno di
accoglienza. Se invece il piccolo sfortunato non veniva accolto veniva ordinato all’ostetrica di
tagliare il cordone ombelicale più del dovuto in modo da causarne la morte per emorragia
(Merzagora Betsos, 2003; Nivoli, 2002).
Hoffer e Hull (1994) sottolineano come in Inghilterra tra il ‘500 ed il ‘600 l’infanticidio fosse
praticato soprattutto dalle schiave che spesso portavano in grembo un figlio il cui padre era il loro
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padrone. La scelta di uccidere il bimbo veniva vista come necessaria innanzi tutto per la necessità
da parte della madre di conservare il proprio lavoro, spesso unica fonte di sostentamento e, in
secondo luogo, di “tutelare” il bambino che avrebbe avuto delle pesanti conseguenze sulla propria
vita.
Per questo motivo il sentimento comune nei confronti di queste donne era quello di un affetto
simpatetico, un mixage di pietà ed accondiscendenza.
Il reato di infanticidio non veniva dunque punito proprio perché si pensava che queste donne in
quanto schiave fossero già state vittimizzate e punirle ancora avrebbe comportato una
vittimizzazione secondaria (Antolisei, 2003). Numerosi erano i modi per “giustificare” l’uccisione
del bambino, in primo luogo si credeva (un po’ troppo ciecamente) quanto veniva sostenuto dalla
donna infanticida che affermava che il bimbo fosse già nato morto. In secondo luogo il pensare
alla pericolosità per la madre di un eventuale aborto, faceva pensare che fosse più semplice e
meno pericoloso far nascere il bambino e solo in seguito ucciderlo. In ultimo pensare alle
numerose difficoltà che questo bambino avrebbe incontrato nella vita, proprio perché “bastardo” e
dunque reietto della società spingeva le madri a compiere questo assurdo gesto.
Se dunque molte volte questo tipo di reato è stato non visto per proteggere il buon nome di alcune
famiglie, in altri casi la pratica dell’infanticidio è stata “incoraggiata” da una scelta politica dettata
dal bisogno di ridurre le nascite. Tale tipo di politica è stata ad esempio introdotta in Cina negli
anni ’70 con la denominazione di “Politica del figlio unico” (Nivoli, 2002). Questa legge che
sembrava finalmente aver risolto i problemi della sovrappopolazione ebbe e ha conseguenze
devastanti.
Per motivi culturali legati alla tradizione, le famiglie non potevano tollerare di essere private della
discendenza maschile in caso di nascita di figlie femmine, da qui il ricorso sistematico
all’infanticidio oppure l’abbandono del secondogenito. Possiamo affermare che spesse volte
l’infanticidio veniva incoraggiato da regole istituzionali volte a tutelare unicamente i grandi
interessi societari senza porre attenzione alle singole persone. In riferimento a quest’ultimo
aspetto, dobbiamo comunque pensare che nell’ambito del Codice Penale il trattamento degli autori
di questo reato ha previsto pene anche molto severe.
In particolare un ruolo rilevante lo ha giocato la cultura cattolica che con i suoi precetti ha
influenzato le opinioni riferite a questo gesto criminoso. Proprio nel Medioevo si giunge ad una
repressione spietata: la pena capitale costituisce la regola in tutta l’Europa (Selmini, 1987).
Nel corso dell’Ottocento il focus dell’attenzione verte non più sul bambino indifeso, ma sulla
madre. In particolare si osserva come l’illegittima maternità della donna viene in qualche modo
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scusata attenuando la pena. Cosa succede invece alla madre legittima? Non viene affatto tutelata e
la pena di morte continua ad essere ciò che la attende.
La complessità che racchiude in se questo atto delittuoso persiste nel tempo e si ripercuote a
livello di elaborazione legislativa. Analizzando, l’ordinamento italiano, i vari sistemi legislativi
pre-unitari (Ambrosetti, 1992), si nota una varietà di definizione di infanticidio: ad esempio, il
codice toscano (art. 316), il codice estense (artt. 351-352) e il regolamento gregoriano (artt. 276280) lo ravvisavano nell’uccisione del neonato illegittimo per opera della madre, mentre nel
codice parmense e sardo, veniva definito più specificamente come l’uccisione del fanciullo “di
recente nato”. Il codice delle Due Sicilie, del 1819, stabilì che si doveva considerare “infanticidio”
l’omicidio posto in essere a danno di un fanciullo di recente nato e non ancora battezzato o iscritto
nei registri dello stato civile (art. 349). La pena prevista per tale condotta era quella di morte, ma
successivamente l’art. 387 prevedeva una specifica circostanza attenuante, ovvero “quando il fatto
fosse diretto ad occultare per ragione d’onore una prole illegittima”.
Di diversa complessità era il codice toscano del 1853, che faceva un distinguo tra prole legittima e
prole illegittima, nonché a seconda che la decisione di uccidere fosse stata posta in essere dalla
madre prima o dopo l’incalzare dei dolori del parto, prevedendo comunque un’attenuazione della
pena se l’infanticidio fosse stato commesso per evitare “sovrastanti sevizie”, e un’ulteriore
attenuante, nell’ipotesi che il neonato fosse nato vivo, ma non vitale.
Tutti i codici pre-unitari accolsero il principio di punire con relativa mitezza l’infanticidio, se
commesso per causa d’onore: il codice sardo del 1839, che tra l’altro equiparava l’infanticidio
all’omicidio comune, prevedeva delle circostanze attenuanti in favore della madre che avesse
soppresso il figlio illegittimamente concepito (art. 579).
Successivamente nel primo codice unitario del Regno d’Italia l’art.369 del codice Zanardelli
stabilisce che quando l’omicidio volontario è commesso su un infante che non è ancora stato
iscritto nel registro dello stato civile e nei primi cinque giorni dalla nascita, per salvare l’onore
proprio o della moglie, della madre, della discendente, della sorella, la pena è della detenzione da
tre a dodici anni (Ambrosetti, 1992).
In questo codice l’infanticidio non è considerato una figura autonoma di reato, ma è visto come
una forma attenuata di omicidio.
È a partire dal Codice Penale Rocco del 1930 che l’infanticidio viene considerato un titolo
speciale di reato. Questo, cambia tutto, perché se uccidere un neonato è “giustificato” dalla difesa
dell’onore, il bambino (soggetto passivo) non deve più essere necessariamente il figlio, perché il
soggetto attivo non è più la madre soltanto. Può essere chiunque, purché agisca per salvare l’onore
proprio, o della madre o naturalmente anche dell’uomo, padre, fratello o marito della donna.
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La concezione dell’onore prevalsa nel 1930 decade nel 1981 con l’art.578 c.p.
1.8 L’infanticidio nel Codice Penale attuale: l’art. 578
Il reato di infanticidio costituisce uno dei classici delitti intrafamiliari e uno dei tipici omicidi al
femminile.
Nella formulazione del nostro giudizio troppe volte capita di essere influenzati da scarse
conoscenze e soprattutto da un abbagliante cronaca giornalistica che punta a spettacolorizzare la
tragicità di questi eventi.
Tante volte nel linguaggio giornalistico, sentiamo parlare di infanticidio perché le vittime sono
appunto bambini piccoli. In realtà è importante sottolineare come la criminologia a tale riguardo
ponga una distinzione importante (Merzagora Betsos, 2003):
- neonaticidio, cioè l’uccisione di un figlio, generalmente non voluto, che si verifica
nell’immediatezza del parto;
- infanticidio, ovvero l’uccisione di un bambino entro il primo anno di vita;
- figlicidio, ovvero l’uccisione del figlio dal compimento dell’anno in poi.
Il termine infanticidio deriva dal latino infantis – cidium o caedium e significa l’uccisione di colui
che non ha ancora l’uso della parola, di colui che non può ancora parlare. Il termine indica, quindi,
l’uccisione del feto, vivo e vitale, durante il parto o immediatamente dopo il parto. (Costanzo,
2003).
La definizione di infanticidio oggi in uso nel nostro codice penale si rifà all’art. 578 e recita: “la
madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante
il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al
parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni. A coloro che concorrono nel fatto di cui
al primo comma si applica la reclusione non inferiore agli anni ventuno. Tuttavia se essi hanno
agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi.”
(Ambrosetti, 1992). La struttura oggettiva di tale reato presenta una certa complessità, che può dar
luogo a problemi interpretativo applicativi.
Se guardiamo a quello che è il nucleo essenziale della fattispecie, incentrato sul “cagionare la
morte”, ci troviamo di fronte ad una condotta a schema libero, come tale realizzabile in forma
attiva od omissiva: come esempio di condotta omissiva, si consideri quello della madre che lasci
morire il proprio neonato, omettendo di nutrirlo o abbandonandolo in un luogo freddo o simili
(Fiandaca & Musco, 2007).
Possiamo osservare come questo articolo preveda un timing, una collocazione temporale molto
precisa (durante o immediatamente dopo il parto). Vi è, inoltre, una caratterizzazione restrittiva
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che prevede che l’atto sia stato commesso in precise condizioni di abbandono morale e materiale.
Nello stabilire quando sussistano dette condizioni, che secondo il legislatore devono verificarsi
congiuntamente e contemporaneamente al parto (ossia, all’abbandono materiale deve
accompagnarsi un abbandono morale), è rinvenibile in dottrina e in giurisprudenza un’oscillazione
tra due approcci ermeneutici differenti: uno di tipo oggettivizzante, che tende cioè a riconnettere la
situazione di abbandono a dati oggettivi; l’altro di tipo soggettivizzante, che inclina a privilegiare i
riflessi psicologici delle situazioni di oggettiva difficoltà (e che sono riconducibili, ad esempio, a
una situazione economica gravemente deficitaria, all’assenza di assistenza, a una profonda carenza
affettiva, a una situazione di abbandono, miseria, mancanza di aiuto e di solidarietà, clandestinità e
solitudine nel cui contesto il parto si è realizzato) (Ponti & Gallina Fiorentini, 1988).
L’art. 578/81 c.p. configura dunque il reato di infanticidio come una figura giuridica speciale, che
considera la colpevolezza della madre in misura attenuata rispetto all’omicidio, dove l’articolo che
lo regola, art.575 c.p., prevede che: “chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la
reclusione non inferiore ad anni ventuno.”
Nell’art.578 c.p. la pena si presenta quindi come limitata. All’opposto, il figlicidio è invece
considerato un aggravante dell’omicidio.
In linea di massima possiamo ipotizzare che i limiti e le caratterizzazioni previste da tale articolo
si ritrovino nelle situazioni di grave degrado, miseria ed emarginazione tipica di tutte quelle
persone che per una varietà di ragioni non godono di pari opportunità.
Ciò che si ritiene importante sottolineare è che con cautela, piccoli cambiamenti stanno
avvenendo. In particolare Ambrosetti (1992) ci mostra come lo schema di delega legislativa per
l’emanazione di un nuovo Codice Penale, contenga un breve riferimento al reato di infanticidio.
Nell’ambito dei reati contro la vita e l’incolumità individuale viene previsto il delitto di
infanticidio “in condizioni di isolamento psicologico ovvero di abbandono materiale e morale”
(Ambrosetti, 1992, p.132). Dunque con questa formula di reato si è scelto di dare rilievo anche a
quelle condizioni di disagio psicologico che sono in parte indipendenti da condizionamenti esterni.
A questo proposito, bisognerebbe pensare che il bisogno di aiuto e sostegno che caratterizza
l’esperienza del parto o della maternità non identifica, evidentemente, una condizione di inferiorità
della donna.
Eppure in questa nostra contemporaneità, si pensa alla donna come una persona totalmente
indipendente e capace di affrontare ogni situazione senza bisogno di aiuto. La donna appare oggi
ai nostri occhi moglie, madre, casalinga, manager, sportiva, capace in un solo momento di tenere
in mano la sua vita con velocità e fermezza (Merzagora Betsos, 2003).
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Ciò che sembra opportuno affermare è che forse, le lotte continue di tutte quelle donne che hanno
voluto esprimere la propria libera capacità di auto-determinazione, hanno fornito un ulteriore
giustificazione all’assenza maschile di fronte alle difficoltà. Certo, non si vuole qui sostenere che
la maggiore libertà della donna ha casualmente portato all’isolamento della stessa, ma sicuramente
l’idealtipo femminile descritto precedentemente, ci porta a non comprendere o accettare le
difficoltà che porta con se una maternità (Romito,1992).
Questo bisogno di sostegno è non percepito nella “normale” vita di una donna incinta o almeno in
tutte quelle situazioni che non sono, come prevede la legge, segnate dall’abbandono e dal degrado
(Di Bello, Meringolo, 1997).Volgendo lo sguardo verso le possibili condizioni di estrema
solitudine interiore e riconoscendo la necessità di sostenerle, potremmo forse cercare di rendere
meno “abbandonica” la maternità.
Nella solitudine una madre non riesce a credere nella forza della vita che ha creato, mentre è forse
con la consapevolezza di non essere sola che si riuscirebbe ad instaurare un legame d’amore saldo
e duraturo con i propri figli.
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2. DAL MALTRATTAMENTO AL FIGLICIDIO
2.1 Violenza intrafamiliare
Se si considera la famiglia come un sistema aperto in interazione con altri sistemi (Ford & Lerner,
1995), comprendiamo l’importanza di osservare i rapporti interfamiliari in relazione dialettica con
l’insieme dei rapporti sociali. Essa può essere vista come un sistema in continua trasformazione
che si adatta alle peculiari esigenze dei diversi stadi di sviluppo che attraversa, allo scopo così di
assicurare una crescita continua ed adeguata ai membri che la compongono (Malagoli Togliatti,
2002).
Può anche succedere però che il sistema familiare non funzioni in modo adeguato e il sostegno che
si sarebbe dovuto fornire per far sviluppare in modo “sano” l’intero nucleo familiare (soprattutto i
figli in quanto maggiormente bisognosi di cure), non si dimostra così forte. In tali situazioni la
violenza familiare può emergere ed essere il segno di una patologia che investe il funzionamento
globale della famiglia (Di Blasio, 1988).
L’obiettivo che si dovrebbe perseguire è proprio quello di modificare i pattern disfunzionali su cui
la violenza intrafamiliare si radica per mettere ogni famiglia nelle condizioni di recuperare le
risorse essenziali e necessarie ad un allevamento adattivo, salutare, responsabilizzante dei figli. La
violenza familiare continua, spesso, a essere investita dallo stereotipo che la vorrebbe vedere come
un evento connesso unicamente ad ambienti socialmente e culturalmente deprivanti o comunque
di grave disagio.
Molte volte è prevalsa la convinzione che il maltrattamento in famiglia fosse un problema di
carattere privato (Marchetti & d’Aloja, 1998).
Con il tempo la violenza privata è stata “legalizzata” dal punto di vista giuridico, così che le forme
di maltrattamento più vili sono state regolate da norme e per questo rese “giustificabili”. Nel
Diritto Romano, per esempio, si era stabilito il privilegio del capo famiglia che aveva all’interno
della casa il potere assoluto di esercitare forme di violenza anche gravi contro la moglie, i figli e
gli schiavi (Mancini, 1963).
Lo statuto di Lucca del 1563 affermava che chiunque poteva ”frustrare, percuotere, ledere e
castigare impunemente mogli, figli e domestici, purché non provocasse la morte o lesioni
personali gravi” (Marchetti & d’Aloja, 1998).
Oggi invece il vigente Codice Penale prevede all’art.572 che “chiunque […] maltratta una persona
della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a
lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di
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una professione o di un arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva
una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione
gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a
venti anni”.
Nonostante la legge preveda pene severe, dai dati ufficiali ISTAT (2001) relativi alle denunce
all’autorità giudiziaria possiamo notare come le forme di abuso intrafamiliare nei confronti dei
minori siano numerose.
Vengono riportati 3.804 casi di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.),
3.550 casi di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), 103 denunce per abuso mezzi di correzione
e disciplina (art. 571 c.p.).
A livello internazionale i dati non si presentano come più confortanti infatti l’UNICEF nel 2003
ha pubblicato uno studio relativo ai casi di morte infantile in seguito a maltrattamenti in famiglia
nei paesi industrializzati (Jenny e Isaac, 2006). Lo studio stabilisce che 3500 bambini sotto i
quindici anni di età muoiono in seguito ad abusi e maltrattamenti in almeno ventisette paesi
industrializzati, primo fra tutti gli USA.
Dunque l’incapacità del genitore di tutelare i propri figli nella salute, nella sicurezza, nell’amore e
nell’affetto rappresenta una forma di abuso a cui sono soggetti purtroppo un gran numero di
bambini (Cicchetti et al Gulotta & Cutica, 2002; Merzagora Betsos, 2003).
A fronte di questi dati conoscere quali condizioni (di vita) predispongono al maltrattamento e
all’abuso aiuta ad identificare le famiglie a rischio.
2.2 Condotte figlicida
Queste condotte comprendono tutte quelle azioni e quegli atteggiamenti distruttivi che
comportano nella persona vittima condizioni di disagio anche molto grave e duraturo. La violenza
sui minori è quella più facilmente attuabile, sia per le differenze nella forza fisica, sia per il potere
psicologico che può avere un adulto nei confronti di un minore, soprattutto se genitore (Cirillo e
Di Blasio, 1989).
In queste condotte abusanti con significato figlicida vi rientrano:
• Maltrattamenti fisici: comprendono tutta una serie di azioni dannose dirette contro il bambino. A
questo proposito Kempe (1962) fu il primo a proporre il termine di “battered child syndrome” per
descrivere una condizione clinica caratteristica di bambini che soffrivano di ferite non accidentali.
Tra le lesioni più comuni troviamo: contusioni, bruciature, ferite alla testa, fratture, ferite
addominali o avvelenamento (Cirillo & Di Blasio, 1989; Kempe, 1962).
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Un particolare tipo di maltrattamento fisico con forte ripercussioni dal punto di vista psicologico è
la Sindrome di Muchausen per procura (Lasher 2003; Nivoli, 2002; Merzagora Betsos, 2003;
Perusia, 2007).
Possiamo affermare che questo tipo di abuso avvenga per troppa “sollecitudine” dei genitori che si
prendono cura del bimbo, infatti quest’ultimi inventano e/o in situazioni peggiori procurano tutta
una serie di segni e sintomi che i propri figli non hanno o comunque non avevano prima del loro
intervento. Per identificare in modo più preciso questa sindrome il DSM-IV-TR ha introdotto la
categoria diagnostica “Disturbo Fittizio per procura” che è stato così descritto:”La caratteristica
essenziale è la produzione deliberata o simulazione di segni o sintomi fisici o psichici in un’altra
persona che è affidata alle cure del caregiver. Tipicamente la vittima è un bambino piccolo, e il
responsabile è la madre del bambino. La motivazione di tale comportamento viene ritenuta essere
il bisogno psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di malato” (DSM-IV-TR, 2001,
p.828).
In letteratura viene sottolineato come il comportamento materno volto alla produzione di sintomi
nel figlio, abbia l’obiettivo di ottenere l’attenzione per il proprio figlio dello staff medico, la
madre sembra essere gratificata dalle performance mediche che la vittima subisce (Zara cit. in
Perusia, 2007).
In riferimento a questo particolare disturbo risulta fondamentale prendere in considerazione non
solo la relazione duale che lega madre e figlio, ma anche l’intero contesto esistenziale in cui si
inserisce questo comportamento. Zara (2007) evidenzia i fattori di rischio riconosciuti come più
frequenti nei casi abuso Munchausen (Perusia, 2007):
- una storia infantile di insicurezza affettiva, con vissuti di rifiuto da parte dei genitori, di
esclusione e abuso e forme di disturbo nello sviluppo;
- una costante presenza di stress esistenziali;
- un sottostante disturbo di personalità;
- una diagnosi di MS nella madre;
- un risentimento nei confronti della salute e del benessere del figlio;
- un tentativo perverso di fuggire, attraverso l’abuso del minore, dall’infelicità coniugale e dagli
stress della vita;
- una forma di piacere derivata dalla manipolazione dello staff medico” (Zara, 2007, p. 80).
Dalla disamina di questi fattori di rischio, risulta evidente come il contesto familiare in cui emerge
questo disturbo si caratterizza spesso per la trasmissione transgenerazionale della violenza.
Per comprendere meglio la manifestazione di questo tipo di sindrome porteremo come esempio la
storia di una donna, M.A. indagata del delitto previsto dagli art. 56, 575, 576 n 2, 577 n 1 c.p.
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perché, somministrando al figlio minore C. (4 anni) dosi, anche massicce, di farmaci contro
l’ipertensione, poneva in essere atti idonei inequivocabilmente diretti a cagionare la morte, senza
riuscire nell’intento per cause indipendenti dalla sua volontà ed arrecando comunque al bimbo
danni cerebrali probabilmente irreversibili.
“Questa donna ha arrecato al figlio gravi danni per il quale è stata valutato “persona handicappata in
situazione di gravità”.
Il minore tuttora frequenta la scuola materna (4 anni), non ha controllo sfinterico, ha difficoltà alimentari e
cognitive.
Per scoprire il comportamento maltrattante della madre è stato predisposto da parte dei Carabinieri un
apposito servizio di ascolto e visione delle immagini e dell’audio acquisite tramite intercettazione
ambientale audio/video della stanza al reparto di pediatria. È stata dunque fermata la donna in flagranza di
reato, mentre stava per somministrare due pasticche di un medicinale per l’ipertensione arteriosa.
M.A. fu processata e tale processo si concluse con una sentenza di non luogo a procedere per difetto di
imputabilità, per vizio totale di mente e fu applicata la misura di sicurezza del ricovero in O.P.G. per 2
anni, perché riconosciuta pericolosa socialmente.
Per quanto riguarda il contesto familiare che circonda M.A. possiamo affermare che le relazioni con la
famiglia vengono descritte come pessime. La madre viene definita come una figura oppressiva fino a
risultare invadente quando non violenta anche fisicamente, lasciando dunque intravedere un ambiente
condizionato dalla presenza materna, talora coercitiva ed in altre circostanze fredda e rigida (“con mia
madre non c’era confidenza, lei preferiva i figli maschi, tutto veniva deciso da lei”).
Emergono vissuti conflittuali anche relativi alla gestione del bimbo (“mia madre voleva portarmi via il
bimbo, non mi dava occasione di essere libera con lui”). La donna ha inoltre dovuto affrontare il lutto
dovuto alla perdita del marito a causa di un linfoma, situazione che l’ha portata a sperimentare vissuti
depressivi e abbandonaci. La donna si descrive come una persona malinconica, pessimista, portata a
cogliere sempre il lato negativo delle cose. Vi è un profilo cognitivo caratterizzato da autosvalutazione che
sembra aver caratterizzato il periodo infantile adolescenziale.
Si descrive come una persona permalosa con discreta ipersensibilità al rifiuto. Sospetta e diffida degli
estranei.
Proprio per queste ragioni la donna ha condotto una vita piuttosto ritirata nell’ambito familiare dove,
avrebbe sempre rivestito un ruolo marginale. L’unica figura significativa che sembra emergere
esternamente alla famiglia, è una zia (“è stata la mia unica amica”).
Dopo i fatti accaduti il Tribunale dei Minori ha previsto la caduta della potestà della donna e la nomina a
tutore della nonna materna. Ha previsto, inoltre, che una volta uscita dall’O.P.G. la donna abbia il divieto
assoluto di incontrare il minore, sia perché vi è ragione di ritenere che la madre possa nuovamente far male
al bimbo, sia perché si ritiene difficoltoso per la non gestire il complesso rapporto con la figlia e
contemporaneamente dover tutelare il nipote”.
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La storia di vita di questa donna è stata caratterizzata da numerosi stress esistenziali, tra cui la
freddezza manifestata da sua madre fin dall’infanzia. Tutto questo sembra essere innestato su una
personalità già fragile e precaria che ha trovato nella malattia del figlio il modo per far pagare agli
altri i torti da lei subiti.
• Maltrattamenti psichici: il minore è vittima di una reiterata violenza verbale o comunque di una
pressione psicologica tale da danneggiarlo. Rappresenta la forma di maltrattamento meno facile da
diagnosticare perché le modalità che vengono messe in atto sono spesso subdole e perverse (Bal
Filoramo, 1996). Generalmente sono da considerarsi abusi psicologici tutti quegli atteggiamenti
dei genitori che inducono nel bimbo sensi di paura, di rifiuto, di mancanza di valore, di disistima e
di perdita di controllo (Cirillo & Di Blasio, 1989). In particolare possiamo citare come forme di
abuso psicologico:
- il terrorizzare il bambino con costanti minacce e intimidazioni;
- il rifiutare il bambino stesso e la sua esistenza (atto manifestato attraverso continue critiche e
disprezzo);
- l’applicazione intenzionale di pratiche educative inconsistenti, vessatorie o ambivalenti;
- l’isolamento del bimbo a cui non viene permesso di frequentare coetanei e che quindi non può
essere aiutato nella crescita dalle risorse esterne (Cirillo & Di Blasio, 1989; Malagoli Togliatti,
1987; Minuchin, 1976; Kempe, 1980; Selvini Palazzoni et al., 1988).
• Seduzioni incestuose: si possono intendere come il coinvolgimento di un minore in rapporti
sessuali con una persona legata allo stesso da vincoli di parentela. La gravità delle conseguenze
dell’abuso sessuale dipendono da numerosi fattori, tra cui il legame emotivo che lega autore e
vittima. Infatti il trauma emotivo sarà tanto più grande quanto maggiore è il legame emotivo tra i
due (Bal Filoramo, 1996; Merzagora, 1986).
La dinamica che definisce le relazioni e i ruoli all’interno di queste particolari famiglie è
caratterizzata dalla presenza di un adulto (autore dell’abuso) che si presenta come una persona
immatura e spesso tirannica, non in grado di sostenere un rapporto affettivo equilibrato con un
altro adulto e che per questo ricerca la soddisfazione dei suoi bisogni e desideri attraverso la
relazione incestuosa che instaura con il figlio. La madre si presenta spesso come connivente, cerca
di minimizzare la situazione o fa finta di “non vedere” quanto sta accadendo, per la paura di
denunciare (Bal Filoramo, 1996).
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2.3 Fattori di rischio nel maltrattamento e abuso verso il minore
Il maltrattamento e l’abuso chiamano in causa l’importanza di considerare una prospettiva
multifattoriale per spiegare perché alcuni bambini vengono maltrattati (Belsky, 1980; Cicchetti &
Rizley, 1981; Cirillo & Di Blasio, 1989). A questo proposito un importante modello in grado di
spiegare le differenze esistenti tra famiglie che riescono a fornire un supporto adeguato e famiglie
maltrattanti è quello di Belsky (1980). L’importanza di questo modello deriva dal mettere in
evidenza la multicausalità insita nel maltrattamento (Woodward & Fergusson, 2002). Viene
evidenziato come l’abilità genitoriale sia determinata dall’equilibrio di stress e supporti che sono
presenti dentro e fuori la famiglia, derivanti proprio dall’interrelazione tra fattori individuali,
familiari e sociali.
Tra i fattori di rischio individuali sono stati sottolineati in letteratura:
- la percezione delle proprie esperienze infantili (Cirillo & Di Blasio, 1989; Di Blasio, 1988;
Miller, 1987). Infatti l’infanzia del genitore può essere stata povera di affetto e calore, segnata
magari dal maltrattamento, che potrebbe non aver consentito lo sviluppo di un’adeguata stima di
se e della maturità affettiva. L’adulto potrebbe cercare di soddisfare i suoi bisogni e colmare le sue
carenze affettive attraverso la relazione con il bambino che viene visto come fonte dell’amore e
del sostegno che non è stato ricevuto. Nel caso in cui questo sostegno venga a mancare il genitore
reagisce manipolando, sfruttando e maltrattando il bambino (Kempe, 1980).
- Esperienze educative inadeguate (Bowlby, 1989): i genitori che hanno sperimentato un
attaccamento angoscioso, dipendente da esperienze precoci di separazione e da ripetute minacce di
abbandono, non saranno in grado di tollerare la richiesta di vicinanza da parte del bambino,
proprio per il riattivarsi di ricordi angosciosi legati all’infanzia.
- Inadeguata tolleranza della frustrazione (Cirillo & Di Blasio, 1989): i genitori maltrattanti non
riescono ad accedere in modo adeguato ad una elaborazione intrapsichica delle esperienze
stressanti che incontrano nel corso della loro vita, presentano di conseguenza la tendenza a reagire
impulsivamente in situazioni difficili, impulsività che viene diretta contro il bambino.
- Immagine di sé (Cirillo & Di Blasio, 1989): questi genitori non riescono a riconoscere e
soprattutto accettare i propri aspetti negativi. Quest’ultimi vengono dunque proiettati sul figlio che
diventa così il capro espiatorio della famiglia.
- L’uso di alcool o droga (Malagoli Togliatti, 1987): l’uso di sostanze stupefacenti da parte dei
genitori determina frequentemente una situazione economica precaria e una modificazione delle
priorità familiari. Il genitore non riesce ad assumersi le necessarie responsabilità familiari, in
queste famiglie i figli vivono spesso in situazioni di elevata trascuratezza (Cirillo, 1996).
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I fattori di rischio familiare prendono in considerazione:
- La violenza intergenerazionale (Cirillo & Di Blasio, 1989; Egeland, 1987; Hunter & Kilstrom,
1979): viene sottolineato come l’essere stati esposti da bambini a maltrattamenti rende più
probabile il ricorso da adulti a comportamenti violenti verso i propri figli.
Hunter e Kilstrom (1979) in uno studio di follow-up composto da 282 coppie madre-bambino
rilevarono che circa il 18% delle madri aveva alle spalle una storia personale di abuso quando
nacque il bambino. Quest’ultime perpetrarono l’abuso e la violenza nei confronti dei figli negli
anni successivi. Le altre madri che non avevano una storia di violenza e abuso alle spalle,
presentavano una relazione affettiva equilibrata con il loro bambino.
In uno studio simile (Egeland, 1987) effettuato su 200 coppie madri-bambino, emerse che il 70%
delle madri che aveva abusato del proprio bambino aveva subito a sua volta maltrattamenti nel
corso della loro infanzia.
- Instabilità nella coppia genitoriale (Cirillo & Di Blasio, 1989; Minuchin, 1976): nella famiglia
maltrattante il conflitto coniugale si manifesta in modo diretto e soprattutto violento. L’instabilità
di coppia fa si che si creino talvolta delle aree di scontro ben definite, può succedere dunque che la
violenza di un genitore si scateni contro il figlio che si è schierato dalla parte dell’altro.
- Famiglie monoparentali (Malagoli Togliatti, 2002; Minuchin, 1976): succede che il
maltrattamento e la violenza emergano nel contesto di una situazione difficile e stressante in cui
un unico genitore deve farsi carico della responsabilità nei riguardi del figlio, in situazioni difficili
e complesse come quelle descritte fino ad ora, il non essere sostenuti nel crescere un figlio può
essere un importante fattore di rischio.
- Assenza di figure autorevoli (Cirillo & Di Blasio, 1989): la mancanza di aiuto e di punti di
riferimento nella propria ristretta cerchia familiare, può portare i genitori a non sentirsi
adeguatamente sostenuti. Gli stress e gli eventi di vita negativi possono aumentare la tensione
emotiva di quest’ultimi che potranno in tali circostanze cercare di sfogare il proprio malcontento
riversandolo sui figli. I bambini in tali famiglie, cresceranno in un contesto di negatività che non
consentirà loro di fidarsi del mondo esterno.
I fattori di rischio sociale comprendono:
- Reti sociali e supporto sociale mancante (Bal Filoramo, 1996; Cirillo & Di Blasio, 1989;
Malagoli Togliatti, 1987): nel contesto non si riescono a trovare le risorse necessarie per far fronte
alle difficoltà. I genitori possono sentirsi isolati, non protetti e vulnerabili in assenza del sostegno
materiale e psicologico di perenti, amici, vicini di casa, in particolar modo nei periodi di stress.
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- Disoccupazione genitoriale (Di Blasio, 1988): le situazioni economicamente difficili possono
aumentare lo stress familiare che può anche esplodere in acting out aggressivi all’interno del
contesto familiare.
- Mancata integrazione sociale: le situazioni di marginalità non consentono a chi le vive di
sviluppare al meglio le proprie potenzialità e risorse, la frustrazione che ne deriva può creare in
ambito familiare stati di grande tensione.
L’individuazione e l’analisi tempestiva delle situazioni considerate a rischio dovrebbero essere
una priorità fondamentale, al fine di rompere il nucleo ripetitivo dell’abuso e della violenza. Infatti
non possiamo non prendere in considerazione le conseguenze che una famiglia maltrattante può
avere sul bambino.
Oates, Forrest e Peacock (1985), rivelano nei bambini vittime di violenza un quadro di personalità
caratterizzato da bassa stima di sé, insicurezza, incapacità di relazione con i coetanei.
Questi bambini si presentano notevolmente più aggressivi, infelici e incapaci nello stabilire
relazioni interpersonali adeguate con i propri coetanei. In tali situazioni il rifiuto vissuto in casa da
parte dei loro genitori viene rivissuto anche nel contesto delle relazioni sociali esterne alla
famiglia (Cirillo & Di Blasio, 1989).
Un’altra conseguenza non meno importante, è la possibilità che questi bambini possano sviluppare
problemi somatici (Kempe, 1980) e danni allo sviluppo cognitivo che potrebbero non consentire
loro di vivere adeguatamente la stessa esperienza scolastica. Inoltre questi bambini presentano
grossi problemi comportamentali, sono infatti ansiosi, irritabili, iperattivi, antisociali. Questo pone
ai genitori ulteriori problemi di educazione e controllo e può aumentare il rischio di maltrattamenti
da parte della famiglia (Woodward, Taylor & Dowdney, 1998).
Il maltrattamento e la violenza lasciano segni indelebili nella personalità di chi li subisce, ferite
profonde che cambiano il modo di vivere delle persone.
Aiutare le famiglie che si trovano in situazioni di difficoltà permette di prevenire quelle che
possono diventare le conseguenze estreme della violenza, cioè la violenza e l’uccisione dei figli.
Dunque fermare il ciclo ripetitivo della violenza, richiede di tenere in massima considerazione i
fattori di rischio a breve, medio e lungo termine che influenzano la stabilità relazionale della
famiglia e l’adattamento del bambino al mondo esterno.
Per cercare di prevenire i casi di maltrattamento l’intervento deve essere multidisciplinare e deve
focalizzare l’attenzione sulla realtà socio psicologica del genitore maltrattante, del bambino e
dell’intero sistema familiare all’interno del quale avvengono gli abusi e le violenze (Cirillo & Di
Blasio, 1989; Perusia, 2007).
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2.4 Tipologie situazionali e motivazionali del figlicidio
Al fine di accrescere la comprensione delle dinamiche che conducono a tali eventi delittuosi,
alcuni Autori (D’Orban, 1979; Merzagora Betsos, 2003; Nivoli, 2002; Resnick, 1969;) hanno
tentato di classificare, in modo sistematico, le varie tipologie di madri che commettono figlicidio,
quasi a voler tracciare una sorta di identikit, utile per tentare di capire chi possa spingere una
madre al compimento di un gesto simile, quali possono essere le motivazioni, in un continuum che
va dal maltrattamento, via via verso situazioni di gravità tale che spingono le persone ad uccidere.
Una tra le più importanti classificazioni è stata effettuata da Resnick (1969) e si rifà alle
“motivazioni” apparenti dell’atto.
• Figlicidio altruistico: il gesto viene compiuto per salvare il figlio dalla sofferenza che si presume
continuerebbe ad avere se continuasse a vivere (omicidio compassionevole). Molto spesso tale
tipo di figlicidio è caratterizzato dalla SINDROME DI BECK (1976): essa si esplica attraverso
una visione pessimistica di sé, del mondo, del proprio futuro e di quello del figlio.
• Figlicidio ad elevata componete psicotica: in questo caso il figlio viene ucciso perché si è in
preda ad allucinazioni imperative che impongono l’uccisione del bimbo.
• Figlicidio del bambino non desiderato: Il bimbo viene ucciso perché non voluto dai genitori.
• Figlicidio accidentale: si tratta dell’uccisione del bimbo che può essere il risultato di ripetuti
maltrattamenti perpetrati dai genitori nei confronti del figlio.
• Figlicidio per vendetta verso il coniuge: il gesto in questo caso ha alla base la volontà di punire o
di vendicarsi del proprio partner, ci si rifà dunque alla cosiddetta “Sindrome di Medea”.
D’Orban (1979) studiando i casi di 89 persone che avevano commesso figlicidio, ha proposto una
suddivisione in sei categorie:
1. Madri che maltrattano i figli: in questo caso vi è una perdita di controllo personale che
seguita in un atto impulsivo dettato dalla forte rabbia, comportante l’aggressione del bimbo.
2. Madri affette da patologie mentali: i severi disturbi psichici sono la causa scatenante
l’uccisione del figlio.
3. Madri neonaticide: sono madri che uccidono il proprio bimbo nel primo giorno di vita.
4. Madri vendicative: madri che usano il figlio come uno strumento per ricattare il proprio
coniuge.
5. Bambini non desiderati: questi bambini vengono uccisi per negligenza o violenze nei loro
confronti.
6. Figlicidio per pietà: in questo caso esiste una sofferenza reale da parte del bambino come
può essere un grave Handicap fisico o mentale, per cui l’uccisione è dettata da sentimenti di
pietà.
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Merzagora Betsos (2003) descrive una serie di tipologie situazionali e motivazionali di tale gesto:
• Atto impulsivo delle madri che sono solite maltrattare i propri figli: in tali madri si può
riconoscere un evoluzione della Battered child syndrome, dove queste madri uccidono il
proprio figlio in seguito ad un escalation di violenze o in seguito ad un atto impulsivo
suscitato dal pianto del bimbo.
• Nell’agire omissivo di madri passive e negligenti nel ruolo materno: qui siamo di fronte a
madri incapaci di sostenere il proprio ruolo di madre.
• Casi di uccisione per brutalità: dove le madri uccidono poiché infastidite dai bisogni dei
loro bambini.
• Figlicidi per fatalità (Carloni Nobili, 1975): per cui il figlicidio rappresenterebbe l’esito di
una volontà del destino.
• Madri che uccidono i propri figli perché trasformati in capri espiatori di tutte le loro
sofferenze e frustrazioni: queste donne ritengono il bambino responsabile di aver deformato
il loro corpo attraverso la gravidanza o abbia condizionato la loro vita a tal punto che
quest’ultime non riescono a essere felici come un tempo.
• Madri che uccidono i figli non voluti: madri che uccidono un figlio che rievoca in loro
momenti di abbandono, di violenza sessuale, difficoltà economiche o difficoltà esistenziali
(Nivoli, 2002).
• Madri che uccidono per motivi sociali o d’onore: compiono l’uccisione del bimbo per le
condizioni di arretratezza culturale o per motivi di illegittimità della gravidanza che
comporta un forte stigma a livello sociale.
• Madri che hanno a loro volta subito violenza dalle loro genitrici: quindi come in un
circuito perpetratore di violenza, spostano l’aggressività subita sui propri figli.
• Madri afflitte da grave depressione non strettamente connessa all’evento parto: tali madri
arrivano ad uccidere il proprio figlio perché pensano di salvarlo (figlicidio altruistico) o lo
uccidono perché pensano di non farlo più soffrire (omicidio pietatis causa).
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3. PATOLOGIA MENTALE E FIGLICIDIO
3.1 L’esperienza della maternità
Nella nostra società, il luogo comune vuole che all’idea della maternità e alla nascita di un figlio
sia associata il sentimento di un enorme gioia, di felicità intensa, a cui tutta la famiglia partecipa
con soddisfazione (Marshall, 2005).
Le nostre aspettative legate al parto si presentano dunque come molto elevate che possono essere
anche considerate come il risultatati finale di un intero processo sociale, esiste infatti un immesso
lavoro dietro la nascita di un nuovo essere umano (medici, infermieri, ostetriche ecc.). (Romito,
1992).
Nella nostra società esistono anche una serie di stereotipi e miti sull’amore materno, che possono
far sentire inadeguata ogni neomamma2:
• l’amore materno è incondizionato: si pensa che immediatamente dopo il parto, se non addirittura
prima, la madre provi un profondo amore nei confronti del bambino. In realtà il legame madre
bambino per quanto profondo possa essere ha bisogno di tempo per svilupparsi. Il tempo
necessario alla madre di far spazio nella sua mente e nella sua vita alla pensabilità del nuovo nato
(Brustia, 1996).
• Una buona madre si annulla per i bisogni del suo bambino: la qualità del rapporto madrebambino non dipende dalla capacità di abnegazione della madre. Certo, essere madre comporta dei
sacrifici, ma trascurare completamente le proprie esigenze fisiche e psicologiche e lo stesso
rapporto di coppia può creare nella madre uno stato di non totale serenità e benessere che non le
consente quindi di prendersi cura in modo adeguato del figlio.
• Essere madre è un fatto istintivo: nessuna donna sa aprioristicamente come prendersi cura del
proprio bambino. La genitorialità emerge da un lungo processo in cui la madre necessariamente
compie degli errori e impara da questi come dovrà occuparsi di suo figlio (Monti & Agostini,
2006). Ciò che è importante sottolineare è che l’insieme dei processi psicoaffettivi che si
sviluppano nella donna in occasione della maternità (Recamier, 1994), implicano un tale
rimescolamento nella personalità della stessa, tanto che si potrebbe paragonare questo periodo
all’adolescenza. Rappresenta dunque una vera e propria crisi di identità (Erikson, 1999).
Quel processo che accade in gravidanza, in cui l’identità materna oscilla tra il riviversi,
contemporaneamente, figlia della propria madre e madre del proprio figlio comporta per la donna
la possibilità di identificarsi profondamente con il proprio bambino e di sentirlo come parte di sé.
2
http://www.opla.net/neomamme (consult. 3/09/2007, ore 11.30).
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Ma comporta anche un notevole grado di destrutturazione dell’io materno che deve far fronte alle
esigenze di un corpo che cambia e verso le accresciute responsabilità a cui si andrà incontro
(Brusita, 1996). Dunque al di là delle credenze proprie del senso comune, non va dimenticato
quanto il post-partum sia un esperienza emotiva forte, rappresenta un vero e proprio shock e
necessita di un periodo di adattamento psichico, in cui i precedenti punti di riferimento ora
destabilizzati, devono trovare modalità e tempi di rielaborazione e riorganizzazione, oltre che,
naturalmente di un adattamento pratico alla nuova situazione (Brustia, 1996). È proprio in
relazione a questo particolare situazione che la donna necessita di figure significative che entrino
in sintonia con i suoi stati d’animo e che comprendano il suo indiscutibile bisogno di essere
sostenuta affettivamente.
La qualità del sostegno ricevuto si rifletterà sulla capacità della donna di accettare pienamente il
proprio ruolo di madre e di sviluppare una solida relazione con il proprio bambino.
3.2 Psicopatologie puerperali
Sebbene la gravidanza sia descritta come un periodo di vita in cui si è meno soggetti a sviluppare
disturbi mentali (Brustia, 1996), è stato dimostrato che circa il 10% delle donne manifesta in
gravidanza sintomi depressivi clinicamente significative, nei mesi dopo il parto una donna su otto
soddisfa i criteri per episodi depressivi (Mauri & Banti, 2003; Monti & Agostini, 2006). La
documentazione più antica sulle malattie mentali nel post-partum risale ad Ippocrate nel 400 a.C.
Nella metà del diciannovesimo secolo si aprì il confronto e la discussione sulle caratteristiche
cliniche e sull’etiologia delle malattie mentali post-natali.
Nel 1845 Esquirol descriveva una serie di sindromi dell’umore postnatali e ne contestava la
supposta associazione con l’allattamento. Nel 1858 Marcè pubblicava uno studio definitivo in cui
suggeriva che le malattie mentali del post-partum potessero essere classificate in due gruppi:
quelle ad esordio precoce, caratterizzate soprattutto da sintomi cognitivi quali la confusione o il
delirio, e quelle con esordio tardivo, caratterizzate prevalentemente da sintomi fisici (Margaret &
Spinelli, 2004).
Ciò che necessario dire ai fini della nostra ricerca è che se è vero che l’uccisione di un figlio non
trova necessariamente giustificazione nella malattia mentale, è pur vero che questi delitti possano
trovare comprensione in condizioni psicopatologiche direttamente collegabili al puerperio
(Mitchell & Thompson & Stawart, 1992; Sanderson & Cowden & Hall, 2002).
Tra le psicopatologie puerperali troviamo in ordine di gravità crescente (Merzagora Betsos, 2003;
Monti & Agostini, 2006; Romito, 1992):
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1. Maternity blues: rappresenta un disturbo dell’umore di lieve entità. Ha un incidenza statistica
tra il 30 e 85% tra le neomamme, ciò ne evidenzia la notevole diffusione. Si manifesta a distanza
di qualche giorno dal parto, fino ad arrivare alle prime settimane dopo il parto (Romito, 1992). È
caratterizzata da umore depresso, crisi frequenti di pianto, stanchezza, ansia nei confronti del
bimbo, senso di inadeguatezza, difficoltà di concentrazione. Questo periodi di tristezza in seguito
al parto è attribuibile ad un cambiamento ormonale e alla stanchezza fisica come risposta
all’adattamento a questa nuova situazione (Monti & Agostini, 2006). Solo in rari casi il maternità
blues può peggiorare e favorire il passaggio ad un disturbo depressivo post partum (Romito,
1992).
2. Disturbo da stress Post-traumatico post-partum: il momento del parto, in quanto tale, può
essere considerato un evento dalla forte carica stressante che può generare una serie di sintomi
che, in certe circostanze, evolvono in un vero e proprio disturbo postraumatico da stress. Tale
disturbo ha una frequenza del 2-3% (Czarnocka & Slade, 2000 cit. in Monti & Agostini, 2006).
Tra i sintomi principali troviamo la tendenza ad adottare meccanismi di esitamento dei pensieri e
delle immagini che provocano paura, preoccupazione e dolore (Giberti & Rossi, 2007), nel mentre
però questi stessi contenuti continuano a riemergere in modo improvviso e dirompente. Questi
meccanismi di evitamento agiscono però sulle capacità metacognitive e quindi sulla possibilità di
riflettere sui propri e altrui stati mentali (Di Blasio, 2001). Dunque la presenza in queste madri di
meccanismi di evitamento che spingono ad allontanare il ricordo di un esperienza dolorosa quale il
parto spiega quelle reazioni di di stanziamento e di disinteresse verso il nuovo nato e verso il
partner investiti entrambi di emozioni negative (Ballard, 1995).
3. Depressione post-partum: ha un incidenza oscillante tra il 10% e il 28%, un esordio a distanza
di alcuni giorni, settimane o mesi dal parto e una durata che può raggiungere l’anno (Rossi, Bassi,
Delfino, 1992). I disturbi fisici associati a questo quadro sintomatologico sono gravi e implicano a
livello fisico mal di testa, palpitazione, iperventilazione, mentre quelli psicologici comportano la
sensazione di vuoto, disturbi del sonno, attacchi di panico, ritiro sociale, paura, stanchezza
(Marshall, 2005; Merzagora Betsos, 2003; Monti & Agostini, 2006; Romito, 1992).
Tabella 5.1 La depressione post - partum:sintomatologia. [Fonte: Monti & Agostini, 2006 (p.18)].
Sintomatologia Depressione postpartum
Caratteristiche principali

Umore depresso e tristezza

Stato d’animo caratterizzato da pessimismo persistente ed insoddisfazione

Disinteresse in varie attività

Incapacità di provare interesse per le cose quotidiane
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
Affaticamento e mancanza di energia

Maggiore percezione della fatica

Agitazione o rallentamento psicomotorio

Irrequietezza e monotona lamentosità

Pianto persistente e immotivato

Ipersensibilità agli stimoli emotivi

Autosvalorizzazione

Bassa autostima

Sensi di colpa e autorimproveri

Colpevolizzazione ricorrente

Pensieri di morte e ideazione suicidiaria

Possibili ripetute pianificazioni suicidiarie

Ansia Preoccupazione persistente ed immotivata

Irritabilità

Facile perdita del controllo

Pessimismo

Visione negativa del futuro e degli eventi

Ruminazione eccessiva

Persistenti pensieri preoccupanti

Senso di solitudine

Isolamento reale o percepito

Senso di disperazione

Angoscia profonda

Scarsa capacità di concentrazione

Distrazione

Difficoltà nel prendere decisioni

Indecisione

Disturbi della memoria

Possibile perdita parziale delle capacità di Memoria

Disturbi del sonno

Ipersonnia o insonnia

Disturbi dell'appetito

Iperfagia o perdita dell’appetito
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
Disturbi della sfera sessuale

Perdita del desiderio
È stato rilevato (Monti & Agostini, 2006) come la depressione post-partum comporti una
deficienza a livello della relazione madre-bambino, le madri risultano infatti meno attente e
responsabili nei confronti del figlio e dei suoi comportamenti (Howard & Hannam, 2003).
In realtà alcune manifestazioni comportamentali dovrebbero essere dei campanelli di allarme in
grado di sottolineare una possibile evoluzione negativa della relazione madre-bambino. Tra queste
vi sono ad esempio le preoccupazioni ossessive per il neonato e l’esclusione del partner dalla
relazione con il bambino. Cramer (1999) a questo proposito sottolinea come: “molto spesso i
primi segnali si installano quasi senza che se ne si accorga: si crede ad un affaticamento attribuito
alle difficoltà del parto, si invocano gli effetti sul fisico che l’evento comporta […]. La partoriente
si angoscia per dettagli concernenti la cura del bambino:pensa di non avere abbastanza latte, ha
paura di essere troppo brusca con il bambino, durante il bagno teme che il neonato gli scivoli e
anneghi. I pianti del bambino gli sembrano rimproveri ed espressioni di dolore. […] La notte si
riempie di inquietudini: si spia la respirazione, si pensa spesso alla morte improvvisa del lattante.
Ci si mette a proteggere il bambino piuttosto che ad amarlo. L’angoscia diventa permanente e
mina la fiducia materna […]. All’angoscia si aggiungono i pensieri e le emozioni depressive:
l’autocritica diventa severa, il senso di impotenza dilaga, i gesti diventano lenti o al contrario
concitati; la fatica lascia il posto a una forma di inerzia; un profondo sentimento di fallimento si
accompagna ad un atteggiamento rassegnato che porta con sé un senso di tristezza. […] Le
relazioni con il bambino diventano difficili, come se la madre avesse paura di lui” (Cramer, 1999,
pp. 90-91).
Pagliazzi e Benvenuti (2005) hanno parlato di Depressioni postpartum sottolineando così la
variabilità riscontrabile nella configurazione sintomatologia e anche nel periodo di insorgenza,
nella gravità e nella durata. Quest’ultima infatti si presenta come estremamente variabile in
ragione del grado di severità del quadro psicopatologico.
Tabella 5.2 Variabilità delle manifestazioni psicopatologiche della depressione post-partum. [Fonte: Pazzagli, &
Benvenuti, 2005 (p.33)].
DEPRESSIONI POST- PARTUM
Tipo di depressione Sintomatologia

Depressione di tipo melanconico
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
Sensi di colpa, sentimento di inadeguatezza, capacità di mettere in atto sentimenti
riparativi verso il figlio.

Depressione anaclitica e depressione disforica

Senso di vuoto, disturbo di identità, sentimenti di rabbia verso il proprio bambino e
incapacità di attuare comportamenti riparativi

Depressione minore del post-partum

Sentimento di inadeguatezza rispetto al ruolo di madre in associazione a situazioni di
carenza ambientale
Per spiegare oltremodo la pervasività con cui questa condizione psicopatologica porta in
determinati casi a modificare completamente la vita di una donna e della sua famiglia, riporteremo
i dati raccolti in seguito alla presa visione delle cartelle cliniche delle persone, colpevoli di
figlicidio, ricoverate presso l’O.P.G. di Castiglione delle Stiviere.
Riportiamo la storia di una donna (N.O.) imputata del reato di cui all’art.575 e 577 perché
lanciando dalla finestra della sua abitazione (posta al quinto piano) il figlio di 18 mesi ne
cagionava la morte:
“A seguito di una segnalazione viene mandata una volante di servizio, dalle indagini svolte e dalle
dichiarazioni del padre della vittima (R.) emerge la responsabilità dell’imputata, la quale affetta da “psicosi
post-partum” avvicinatesi con il bimbo in braccio nella camera da letto lanciava il bimbo nel vuoto.
La consulenza tecnica del pm in ordine alla capacità di intendere e volere ha così concluso: il fatto oggetto
della presente perizia è definibile come “ raptus melanconicus in soggetto portatore di una psicosi affettiva
maggiore”. Per questo la signora al momento dal fatto era persona incapace di intendere e di volere. Ella è
inoltre persona socialmente pericolosa fino a quando perdura lo stato attuale della malattia. Il giudizio di
pericolosità implica l’applicazione del della misura di sicurezza in OPG.
Ordina il ricovero presso l’OPG per anni 10. Per quanto concerne la situazione familiare possiamo dire che
la donna è ultimogenita di un nucleo familiare composto dai genitori e 2 figli. Il padre, pensionato (ex
guardiano del cimitero), si è dimostrato disponibile e aperto. La madre invece è da anni affetta da una
sindrome depressiva evidenziatesi dopo l’ultimo parto. La donna infatti per lunghi periodi dell’anno si
estranea dalla vita familiare.
N.O. ha acquisito la licenza media inferiore, fin da giovane lavorava prima presso una parrucchiera e poi
presso una drogheria che però lascia a causa dei problemi con i colleghi di lavoro. La sua adolescenza
tendenzialmente normale trova intorno ai 16/17 anni dei primi ostacoli, viene infatti ricoverata per
“depressione e anoressia”.
In seguito al ricovero pare essersi ripresa e si fidanza con quello che sarebbe diventato suo marito. Rimane
poi incinta, la gravidanza sembra essere serena, però dal momento del parto si evidenziano gravi disturbi
motivo per cui il bimbo è stato affidato per lunghi periodi ai nonni paterni. Il marito infatti dichiarerà che
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poiché la moglie non era in grado di seguire il figlio egli all’inizio dell’anno lo aveva portato presso i suoi
genitori, la donna vedeva il bimbo solo il week-end.
N.O. afferma che anche la nonna materna era affetta da disturbi depressivi.
Così la donna parla di sua madre:” la malattia di mia madre è iniziata subito dopo la mia nascita, mi dicono
che era così depressa che non riusciva neanche a darmi il latte, non mangiava e stava sempre a letto. A mia
madre hanno anche fatto gli elettroshock presso una clinica neurologica dove era stata ricoverata”.
A proposito della sua adolescenza la donna dirà: “ero spensierata però dai 15 anni in poi ho iniziato ad
avere tante difficoltà con i ragazzi”, tanto che tenterà il suicidio (“volevo morire, non mi sentivo capace di
affrontare la vita”).
Nel 1981 viene ricoverata una prima volta perché assunse una confezione di Tavor per suicidarsi.
Successivamente nel 1983 a 22 anni viene nuovamente ricoverata perché tenta di soffocarsi con un
fazzoletto.
La diagnosi fu di stato depressivo sempre nel 1983, dopo pochi mesi vi fu una successiva ricaduta la donna
viene ricoverata in rianimazione per un tentativo di suicidio con gas metano e psicofarmaci. La diagnosi fu
di stato di coma da ingestione in eccesso di psicofarmaci.
Lei dice:”avevo tentato di uccidermi perché mi sentivo incapace di voler bene a qualcuno ma poi conobbi
mio marito”.
Descrive le sensazioni successive al parto, affermando: ” mi sentivo agitata, confusa, non mangiavo più il
dottore che mi ha seguito mi fece ricoverare in SPDC per un mese. Tornata a casa stavo meglio, ma poi
provai a dare fuoco alla culla.
Desideravo stare a letto non pensavo a niente. Volevo bene al mio bambino ma pensavo fosse lui la causa
dei miei guai.
I miei suoceri mi presero il bambino e io tornai dai miei genitori, quando veniva mio marito io prendevo in
braccio il bambino, ma mi sentivo indifferente”. Tutto il nucleo familiare veniva seguito dal consultorio i
rapporti familiari erano difficoltosi.
Nel 1990 la paziente viene ricoverata in clinica psichiatrica con diagnosi di stato d’ansia in depressione
puerperale.
È stata descritta come depressa ansiosa, manifesta timori di accudire il neonato, è convinta di ammalarsi
come la madre dalla quale si è sempre sentita poco accudita. Nel 1991 viene ricoverata in TSO con
diagnosi di sindrome dissociativa.
Al momento del ricovero in O.P.G. la sintomatologia della donna comprendeva: tristezza, abulia, apatia,
difficoltà ad alimentarsi, coartazione dell’affettività, sentimenti di incapacità che sconfinano a tratti nel
delirio, dunque siamo di fronte ad una malattia mentale vera e propria. A proposito del fatto riferisce
sentimenti di paura legati al ricordo di questi eventi.
L’obiezione che si può fare è come mai si è parlato di depressione puerperale nonostante all’epoca
dell’omicidio fossimo da due anni distanti dal parto? La risposta a questa domanda si trova nella
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perizia dove si evidenzia come una certa quota di queste forme di patologia è suscettibile a
cronicizzarsi.
N.O. dopo questa triste vicenda che ha segnato la sua vita rimarrà in OPG per otto anni.
4. Psicosi puerperale: rappresenta il disturbo psicologico più grave del periodo post-partum ma,
fortunatamente, il meno frequente. Presenta infatti un incidenza da 1 su 1.000 a 1 su 2000
(D’Orban, 1979). Si tratta di un disturbo dell’umore che assume frequentemente caratteristiche
cliniche depressive e maniacali e che può manifestarsi occasionalmente in forme schizofreniche.
La sintomatologia è caratterizzata da depressione, disturbi della memoria e del pensiero, perdita di
contatto con la realtà, episodi deliranti e allucinazioni, spesso di tipo paranoide, comportamenti
anormali (Merzagora Betsos, 2003; Monti, Agostini, 2006; Romito, 1992). Questo insieme di
sintomi induce reazioni comportamentali di grande circospezione, irrazionalità e di
preoccupazione per dettagli insignificanti (Kruckman & Smith, 1998). L’insorgenza di questo
disturbo è grave e rapida, solitamente entro i primi tre mesi dal parto, ma non è detto che possa
perdurare molto a lungo. Fattori di rischio importanti sono precedenti episodi di psicosi personali
o familiari e/o una storia pregressa di psicosi puerperale (Monti & Agostini, 2006). Nelle psicosi
puerperali vi è un tasso di suicidio del 5% e di neonaticidio/ figlicidio del 4% (Bramante, 2005).
La diagnosi di tale disturbo ha importanti implicazioni prognostiche, in circa 2/3 dei casi si hanno
ricadute nelle gravidanze seguenti e anche manifestazioni psicotiche non puerperali (Mauri &
Banti, 2003).
Per chiarire la gravità di questa psicopatologia e spiegare la possibilità della manifestazione di
questa in forme schizofreniche prenderemo come esplicativo il drammatico atto compiuto da I.E.,
una donna di 31 anni imputata del delitto di cui agli art. 575, 577 c.p. per avere cagionato la morte
della propria figlia di anni 2, soffocandola:
“L’esperienza delirante ha scatenato la reazione violenta nei confronti della figlia sostenuta da vere e
proprie allucinazioni olfattive, uditive e visive. La manifestazione aggressiva si è rivolta alla figlia nei cui
confronti l’imputata ha sempre avuto un atteggiamento di protezione ossessiva ed un attaccamento
morboso ed esclusivista, ed ha costituito il mezzo per sottrarla ad un destino infame.
I persecutori-pedofili nel momento di maggiore esacerbazione della malattia, sono stati visti ovunque, fino
ad identificarsi con il mondo intero (a riguardo è significativo il racconto che la stessa I.E. ha fatto della sua
fuga e della percezione di essere accerchiata dai pedofili da lei individuati in ogni automobile che
incrociava).
Non potendo quindi la donna, per le dimensioni che il delirio persecutorio aveva assunto indirizzare la
violenza verso gli autori della minaccia, la rivolse alla figlia la cui morte fu da lei provocata e vissuta come
una forma di salvezza dalla ineluttabile sorte di finire vittima dei pedofili.
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La donna venne assolta perché al momento del fatto non era imputabile per vizio totale di mente e venne
disposta l’applicazione alla stessa della Misura di sicurezza dell’internamento in opg per un periodo non
inferiore ad anni 10.
Il dramma inizia con una telefonata fatta alle quattro del mattino del Dicembre 1998 alla centrale dei CC
con la quale una voce femminile denunciava di aver ucciso la figlia di quasi 2 anni e diceva di trovarsi alla
guida della sua autovettura nei pressi della stazione dei CC in una località vicina. Il comandante dei CC
subito avvisato vide che nel piazzale antistante era parcheggiata una macchina e trovò a bordo di essa, al
posto di guida, una donna in palese stato confusionale, ed al suo fianco, distesa sul sedile anteriore una
bimba inerte.
Il medico del pronto soccorso intervenuto su richiesta dei CC trovava la bimba in arresto cardiocircolatorio,
tentò la rianimazione per oltre trenta minuti senza ottenere ripresa dell’attività cardiaca.
La donna fu immediatamente sottoposta a visita psichiatrica, che venne seguita dal medico del servizio di
salute mentale del ASL che evidenziò condizioni mentali gravemente inficiate da uno stato di coscienza
“crepuscolare” di tipo “confuso-onirico” in clima affettivo-emotivo di forte angoscia psicotica con
ideazione caratterizzata da “pensieri deliranti di tipo persecutorio con nucleo paranoideo” centrato sulla
convinzione che esistesse un complotto di pedofili, di cui facevano parte il marito, il padre ed il fratello, ai
danni suoi e della figlia.
A tale drammatico epilogo la donna fu condotta dalla delirante convinzione che la propria figlioletta fosse
vittima delle attenzioni sessuali del marito e di una generale e non precisata setta di pedofili della quale
avrebbero fatto parte non soltanto i suoceri, ma addirittura il padre e il fratello. L’imputata ha dichiarato di
aver ucciso E. per sottrarla ai pedofili dai quali ormai si sentiva braccata e per proteggerla. Per quanto
riguarda l’insorgenza degli spunti deliranti del comportamento di I.E., nei giorni che precedettero il delitto
emerso che la donna cominciò a sospettare del tutto arbitrariamente, che il marito insidiasse la figlia fin da
quando questa aveva appena quattro mesi tanto che gli aveva impedito di stare da solo con lei ed assistere
al bagnetto o al cambio del pannolino. Tali sospetti, che nelle ore precedenti il fatto divennero assolute
certezze, trovavano, secondo la visione distorta della realtà che già allora I.E. aveva conferme in
atteggiamenti del tutto innocenti del marito che, ad esempio, come egli stesso aveva riferito, fu accusato di
avere compiuto atti di libidine sulla figlia soltanto perché si era tolto l’orologio giocando con lei. Ma la
prova schiacciante della pedofilia del marito fu per la donna l’avere rinvenuto nel garage della loro
abitazione, della stampa pornografica a lui appartenente.
Da quel momento elle fu ossessionata da tale preoccupazione e ne rese partecipi i genitori, in particolar
modo la madre a lei molto legata, la quale pure si convinse della fondatezza delle accuse della figlia.
Insieme fecero visitare la piccola E. dal pediatra il quale trovò la bimba in perfetta salute ed accertò
l’assoluta integrità del suo organo sessuale. In quel occasione il medico trasse l’impressione che la madre
della piccola fosse molto “ agitata e confusa”.
Il giorno successivo la donna lo chiamò e nel corso della conversazione, per altro frammentaria, fece cenno
al fatto che “tutti fossero d’accordo” e lo informò di essersi rivolta a Telefono Azzurro. Tale telefonata
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ricevuta alle h 13.00 fu molto probabilmente eseguita dall’imputata quando questa si era già allontanata
dall’abitazione dei genitori ove ella si era “rifugiata” già dal giorno precedente. I fatti cui aveva assistito
I.E. quella mattina, contribuirono certamente ad acuire lo stato di alterazione psichica ormai in lei già
manifesto, e probabilmente, ruppero il suo precario ed ormai compromesso equilibrio. La madre, che aveva
dato credito alla figlia nei suoi assurdi sospetti, improvvisamente diede in escandescenze accusando il
figlio D. (fratello della donna) di aver ucciso la nonna e la zia, e suo marito di avere abusato dei figli
quando questi erano in tenera età. A causa di questa crisi nervosa fu sottoposta a TSO rimanendo ricoverata
nel reparto di psichiatria per oltre venti giorni. Anche I.E. quella stessa mattina maturò il convincimento
sostenuto da allucinazioni olfattive (sentiva in una busta contenente lo spazzolino da denti del fratello
odore di sperma), che anche il fratello ed il padre avessero abusato della figlia e non si sentì più al sicuro
dai genitori, tanto che si allontanò con la figlia dalla loro abitazione.
In seguito ai fatti risultò in uno stato confusionale e all’ingresso presso la C.C di Reggio Emilia fu fatta la
seguente diagnosi: “grave stato di psicosi paranoie” e fu accertato uno stato di confusione con
disorientamento temporale, con alterazioni gravi a carico della coscienza dell’io, con deliro persecutorio
sistematizzato con le tematiche riferite alla pedofilia ed umore oscillante tra la disperazione e la fatua
anaffettività. I sintomi di tale patologia i cui prodromi sono stati individuati dal perito nei disturbi psicotici
di cui aveva sofferto durante l’adolescenza e nei disturbi ossessivi ed ossessivi compulsivi nonché
rupofobici intervenuti successivamente alle cui manifestazioni ha fatto riferimento il marito nel corso della
deposizione si erano manifestati già qualche mese dopo la nascita della figlia ma, soltanto nei giorni
precedenti l’omicidio, la schizofrenia si slatentizzò completamente.
3.3 Patologie psichiatriche non legate al puerperio
Spesso l’atto omicidiario avviene nel contesto di una psicopatologia importante che non si
presenta però come necessariamente legata al puerperio (D’Orban, 1979; Stanton, Simpson,
Wouldes, 2000). Le patologie più frequentemente riscontrate sono le seguenti (Bramante, 2005):
- Disturbo Depressivo Maggiore: è una sindrome clinica caratterizzata principalmente dalla
presenza di umore depresso o di apatia e anedonia, cioè di incapacità di provare piacere per tutte
quelle cose che in precedenza erano considerate nella vita del soggetto fonte di piacere e interesse
(Freilone & Valente Torre, 2005). Compare una ridotta capacità di pensare e concentrarsi, ci
possono essere pensieri ricorrenti di morte.
Si registra spesso anche un rallentamento dell’attività motoria. In alcuni casi questo rallentamento
viene sostituito da un agitazione motoria che rende il soggetto inconcludente. Vi sono disturbi
dell’appetito, anomalia nel ritmo sonno veglia e naturalmente deflessione dell’umore (Giberti &
Rossi, 2007).
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Per spiegare la gravità a cui possono arrivare queste patologie psichiatriche racconteremo la storia
di B.S. una donna (44 anni) imputata del delitto di cui agli art. 575, 577 n 1 c.p. perché cagionava
la morte del proprio figlio dell’età di 18 mesi.
“Dopo aver maturato nel corso della notte il proposito di uccidere sé e il proprio bambino, una mattina del
Maggio 1998, verso le ore 6.00 si alzava dal letto, preparava e dava la colazione al figlio, quindi tenendolo
in braccio usciva dall’abitazione e percorreva il sentiero che conduce ad un fiume poco distante dalla sua
abitazione, giunta sulle rive del quale, si immergeva nella corrente, così determinandone la morte per
annegamento(più precisamente per arresto cardiocircolatorio e respiratorio, conseguente all’immersione del
corpo nell’acqua fredda). La stessa, non avendo più il coraggio di portare a termine l’atto suicidiario,
riusciva a tornare a riva.
Usciva dall’acqua, ritenuto il figlio morto, si avvicinava presso il paese per costituirsi alle autorità.
In base all’esito della perizia, la donna è risultata affetta all’epoca dei fatti, da “grave forma depressiva,
qualificabile in termini di disturbo depressivo maggiore con manifestazioni psicotiche”. La donna è stata
prosciolta perché dichiarata incapace di intendere e volere ed è stata applica la misura del ricovero in OPG
per anni 10.
Per quanto riguarda la situazione familiare possiamo dire che il nucleo di origine è costituito dai genitori,
entrambi defunti a causa di un tumore, poi da due fratelli minori rispettivamente di anni 40 e 30 anni.
La donna si è sposata all’età di 17 anni con un ragazzo di 22 anni. L’anno successivo è diventata madre di
una bimba, la quale oggi ha 27 anni. Quest’ultima vive con il padre.
Dopo dieci anni il matrimonio è finito a causa di conflittualità con il marito. La donna descrive il marito
come una persona violenta dedito al gioco e alle cattive compagnie. La suocere è descritta come una
persona perfida sempre in accordo con il figlio. Nel 1981 la donna si separa.
All’età di 39 anni la donna si è risposata, l’uomo lavora come artigiano. Anche qui il rapporto con la
suocera era difficile, quest’ultima è descritta come dispotica e arrogante. Dal secondo matrimonio è nata la
bambina successiva vittima del reato. Nel 1986 la donna spiega di aver avuto una depressione, dall’anno
’86 in poi, ha fatto sempre almeno due ricoveri all’anno. Descrive la famiglia di lui come attaccata ai soldi,
mentre lei viene da una famiglia dove ciò che contava erano gli affetti.
Riferisce che subito dopo il parto stava male era piena di ansia, dormiva poco e prima che succedesse il
fatto era da ben quattro notti che non dormiva, l’aveva detto al marito, ma lui non le aveva data ascolto. Al
quinto mese di gravidanza aveva provato a suicidarsi con un fazzoletto. In breve tempo (tre anni) la donna
ha perso padre, madre e successivamente forse a questa disperazione la sofferenza psichica già presente è
aumentata fino ad esplodere nel folle gesto di uccisione della figlia.
- Schizofrenia e altri Disturbi Psicotici: la schizofrenia rappresenta certamente la più importante
per gravità tra le psicosi, cioè fra quelle condizioni psicopatologiche caratterizzate dalla perdita
del contatto con la realtà e da un esame distorto e falsificato di questa (Freilone & Valente Torre,
2005). I disturbi psicotici rappresentano quadri clinici caratterizzati da un evoluzione cronica che
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porta al deterioramento della personalità. Per fare diagnosi di schizofrenia occorre la presenza di
sintomi psicotici specifici durante la fase attiva di malattia, i quali comprendono: deliri,
allucinazioni, incoerenza o marcato allentamento dei nessi associativi, comportamento catatonico,
appiattimento o grossolana inadeguatezza affettiva (Giberti & Rossi, 2007). Essa può essere divisa
in quattro categorie a seconda della sintomatologia predominante al momento dell’osservazione:
paranoide, disorganizzata, catatonica e indifferenziata (o residua). Quelle che riguardano più
specificatamente questo lavoro, sono le patologie caratterizzate da un registro paranoideo che
portano a percepire il figlio come una persona fragile che deve essere salvata da un mondo esterno
pericoloso, maligno, oppure portano a considerare il figlio stesso come un persecutore (Merzagora
Betsos, 2003; Bramante, 2005). Molti studi (Haward & Hannam, 2003; Rieder & Rosenthal, 1975)
hanno infatti dimostrato che i figli di madri schizofreniche vivono in condizioni di difficoltà e
presentano pertanto un maggior rischio di morte in ragione delle azioni compiute dai loro genitori.
Queste madri presentano grosse difficoltà legate allo svolgimento del proprio ruolo di protezione
nei confronti del figlio, inoltre manifestano anche reazioni inadeguate di fronte alle eventuali
difficoltà dei propri figli (Howard, Gross, Leese, 2003).
Un altro disturbo significativo per la nostra trattazione è il Disturbo Delirante, caratterizzato da un
sistema delirante coerente, duraturo, stabile, sistematizzato e non bizzarro. In questo tipo di
disturbo non si ha un deterioramento marcato del contatto con la realtà, al di fuori del nucleo
delirante (Freilone & Valente Torre, 2005).
Per spiegare quanto la perdita di contatto con la realtà dettata da un quadro sintomatologico grave
di natura schizofrenico-paranoideo, possa far compiere azioni di estrema gravità, analizzeremo il
caso di un uomo P.G. (36 anni) imputato del delitto di cui agli Art. 575 e 577 c.p. per aver sparato
contro il figlio (5 anni) sei colpi di pistola. Trattandosi di un autore di reato di sesso maschile e
dunque poco comune, possiamo osservare come la gravità della sua patologia psichiatrica abbia
portato il genitore a compiere il gesto stremo, nonostante la presenza in precedenza al fatto reato
di un legame affettivo forte ed importante con il figlio:
“Nell’aprile del 1990 i CC riferiscono al procuratore che l’uomo Guardia Giurata alle dipendenze di un
istituto di vigilanza, dopo aver percorso con la sua macchina un viale, si era fermato davanti una chiesa, la
“Sacra Famiglia” e ha esploso sei colpi di arma da fuoco contro il figlio di anni 5, seduto sul sedile
posteriore, uccidendolo. Successivamente, a piedi si era diretto contro la chiesa e dopo aver esploso sul
sagrato della chiesa l’ultimo colpo, si era barricato all’interno della canonica da dove, in seguito
all’intervento dei CC è poi uscito senza opporre resistenza. L’uomo, interrogato, ammetteva l’accaduto.
Giustificava il suo gesto dicendo che il bimbo si era completamente trasformato tanto da fargli ritenere di
avere di fronte a se non suo figlio, ma il MALE. La dinamica del reato fa inesorabilmente ipotizzare la
confusione psichica in cui si trovava il soggetto al momento del fatto. Tale condizione diventa inoltre grave
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in senso prognostico, agli effetti della valutazione della pericolosità sociale, in rapporto alla mancata
coscienza di malattia, alla mancata elaborazione dell’esperienza, sia patologica sia criminosa.
In particolare si rileva l’ambivalenza di P.G. nei confronti della moglie e della figlia (8 anni), nonché le
evidenti carenze nella progettazione esistenziale, elementi concretamente forieri di uno scompenso in senso
psicotico. Sono inoltre assenti qualunque sentimento di colpa. Dunque alla stregua delle suddette
circostanze l’uomo appare tuttora pericoloso socialmente. È stato prosciolto perché si è concluso che
l’autore del reato era al momento del fatto in stato di infermità mentale tale da escludere le sue capacità di
intendere e volere, viene applicata la Misura di sicurezza del ricovero in OPG per 10 anni La vita di P.G. è
segnato da un trasferimento dalla Puglia verso il Nord per cercare lavoro, dopo aver lavorato come operaio
a trent’anni inizia a lavorare come Guardia Giurata.
Ha ventisette anni si sposa e ha due figli, un maschio di 5 anni e una femmina di 8 anni.
Per quanto riguarda la dinamica dei fatti, l’uomo riferisce che il giorno precedente al reato sia lui che la
moglie (a suo dire) si sono sentiti “toccare in modo sensoriale da mani invisibili e avvertirono una strana
presenza”, tanto che la mattina successiva egli chiamò un prete per far benedire la casa. Il giorno seguente
compì il delitto in preda ad un delirio che gli fece credere che suo figlio era il MALE. Disse che il figlio si
era trasformato con occhi a mandorla rossi, avvertì di due dita gelide che stavano premendo il grilletto della
pistola portandola alla sua tempia solo all’ultimo riuscì a deviare il colpo a terra. Riguardo alla moglie
aggiunge che negli ultimi giorni le era cresciuta una “cresta” dietro la testa che però era coperta dai capelli.
Nessuno dei familiari ha saputo trovare una spiegazione al tragico evento accaduto, pare in modo
improvviso e attribuito dai genitori ad uno stato di esaurimento psicofisico del congiunto. Secondo quanto
riferito dalla moglie, l’intera famiglia ha svolto una vita regolare, il soggetto inoltre è sempre stato
profondamente legato ai figli occupandosi attivamente di loro. Il soggetto è stato diagnosticato come affetto
da schizofrenia Paranoide.
L’uomo grazie alle cure ricevute in OPG ha raggiunto durante il ricovero un buon grado di consapevolezza
dell’episodio delirante che lo condusse al reato, grazie anche all’adesione al trattamento
psicofarmacologico.
- Disturbi di Personalità: rappresentano “modalità costanti di percepire, rapportarsi e pensare, nei
confronti dell’ambiente e di se stessi, rigidi e non adattativi e tali quindi da causare una sofferenza
soggettiva o una compromissione funzionale significativa. L’insorgenza è primaria, solitamente
nella prima età adulta” (Freilone & Valente Torre, 2005, p.254). i disturbi di personalità sono
raccolti in tre gruppi, Eccentrico, Drammatico-Impulsivo, Ansioso, in base ad analogie descrittive
(Gabbard, 1994; Paris, 1997). Nel nostro studio longitudinale i disturbi più frequentemente
riscontrati e che sono intervenuti quindi nel precipitare situazioni già di per se difficili sono stati:
• Disturbo BORDERLINE di Personalità: rientra nel cluster Drammatico-impulsivo, presenta un
quadro caratterizzato da instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e degli
affetti, e da marcata impulsività (Freilone & Valente Torre, 2005). Gli individui con questo
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disturbo sono caratterizzati da rapporti interpersonali, difficili, instabili e intensi. Il rapporto con
gli altri oscilla tra gli estremi di idealizzazione e svalutazione. La persona che presenta questi tratti
di personalità prova dei sentimenti di rabbia intensa, con accessi di ira su cui non è in grado di
esercitare alcun controllo. Il sentimento di solitudine e di vuoto e la depressione che a questo si
accompagna possono essere penosi e difficili da sopportare (Freilone, 2005; Paris, 1997).
Le mamme affette da tale patologia non riescono spesse volte, a separare se stesse dal proprio
figlio, in questo tipo di situazioni a fronte dell’instabilità caratterizzante questo disturbo può
verificarsi il passaggio all’azione impulsiva (Nivoli, 2002).
Analizzeremo ora un caso che si inserisce all’interno di un quadro psicopatologico in cui il
Disturbo Borderline di personalità ha avuto un valore preminente nella determinazione del fatto
reato.
La storia di P.M. una donna (36 anni) imputata dei delitti di cui agli art. 575, 577 c.p. perché
spingendo il figlio di anni 3 giù da un pontile ne cagionava volontariamente la morte con le
aggravanti di aver commesso il fatto contro un discendente e del aver agito con premeditazione.
Imputata poi del reato di cui agli art. 367 c.p. perché denunciando falsamente alle commesse di un
negozio di fiori, che, durante il periodo in cui ella si era trattenuta nel negozio, sconosciuti le
avevano aperto il veicolo affermando falsamente che in tale veicolo ella aveva lasciato il figlio
minore.
“La dinamica dei fatti inizia con una denuncia fatta ai CC alle ore 17,40 da parte di un impiegato di un
negozio di fiori che tramite una telefonata aveva denunciato la sparizione di un bimbo, figlio di una cliente.
P.M. aveva confermato il fatto precisando che quando era uscita dal negozio aveva notato che tutte le
portiere della sua macchina erano aperte, che accostandosi all’auto aveva notato l’assenza del figlio inoltre
il vano porta oggetti era aperto e il suo contenuto era stato rovesciato sul sedile.
La su esposta esposizione dei fatti trovava però subito dei riscontri negativi, infatti dall’ascolto delle altre
persone che erano in negozio nessuna aveva sentito alcun rumore proveniente dal luogo dove era
parcheggiata la macchina (arrivo o partenza di altri veicoli, voci di persone, grida di bimbo). Inoltre verso
le 21,00 una donna aveva portato ai CC uno zainetto, contenente una confezione di salviette (oggetto che
P.M. riconosceva come presente in macchina) affermarlo di averlo trovato vicino ad un cassonetto
dell’immondizia. Durante il sopraluogo nel punto dove era stato trovato lo zainetto, la donna aveva un
crollo nervoso, confessando di aver spinto suo figlio giù da un pontile (sito a pochi Km di distanza dal
cassonetto).
La donna sarebbe stata spinta all’assurdo gesto dalla convinzione che il piccolo per una presunta
menomazione della capacità di relazione, non avrebbe potuto condurre un esistenza normale.
Dalla perizia a cui è stata successivamente sottoposta la donna è emerso che il stato attuale di salute era
connotato da disagio psichico, con angoscia profonda, distacco e freddezza affettiva, con un approccio alla
realtà frammentario e confuso.
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La situazione e stata considerata di gravità tale da rendere probabili nel prossimo futuro gravi anomalie del
comportamento comportanti pericolosità per altri e per se stessa, in assenza di adeguati strumenti di tutela.
La donna è stata dunque considerata pericolosa socialmente e ritenuta, date le condizioni di grave
confusione mentale, non imputabile per vizio totale di mente. È stato disposto il ricovero in OPG per 5
anni.
La donna sposata e madre di tre figli (2 femmine di 18 e 16 anni oltre al bambino vittima) non presenta
molto di rilevante in anamnesi, fatta esclusione per il suicidio della madre, quando P.M. era adolescente.
Non risultano precedenti contatti con i servizi psichiatrici.
P.M. si descrive come persona tendenzialmente isolata e solitaria fin da bambina, in forte per le condizioni
ambientali (una cascina isolata). Non ha un buon ricordo dell’esperienza scolastica in quanto non le piaceva
studiare e preferiva la vita all’aperto. La vita relazionale si mantiene scarsa anche nel corso
dell’adolescenza: una sola amica con la quale ogni tanto andava a ballare. Le relazioni sentimentali sono
poche e superficiali fino alla conoscenza del marito, con il quale riferisce di avere un buon rapporto. Prima
del marito la persona con la quale aveva una relazione profonda è stata la madre. Afferma di provare rabbia
per il fatto che la madre si è tolta la vita. Non è in grado di formulare ipotesi sulle motivazioni del gesto.
Del fatto non ne ha più parlato con nessuno, nemmeno con i familiari. Riferisce comunque di non aver mai
vissuto condizioni di disagio emozionale, fino a quando nel tempo ha iniziato a sviluppare preoccupazioni
per il figlio.
Al momento del ricovero in OPG il quadro clinico era caratterizzato da disforia, un senso di identità
personale scarsamente definito, sentimenti di incapacità legati ai ruoli sociali, anche quello di madre, dove
investiva tutte le sue energie per raggiungere il suo ideale di madre “perfetta”, difficoltà a definire e ad
esprimere le proprie emozioni, con tendenza a manifestare la propria rabbia con modalità passive, le
relazioni interpersonali erano scarse e connotate da meccanismi di idealizzazione e svalutazione. Si è nel
tempo strutturata una condizione caratterizzata da irritazione, sospettosità nella quale viene allo scoperto
una miscela di rabbia, solitudine, vuoto interiore che si accompagna ad oscillazioni affettive. La disforia è
il segnale di una condizione affettiva che non riesce a trovare un suo equilibrio e costituisce il marker
psicopatologico di un Disturbo Borderline di personalità.
• Disturbo PARANOIDE di Personalità: rientra nel clusters Eccentrico, presenta un quadro
caratterizzato da sfiducia e sospettosità, per cui le motivazioni degli altri vengono interpretate
come malevoli. Il paranoide vive il proprio ambiente in modo ostile, è convinto di essere sfruttato,
ingannato. La sensazione di minaccia costante porta la persona a contrattaccare rapidamente e
reagire con rabbia ad ogni minima critica. Il paranoide non è in grado di instaurare relazioni
intime davvero sincere (Freilone & Valente Torre, 2005).
La storia di C.A. una donna imputata del reato di cui agli Art. 575, 577 c.p. è utile per spiegare
come accanto ad una patologia grave come il Disturbo Schizzoaffettivo slatentizzato in seguito a
situazioni di vita difficili, ci può essere un’associazione con un Disturbo di Personalità, in questo
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caso paranoide, che rende difficile la gestione delle situazioni di vita a cui ogni persona può
andare incontro:
Nel marzo del 1990 C.A. (31 anni) è stata ricoverata in TSO a seguito di volontaria ingestione di
psicofarmaci dettata dalla presenza di uno scompenso psicotico, è stata successivamente dimessa con una
diagnosi di Disturbo Paranoide di personalità.
Riferisce il primo episodio di scompenso a 15 anni. È stata sposata e poi ha divorziato. Ha avuto da questo
matrimonio due figli di cui solo uno vive con lei. Attualmente vive con un uomo. Operaia in una ditta di
confezionamento di frutta, da tempo si lamenta del fatto che le colleghe dubitino della sua femminilità.
Temeva poi anche che i suoi vicini di casa conoscessero i suoi segreti intimi. Accusa il convivente di
volerla abbandonare.
La donna ha due figli, uno di tredici anni, avuto dal suo ex marito, l’altro di cinque anni nato da una
convivenza conclusa da poco con un finanziere. La donna descrive il suo rapporto con il convivente come
travagliato, segnato da liti e tradimenti. Tre mesi prima lei aveva tentato il suicidio, dovuto alle maldicenze
delle colleghe e dei vicini di casa, secondo la quale lei non era creduta dal marito. La donna dice di essersi
isolata perché non tollerava le voci sul suo conto.
Le turbe dispercettive a contenuto insultante, pare siano iniziate alcuni mesi or sono con accentuazione
negli ultimi giorni precedenti al fatto. Permangono attuali i contenuti deliranti e i fenomeni dispercettivi.
Ciò che ha fatto perdere il controllo a C.A. il giorno del delitto è stato il comportamento del suo ex
convivente che le aveva promesso che sarebbe venuto a casa per fare una passeggiata con il bimbo. È
arrivato, ma aveva fretta e non poteva accompagnare il bimbo. È scoppiato un litigio furioso. In aggiunta
un altro causa del litigio è stato che l’uomo dichiarava di volersi recare dall’avvocato a breve, pretendendo
che la donna dichiarasse la sua rinuncia al bambino. Lei spaventata dall’idea di perdere il bambino, dopo
aver bevuto mezza bottiglia di sambuca ha detto al bambino di andare in camera da letto per giocare con lei
e lo ha soffocato con un cuscino, quindi ha telefonato all’uomo in caserma dicendo:”ho ucciso tuo figlio”
ed ha aspettato l’arrivo della polizia.
• Disturbo NARCISISTICO di Personalità: è caratterizzato da grandiosità, mancanza di empatia e
necessità di ammirazione (Freilone & Valente Torre, 2005). Ricerca costantemente attenzione e
ammirazione, non è in grado di stabilire relazioni profonde perché si approccia alla realtà e gli altri
in modo manipolatorio e unicamente funzionale ai propri interessi (Freilone, 2005). In un certo
senso gli altri non esistono per il narcisista, sono satelliti che ruotano gli ruotano attorno.
La storia di C.L. una donna imputata del delitto di cui agli art. 575, 577 c.p. in merito
all’accoltellamento della figlia nell’aprile 1999, mostra in che modo il Disturbo Narcisistico di
Personalità non consenta di stabilire relazioni al di fuori di un contesto che non si presenti come
manipolatorio:
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“il marito ha richiesto l’intervento dei CC. riferendo che la donna ha accoltellato la bambina e si è chiusa in
bagno con intenzioni suicide. I CC precipitatosi verso il bagno appurano che la porta era chiusa, avendo
comunque modo di notare da sotto la porta che la donna aveva in mano delle forbici e con le stesse si era
tagliata le vene dei polsi. La donna una volta entrati i CC rifiuta qualunque tipo di intervento,
ripetendo:”lasciatemi morire, voglio farla finita”.
Dal racconto fatto dal marito si evince che quest’ultimo, rientrato a casa per le ore 12.00 aveva rotto la
porta finestra del bagno perché aveva dimenticato le chiavi di casa e in precedenza aveva suonato ma non
aveva trovato nessuna risposta. Aveva poi trovato la moglie ai piedi del letto matrimoniale con un coltello
in mano, piena di sangue, e la bambina riversa sul letto priva di vita.
Dalla storia di vita della donna si evince che ella ha conseguito la licenza media inferiore e
successivamente interrotti gli studi ha trovato un lavoro come parrucchiera. Per un certo periodo di tempo
fa uso di droghe, favorita dal fidanzato dedito allo spaccio, ma non all’uso. L.C. interrompe l’uso di
stupefacenti quando scopre di essere incinta.
Quando nasce la bimba la donna e il padre della piccola iniziano una convivenza. Quest’ultima è
complicata dall’atteggiamento possessivo dei genitori di lui. Lei vorrebbe separarsi però teme di non avere
l’affido della figlia.
La donna, dalla relazione clinica dei medici dell’OPG, risulta affetta da Disturbo Narcisistico di Personalità
che si manifesta prevalentemente con il bisogno pervasivo di grandiosità e continua necessità di
ammirazione. Ha una forte tendenza a manipolare le persone. Presenta un assoluta mancanza di
consapevolezza emotiva, circa la natura del reato commesso, ovvero vi era la coscienza concreta e reale di
essere stata lei ad uccidere la figlia, ma il racconto del fatto assumeva le caratteristiche di una recita teatrale
imparata a memoria, per impressionare e commuovere l’interlocutore, mentre ciò che in realtà trasmetteva
era freddezza emotiva.
Questi tratti manipolatori e seduttivi hanno trovato una possibilità di manifestarsi attraverso l’instaurarsi di
una relazione sentimentale con un infermiere, che è stato successivamente allontanato dall’OPG. Nel
lavoro terapeutico si è cercato di aiutare la donna ad iniziare ad accettare le frustrazioni, senza creare una
maschera modificabile a seconda delle situazioni. Questo è stato un fondamentale passaggio di una
modificazione intrapsichica nella quale l’esigenza di apparire come una persona autonoma, indipendente,
ha lasciato il posto all’idea di essere una “persona” e come tale esposta a fragilità di cui non ci si deve
vergognare.
3.4 La negazione della gravidanza
Il fenomeno della negazione della gravidanza è stato scarsamente trattato (Bramante, 2005).
Invece può accadere che ci siano donne che partoriscono un figlio senza sapere di essere state
gravide.
Spesso la donna asserisce di aver avuto coscienza del suo stato assai tardi, avendo avuto
regolarmente le mestruazioni per alcuni mesi, di aver poi attribuito l’interruzione del ciclo ad una
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supposta irregolarità dello stesso (Bal Filoramo, 1992). La negazione della gravidanza può anche
può protrarsi così a lungo da coincidere con l’intera gestazione fino al parto che risulta
emotivamente sconvolgente proprio perché inatteso (Merzagora Betsos, 2003).
Da un punto di vista psicologico, situazioni simili manifestano l’azione di potenti meccanismi di
negazione che si avvalgono dei fenomeni di compiacenza somatica e rendono così possibile la
negazione della gravidanza. Quando questi meccanismi di compiacenza somatica non sono
presenti allora la donna attiva un processo di razionalizzazione che gli consente di spiegare i
sintomi fisici facendo riferimento a presunte “malattie” non attribuibili comunque alla gravidanza
(Merzagora Betsos, 2003).
Solitamente questo fenomeno viene descritto nelle ragazze giovani adolescenti, alla prima
gravidanza. Questo avviene proprio perché la gravidanza rappresenta un evento di vita molto
importante, fonte di stress soprattutto per un adolescente che non ha ancora strutturato il proprio
senso del Sé, che vuole essere indipendente e che vede quindi la gravidanza come un ostacolo alla
realizzazione di se stessa (Lippincott & Wilkins, 2003).
Dulit (2000) parla di tre tipi di negazione di gravidanza che possono comparire in adolescenza (cit.
in Lippincott & Wilkins, 2003).
• Il primo tipo è caratterizzato da incertezza e speranza. I segni che possono far pensare ad una
gravidanza vengono invece attribuiti a stress o ad una malattia. La speranza di non essere incinta
viene mantenuta per un lungo periodo fino a quando i segni evidenti non consentono più di
negarla.
• Il secondo tipo prende in considerazione quelle adolescenti che eventualmente riconoscono la
reale esistenza della gravidanza, ma la tengono nascosta agli occhi dei familiari, degli insegnanti e
allo stesso padre del bambino. È stata chiamata “Gravidanza Ignorata” e aumenta notevolmente il
rischio di infanticidio.
• Il terzo tipo prende in considerazione la vera e propria negazione, nel senso che si manifesta
attraverso una sorta di compiacenza somatica in cui non compare nessun segno di fisico che possa
far pensare ad una gravidanza.
La negazione della gravidanza aumenta il rischio di conseguenze negative sul bambino proprio
perché in una gestazione “normale” la donna costruisce progressivamente un’immagine del suo
bambino, sia conscia che inconscia. Immagine che accompagnerà la madre nel corso della
gravidanza e sulla quale saranno riversate tutti i desideri e le aspettative dei genitori in riferimento
al loro bambino. Questa immagine non si costituisce nel caso in cui la gravidanza venga negata e
non permette dunque di stabilire una relazione con il feto (Bal Filoramo, 1992). Infatti la relazione
madre-bambino inizia a nascere grazie alla possibilità della madre di parlare con il figlio e del
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figlio con le persone significative che gli sono accanto. Nel caso di gravidanze negate tutto questo
non avviene e il parto può rappresentare un trauma catastrofico che sconvolge il precario
equilibrio della neomamma. Questo può portare la madre ad essere travolta da sentimenti di
panico, odio e colpa che fanno si che il bimbo sia vissuto come qualcosa di sporco e pericoloso di
cui ci si deve al più presto sbarazzare (Bal Filoramo, 1992). Questa situazione è quello che Bonnet
(1993) chiama “Neonaticidio Attivo” che avviene proprio in seguito a situazioni di panico in cui si
trova la madre nel momento in cui scopre di aver partorito un figlio che “non sapeva” di aspettare.
Risulta dunque fondamentale per la madre essere aiutata nella sua presa di coscienza della reale
esistenza del bambino, in modo che si strutturi quel fondamentale legame madre-bambino che
protegge da un esito tragico come può essere quello della morte del bambino neonato (Bramante,
2005; Merzagora Betsos, 2003).
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4. OMICIDIO-SUICIDIO E FAMILICIDIO
4.1 Omicidio-suicidio
Col termine omicidio-suicidio ci si riferisce ai casi in cui una persona si toglie la vita dopo aver
commesso uno o più omicidi. Succede che la violenza eterodiretta, espressa con l'omicidio,
cambia rotta, e diventa violenza autodiretta, cioè suicidio. Nello sforzo di descrivere
l'omicidiosuicidio, la letteratura scientifica (Danto, 1978; Marzuk & Tardiff & Hirsch, 1992) ha
individuato una varietà di casi distinti per le caratteristiche delle parti coinvolte (autori e vittime) e
per gli elementi criminogenetici e criminodinamici ad essi associati.
La prima difficoltà che si incontra nel definire il fenomeno è appunto la determinazione
dell’intervallo intercorrente tra i due eventi.
Marzuk e colleghi (1992), nell’affrontare lo studio del fenomeno, prendono in considerazione i
casi nei quali il suicidio avviene al massimo una settimana dopo l’evento omicidiario. Danto
(1978) ritiene che i veri casi di omicidio-suicidio siano quelli nei quali i due eventi violenti distano
tra loro un brevissimo lasso di tempo. Rappresenta i due eventi in un unico atto, nel quale il reato
è già premeditato e non scatenato dal senso di colpa.
Secondo la definizione proposta da altri autori (Santoro & Dawood & Ayral, 1983), l’intervallo
che intercorre tra l’omicidio e il suicidio può arrivare fino a tre mesi. In questo lungo arco
temporale, l’autore dell’omicidio svilupperebbe un crescente senso di colpa che lo porterebbe ad
attuare il proposito suicida. Hussa (1900) studia gli aspetti psicopatologici dell'omicidio-suicidio,
osservando soggetti ricoverati in manicomio, che avevano tentato il suicidio successivamente a un
omicidio. Nel campione, sono molto frequenti le diagnosi di schizofrenia e di psicosi alcolica. Da
un punto di vista motivazionale, l’autore osserva che l'omicidio e il suicidio sono sempre la
conseguenza del medesimo sentimento passionale e del medesimo complesso ideologico.
Alcune volte si rinviene una causa ben precisa che, come una scintilla, scatena la catastrofe. Altre
volte, non è possibile risalire ad un’unica causa scatenante l’evento, piuttosto si descrive una
sofferenza protratta nel tempo, connessa ad un complesso di eventi che cronicamente hanno
costellato l'esistenza della persona, fino ad indurla ad agire violentemente contro altri e contro sé
stessi. Una reattività psichica anormale fu riscontrata dall'autore (Hussa, 1900) sia nelle persone
ricoverate in ospedale psichiatrico, sia in quelli detenuti nel penitenziario. Il vero e proprio malato
di mente è spinto dalla pressione delle sue interpretazioni illusorie, pertanto i tentativi di suicidio
persistono finché il soggetto non riesce nel proprio intento. In relazione al nostro studio pilota,
quello che a noi interessa è il rapporto che lega autore e vittima. In riferimento a questo importante
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punto, possiamo dire che la letteratura attribuisce grande importanza ai processi interattivi che
mettono a confronto l’autore e la vittima. Proprio sulle relazioni tra la vittima e l’autore si è basata
la classificazione di Marzuk (1992).
Il tipo più comune è l’omicidio–suicidio coniugale (per gelosia amorosa) che, secondo l'autore,
rappresenta una parte compresa tra il 50% e il 75% di tutti gli omicidi-suicidi negli Stati Uniti. Il
reato sembra essere scatenato nella maggior parte dei casi da un tradimento reale o frutto
dell'immaginazione dell'aggressore, affetto da una patologia ossessiva o psicotico paranoide.
Il secondo tipo è denominato omicidio-suicidio coniugale (per problemi di salute). In questo caso
uno dei due coniugi o entrambi hanno problemi di salute e l'omicidio-suicidio è la conseguenza
dell'incapacità di fare fronte alla malattia o alla solitudine.
Il terzo tipo è il cosiddetto figlicidio-suicidio, che comprende due categorie distinte di omicidiosuicidio, secondo l’età della vittima. Se l'omicidio viene effettuato nel medesimo giorno di nascita
della vittima si tratta di neonaticidio. Se il figlio non ha ancora terminato il primo anno di vita, si
parla di infanticidio, mentre se il figlio ha un'età compresa tra 1 anno e 16 anni si parla di
figlicidio. La metà dei figlicidisuicidi è commessa dai genitori della vittima. La percentuale di
estranei che uccidono i bambini e in seguito commettono un suicidio è molto bassa. Il suicidio
segue l'omicidio in una percentuale compresa tra 16% e 29% nel caso in cui l'autore di reato sia la
madre, tra il 40% e il 60% se l'autore è il padre (Friedman & Hrounda, 2005).
Col termine familicidio intendiamo la strage familiare, ossia lo sterminio dell'intero nucleo
familiare, comprendente, oltre al padre ed alla madre, anche eventuali fratelli e/o altri parenti.
Il familicidio-suicidio avviene spesso quando in famiglia è presente una persona anziana che
soffre di depressione. Il più delle volte l'autore del familicidio-suicidio è un maschio che, oltre a
soffrire di disturbi dell'umore, manifesta una patologia paranoide o un'intossicazione cronica. Le
vittime sono spesso i membri dell'intera famiglia, inclusi la moglie, i bambini e gli altri parenti.
Alcune volte viene sacrificato anche l’animale domestico.
In una variante del familicidio-suicidio le vittime sono costituite da un bambino mentalmente o
fisicamente disabile e dalla madre.
Il quarto e ultimo tipo è quello denominato omicidio-suicidio extrafamiliare: esso è effettuato da
persone affette da disturbi di personalità di tipo paranoico e narcisistico, che, nella convinzione di
essere stati offesi, passano all'atto omicidario, spesso a seguito di un licenziamento dal posto di
lavoro o di una negazione di una promozione o di un'agevolazione finanziaria. Quindi, in questi
casi, l'omicidio ha carattere vendicativo nei confronti di datori di lavoro, insegnanti, medici o
banchieri (cit. in Brett, 2002).
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West (1967) in una ricerca effettuata riporta che il gruppo degli omicidi suicidi differisce da
quello dei semplici omicidi in riferimento ad alcune variabile che riguardano nel caso del primo
gruppo, l’ampio numero di donne omicida che tenta poi il suicidio e il largo numero di vittime che
sono appunto bambini.
A questo proposito possiamo osservare come nel nostro campione il 43% degli autori di reato
hanno cercato di suicidarsi in seguito all’uccisione del proprio bambino. L’omicidio-tentato
suicidio (“murder-parasuicide”) è definito da Brett (2002) come il successo nella messa in atto del
proposito omicidiario, seguito però dall’insuccesso nella messa in atto del suicidio.
1. Omicidio-Suicidio “per pietà”: il primo coinvolge una vittima che presenta problemi di salute,
l’autore del reato decide così di uccidere la vittima per risparmiarle eccessive sofferenze;
2. Omicidio altruistico o suicidio allargato: comprende casi in cui il suicida uccide perché crede la
vittima sia completamente dipendente da lui, vi dunque è la convinzione che la vittima non possa
vivere senza la protezione dell'aggressore. In riferimento alla prima tipologia, vale la pena di
riportare quanto evidenziato nel Rapporto Eures (2004) sull’Omicidio volontario in Italia nel
2003, nella parte in cui, in particolare, si occupa degli omicidi in situazioni di grave disagio fisico,
mentale e sociale, ed appunto anche della tipologia qui descritta: “Negli ultimi 4 anni (tra il 2000 e
il 2003) sono state 54 in Italia le vittime di omicidio monitorate dalla banca dati Eures che hanno
come movente una situazione di grave disagio fisico, 43%, 52%, 5% omicidi-tentati suicidi
omicidio famiglicidio mentale o sociale della vittima. Il fenomeno appare in forte crescita: si è
infatti passati da 10 casi nel 2000, a 12 nel 2001, a 14 nel 2002, a 18 nel 2003 (+80% nell’intero
periodo). Una crescita di notevoli dimensioni ha riguardato il Nord che ha visto triplicati, nel
periodo considerato, i casi (passando da 5 a 13); complessivamente stabile, o in diminuzione, il
dato del Centro e del Sud. Ed è proprio al Nord che si registra la maggiore incidenza del fenomeno
[…]. La grave malattia fisica risulta, con 21 vittime tra il 2000 e il 2003 (pari al 38,9%), insieme
all’handicap fisico (ancora con 21 vittime) la condizione più frequentemente rilevata tra le vittime
di omicidio in condizioni di grave disagio; seguono le situazioni di disagio mentale (9 vittime nel
quadriennio, pari al 16,7%) e l’abuso di alcool e droga (3 vittime, pari al 5,6%), (Eures, 2004,
p.5).
Successivamente all’omicidio la maggior parte degli autori realizzano o tentano il suicidio. Tale
elevata incidenza sembra indicare l’incapacità dell’autore a sopravvivere all’atto stesso e
confermare l’alto grado di sofferenza che comporta la scelta di uccidere una persona amata: tra il
2000 e il 2003, dopo l’omicidio di una persona in situazione di grave disagio, il 38,9% degli autori
(21 in valori assoluti) si è suicidato, mentre il 18,5% ha tentato il suicidio” (Eures, 2004, p.68).
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Nel nostro campione abbiamo trovato due “presunti” casi di figlicidio pietatis causa. Sottolineo
presunti perché in realtà in tali casi una delle motivazioni che ha portato all’uccisione dei figli (e
al tentato suicidio) è stato il credere che quest’ultimi presentassero dei gravi problemi che non
avrebbero permesso loro di vivere una vita serena:
- “D.E. un uomo imputato dei delitti di cui agli art. 56, 575, 576 n 2, 61 n 4 e 5 c.p. perché colpendo i figli
(un bimbo di anni 9 e una bimba di anni 5) in regioni vitali del corpo con un coltello da cucina appuntito,
compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte, non riuscendo nell’intento per il
sopraggiungere di un passante che riusciva a mettere in salvo i bambini, pensa di avere una malattia
cardiaca grave. Visitato da specialisti, è stata esclusa questa eventualità, ma ogni tentativo di rassicurarlo in
questo senso è stato vano. Nei giorni precedenti al reato ha strutturato in un crescendo psicopatologico,
l’idea di malattie ineluttabili per sé e per i propri figli, per cui nell’ambito di un delirio di rovina che stava
coinvolgendo la sua famiglia, ha agito il tentativo eterolesivo verso i figli e poi autolesivo. L’uomo
affermerà poi che le idee di malattia lo hanno perseguitato per mesi: “Ho pensato che fosse meglio morire
tutti assieme per salvarsi da un futuro di sofferenza e rovina”.
- Una donna (S.L.) imputata di reato di cui art. 575 577 ha cagionato la morte per asfissia meccanica
violenta secondaria a soffocamento del figlio di anni 2, premendo il cuscino sul suo volto e afferrandogli il
collo con le mani, con l’aggravante di aver commesso il fatto contro il discendente.
Il convivente (G.) chiede alle ore 13.00 l’intervento dei CC perché la compagna aveva ucciso il figlio. I CC
giunti nell’abitazione constatavano che sul letto matrimoniale giaceva supino il corpo senza vita del bimbo.
La donna all’arrivo dei CC dichiarava spontaneamente e con estrema calma, di aver ucciso il figlio perché
stava soffrendo. Durante il sopraluogo veniva notato, in camera da letto il biglietto con scritto:” non sono
più degna di vivere”, sul letto inoltre accanto al bimbo 2 guanciali, uno dei quali con macchie riferibili al
liquido organico (sangue, saliva). La donna ha in seguito dichiarato che prima di mettere le mani attorno al
collo aveva pensato di fermarsi ma poi aveva deciso di continuare. Intendendosi uccidere con un coltello
aveva scritto su un foglio il messaggio suddetto, ma poi non aveva attuato la decisione.
In riferimento alla seconda tipologia è necessario fare le dovute precisazioni, infatti come abbiamo
visto in precedenze, l’omicidio-suicidio è stato talvolta definito “omicidio altruistico” o “suicidio
allargato” per mettere in rilievo il duplice aspetto: l’essere strettamente legato alla patologia
depressiva e l’essere motivato da una, benché perversa, oblatività: “Una vera specialità dei
melanconici è il cosiddetto suicidio altruista o suicidio-omicidio per pietà, che consiste in un
suicidio preceduto dall’omicidio di una o più persone sotto l’effetto dell’idea delirante secondo la
quale il soggetto si sente di dover sottrarre altre persone alle sofferenze che comporta l’esistenza”
(Fornari, 2004, p.85). Un reato di natura altruistica, addirittura “estremo atto d’amore” che spesso
vede il genitore uccidere la creatura o le creature amate, soprattutto i figli più piccoli e quindi
maggiormente esposti ed indifesi di fronte alle avversità della vita, “con lo scopo di sottrarre le
vittime ad una vita di miserie e di malattie e di proteggerle simbolicamente da un futuro di
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angustie, di peccato, di infelicità” (Fornari, 2004, p.285). E’ opportuno peraltro mettere in dubbio
l’autenticità di questa ricostruzione, ed affermare piuttosto che spesso questo amore appare una
forma raffinata di egoismo, non di altruismo, soprattutto per quei casi, e sono molti, in cui è il
genitore ad uccidere, senza poi “riuscire” nel suicidio ed in cui quindi è la posessività, non certo
l’oblatività, alla base del gesto.
Nel nostro campione troviamo diversi casi di figlicidio-suicidio che si rifanno a motivazioni
altruistiche, o comunque alla volontà di seguire il figlio/a dopo aver attuato il gesto estremo.
Esempi significativi possono essere:
- “Una donna (B.S.) imputata del delitto di cui agli art. 575, 577 n 1 c.p. perché cagionava la morte del
proprio figlio dell’età di 18 mesi. In particolare dopo aver maturato nel corso della notte il proposito di
uccidere sé e il proprio bambino, la mattina del 14/05/1998, verso le h.6.00 si alzava dal letto, preparava e
dava la colazione al figlio, quindi tenendolo in braccio usciva dall’abitazione e percorreva il sentiero che
conduce al fiume, giunta sulle rive del quale, si immergeva nella corrente, così determinandone la morte
per annegamento. La stessa, non avendo più il coraggio di portare a termine l’atto suicidiario, riusciva a
tornare a riva. Usciva dall’acqua, ritenuto il figlio morto, si avvicinava presso il paese per costituirsi alle
autorità”.
- “giungeva ai CC una telefonata, nella quale la madre di F.M., una donna imputata del delitto art.575, 577
c.p. per aver volontariamente cagionato la morte della figlia A. di 16 mesi colpendola con coltellate al collo
il 30/05/1995, riferiva preoccupazione avendo ricevuto a sua volta una telefonata dalla figlia che dichiarava
di aver ucciso la nipote e di essere in procinto di suicidarsi. I CC giunti sul posto, forzata la porta trovano
F.M. distesa sul letto con un coltello da cucina in mano, accanto alla figlia entrambe in una pozza di
sangue. La figlia era già morta per un taglio alla gola, F.M. anch’essa con ferite multiple al collo, respirava
ancora. Rimosso il corpo venivano rinvenuti altri due coltelli da cucina sporchi di sangue, sul comodino
c’erano scatole di psicofarmaci, sul tavolo della cucina un biglietto con sopra scritto:” ho finito andare in
psichiatria portatemi a Busiago”. A conferma del tentativo di suicidio della donna, oltre ai non evidenti
segni di effrazione nella casa da parte di terzi, esiste un precedente tentativo di suicidio; già due mesi prima
aveva cercato di gettarsi dalla finestra con la figlia”.
-“sono stati chiamati i CC perché una giovane donna (C.P.) imputata del delitto di cui agli art. 575, 577 c.p.
a distanza di pochi giorni dalla nascita della figlia primogenita si è defenestrata con in braccio la bambina,
procurandosi gravi lesioni e cagionando la morte della piccola.
- “una donna (P.N.) è indagata del delitto di cui agli art.575, 577 c.p. per aver compiuto, per futili motivi,
atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte del proprio figlio (8 anni) contro il quale
infliggeva numerosi colpi penetranti di arma da taglio, colpendolo in parti vitali del corpo e non
cagionando l’evento morte per cause indipendenti dalla sua volontà. La donna, in uno stato di evidente
confusione mentale, ha inoltre tentato il suicidio non riuscendo però nell’intento di togliersi la vita”.
- “è stato richiesto l’intervento dei CC dal marito di una donna (C.L.) imputata del delitto di cui agli art.
575, 577 che riferisce che la moglie ha accoltellato la bambina e si è chiusa in bagno con intenzioni suicide.
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I CC precipitatosi verso il bagno appurano che la porta era chiusa, avendo comunque modo di notare da
sotto la porta che la donna aveva in mano delle forbici e con le stesse si era tagliata le vene dei polsi. La
donna una volta entrati i CC rifiuta qualunque tipo di intervento, ripetendo:”lasciatemi morire, voglio farla
finita”.
In tutti questi casi descritti le persone autori del reato presentavano gravi patologie psichiatriche,
questo dato va a confermare la letteratura scientifica sul tema che mette in evidenza come la
malattia mentale e in particolare la depressione sia stata frequentemente trovata nei casi di
omicidio-suicidio e in particolare nei casi di figlicidio-suicidio (Bourget & Gagné, 2005;
Friedman & Hrounda, 2005; Bourget & Grace & Whitehurst, 2007).
Il figlicidio-suicidio è una doppia tragedia che produce un profondo dolore tra i membri delle
famiglie che rimangono (Daly & Wilson, 1988). Viene sottolineato inoltre da Meyer e Orberman
(2001) che nelle loro ricerche notarono che :”le donne che commettono infanticidio e dopo
attentano alla loro stessa vita hanno più probabilità di uccidersi” (Meyer & Oberman, 2001, p. 91).
Resnick (1969) da parte sua sottolinea come il 30-40% dei genitori presenta sintomi psichiatrici
prima di commettere un figlicidio e che il 40% ha recentemente visto un medico o uno psichiatra.
Infatti “alcune madri avevano parlato apertamente di suicidio e avevano espresso sconcerto circa il
futuro dei figli” (Resnick, 1969, p.80). Se dunque alcuni fattori comuni, precipitanti o di rischio,
precedenti al figlicidiosuicidio, possono essere identificati, vi è speranza che alcune morti possano
essere prevenute.
Le caratteristiche comuni del figlicidio-suicidio (Friedman & Debra, 2005) sono: gravi disturbi
mentali (Schizofrenia, Disturbi schizoaffettivi, Disturbo Depressivo Maggiore, Disturbo Bipolare),
un precedente contatto con specialisti della salute mentale, tentativi di suicidi in passato, un
povero supporto sociale ed un anormale relazione con i figli, inoltre specifiche delusioni (riguardo
i figli o i familiari) possono essere legati al figlicidio-suicidio.
Per quanto riguarda le motivazioni che portano al figlicidio-suicidio viene sottolineato come i
maggiori motivi (70%) sono legati all’altruismo, i genitori sono motivati dall’alleviare le
sofferenze dei figli (Friedman & Hrounda, 2005). La categoria altruistica viene però suddivisa in:
“psicotici altruistici” e “non psicotici altruisti”. Per esempio le motivazione psicotiche riguardano
la possibilità di salvare il figlio da un destino fatale. In alternativa i non psicotici altruisti credono
possono credere che i disturbi fisici del bimbo avrebbero portato ad una vita di sofferenze
(Friedman & Hrounda, 2005, p. 501).
Quello che risulta importante ai fini del nostro studio esplorativo è comprendere come mai spesso
il suicidio successivo all’omicidio non riesce ad essere attuato o comunque non viene portato a
termine. A questo proposito Resnick (1969) tenta di dare una spiegazione dicendo che si verifica
un “sollievo dalla tensione” dopo aver compiuto il figlicidio. Dunque la perdita di energia che si
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verifica dopo aver ucciso il figlio spiega come mai i genitori che vogliono commettere figlicidiosuicidio, non commettano l’atto del suicidio. Può anche succedere che alcuni genitori “dopo la
realizzazione del loro atto […] non tentino il suicidio se non era già nei piani” (Resnick, 1969, p.
79).
Alcuni autori (Shackelford & Beasley, 2005) hanno studiato i fattori che potrebbero predire il
suicidio dopo il figlicidio. Questi fattori includono il numero delle vittime uccise, il sesso
dell’omicida, l’età della vittima e quella del colpevole. Le ipotesi che hanno trovato conferma
sono quelle che sostengono come il figlicidio che comprende molteplici vittime ha molte più
probabilità di terminare in un suicidio del figlicida, rispetto a quello in cui è coinvolta un'unica
vittima. Inoltre il rischio cresce con l’età del bambino. Questo perché il figlicidio di molteplici
vittime e di vittime più grandi ha molto più probabilità di avere come ragione di base la patologia
mentale dei genitori e questo di conseguenza fa aumentare il rischio di suicidio (Daly & Wilson,
1998).
4.2 Il familicidio
Il familicidio è un atto ancora più estremo di omicidio-suicidio proprio perché a morire possono
essere più di un membro della famiglia se non tutti. Nei casi di familicidio, l’assassino si rivolge
contro i membri della sua famiglia e in seguito nella maggior parte dei casi tenta di suicidarsi.
Usando il database canadese per esempio, Daly e Wilson (1988) trovarono che 26 su 290 figlicidi
(9%) erano familicidi (cit. in Shackelford & Beasley, 2005, p. 399).
Dietz (1986) descrive i perpetratori di familicidio come: “l’annientatore familiare è solitamente un
vecchio uomo, che è depresso, paranoico, alcolizzato o una combinazione di tutto questo. Uccide
tutti i membri della famiglia che sono presenti, alcune volte inclusi gli animali domestici.
Commette suicidio dopo aver ucciso o forza la polizia ad ucciderlo” (Cit. in Friedmann &
Hrounda, 2005, p.502).
Morton et al (1998) evidenziano che il familicidio-suicidio è spesso preceduto da una serie di
fattori che includono una severa depressione e idee suicidiarie, un matrimonio conflittuale, una
separazione e malattie nelle vittime o nei perpetratori (cit. in Friedmann & Hrounda, 2005, p.
502).
I perpetratori di familicidio sono divisi in (Friedmann & Hrounda, 2005, p. 502):
• “Accusatori”: presentano una storia di violenza familiare.
• “Abbattuti”: vengono descritti come uomini depressi, che temono disastri per se e per la
propria famiglia e che vedono il familicidio come “l’unica via di uscita”.
Nel nostro campione troviamo un unico caso di familicidio, commesso da una donna:
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-“L.F. imputata del delitto previsto e punito agli artt. 575, 576, 577 perché in esecuzione del medesimo
disegno criminoso ed in rapida successione temporale, esplodeva da distanza ravvicinata tre colpi di arma
da fuoco contro la figlia, il figlio e il marito, cagionando la morte della figlia (21 anni) e compiendo atti
diretti in modo non equivoco a cagionare la morte del figlio (18 anni) e del marito, non conseguendo tale
evento per cause estranee alla sua volontà con l’aggravante di aver commesso il fatto con premeditazione e
preparazione dei mezzi necessari al fatto reato.
-del delitto previsto agli art. 10 e 14 legge 497/74 perché illegalmente deteneva l’arma comune da sparo
utilizzata per commettere il delitto di cui sopra.
L.F. è dunque chiamata a rispondere di omicidio aggravato e premeditato, compiuto in danno alla figlia e
omicidio tentato nei confronti del figlio e del marito. La sera precedente al fatto reato, la signora con il
marito e la figlia si era recata in visita presso la famiglia dei vicini, il figlio era rimasto a casa a guardare la
televisione. Mentre erano dai vicini, la donna che era al corrente che loro detenevano un arma, aveva rubato
la pistola. Alle cinque del mattino L.F. si era alzata, si era recata in camera del figlio e l’aveva colpito con
un colpo di pistola, ferendola, poi era andata dalla figlia e aveva sparato (la figlia morirà un ora dopo in
ospedale), infine aveva sparato un terzo colpo al marito che nel frattempo si era alzato ed era accorso.
La donna ha cercato di rivolgere la pistola anche contro di sé, con l’intento di suicidarsi, ma è stata bloccata
dal coniuge. La donna riferisce di aver sparato ai figli per liberarli da un fantomatico pericolo che, a suo
dire, le si era presentato con chiarezza quando ella aveva visto un cartoncino augurale raffigurante un
immagine religiosa ed un aquilone. La donna era già stata in cura per il centro psichiatrico di un ospedale
per crisi depressive.
La consulenza psichiatrica ha concluso che l’imputata al momento dei fatti era affetta da “Disturbo
depressivo Maggiore, Episodio singolo,Grave, con manifestazioni psicotiche” corrispondente ad una forma
molto grave di psicosi maniaco-depressiva.
Dalla perizia si evince che la donna ha compiuto i fatti spinta da un incoercibile impulso, dettato dalla
impellente necessità di “impedire che qualcuno potesse fare del male ai suoi familiari” da tempo infatti la
donna si sentiva minacciata, perseguitata e spiata, senza potere spiegare da chi e per quale ragione e temeva
anche per l’incolumità dei suoi figli. L.F. pensava di essere spiata in casa da telecamere che ha cercato di
trovare, concludendo, non trovandole, di poter essere spiata mediante la televisione”.
Questo caso di particolare drammaticità conferma quanto sostenuto dalla letteratura sul tema
(Santoro, 1985; De Luca, 2004), che riporta come prima della strage, l’assassino può manifestare
un comportamento paranoide (mania di persecuzione) in forma accentuata. Non esiste comunque
una causa unica capace di spiegare il familicidio, possono esistere invece fattori precipitanti
situazionali che possono concorrere a determinare l’inaspettata esplosione di rabbia. Persone
sottoposte a continue frustrazioni, vulnerabili sotto il profilo psicologico possono mettere in atto
comportamenti di questo genere (De Luca, 2001).
Dobbiamo a questo proposito sottolineare che a volte, è la famiglia stessa ad essere complice della
tragedia che la disgregherà, ignorando ciò che accade al suo interno, rimuovendo cause ed effetti
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del malessere di alcuni suoi membri, negando addirittura l’esistenza di certe patologie in essa
latenti.
Proprio a questo proposito vorremmo cercare di capire che tipo di rapporto vi è tra i membri della
famiglia in cui avvengono queste tragedie, soprattutto che tipo di rapporto lega i genitori e i figli.
Data la giovanissima età dei bambini vittima di figlicidio, nella cartella personale dei rei non sono
state trovate informazioni riguardanti il tipo di rapporto che legava genitori e figli, solo in un caso
era presente una spiegazione più dettagliata del legame tra mamma e figlio (S.L.).
Sappiamo che il rapporto genitore-figlio può essere gratificante, quanto complicato. Spesso
l’amore sfocia in conflittualità, in confusione e incertezza riguardo al futuro. Nella tragica storia di
S.L. una donna imputata del reato di cui agli art. 575, 577 perché colpendo più volte alla gola il
figlio provocava la morte dello stesso a seguito di shock emorragico, viene evidenziata dagli stessi
fatti,
la
percezione
dell’impossibilità
di
risolvere
una
situazione
familiare
vissuta
drammaticamente e tutto si presenta dunque disperato e senza speranza.
- “ riguardo alla vita familiare di S.L. sappiamo che la signora e il marito si conoscono a Roma e decidono
di sposarsi, lei ha vent’anni meno di lui. Dall’unione nascono due figli maschi (40 e 38 anni). Il clima
all’interno della famiglia è caratterizzato dal carattere duro e impositivo del padre che gestisce tutto e tutti
da “padre padrone”. Uno dei due figli (non la vittima) si sposa molto presto e ha una figlia che oggi è
ventunenne. Il matrimonio dura pochissimo, un anno dopo è già finito. Amando viaggiare il figlio si
trasferisce allora in Costarica dove vi trascorre 13 anni lavorando in un ristorante.
Apprende la notizia dell’evento tragico solo un mese più tardi quando torna in Italia. Il secondogenito, (la
vittima) si sposa nel 1981 e ha due figli (18 anni e 15 anni). In seguito ad un litigio con il fratello quando si
trovava in Costarica, comincia ad accusare forti sintomi da stress, atteggiamenti depressivi ed un
aggressività sempre maggiore, nel 1999 lascia il lavoro definitivamente e si chiude in casa davanti alla
televisione. Da questo momento iniziano frequenti episodi deliranti e allucinatori. Con il passare del tempo
aumentano gli episodi aggressivi, arriva a picchiare la madre che spaventata chiama la polizia, viene
eseguito un TSO quando ritorna a casa va a stare dalla madre perché la moglie è preoccupata per i figli.
Dopo pochi giorni viene ricoverato di nuovo, in piena notte. La mattina successiva un po’ disorientato
decide di tornare a casa, ma quando la moglie non vuole aprire, butta giù la porta e si ristabilisce in casa
con violenza. Dopo una settimana in preda probabilmente ad un allucinazione si butta giù dalla finestra del
terzo piano e rimane tragicamente ferito, e durante il ricovero in ospedale la madre compie il fatale gesto.
Il marito (94 anni) della donna rea risulta ricoverato in una clinica da due anni per encefalopatia vascolare
cronica. Non è stato informato della morte del figlio, ne della detenzione della moglie (74 anni).
La donna riferirà che si era accorta che stava succedendo qualcosa e l’ansia l’ha portata a recarsi al pronto
soccorso dove le venivano prescritte delle cure che stava ancora praticando. Dichiarerà che in seguito alla
caduta del figlio dalla finestra gli avevano dovuto amputare una gamba, senza chiedere però il suo
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permesso. Ha colpito il figlio con un coltello perché: “Non volevo che si vedesse così, che soffriva ancora,
si sarebbe sicuramente suicidato..era bello come il sole, intelligente!”
Ha dichiarato inoltre la sua frustrazione per non poter aiutare il marito ricoverato e per non essere riuscita
ad aiutare il figlio”.
Da questa storia possiamo capire quanto l’isolamento e la solitudine di questa donna abbiano
influito sulla sua decisione di commettere l’insano gesto e quanta sofferenza questo abbia
comportato (Monti, Agostini, 2006).
Il difficile rapporto di questa donna con il figlio ha avuto una tragica escalation che può però
essere visto come un estremo atto di amore di questa madre, che ha cercato di proteggere il figlio
da ulteriori sofferenze e difficoltà (Merzagora Betsos, 2003).
Le reazioni dei familiari di fronte alla sofferenza possono essere le più diverse e ognuna di queste
deve essere contestualizzata all’interno dell’ambiente relazionale da cui trae origine.
Attraverso questo caso abbiamo evidenziato le relazioni che legano genitore e figlio, perpetratore
e vittima. Per un’analisi più completa occorre prendere in considerazione che tipo di legame
permane tra il perpetratore e gli altri membri del nucleo familiare in seguito al reato, e alle
conseguenze che esso comporta.
4.3 Reazioni del nucleo familiare al figlicidio
Nella maggior parte dei casi (35%) il compagno abbandona le pazienti al loro destino o si
interessano relativamente a loro. Sono in proporzione pochi i casi di coinvolgimento vero, tale da
porsi da valido sostegno affettivo. Il nucleo familiare si disgrega di fronte alla crisi nata in seguito
all’uccisione di un figlio e le pazienti vivono, in seguito alla presa di distanza da parte del
compagno, forti stress che si ripercuotono sulla loro stabilità emotiva delle stesse.
Per quanto riguarda la reazione manifestata dalla famiglia di origine del perpetratore, possiamo
osservare come la maggior parte dei genitori mostri affetto nei confronti del figlio/a. di norma è la
stessa famiglia di origine che accoglie il perpetratore una volta uscito dall’O.P.G.
Vi è comunque un alta percentuale (24%) di genitori che sostengono solo parzialmente il figlio/a
perché non riescono più a fidarsi di quest’ultimo e inoltre si incolpano di non aver saputo capire la
gravità della situazione e la sofferenza provata dal figlio in precedenza al fatto reato (1
Comunicazione personale del Direttore A. Calogero).
Risulta dunque di fondamentale importanza cercare di intervenire sulle relazioni che legano i
componenti del nucleo famigliare in modo ricostruire la storia personale e gli affetti a partire dal
momento in cui si era interrotto l’equilibrio personale e relazionale per la malattia prima e dopo il
reato. L’impegno quotidiano in ambito riabilitativo ed il lavoro, la terapia psicofarmacologica, il
sostegno psicologico ed assistenziale permettono di mobilitare quelle risorse interne fondamentali
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per la ricostruzione della propria personalità. Per la facilitare la ricostruzione dei legami familiari
l’O.P.G. di Castiglione delle Stiviere permette l’accesso ai familiari quotidianamente e la
consumazione dei pasti insieme. Attraverso questi interventi si cerca di fornire tutti quegli stimoli
che possono portare ad un miglioramento della vita attraverso lo sviluppo di aspettative più
realistiche in riferimento a sé e all’ambiente circostante.
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5. PROSPETTIVA GIURIDICA
SULL’INFANTICIDIO E SUL FIGLICIDIO
5.1 Il concetto di imputabilità: excursus storico
Il senso comune descrive la famiglia come il luogo degli affetti, delle sicurezze, delle relazione
che permettono di costruire la realtà di vita di ciascuno di noi.
La famiglia rappresenta il primo canale di comunicazione normativo (Ponti,1999) attraverso cui
dovrebbero venire appresi i valori etici che guidano le relazioni all’interno di una determinata
società.
In realtà è però che lo stereotipo a cui spesso facciamo riferimento quando pensiamo alla famiglia,
può essere visto come un fenomeno alla Giano-bifronte, dove, da una parte vi è la famiglia vista
come costituita dagli affetti sinceri, profondi che legano le persone che la costituiscono, ma
dall’altra, la faccia troppo spesso dimenticata della famiglia, è che tra i sentimenti rientrano anche
l’odio, il rancore che possono portare le persone a perdere il controllo e compiere azioni che mai
avremmo voluto vedere commesse.
Ecco perché ogni volta che accadono delitti come l’infanticidio o il figlicidio, spesso la prima
considerazione che balza alla mente è la seguente: “non può essere diversamente, si tratta di una
donna malata, depressa, pazza, con gravi problemi psichici. Non può trattarsi di una madre sana di
mente, lucida, capace d’intendere e di volere”. La malattia è la causa più spesso invocata in questi
casi. È necessario però porre attenzione ad una distinzione: una cosa è domandare se quella
persona fosse affetta da una patologia o almeno da qualche forma di alterazione mentale mentre
commetteva, (irresponsabilmente) un reato, qualunque esso sia.
Altra cosa è riconoscere che all’origine di un particolare tipo di crimine vi sia una generale
condizione irta di difficoltà che in casi estremi conducono all’omicidio e talvolta al suicidio.
La realtà, purtroppo, è ben diversa dalla nostra immaginazione: nel nostro Paese ogni anno solo in
un terzo dei casi di infanticidio e figlicidio le madri sono dichiarate non imputabili, perché
incapaci di intendere e volere1 (Stanzani & Stendardo, 2003).
Ecco allora che appare opportuno interrogarsi sul concetto di imputabilità nel nostro ordinamento,
di capacità d’intendere e di volere, di vizio totale di mente e delle varie tipologie di infermità
mentali che possono essere i fattori scatenanti delitti simili.
Le valutazioni riguardanti il vizio di mente sono spesso influenzate da stereotipi culturali, ed è per
questo che vanno compiute con grande attenzione e rigore, tenendo conto del rischio di adottare
una “soluzione psichiatrica” in modo da allontanare attraverso la categoria della “follia” la
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necessità di interrogarsi sulla “normalità” (Giammarinaro,2006). L’autonomia individuale é un
fatto tra i più basilari della vita degli esseri umani. La convivenza sociale, le relazioni personali e
la realizzazione di sé stessi presuppongono la capacità di intendere e di volere. Ma non si tratta di
un semplice tratto biologico. La cultura e le convenzioni sociali svolgono un ruolo essenziale.
L’autonomia richiede che si sappia motivare ragionevolmente la propria condotta.
Ma che cos’è una ragione? Possiamo dire che sono gli orizzonti di senso, e cioè l’insieme di
significati che diamo alle cose, ad aiutarci a descrivere le azioni e a permetterci di discriminare i
comportamenti, come dettati dalla ragione o dalla follia. La percezione di questa pluralità non può
non renderci cauti nel dare per scontata la nostra concezione di ciò che è ragionevole e di ciò che
non lo è. Nel momento in cui viene affermato il valore della pluralità degli stili di vita e delle
concezioni del mondo, come porre la distinzione tra autonomia e incapacità di intendere e di
volere? La scienza psichiatrica può farlo? O non si arroga un compito che appartiene alla più
ampia riflessione morale dell’individuo?
1
La suddetta informazione mi è stata gentilmente fornita dal Dott. Antonino Calogero, direttore
dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, presso il quale si è svolto lo studio
esplorativo.
Per cercare di rispondere a queste domande è importante riflettere su alcune questioni.
Principio antico è quello secondo il quale chi sia “folle”, “malato di mente”, “disturbato
psichicamente”, o “sofferente psichico” in modo da vedere compromesse le sue capacità di
comprendere e/o di libera determinazione, debba essere considerato meno o per nulla responsabile
dei propri atti.
Nel diritto romano, i “fatui”e i “furiosi” che si fossero resi responsabili di reati, andavano immuni
da punizioni; la “fatuitas” era pressoché assimilabile al difetto di intelligenza; nel concetto di
“furor” venivano ricomprese tutte le varie forme di follia (Fornari,1987). Già allora si conosceva
la possibilità di un “lucido intervallo”, così che se il delitto era commesso in tale periodo non vi
era discriminante.
Successivamente, con il diritto penale germanico, si ha l’unica eccezione alla regola universale:
tale diritto, avendo riguardo esclusivo all’elemento oggettivo del danno, non si cura dell’elemento
soggettivo e dunque considera responsabili anche i malati di mente.
Il diritto penale canonico, invece, escludeva l’imputabilità per coloro a cui facevano difetto il
discernimento e la volontà, e già si adombravano gli attuali concetti di capacità di intendere e di
volere, in altre parole i dementi e i furiosi, comprendendosi anche le situazioni di furore
improvviso e transitorio; venivano ricomprese nel concetto di malattia mentale anche l’ira
subitanea, il dolore intenso, poiché appunto suscettibili di incidere sulla consapevolezza e sulla
libertà dell’azione (Fornari, 2004, p. 4).
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Riferimento obbligato per la storia del diritto, è il Codice napoleonico del 1810, poiché ispirerà
tutta la codificazione europea del XIX secolo.
Per quanto riguarda le norme regolanti l’imputabilità il suo articolo 64 così recitava: “Non esiste
né crimine né delitto allorché l’imputato trovavasi in stato di demenza al momento dell’azione,
ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non poté resistere”(Fornari, 2004).
Nei lavori preparatori si chiarisce che l’azione è imputabile con il concorso simultaneo di
cognizione, volontà e libertà, e che: “E’ demente colui che soffre una privazione di ragione; che
non conosce la verità; che ignora se ciò che fa sia bene o male; e che non può affatto adempiere i
doveri più ordinari della vita civile. Un uomo posto in questo stato è un corpo che ha soltanto
figura e ombra di uomo; il suo reato è tutto fisico, poiché moralmente non esiste nulla”.
Concezione questa, da come si può evincere, molto ristretta e severa. Si chiarisce altresì da parte
della dottrina francese dell’epoca che la demenza comprende la follia furiosa, l’idiozia o
l’imbecillità, la monomania o l’allucinazione (Fornari, 2004, p. 15).
Con l’Unità d’Italia, fu esteso nel Paese il Codice penale Sardo del 1859, il quale divenne pertanto
il primo Codice penale dell’Italia unitaria. In esso, l’imputabilità fu regolata, da quel momento in
poi e per trent’anni (1889), dagli articoli 94 e 95.
L’articolo 94 così stabiliva: “Non vi è reato se l’imputato trovavasi in istato di assoluta imbecillità,
di pazzia, o di morboso furore quando commise l’azione, ovvero se vi fu tratto da una forza alla
quale non poté resistere”. Dunque ci si riferiva ad una generale incapacità di inibire gli impulsi. E
ancora, l’articolo 95 recitava: “Allorché la pazzia, l’imbecillità, il furore o la forza non si
riconoscessero a tal grado da rendere non imputabile affatto l’azione, i Giudici applicheranno
all’imputato, secondo le circostanze dei casi, la pena del carcere estensibile anche ad anni dieci, o
quella della custodia, estensibile anche ad anni venti [...]”.
Ma questa normativa rimase in vigore solo fino al 1889, ovverosia fino a quando, il 30 Giugno di
quell’anno, non fu approvato il Codice Zanardelli, esso contiene molteplici innovazioni,
importanti e moderne, che lo fecero apprezzare non solo nel nostro Paese, ma anche all’estero
(Ghisalberti, 1985, p. 171).
Il pregio del codice Zanardelli è proprio quello di aver previsto l’elemento morale, intuendone
così l’importanza, accanto alla esecuzione materiale del fatto ai fini della dichiarazione di
colpevolezza, secondo la convinzione ormai comune “che la sola esecuzione materiale del fatto
non possa ritenersi sufficiente per dichiarare l’autore medesimo colpevole di un reato ed
assoggettarlo alla sanzione penale corrispondente” (Bertolino, 1990, p. 361).
L’articolo 46 recitava: “Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in
tale stato di infermità di mente da togliersi la coscienza o la libertà dei propri atti”. In questo modo
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si voleva evitare una classificazione troppo casistica e per questo non esaustiva delle varie forme
di disturbi mentali, di natura morbosa, ai quali riconoscere efficacia scusante (Fornari, 2004).
Per quanto concerne il trattamento dei soggetti ritenuti non imputabili per infermità di mente,
emersero una serie di conflitti: il progetto Zanardelli, inizialmente, sembrò appoggiare la
posizione positivista a favore dei manicomi criminali, prevedendo una disposizione in cui si
stabiliva che “il giudice poteva ordinare il ricovero del soggetto prosciolto per infermità di mente
in manicomio criminale o comune”.
Tale disposizione però non trovò accoglimento, poiché si sostenne che avrebbe attribuito al
magistrato un arbitrio senza limiti, ciò portò ad una nuova formulazione della disposizione in
esame, secondo la quale “il giudice, ove stimi pericolosa la liberazione dell’imputato prosciolto,
ne ordina la consegna all’autorità competente per i provvedimenti di legge”(Bertolino, 1990,
p.374).
Il codice Zanardelli rappresenta nel complesso la realizzazione di quel modello di diritto penale
teorizzato dalla Scuola Classica, la quale, muovendo dal postulato del libero arbitrio, e cioè
dell’uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni, pone a fondamento del diritto
penale la responsabilità morale del soggetto e la concezione etico -retributiva della pena
(Mantovani, 1992, p. 560).
Nel codice Rocco del 1930 vi è l’introduzione del sistema del doppio binario, che accanto alla
pena, prevede l’applicazione di misure di sicurezza nei confronti di quei soggetti considerati
socialmente pericolosi, e nella disciplina relativa al trattamento dei soggetti non imputabili per
infermità totale o parziale di mente, per i quali il Codice Rocco prevede la presunzione di
pericolosità, ossia l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero a tempo indeterminato in
un manicomio giudiziario per i soggetti prosciolti per infermità totale, e per i semi imputabili
l’assegnazione a una casa di cura e di custodia, che si affianca alla pena inflitta, anche se
diminuita. (Bertolino, 1990, p. 375).
Possiamo concludere affermando che nel sistema introdotto dal legislatore del 1930 è rimasto
fermo il postulato, tipico della Scuola classica, dell'esclusiva punibilità del soggetto che abbia
agito secondo una propria libera scelta e cioè senza l'intervento di fattori non dipendenti dalla sua
volontà. Ciò però non ha impedito di prendere in considerazione l’illecito compiuto da soggetti
privi di tale libertà, predisponendo a tale scopo un diverso, apposito trattamento che prevede
l’applicazione di determinate misure di sicurezza. Dunque possiamo affermare che anche
all’interno del codice del 1930 permane una certa ambiguità dettata dal tentativo di prendere in
considerazione sia la libera scelta individuale sia l’incapacità di compiere tale scelta se infermi di
mente.
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5.2 La capacità di intendere e di volere
Abbiamo in precedenza visto come l’imputabilità consiste in un presupposto necessario affinché
una persona possa essere chiamata a rispondere giuridicamente di un determinato fatto avente
appunto rilevanza giuridica. A questo proposito l’art. 85 c.p. recita:”Nessuno può essere punito
per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso non era
imputabile.
È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere” (Fornari, 2004, p.106).
Quindi un soggetto penalmente perseguibile deve possedere:
• la capacità d’intendere, secondo il senso comune, non è la semplice attitudine del soggetto a
conoscere ciò che si svolge al di fuori di lui, ma è la capacità di rendersi conto del valore sociale
dell’atto che si compie. Non è necessario che l’individuo sia in grado di giudicare che la sua
azione è contraria alla legge: basta che possa genericamente comprendere che essa contrasta con le
esigenze di vita in comune (Antolisei, 2003, p. 610).
Un altro importante autore, dandone una definizione più specifica, definisce la capacità di
intendere come “la capacità di discernere rettamente il significato e il valore, nonché le
conseguenze morali e giuridiche di atti e fatti,Cioè capacità di apprezzamento e previsione della
portata delle proprie azioni od omissioni, sia sul piano giuridico che su quello morale” (Ponti,
1999, p. 419).
• Capacità di volere, d’altro canto, significa attitudine della persona a determinarsi in modo
autonomo, resistendo agli impulsi: più precisamente, facoltà di volere quello che si giudica
doversi fare. Esistono, infatti, degli individui che sanno discernere il bene dal male, ma non sono
in grado di determinarsi in conseguenza, vale a dire in conformità del proprio giudizio (Antolisei,
2003’p. 610).
Dunque la capacità di volere è quella che ci consente di esercitare in modo autonomo le nostre
scelte.
In base quanto sopra, la responsabilità di un individuo dovrebbe essere esaminata studiando nel
suo insieme queste dimensioni e verificando il grado di incidenza delle stesse nello svolgersi del
reato.
Mantovani (1992) ha sostenuto che la dicotomia legislativa fra capacità di intendere e capacità di
volere mal si concilia con l'unità sostanziale della psiche, poiché è impossibile scindere il volere
dall'intendere, essendo al massimo ipotizzabili situazioni in cui sia maggiormente compromessa
l'una o l'altra funzione, secondo un giudizio che deve essere riferito sempre all'entità non divisibile
della mente. Il rapporto tra le due capacità è strettissimo, da qui il principio sancito nel codice che
la mancanza anche di una sola di esse priva il soggetto della capacità naturalistica.
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Vediamo quindi i casi in cui il nostro codice attualmente in vigore esclude o diminuisce
l’imputabilità e quindi la responsabilità di un soggetto.
La causa di esclusione dell’imputabilità rilevante ai fini del presente lavoro è regolata dagli art.
88-89 del c.p.
La capacità d’intendere e di volere, inoltre, può essere esclusa da una infermità transitoria, purché
sia sempre tale da far venire meno i presupposti dell’imputabilità.
L’art. 89, colui che “nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di
mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del
reato commesso; ma la pena è diminuita” (Fornari, 2004, p. 106).
Vizio parziale, pertanto, non è l’anomalia che interessa un solo settore della mente, bensì quella
che investe tutta la mente, ma in misura meno grave.
I principali orientamenti giurisprudenziali in riferimento all’infermità di mente, visto come causa
dell’esclusione della capacità di intendere e volere, sono essenzialmente tre (Ponti, 1999; Fornari,
2004):
1. il paradigma medico, segue un interpretazione restrittiva del concetto di infermità, intendendola
come una malattia mentale, cioè come uno stato psicopatologico avente necessariamente un
origine organica, biologicamente rilevabile che porta dunque ad escludere la capacità di intendere
e di volere. Tale paradigma ha tra i suoi fautori fondamentali Kraepelin (1855-1926) il quale
considera la malattia mentale al pari di qualsiasi altro oggetto naturale e proprio per questo
studiabile con metodi oggettivi e scientifici e classificabile (Granirei, 2000).
2. il paradigma psicologico, dove grazie all’influsso dell’opera freudiana, la patologia non è più
considerata un immediata conseguenza di un alterazione anatomica, bensì al pari della normalità,
una manifestazione dell’attività dinamica della psiche.
Acquista dunque un importanza fondamentale la realtà inconscia della persona. Si guarda dunque
all’analisi delle cause psicologiche che hanno portata ad una determinata azione.
3. il paradigma sociologico, per il quale la malattia mentale è intesa come disturbo psicologico
avente origine sociale, non più attribuibile dunque ad una causa individuale (fisica o psicologica),
ma ad un inadeguato rapporto con l’ambiente.(2 V.:Rivista di Psicologia e Giustizia, anno V, numero 2,
2004).
Nella scienza psichiatrica attuale, viene preso in considerazione un modello
“biopsicosociale”, in grado cioè di spiegare il disturbo a partire da diverse ipotesi. Infatti sappiamo
bene come nella determinazione dei comportamenti, sani o malati che siano, intervengano sempre
variabili biologiche, psicologiche o sociali, il nostro comportamento è multideterminato (Ford &
Lerner, 1995). Dunque la questione dell’imputabilità e della conseguente capacità di intendere e
volere è stata affrontata dai codici moderni secondo il metodo psicopatologico normativo (Ponti,
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1992), che richiede innanzitutto di individuare la presenza di un infermità di mente e poi la
valutazione della sua incidenza sulla capacità di intendere e volere al momento della commissione
del delitto. Nonostante questo metodo corra il rischio di incorrere in una maggiore
sovrapposizione di giudizio tra perito e giudice, possiamo comunque notare come metta in
evidenza il fatto che non sia sufficiente accertare una malattia mentale per dedurne
automaticamente l’inimputabilità del soggetto, ma occorre appurare se e in quale misura la
malattia stessa ne comprometta la capacità d’intendere e di volere (Fiandaca & Musco, 2007, p.
331).
Un altro importante punto di discussione, foriero di numerosi dibattiti in ambito psichiatri-forense
è relativo alla distinzione, troppo spesso trascurata, che esiste tra malattia ed infermità.
Quest’ultimo concetto infatti non si limita alle sole malattie mentali, classificabili attraverso una
nosografia psichiatrica, ma fa riferimento a qualsiasi condizione patologica che comunque
interferisce con le capacità di intendere e volere (Ponti, 1999).
Riguardo a questo peculiare problema, verrebbe da chiedersi che valore hanno e come vengono
utilizzate le categorie diagnostiche identificate in ambito psichiatrico, riferibili nel loro insieme al
Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV-TR).
Il criterio nosografico, utilizzato dal DSM-IV-TR è quello che differenzia in modo rigoroso i vari
disturbi in funzione della formulazione delle differenti diagnosi. In questa prospettiva dalla
diagnosi derivano necessariamente anche valutazioni in ordine alla prognosi, alla terapia, e quindi
anche relativamente alla responsabilità, imputabilità e pericolosità.
Possiamo dire che esistono in psichiatria forense due orientamenti fondamentali, l'uno che auspica
un sempre più stretto vincolo ed un sempre maggior rigore nosografici, l'altro che ritiene che il
giudizio sull'imputabilità prescinda in gran parte dalla nosografia.
A tal proposito ed a conferma del primo orientamento, Ugo Fornari (2004) ha sostenuto:ӏ
necessario ... ancorare la nozione di infermità di mente a un qualche tipo di nosografia che io
propongo restrittiva ed impostata su criteri i più rigorosi ed obiettivi possibili ... è utile sottrarre al
massimo l'apprezzamento del significato di malattia alla 'sensibilità' del singolo perito: e ciò si può
ottenere solo adottando una nosografia chiara, semplice, ridotta anche se di tipo aperto” (Fornari,
2004, p. 123).
In senso contrario G. Ponti ed I. Merzagora (1992) affermano:“in psichiatria forense
l'inquadramento nosografico non aiuta più di tanto in quanto il termine di riferimento è un altro. Il
giudizio in tema di incapacità di intendere e di volere non è, almeno nel nostro sistema, un
giudizio solo tecnico, una mera diagnosi psichiatrica, bensì una valutazione attinente allo spazio
della residua libertà del singolo” (Ponti & Merzagora, 1992, p. 65).
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All'inizio del novecento, la psichiatria come abbiamo visto in precedenza fa riferimento ad un
concetto di malato di mente netto e stereotipico. In particolare l'ideologia psichiatrica prettamente
deterministica ed organicistica, comporta l'attribuzione automatica di irresponsabilità a colui il
quale sia diagnosticato come psicotico.
Questa ideologia rimane tale anche ai giorni nostri, anche se il parallelismo tra categoria
nosografica ed inimputabilità viene riservato alle forme conclamate di psicosi quali la schizofrenia
(Fornari, 2004).
Ho sottolineato in precedenza come sia mutata la percezione psichiatrica del malato di mente,
come la malattia mentale non venga più considerato un fatto in sé, ma riconosca nella propria
genesi non trascurabili aspetti psico-sociali.
Se questa è la situazione attuale, secondo l'opinione di Ponti (1999), è necessario chiedersi quali
siano o debbano essere i rapporti tra l'inquadramento nosografico e la traduzione in termini di
imputabilità.
Ponti sostiene che una delle strade percorribili sia quella dell'ancoraggio alla nosografia
psichiatrica, anche se si tratterà di una nosografia non più dogmatica, come lo era un tempo, ma di
una dimensione di riferimento aperta, che non circoscrive il malato in un parametro rigido e
deterministico, ma incentrata sul divenire delle esperienze di vita della persona e pertanto
comprensiva delle infinite variabilità individuali.
Ma a questo proposito un importante avvertimento deriva da Fornari, il quale sostiene:“occorre
tener presente che non sempre è possibile stabilire una netta demarcazione fra un quadro
psicopatologico ed un altro, e che esistono forme intermedie, di passaggio, marginali, miste, in
fase di evoluzione o di remissione, forme che esordiscono attraverso il reato, e forme che rendono
talvolta impossibile incasellare per lungo tempo il malato in una nosografia clinica sicura e ben
determinata” (Fornari, 2004, p. 131).
L'autore effettua alcune esclusioni nell'area delle infermità, quali le personalità psicopatiche, le
psiconevrosi, i disturbi psicosessuali, le tossicomanie senza disturbi mentali organici, affermando
che in tali casi trattasi di disarmonie del comportamento che di per sé considerate non possono
costituire vizio di mente.
Dunque in considerazione del fatto che il concetto di infermità ha subito e subisce una dilatazione,
è importante, in conclusione, analizzare la sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005 delle sezioni
unite che ha dichiarato i disturbi di personalità idonei ad incidere sull’imputabilità ma
specificando che gli stessi debbano essere, a tal fine, dotati di consistenza, rilevanza, intensità e
gravità.
La massima della Corte di Cassazione così dichiara:
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“ Anche i “Disturbi di personalità” come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa
idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere
e volere del soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza,
rilevanza e intensità tali da concretamente incidere sulla stessa, per converso, non assumono
rilievo ai fini dell’imputabilità, le altre “anomalie caratteriali” e gli “stati emotivi e passionali”,
che non rivestono i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del
soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale e il fatto di reato sussista un
nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo come casualmente determinato dal primo”3.
L’aspetto rilevante di tale sentenza è proprio il fatto che, con essa, non è più rilevante unicamente
l’individuazione di una malattia psichiatrica maggiore, ma viene richiesto ai fini dello stabilirsi
dell’imputabilità, la presa in considerazione di una prospettiva psicopatologica di più ampio
spettro (Giammarinaro, 2006).
Dunque possiamo affermare che nel tempo si è capita l’importanza di adottare una prospettiva
interpretativa più ampia che permettesse una valutazione globale della persona. Ci troviamo
dunque di fronte ad un continuum, rispetto al quale siamo chiamati a valutare di volta in volta in
concreto, se e come, la psicologia del soggetto sia stata o meno condizionata dal disturbo di
personalità o da un disturbo mentale maggiore, in relazione alla qualità e gravità del fatto reato.
Certo tutto questo non è esente dal rischio di estendete immotivatamente la sfera dell’incapacità,
ma sicuramente aiuta a porre in maggior attenzione e rilievo l’interazione di variabili biologiche,
psicologiche e sociali.
Questo acquista un valore ancora più significativo ai fini del nostro lavoro, dove data la
delicatezza dell’argomento trattato si è chiamati alla valutazione psichiatrica forense di casi di
omicidio commessi dalle madri nei confronti dei loro bambini. Spesso in questi casi, nelle aule dei
tribunali non ci si accontenta di valutare unicamente la capacità di intendere e volere al momento
del fatto, ma si è spinti dalla necessità di capire, comprendere profondamente qualcosa che appare
privo di ogni logica materna e di cura. È per questo motivo, come avremo modo di vedere
successivamente grazie all’analisi da me svolta presso l’Ospedale psichiatrico Giudiziario di
Castiglione delle Stiviere (MN),che la perizia psichiatrica appare come una tappa pressoché
obbligata. Solo la patologia psichica rende derivabile e allontana da sé lo spettro di gesti così
efferati e non comprensibili.
A questo proposito Catanesi e Troccoli (1994) affermano: “allorquando siamo stati contattati per
sottoporre a perizia psichiatrica donne responsabili dell’omicidio del proprio figlio, abbiamo
3
Corte di Cassazione-Sezioni Unite Penali, sentenza n.9163/2005. la sentenza può essere inoltre letta
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potuto verificare come le aspettative di infermità fossero così forti da non far accettare
agevolmente a nessuna delle parti, neppure al Pubblico Ministero, relazioni che concludessero per
la mancanza di un vizio di mente” (Catanesi & Troccoli, 1994, p. 167).
In realtà, se è vero che il riscontare in un reo un qualche disturbo mentale non comporta
necessariamente un implicazione diretta nei confronti dell’imputabilità, anche perché va in
aggiunta sottolineato come la malattia mentale non sempre e non necessariamente investe tutta la
personalità (Ponti, 1999), è altrettanto vero che questi delitti possono trovare i propri riferimenti in
manifestazioni psicotiche o in condizioni psicopatologiche direttamente collegabili al puerperio.
La fragilità della condizione psicologica della donna lungo l’arco di tempo che dalla gravidanza
conduce al parto è in grado di arrecare grave disagio che può portare a manifestazioni
psicopatologiche in persone in precedenza esenti da così gravi turbe mentali.
Prima di analizzare quali sono gli strumenti diagnostici utilizzati per valutare la capacità di
intendere e volere, è necessario prendere in considerazione un importante aspetto che deve essere
necessariamente trattato ai fini della nostra ricerca.
5.3 La pericolosità sociale
La nozione di “pericolosità sociale” fa ingresso nell'ordinamento giuridico italiano con il codice
del 1930 (Fornari, 2004). Tale nozione presenta un vasto e complesso retroterra storicoideologico, essendo stata al centro della polemica che, tra la fine dell''800 e la prima metà del '900,
animò il dibattito fra la Scuola positiva e la Scuola classica del diritto penale.
La Scuola positiva partiva dal presupposto che la delinquenza non può essere considerata la
risultanza di libere scelte individuali, perché il delinquente non è una persona normale, influenzato
nella sua condotta da molteplici fattori di natura biologici, psichici e sociali. (Ponti,1999).
L'intervento penale quindi non poteva orientarsi alla retribuzione dell'illecito commesso, né avere
esclusivamente una finalità repressiva, ma traeva il proprio fondamento dalla necessità della
prevenzione finalizzata alla difesa sociale contro il delitto. La sanzione penale doveva essere
adeguata al rischio che l'autore del reato rappresenta per la società e tendere esclusivamente ad
impedirne la recidiva.
La proposta della Scuola Positiva venne così ad incentrarsi sul problema della pericolosità del reo,
per la prima volta individuata, nei suoi fattori costituenti essenziali, come giudizio prognostico
sulla capacità dell'individuo di commettere nuovi reati, nonché come centro di imputazione
fondato sulla necessità di prevenire la commissione di ulteriori reati. In tal modo le misure di
difesa sociale non potevano che essere indeterminate e durare fino a quando la pericolosità non
fosse venuta meno.
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L’art. 203 c.p. così recita: “Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona,
anche se non imputabile e non punibile […] quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti
dalla legge come reati” (Fornari, 2004).
Dunque possiamo considerare la pericolosità sociale come il risultato di un giudizio prognostico
effettuato dal giudice circa la probabilità di ricaduta nel delitto. Come base della prognosi, nel
nostro ordinamento, l’organo giudicante è tenuto ex art. 203 ad utilizzare sempre gli indici offerti
dall’art. 133, i quali devono essere impiegati ai fini della prognosi criminale che fa da presupposto
all’applicabilità della misura di sicurezza.
Gli elementi indizianti di pericolosità, sono, ai sensi dell'art. 133 c.p.: i motivi a delinquere ed il
carattere del reo; i precedenti penali e giudiziari e in genere la condotta e la vita del reo
antecedenti al reato; la condotta contemporanea o susseguente al reato; le condizioni di vita
individuale, familiare e sociale del reo (Ponti, 1999).
In sintesi, il delitto si pone come condizione necessaria ai fini del giudizio di pericolosità, ma non
sufficiente, dovendo la sua valutazione essere integrata con l'esame di tutti gli elementi attinenti
alla personalità, all'ambiente ed al comportamento del reo.
Molte critiche sono state avanzate al concetto di pericolosità (Ponti, 1999; Zara, 2005):
1. il giudizio di pericolosità è di tipo prognostico, nel senso che, mentre l'accertamento si riferisce
a determinati elementi che assumono valore indiziante, la loro valutazione è orientata
prospetticamente in funzione di un dato sconosciuto, costituito dalla condotta futura del reo;
2. non ci sono al momento strumenti scientifici validi per l’accertamento della pericolosità;
3. il comportamento umano è unico e irripetibile proprio perché guidato dai principi di equifinalità
e multifinalità e proprio per questo non derivabile con certezza a partire dalla condotta presente;
4. non esiste un equivalenza tra malattia mentale e pericolosità sociale;
5. non esiste una linearità tra efferatezza del reato e pericolosità sociale.
Dopo aver analizzato il profilo giuridico del concetto di pericolosità sociale è importante ora
rivolgerci alle conseguenze che derivano dalla valutazione circa l’imputabilità legata alla
pericolosità sociale. Si aprono di fronte a noi diverse possibilità (Fornari, 2004):
• Vizio totale di mente e pericolosità sociale: proscioglimento e internamento in Ospedale
Psichiatrico Giudiziario, o libertà vigilata che dura fino a quando persiste la pericolosità sociale
psichiatrica del prosciolto.
• Vizio totale di mente e assenza di pericolosità sociale:proscioglimento e archiviazione del caso;
se il prosciolto era sottoposto a una misura cautelare, ne viene ordinata la cessazione.
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• Vizio parziale di mente E pericolosità sociale: pena diminuita di un terzo, cui segue
l’internamento in casa di cura e custodia (una sezione differenziata dell’O.P.G.) o la libertà
vigilata in presenza e in persistenza di pericolosità sociale psichiatrica.
• Vizio parziale di mente e assenza di pericolosità sociale: pena ridotta di un terzo e nessuna
applicazione della misura di sicurezza psichiatrica.
Ai fini della nostra ricerca, il primo punto assume per noi un importanza centrale e ci permette di
sottolineare come a fronte di queste misure previste per legge, sia fondamentale l’accertamento
della persistente pericolosità sociale derivante dall’infermità di mente per l’internamento in un
ospedale psichiatrico giudiziario.
Una recente sentenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 253 del 2 - 18 Luglio 2003), però, ha
stabilito che, anche se questa è presente, la soluzione non può essere una sola. La Corte, infatti,
“dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 del codice penale (Ricovero in un Ospedale
Psichiatrico Giudiziario), nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di
adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di
sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far
fronte alla sua pericolosità sociale”.4
Con il disposto di questa sentenza, l’autore di reato, malato di mente, prosciolto e socialmente
pericoloso, non può più solo essere internato in un manicomio criminale, ma può godere di un
altro provvedimento più “morbido”: la libertà vigilata (228 c.p.), definita “misura più efficace
terapeuticamente per garantire al malato di mente prosciolto il diritto alla salute di cui all’art. 32
della Costituzione”.
Arrivati a questo punto, analizzati i principi storici-giuridici alla base della capacità di intendere e
volere e della pericolosità sociale, vogliamo analizzare quali siano gli strumenti diagnostici
4
Aveva eccepito il Giudice (GIP di Genova), facendo proprie le osservazioni della difesa, che “la rigidità
dei criteri imposti dalla legge per l’adozione della misura del ricovero in O.P.G. nel caso di maggiorenne
totalmente incapace e socialmente pericoloso, e la conseguente impossibilità di ricorrere, come invece è
previsto per il semi - infermo di mente ed il minore non imputabile, ad altre misure, stabilisce una
presunzione di maggiore pericolosità dei soggetti affetti da vizio totale di mente non confortata da alcun
supporto scientifico, realizzando così una irragionevole disparità di trattamento. […] Ancorando l’adozione
di misure di sicurezza ad un criterio (la gravità astratta del reato) che finisce per attribuire ad essa funzione
retributiva anziché di prevenzione speciale, ed impediscano l’adozione di soluzioni idonee a difendere la
collettività e insieme curare adeguatamente un soggetto pericoloso, ma socialmente irresponsabile, (donde
la violazione dell’art. 32 della Costituzione)”.
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funzionali all’accertamento dell’imputabilità e dell’eventuale presenza della pericolosità sociale
della persona sottoposta ad indagine peritale.
5.4 La perizia psichiatrica nel procedimento penale
La definizione di perizia psichiatrica, è normativamente regolata nel libro III (Prove), titolo II
(Mezzi di prova), capo VI, articoli 220-223 del codice di Procedura Penale. Possiamo definirla
come lo strumento di accertamento tecnico che mira a fornire al perito psichiatra gli elementi per
pronunciare un “giudizio”, un parere diagnostico, valutativo o prognostico. Il suo ruolo
istituzionale nel processo penale è l’accertamento delle condizioni di mente del periziando.
La perizia può essere disposta per i seguenti fini (Fornari, 2004, p. 90):
• per l’accertamento della capacità processuale dell’imputato (capacità di partecipare coscientemente al processo);
• per l’accertamento di sei mesi in sei mesi in caso di sospensione del processo per incapacità
dell’imputato;
• per accertare se disporre o meno le misure cautelari di cui agli articoli 73, 284-286 del c.p.p.;
• per stabilire l’esistenza del vizio totale o parziale di mente al momento del fatto, e la pericolosità
sociale dell’indagato-imputato.
“Nel corso della fase cognitiva il codice di rito ammette tre tipi di accertamenti (Fornari, 2004, p.
86):
1. la consulenza tecnica di parte del Pubblico Ministero (artt. 359-360 c.p.p.);
2. la perizia disposta dal G.I.P. (artt. 392-398 c.p.p.);
3. la perizia dibattimentale (art. 508 c.p.p.).
Nella fase esecutiva è il magistrato di sorveglianza a ordinare la perizia volta a stabilire:
1. la presenza o persistenza di pericolosità sociale psichiatrica al momento dell’applicazione della
misura dell’O.P.G.;
2. condizioni di mente dell’internato o condannato ai fini dell’esecuzione o prosecuzione della
pena o di una misura di sicurezza diversa da quella psichiatrica (O.P.G.);
3. condizioni di mente del condannato o internato in vista della concessione di misure alternative
all’internamento;
4. condizioni di mente dell’internato o condannato ai fini dell’esecuzione o prosecuzione della
pena o di una misura di sicurezza diversa da quella psichiatrica (O.P.G.);
5. condizioni di mente del condannato o internato in vista della concessione di misure alternative
all’internamento”.
Al perito è solitamente chiesto di pronunciarsi su due quesiti (Fornari, 2004):
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“dica il perito, esaminati gli atti di causa, visitato (nome e cognome), eseguiti tutti gli accertamenti
clinici e di laboratorio che ritiene necessari ed opportuni, quali fossero le condizioni di mente (di
nome e cognome) al momento del fatto per cui si procede; in specie, se la capacità di intendere e
di volere fosse per infermità, esclusa o grandemente scemata”.
Il secondo quesito attiene l’accertamento della pericolosità sociale: “in caso di accertato vizio di
mente, dica altresì il perito se (nome e cognome) sia persona socialmente pericolosa”.
Naturalmente i quesiti sono disposti secondo un ordine logico, dunque il perito risponderà al
secondo quesito, solo dopo aver dato parere positivo al primo.
Bisogna sottolineare gli importanti poteri discrezionali di cui dispone il magistrato, quest’ultimo
infatti non è affatto tenuto a sottoscrivere le conclusioni peritali a cui è giunto il perito (Fornari,
2004, p. 105).
È anche nel suo potere la possibilità di disporre di ulteriori accertamenti peritali. Inoltre il giudice
deve comunque motivare le ragioni del suo dissenso nei confronti delle risultanze peritali.
La perizia psichiatrica ha conosciuto luci ed ombre nel corso della storia, è sempre stata al centro
di numerosi dibattiti, circa le garanzie di scientificità che essa può fornire.
A questo proposito Bandini (2000), afferma che la perizia psichiatrica, anche se solo circoscritta
all'esame della imputabilità, è uno strumento insostituibile, in quanto presenta garanzie che non
sono possedute da altri strumenti di indagine, è chiara nelle sue finalità, non è contaminata dalle
ambiguità che presentano le attività cliniche che prevedono contemporaneamente aspetti valutativi
ed aspetti terapeutici.
È indispensabile, comunque, che la perizia psichiatrica, come ogni altro atto medico, sia svolto in
modo da rispettare al massimo i diritti dell'uomo ed in particolare dell'uomo malato.
Il perito dovrebbe operare consapevole della necessità di mantenere il massimo della riservatezza,
senza svelare aspetti della vita intima del periziando, non pertinenti all'accertamento
dell'imputabilità.
Al perito non deve essere chiesto di prendere posizione sulla consistenza dei fatti, né deve essere
chiesta una descrizione caratterologica che permetta di attribuire il reato all'imputato.
Infatti l’art. 220, II comma, c.p.p. recita: “Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena
o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità
nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità
psichiche indipendenti da cause patologiche” (Fornari, 2004).
La difficoltà delle perizie, soprattutto in riferimento a reati così distanti dalla nostra capacità di
comprensione, come può essere quello di una madre che uccide il proprio bambino, deriva dal
fatto che il perito (come tutti noi del resto) ha una morale razionale ed una emotiva che possono
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essere mobilitate e ciò è inevitabile perché è umano e si tratta solo di convivere con tale
situazione; si tratta di evitare il moralismo e non la morale.
I rischi del moralismo sono di non obbiettività, di discriminare in negativo l'autore del reato che ci
disturba o di trattarlo con benevolenza, consapevoli del rischio di trattarlo peggio per via delle
nostre convinzioni. Non ci sono ricette per evitare il moralismo se non, come suggerisce
Merzagora (1987), esser vigili e consapevoli che la persona non è ciò che fa, una cosa è il
comportamento altra cosa la personalità. Dunque la persona può anche aver commesso un reato
ma non è detto che questo invada tutta la sua personalità e modo di essere e che sia
qualitativamente diversa dalle altre.
Bisogna guardarsi bene anche dagli atteggiamenti opposti al moralismo, il rischio in atteggiamenti
collusivi o seduttivi è che il soggetto, ansioso di parlare e di sfogarsi, confonda il perito con un
terapeuta e riferisca fatti o avvenimenti che non sono a conoscenza del giudice e non sono in atti e
che lo possono pregiudicare.
La natura di mezzo di prova della perizia richiederebbe che non si fondi su mere intuizioni, bensì
su convincimenti razionali, concreti ed oggettivi, ma è proprio alla luce di questa premessa che si
evidenziano le incongruenze del sistema attuale.
Provare l’incapacità di intendere e di volere del soggetto che ha commesso un reato è
estremamente difficile e complesso. Da qui si avverte l’esigenza che, in tale riscontro, il giudice
sia coadiuvato da un esperto, il più delle volte psichiatra, ma sempre più spesso si ricorre anche ad
uno psicologo, se non addirittura a veri e propri collegi peritali in cui si ritrovano entrambi.
In conclusione, possiamo quindi affermare che la perizia riesce a fornire un contributo importante
al corso del processo, solo se svolta con attenzione e con la consapevolezza che il sapere che ci
guida è sempre e comunque relativo, ma ciò non significa che sia necessariamente erroneo o non
scientifico. misure di sicurezza sono quei provvedimenti giurisdizionali mediante i quali lo Stato
persegue uno scopo di tutela sociale preventiva.
5.5 Le misure di sicurezza
Le misure di sicurezza sono quei provvedimenti giurisdizionali mediante i quali lo Stato persegue
uno scopo di tutela sociale preventiva.
Le misure di sicurezza vengono introdotte nel nostro ordinamento con il codice penale del 1930,
nell’intento di potenziare gli esistenti strumenti di difesa sociale, affiancando, in un sistema che
venne definito del “doppio binario”, alle pene tradizionalmente intese queste nuove forme di
controllo dei soggetti giudicati pericolosi per la società (Ponti, 1999).
I presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza sono essenzialmente due:
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1 la commissione di un fatto-reato;
2 l’attuale pericolosità sociale della persona.
Le misure di sicurezza si distinguono in detentive e non detentive. Le prime sono limitative della
libertà personale si presentano come destinate alla rieducazione e al trattamento della persona
socialmente pericolosa.
Tra queste vi sono: l’assegnazione ad una colonia agricola o casa di lavoro (artt.216-218 c.p.), il
ricovero in una casa di cura e di custodia (artt. 219-221 c.p.); il ricovero in un ospedale
psichiatrico giudiziario (art.222 c.p.) e il ricovero in un riformatorio giudiziario (artt. 223, 224,
225, 226 c.p.).
Tra le misure di sicurezza non detentive che non hanno la finalità modificativa della personalità
del reo, ma servono piuttosto ad allontanare la persona dalle occasioni criminose, vi sono: la
libertà vigilata (artt. 228-232 c.p.), il divieto di soggiorno in uno o più Comuni o Province (art.
233 c.p.), il divieto di frequentare pubblici spazi di bevande alcoliche e osterie (art. 234 c.p.) e
l’espulsione dello straniero dallo Stato (art. 234 c.p.).
Applicandosi anche agli individui non imputabili o punibili, ed essendo ancorata non ad un
giudizio di responsabilità, ma di pericolosità, la misura di sicurezza ha lo scopo non già di
sanzionare un illecito commesso, bensì di modificare i fattori umani e sociali che hanno portato
il soggetto alla commissione di reati.
Le misure di sicurezza detentive hanno dunque, come scopo primario, la risocializzazione della
persona e il suo controllo.
Tra i vari tipi di misure applicabili ai soggetti ritenuti pericolosi, ai fini di questo lavoro, risultano
di fondamentale centralità le misure che prevedono:
• nel caso della presenza di un vizio di mente: è attuato il ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario.
• Nel caso della presenza di un vizio parziale di mente: è attuato il ricovero in casa di custodia e
cura, misura da eseguirsi una volta scontata la pena.
A questo proposito è importante sottolineare che la prospettiva di un periodo obbligatorio di
ricovero nel manicomio giudiziario, predefinito nel minimo, ma non nel massimo, sulla base di
una presunta pericolosità sociale dell’infermo autore di reato (art. 222 c.p.) ha contribuito a
mantenere un carattere prevalentemente carcerario dell’istituto. Al termine del periodo di ricovero
previsto veniva effettuato un ri-esame della pericolosità sociale per valutare l’eventuale
permanenza della stessa e prevedere in base all’esito il protrarsi del ricovero o la fine di tale
misura. Il problema principale però derivava dal fatto che aprioristicamente (salvo rare eccezioni),
veniva sostenuta l’equazione Malattia mentale = pericolosità sociale (Ponti, 1999).
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Il superamento dei pregiudizi sulla malattia mentale e l’abbandono dell’idea custodialistica della
stessa psichiatria, avrebbero dovuto riflettersi in una revisione dell’intera disciplina delle misure di
sicurezza e, ancor più in generale, della stessa imputabilità, mentre nulla di tutto questo è
accaduto.
In particolare, per i soggetti disturbati psichicamente vengono previste delle misure di sicurezza
che ancora non riescono a garantire quell’idea di riabilitazione e di risocializzazione per cui erano
state create. La realtà degli ospedali psichiatrici giudiziari non è purtroppo più di tanto cambiata.
Essi si avvicinano alla realtà carceraria e troppo spesso risulta difficile distinguerne scopi e
obiettivi.
Un ulteriore problematica di questi istituti è il mixage di realtà che vi confluiscono. Le categorie
giuridiche a cui appartengono gli internati in opg sono le seguenti (Ponti,1998):
- I prosciolti malati di mente: soggetti che sono stati dichiarati totalmente in capaci di intendere e
di volere. La sentenza di proscioglimento prevede dunque l’applicazione della misura di sicurezza
del ricovero in O.P.G.,
- I condannati a pena sospesa: si tratta di coloro ai quali è sopravvenuta l’infermità psichica
durante l’esecuzione della pena, mentre si trovavano in carcere,
- Gli imputati a procedimento sospeso: sono persone accusate di un reato che dimostrano però
segni di infermità mentale nella fase preventiva,
- Le persone sottoposte a misura di sicurezza provvisoria,
- I “periziandi”: gli imputatati di un delitto sottoposti a perizia psichiatrica,
- Le persone in osservazione: hanno manifestato segni di disturbi psichici e vengono sottoposte
per questo ad un accertamento.
- Possiamo trovare ricoverati infermi di mente, tossicodipendenti, minorati psichici; le situazioni
giuridiche sono le più diversificate potendo questi soggetti essere ricoverati provvisoriamente in
O.P.G. (Art. 206 c.p.) oppure essere prosciolti (Art. 222 c.p.), oppure ancora condannati assegnati
alle Case di Cura e di Custodia (Art. 219 c.p.) e in ultimo detenuti con infermità psichica
sopravvenuta (Art. 148 c.p.).
All’interno di questo quadro, forse non troppo ottimistico, esistono delle realtà diverse, che
possono essere di esempio e far ben sperare per un futuro dove davvero le finalità riabilitative
possano essere perseguite fino in fondo, in modo da ridare la voglia di costruire una strada diversa
a tutti quei soggetti, che per diverse ragioni hanno dovuto affrontare questo particolare tipo di
strada. Una realtà significativa in questo panorama variegato è quella dell’ Ospedale Psichiatrico
di Castiglione delle Stiviere.
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CONCLUSIONI
Primavera d’amore
Eccola è qui
La sento dal profondo del cuore
Tutto come d’incanto si risveglia
Anche l’amore per te.
Vedo il tuo viso
allegro e malizioso
ma la malinconia mi assale, ho paura di perderti.
Mi ritornano in mente
i giorni trascorsi insieme
con amore,
tra di noi nulla è cambiato
e nessuno potrà mai ostacolare
il nostro amore già consumato
Dove tu sai?
Sento che tutto sta per finire
il rimorso mi assale
soffro intensamente
nel mio silenzio
ho racchiuso tutto il mio dolore
non ho più la forza di mentirti.
(Primavera d’amore, O.P.G. di Castiglione delle
Stiviere, Centro E.D.A. Castel Goffredo)
La rappresentazione sociale che si ha dell’infanticidio si ferma spesso all’orrore, allo sgomento, a
quel senso di incredulità per un atto così violento commesso da un genitore nei confronti di un
figlio.
La criminologia pone una distinzione importante tra il termine figlicidio che viene utilizzato, ad un
primo livello di lettura del fenomeno, per intendere l’uccisione del figlio dal compimento
dell’anno in poi
(Merzagora Betsos, 2003), neonaticidio, cioè l’uccisione di un figlio,
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generalmente non voluto, che si verifica nell’immediatezza del parto e infanticidio, ovvero
l’uccisione di un bambino entro il primo anno di vita.
È importante porre questa distinzione non solo per il riferimento all’età in cui il figlio viene
ucciso, ma anche perché il Codice Penale prevede trattamenti giuridici differenti, per gli autori di
tali reati.
L’intensa risonanza emotiva suscitata da questi tipi di delitti non permette di tenere in adeguata
considerazione il fatto che la famiglia è una realtà psicologica complessa, dove gli stadi evolutivi
dei suoi componenti, quelli dei figli soprattutto, vengono “forgiati” all’interno delle dinamiche
relazionali, così da determinare il successo o il fallimento nella adeguata costruzione di sé, a
seconda del grado di presenza, accoglienza, competenza e maturità delle figure genitoriali. Si
sottolinea questo aspetto proprio perché i perpetratori del fatto reato, oltre ad essere genitori, sono
anche figli. È possibile dimostrare un legame preciso tra le relazioni affettive in tra familiari e la
patologia mentale e, nei casi estremi, tra questa e il reato.
Negli ultimi anni si è andato registrando un aumento degli omicidi legati ai disturbi mentali
(Eures, 2004) e, soprattutto, all’interno del nucleo familiare. È cresciuto il disagio mentale ed è
sempre più necessario intervenire sulle persone affette da disturbi mentali gravi e sulle loro
famiglie al fine di evitare disabilità ed emarginazione sociale.
Complessivamente si può dire che, dopo una buona parte del percorso di cura, le donne, da uno
stato prevalente di confusione, acquistano una certa capacità di riflettere sul reato commesso e
sulle relative conseguenze. Tra quest’ultime le più rilevanti per il perpetratore sono l’essere
abbandonati dal proprio compagno, nel 35% dei casi, o comunque essere sostenuti solo
parzialmente. Il legame è complicato dalla presenza di componenti di rabbia non espressi.
Post hoc sembra sempre possibile individuare come gli eventi sarebbero potuti andare
diversamente “Se…solo se…” alcuni fatti non si fossero verificati o fossero andati diversamente,
mentre risulta sempre particolarmente complesso anticipare cosa sarebbe davvero essenziale al
fine di evitare il verificarsi di alcuni eventi, di facilitare la presenza di altri o di prevenire
l’emergenza anche solo di alcuni aspetti di una storia di vita e di morte.
In sintesi ciò che emerge da questo studio è che il percorso interiore verso il miglioramento
psichico è sicuramente difficile e spesso legato ad una profonda sofferenza. È fondamentale
aiutare il paziente ad affrontare con meno paura possibile il reinserimento sociale, spesso
complicato proprio dalla mancanza di strutture intermedie presenti sul territorio, in grado di
permettere il continuo sviluppo delle proprie risorse iniziato in O.P.G. Per consentire al paziente
di ristabilire davvero il proprio benessere psico-sociale e riprendere in mano le redini della sua
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vita, non bisogna solo dimettere la persona dall’ O.P.G., ma fornire ad essa validi riferimenti sul
territorio che possano consentire di risolvere quei conflitti concausa dei reati.
Gli eventi esterni risultano stressanti solo se vissuti con difficoltà all’interno del sistema psichico.
Dunque la necessità di una valutazione più attenta alla salute della persona si impone per tutti gli
operatori che si occupano del disagio sociale e psichico. Se così non fosse, ci ritroveremmo, in
quanto esperti, nelle situazioni descritte esaurientemente da Renos K. Papadopoulus (cit. in
Janigro, 2002, p. 82):
“mio malgrado mi ritrovo ad affermare che veniamo utilizzati dalla società, in quanto esperti, per
esorcizzare con spiegazioni esaurienti la disturbante complessità della distruttività e sostituirla con
teorie risananti. Isolata e trattata come qualcosa di “esotico”, la violenza si allontana, come se non
avesse niente a che vedere con ogni individuo, come se non fosse un tragico aspetto della
condizione umana”.
La fretta con cui questi reati vengono archiviati sotto l’etichetta della malattia mentale segnala
l’emergere del dubbio intollerabile che l’antico comandamento “non uccidere” stia rientrando dal
lungo esilio, per chiedere riconoscimento e cittadinanza.
Restituire alla morte il posto che ha nella vita del singolo e della collettività, dove non ha mai
smesso di mescolarsi all’amore, non ha altro significato che fare il passo necessario per
comprendere l’individuo nella sua globalità, considerando così il fondamentale contesto di vita in
cui la persona si sviluppa.
È importante ricordare che “le azioni violente non vengono necessariamente commesse da
individui pervertiti, ma da persone comuni che si trovano intrappolate da circostanze tragiche: la
maggior parte degli esseri umani è in grado di commettere azioni violente” (Papadopoulus, Cit. in
Janigro, 2202, p. 83).
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