Ci chiamavano banditi Anteprima

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Ci chiamavano banditi Anteprima
Progetto grafico: Leonardo Di Bugno
Redazione: Giovanna Ferri
www.giunti.it
© 1962, 2008 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese, 165 - 50139 Firenze - Italia
Via Dante, 4 - 20121 Milano - Italia
ISBN 9788809754997
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
Prima edizione digitale 2010
Guido Petter
Ci chiamavano
banditi
Ai miei compagni della X Brigata Rocco
caduti nella Guerra di Liberazione
Premessa
Questo libro è già apparso nel 1978, col titolo Che importa se ci chiaman banditi, titolo che riprendeva il primo
verso di una canzone partigiana ossolana. Aveva però la
forma di un racconto, e benché io avessi precisato nella premessa che si trattava di una sorta di “diario in terza persona”
in cui erano descritti fatti tutti realmente accaduti, fu in genere considerato dai miei lettori (e soprattutto dai più giovani) come un romanzo, ispirato alla guerra partigiana ma
anche aperto, come accade appunto nei romanzi, all’invenzione fantastica.
Ho dunque ritenuto giusto, per rendere più evidente il carattere di piena realtà dei fatti narrati ed eliminare ogni possibilità di fraintendimento, procedere a una sua riscrittura,
passando dalla terza alla prima persona, e dall’uso del passato a quello del presente. Il testo ha assunto così la forma
evidente di un “diario” (benché non sia stato scritto in quei
giorni, come risulta del resto anche dalla mancanza di date,
ma solo qualche anno dopo).
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Posto di blocco
Il treno si muove lentamente, nel buio di una notte
invernale e di guerra. È formato in gran parte da carribestiame, con operai e sfollati che rientrano da Milano
e hanno traghettato il Ticino sui barconi. Da mesi, infatti, il ponte di Sesto Calende è crollato sotto i bombardamenti.
Io me ne sto nel fondo di uno di questi carri, circondato da gente seduta sopra valigie o sgabelli pieghevoli, che non vedo perché siamo del tutto al buio,
ma di cui ascolto le conversazioni. Ho trovato posto
accanto a una parete e mi sono seduto sul pavimento,
col mio prezioso pacchetto sulle ginocchia. Dentro ci
sono molte fette di pane secco, del formaggio, un po’
di biancheria, un asciugamano e, nell’asciugamano,
una pistola a tamburo.
Sento, nel dormiveglia, il rotolio delle ruote, e i sobbalzi sui giunti delle rotaie, e penso che anche una bicicletta potrebbe tenerci dietro facilmente.
Poi i sobbalzi si fanno più frequenti perché il treno
attraversa una serie di scambi, e io mi riscuoto. Attraverso le porte socchiuse vedo deboli luci blu.
«Arona» dice qualcuno.
«Era ora. È quasi l’una e mezza».
«Dio buono! Mai arrivati così tardi!»
Il treno si è fermato, i viaggiatori hanno iniziato a
scendere. Per un po’, benché ormai sveglio, resto seduto; poi, quando vedo che i più se ne sono andati,
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decido di scendere. Nella folla potrò confondermi più
facilmente che fra i pochi rimasti sul carro.
Cammino lungo il marciapiede ed esco insieme
agli altri in una piazza illuminata dalla luna ancora
quasi piena. Intorno non ci sono né soldati tedeschi
né militi fascisti. A destra, al di là di un parapetto, si
vede il lago; all’imbarcadero sosta immobile un
battello.
I viaggiatori si muovono a gruppi, in direzioni
diverse. Mi metto in quello più numeroso, e con
esso attraverso la piazza dell’imbarcadero. In fondo
imbocchiamo una viuzza dove la luce della luna non
riesce a scendere, e dove le voci e il rumore dei passi
rimbombano tra alte case. Ogni tanto qualcuno svolta nei vicoli laterali, perdendosi in un buio più
fondo.
Più avanti la strada, dopo avere costeggiato il porto
delle barche, comincia a salire diventando una rampa,
e si restringe, obbligandoci a disporci in fila. Ho, sulla
destra, un parapetto di ferro, e al di là di esso, e più in
basso, vedo un gran numero di carri di vario tipo, a
due o a quattro ruote, con tendoni aperti o ripiegati,
con ombrelloni chiusi. E poi carrozze, calessi, e file di
ruote appoggiate al muro.
Camminando col mio pacchetto sotto il braccio, comincio a osservare con curiosità tutti quei veicoli, e
così vado a urtare contro una donna che mi sta davanti. Soltanto allora mi accorgo che la fila dei viaggiatori si è fermata, e che ci sono dei militi alla sommità della rampa, dove questa sbocca in una strada
più grande e dove due cavalletti lasciano solo uno
stretto varco.
Alcuni militi sono seduti sul muretto e parlano fra
loro; altri, con delle torce elettriche, si muovono lungo
la fila. Con improvviso spavento mi accorgo anche che
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due di essi mi stanno vicini, sorvegliando che nessuno
si allontani.
Hanno facce dure, pallide, sopra il maglione nero e
sotto il nero berretto a tesa. Portano a tracolla, di traverso sul petto, un mitra. Uno fissa per alcuni secondi
il mio pacchetto, dandomi il senso che quell’involto
divenga quasi trasparente intorno all’oggetto proibito
che vi sta nascosto.
Con improvvisa angoscia, ripenso ai bandi affissi ai
muri, con la cupa minaccia: “chi sarà trovato in possesso di armi verrà fucilato immediatamente”; e mi
tornano alla mente gli annunci delle esecuzioni sommarie compiute in tali casi. Come ho potuto essere
così imprudente?
Ma lo sguardo del milite scivola subito verso altre
persone della fila e altri involti.
Intanto la gente passa poco per volta attraverso il
blocco. Un milite apre valigie e pacchi, e talvolta tasta
le tasche e i fianchi dei viaggiatori, mentre un ufficiale verifica i documenti, pone domande.
Mi sento quasi perduto, proprio come quella volta
che ho tentato di viaggiare in tram senza pagare il
biglietto e ho visto salire il controllore con la pinzetta
in mano. I mitra dondolano muti sulle casacche, ma
sparerebbero in pochi secondi. Niente da fare, bisogna andare avanti.
Apro un poco il pacchetto, appoggiandolo al petto
e facendone sporgere una fetta di pane. Comincio a
sbriciolarla con i denti, rumorosamente, assumendo
un’espressione svagata, infantile.
Davanti a me stanno esaminando la valigia e la
borsa della donna. Vedo da vicino la faccia dell’ufficiale, che sorride un po’ ironico alle risposte; non ha il
mitra, ma una pistola gli pende dal cinturone, in una
fondina fatta di strisce di cuoio.
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La donna riprende la valigia e la borsa e passa.
Allora guardo negli occhi l’ufficiale, sempre sbriciolando il pane, e mi faccio avanti.
Ma l’ufficiale non guarda me, bensì un uomo altissimo che mi sta dietro e porta uno zaino e due valigie.
Sento sulla spalla la mano del milite che mi spinge oltre
il varco, dietro la donna. «Avanti, non ingombrare. Aiutala, piuttosto, a portare qualcosa!»
Gli altri militi continuano a chiacchierare, osservano
indifferenti la gente che si allontana.
La donna cammina davanti a me. Io respiro profondamente, e più volte, per liberarmi dallo stordimento.
Poi la raggiungo.
«Gliela porto io, la valigia, se vuole».
«Grazie, sei gentile» mi risponde.
Sopra la strada la roccia sale a picco; è la “Rocca di
Arona”. Sotto, ci sono degli scogli sui quali battono le
onde.
La donna inizia a parlare, sottovoce:
«A me, quella gente armata, mi fa paura».
«Di notte, poi!» aggiungo io.
«E con tutto quello che è capitato oggi! I ritardi, gli
aeroplani, adesso anche questi ci volevano. Finirà pure
questa vita da galera, avanti e indietro, senza mai riposare».
La donna è ansante e ogni tanto si ferma posando la
grossa borsa. Io do allora occhiate all’indietro, per vedere se dal posto di blocco viene qualche milite. Ma
tutto è calmo, il blocco è lontano, la gente ha preso altre
strade.
«Abita a Milano?»
«A Milano, sì, abitavo. Ma mi hanno buttato giù la
casa, nel ‘43. A momenti ci restiamo sotto tutti».
«Davvero?»
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«In agosto. Eravamo nel rifugio. Non te lo auguro di
essere là sotto quando ti scoppia la bomba».
«Era una bomba grossa?»
«Dal disastro che ha fatto, era ben grossa. Una casa
di cinque piani, sono venuti giù tutti i pavimenti. Si vedevano, il giorno dopo, le tappezzerie una sopra l’altra,
fino in cima. Adesso eccomi qua a fare questa vita. Sto
con mia suocera, al San Carlone. E tu?»
«lo?… Più in là. Sono con mio zio che è rimasto indietro. Mia zia invece è andata avanti per accendere la
stufa e mettere su qualcosa… Si ha una fame!»
Dico cose già pensate in precedenza, e intanto continuo a guardarmi intorno. A destra il muretto prosegue, e sotto c’è sempre il lago; ma a sinistra la roccia
è finita e c’è la scarpata della ferrovia.
«Non dirlo a me – riprende la donna – se mi viene
fame, con questa odissea! Ma io mi metto subito a letto;
e mangio domani. Qui non c’è il gas, e io non riesco ad
abituarmi. Non c’è acqua corrente e bisogna andare a
prenderla col secchio. E il gabinetto? È un buco nero che
puzza, giù in cortile!»
Vedendo sulla scarpata una scaletta di pietra che conduce alla ferrovia, dico, a un tratto:
«Io adesso mi fermo, ad aspettare mio zio».
«Giusto. Se no può darsi che si fermi lui ad aspettare
te. Questi viaggi fanno ammattire la gente, credimi!»
La donna mi ringrazia e se ne va, confabulando con
se stessa.
Salgo la scaletta che porta sulla ferrovia. È abbastanza buio, ma ho lo stesso paura. Sulla massicciata
guardo in entrambe le direzioni, ma non vedo altro che
i pali telegrafici ed i binari sotto la luna. Li supero ponendo il piede sulle traversine, per non far rumore. Al
di là della ferrovia il sentiero sale ancora.
Lo percorro per una quindicina di minuti, e quando
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ho il senso di essere abbastanza in alto, mi fermo, sedendomi su una pietra.
Il silenzio è pieno, e la luna riempie di ombre la montagna ancora tutta innevata. Mi sento libero.
Apro il pacco e ne tolgo la pistola. Provo un po’ di apprensione, pensando che potrei venire sorpreso da
qualcuno; ma penso anche subito che, in tale caso, potrei buttarla in mezzo alle foglie secche ai lati del sentiero, dove, al buio, nessuno la noterebbe.
Già altre volte l’ho impugnata, quella pistola: in cantina, dove l’ho tenuta nascosta fino al momento di partire. Ho introdotto decine di volte nel tamburo le pallottole (ne ho soltanto sei); ho fatto scattare il cane a
vuoto, puntando la canna contro un vecchio armadio.
Ma a sparare non ho provato mai, perché la detonazione avrebbe insospettito la gente.
Neanche adesso posso certo pensare a sparare; però,
poter brandire quella piccola arma in mezzo a boschi
sconosciuti, nella notte invernale, mi dà un brivido. L’odore delle foglie secche e le ombre che si moltiplicano
nella luce lunare riempiono il paesaggio di fantastiche
possibilità d’avventura. Mi pare d’essere su qualche altura boscosa, nel lontano West, in attesa di una banda
di fuorilegge.
Poi mi metto in ascolto. Non si ode niente. Tutti
devono essere ormai arrivati a casa. Anche la donna
della valigia è certo giunta in quell’abitazione che le è
così odiosa, dove però c’è almeno un buon letto, e
forse ci si è già ficcata dentro. Il filo di questi pensieri
mi porta allora a chiedermi dove passerò io il resto
della notte.
A Milano, prima di partire, avevo pensato che
qualche cascinale l’avrei pur trovato; ma, adesso, cercarlo mi pare una cosa difficile. Non ne ho veduti, e poi
posso trovarli con cani pronti ad abbaiare nel buio. Ma13
gari da qualche strada vicina qualcuno dei militi del
posto di blocco mi può scovare.
Allora esco dal sentiero e cammino nel bosco, fermandomi sotto un gruppo di castagni, fuori mano. Raccolgo a mucchio le foglie che coprono il suolo. A
qualche distanza nascondo il pacchetto con la pistola,
dopo aver preso quanto rimane del pane.
Mi chiudo nel cappotto e mi metto sotto le foglie. Mastico il pane, fermandomi ogni tanto per respirare a
fondo l’aria fredda della montagna. Poi il pane finisce,
e io resto immobile ad aspettare il sonno. E ancora,
come prima, il bosco è silenzioso e deserto.
“Proprio” penso “da qui non deve passare mai nessuno, di notte”.
Sento il freddo che penetra nel cappotto; lungo il
fianco e la schiena avverto le pietre e le buche del terreno, ma non oso voltarmi per paura di disperdere le foglie. Penso che, a casa, questa notte nessuno dormirà
molto, dopo aver letto il mio biglietto. Sento la nostalgia
del mio letto e della mia coperta, cui se ne può sempre
aggiungere un’altra togliendola da sopra l’armadio.
Adesso, invece, al posto dell’armadio ho accanto a
me un grande castagno. Vedo in alto brillare, impigliate
tra i suoi rami, tutte e sette le stelle del Gran Carro. Dell’Orsa minore scorgo solo la stella polare, che so come
trovare; le altre sono offuscate dal chiarore che la luna
spande nel cielo rendendolo meno nero e lontano.
Mi addormento quasi senza accorgermene, nonostante il freddo. È la prima notte, questa, che trascorro
in montagna.
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Franchino e Omero
L’alba mi trova già in cammino lungo una strada polverosa. Ho passato la notte ridestandomi spesso per il
freddo, con l’impressione che il buio non dovesse finire
mai, e mi sono infine svegliato completamente al primo
chiarore, con tutte le foglie sparse intorno.
Camminando in fretta per scaldarmi, guardo i banchi
di nebbia che stagnano fra le colline, velando il paesaggio.
Un vecchio mi viene incontro, reggendo un secchiello di latta e un fascio di legna, e portandosi appeso
alla cintura, sotto la giacca, un ombrello.
«Buongiorno» gli dico.
«Buongiorno a te» mi risponde, allegro e squillante,
fermandosi di scatto. Poi aggiunge: «Ti sei alzato
presto. Come sta il papà?»
«Il papà?… Bene, sta bene».
«Allora – riprende lui – digli che venga a ritirare quel
ferro di falce che mi ha portato da martellare. Io non
me ne ricordo mai, solo quando sono fuori mi viene in
mente, ma non ho tempo di tornare indietro. Allora
dico: ho quel ferro di falce da portare al Celestino! È da
ottobre che me l’ha dato».
«Ma io…»
«Vuoi venire tu a prenderlo? Ma sì, vieni tu, che io
non mi ricordo mai. – Appoggia sul muretto di pietre
il fascio e il secchiello. – È una brutta cosa, sai, perdere
la memoria! Non ti ricordi più niente, quello che fai,
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quello che non fai. Magari esco dalla stalla per fare una
cosa, e poi quando sono uscito mi dico: ma cosa sono
venuto fuori a fare? Allora torno indietro per fare tutta
la strada che ho fatto, per farmelo venire in mente, e invece niente, è peggio ancora, orca l’oca!»
Smette di parlare per infilarsi in bocca un pezzo di tabacco, e resta zitto a masticarselo, assaporandolo. Poi
riprende, parlando con più fatica.
«Un giorno con l’altro, anche le cose importanti mi
vanno via. E invece mi ricordo tutto di quando andavo
a scuola. Sono arrivato sino alla terza, orca l’oca. E l’ho
fatta tre volte perché, dopo, in paese, di classi non ce n’erano più. Terza elementare. Ero il primo della classe».
Le mandibole quasi senza denti si muovono nella
masticazione; i peli ispidi sul mento e sulle gote sono
lunghi, ma non sono ancora una barba.
«Sai che ricordo tutto, di quando ero a scuola? Senti
qui. “Me ne andavo un mattino a spigolare, quando ho
visto una barca in mezzo al mare. Era una barca…” una
barca… che barca era?»
«Che andava a vapore» suggerisco io.
«Ah, già. Andava a vapore… e poi?»
«Portava…»
«Sì, portava! Portava… – Il vecchio chiude gli occhi,
poi li riapre, sbattendo le palpebre e mi fissa un po’ addolorato. – Orca l’oca, non mi ricordo più neanche
questa. Ed ero il primo della classe! Cosa stavamo dicendo?»
«Si stava dicendo… il ferro della falce…»
«Devi dirgli di venire a prenderlo, è pronto».
«Ma – cerco allora di chiarire – forse lei si sbaglia. Io
non sono il figlio del Celestino».
«Oh bella! Non sei il figlio del Celestino! Ma chi sei,
allora?»
«Sono di un altro posto. Di Milano».
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«Cose dell’altro mondo, cose dell’altro mondo! E…
che cosa fai da queste parti?»
In un attimo, mi decido. Se non lo chiedo a questo
vecchio, a chi altri potrei domandarlo?
«Cerco i partigiani».
«I partigiani!»
«Sì. E mi sa dire se li ha visti, da queste parti?»
Sorrido fra me per la forma in cui ho posto la domanda. Mi pare di avere parlato come Pinocchio
quand’era alla ricerca di Geppetto.
«Se li ho visti? Qua è tutto pieno di partigiani! Ne
trovi dappertutto, se li cerchi. Ma… – il vecchio abbassa
la voce, si guarda intorno – fai attenzione ai neri… Girano, girano, orca l’oca!»
«Dappertutto? Ma dappertutto dove?»
«Lì, là, là – e col dito indica varie direzioni. – E anche
là, e là. Dappertutto. Magari una volta qua e una volta
là, ma ci sono sempre. Ieri li ha visti mio nipote, gli ha
portato una vacca».
«Saranno ancora là? È molto lontano?»
«Se gli ha portato una vacca non è lontano. Ma dove
gliel’ha portata? Me l’ha detto, accidenti se me l’ha
detto! Ma adesso non me lo ricordo più…»
Il vecchio si tiene fermo con due mani il cranio, come
per aiutarsi a ricordare. E poi sospira:
«È inutile, più ci penso e meno mi viene. Ma se vai in
paese, te lo dicono tutti. E può anche darsi che li trovi lì.
Vengono giù ogni giorno a far la spesa».
«È lontano, il paese?»
«Fai cento metri e lo trovi, dietro la curva».
«Ma… e i fascisti?»
«Non ce ne sono adesso, in giro, di quei briganti. Ma
fa’ attenzione! Ogni tanto vengono su da Arona, o da
Gozzano. Girano, girano, orca l’oca! Dietro la curva c’è
il paese. Lì te lo dicono tutti».
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Riprende la fascina sotto il braccio, e io lo saluto, avviandomi alla curva. Col braccio libero lui continua ad
indicare avanti e a gridarmi:
«Dopo la curva trovi il paese. È lì di fronte, non hai
che da fare cento metri».
Poi afferra anche il secchiello e si avvia, sputando tabacco e trascinando l’ombrello come una sciabola.
Superata la curva, trovo le prime case, circondate da
piccoli orti. Dietro vedo il campanile e allora vado nella
sua direzione. Ma prima di giungere alla chiesa trovo
una piazza al cui centro sta un palazzo che attira la mia
attenzione.
È diverso dalle altre case, antiche e ingrigite; è di costruzione recente, dipinto a strisce bianche e verdi orizzontali e porta la scritta “Municipio”. Ciò che però mi
colpisce è il fatto che i muri sono sbrecciati, punteggiati
di buchi che si fanno particolarmente fitti intorno alle
finestre del primo piano, i cui davanzali sono quasi interamente distrutti. Le finestre non hanno più vetri,
l’intelaiatura stessa è scomparsa quasi dappertutto.
Ogni cosa porta i segni di un combattimento che deve
essersi svolto tra gente chiusa nel palazzo e gente che
dall’esterno ha cercato di colpire sparando verso le finestre.
Osservo a lungo il palazzo, che sembra abbandonato,
cercando di immaginare la scena. Anche altre case intorno portano i segni dei proiettili.
Una di queste è una panetteria, e mi ci infilo sperando di trovarvi un po’ di pane e qualche notizia.
Dentro, alcune donne comprano pasta e farina. Anch’io, come loro, preparo i tagliandi della tessera, che
ho portato con me. Quando viene il mio turno li do alla
fornaia.
«Ma guarda che biondino» commenta questa, rivol18
gendosi alle altre donne. E la cosa mi dà un po’ di fastidio.
«Assomiglia tutto al mio Daniele» osserva una.
«Ma tu non sei di qui» riprende la fornaia.
«Di Milano. Sono venuto a trovare mia zia, che è sfollata. Era in una casa di cinque piani, che è andata giù
con una bomba. Lei era sotto, nel rifugio».
«Poveretta! E dove sta, adesso?»
«Più in su. E si lamenta che non c’è il gas».
«Più in su? Dove?» chiede ancora la donna, consegnandomi due panini di farina di riso.
«Vicino alla chiesa. In quella casa vecchia che sta vicino alla chiesa».
«Casa vecchia?» riprese lei. «Vuoi dire l’Albergo
Concordia? Oppure vuoi dire il Casone?»
Ho il senso di avere osato troppo.
«No, no – dico allora – non l’albergo, e neanche il Casone. Più indietro». E poi aggiungo, in fretta: «Non sono
molto pratico, sono arrivato solo ieri sera. Mi fermo
oggi, e poi torno via subito».
«Ah» fa la donna.
Le altre se ne vanno ed io mi fermo a mangiare il pane
presso la stufa, nel negozio che si è fatto silenzioso.
«Ma che pane è, questo? – chiedo, per rompere quel silenzio. – Non ne ho mai visto di simile».
«È fatto col riso macinato. È scarsa la farina di grano,
di questi tempi, qui da noi».
La donna, da dietro il banco, mi sorride con simpatia
mentre sposta, per spolverare i ripiani, i barattoli dei sottaceti e le scatole di conserva.
Indugio un momento, e poi avanzo la domanda:
«Signora, lei… ha per caso visto dei partigiani, da
queste parti?»
Il sorriso scompare dal suo viso, che si fa serio e attento.
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«Mai visti i partigiani» risponde, dopo un poco. La
voce è improvvisamente divenuta estranea.
«Ho sentito dire che ci sono, da queste parti».
«Mai visti» ripete la donna, fissandomi.
Sento su di me un’ombra di sospetto.
«Ma se qui fuori sul municipio ci sono ancora i segni
della battaglia!»
La donna però non risponde; sono entrati due bambini pronti per la scuola, e la donna si occupa solo di
loro, con una premura eccessiva che a me sembra voler
dire: “Non vedi che sto facendo altro, che noi due abbiamo finito? Tanto, niente ti dico”.
Allora saluto, ed esco, richiudendo piano la porta e
respirando l’aria fresca del mattino che si va riempiendo di sole. Eppure tutto, intorno, parla dei partigiani! Quel vecchio, l’aspetto del Municipio, lo stesso
silenzio ostinato della donna: tutto dice che non sono
lontani.
Gironzolo un po’, osservando le vetrine di altri negozi ma senza osare entrarci. Spero di imbattermi in
qualche altra traccia di ciò che sto cercando, ma non
trovo nulla. Arrivo alla chiesa, dove alcuni bambini giocano a lanciare figurine contro un muretto. Mi siedo sul
muretto e li sto a guardare. Chi con la sua figurina
giunge più vicino al muro ha il diritto di raccogliere
tutte le altre e di lanciarle in aria. Quelle che ricadono
dalla parte colorata diventano sue.
Resto ad osservare il gioco, finché uno dei bambini
non ha perso tutte le sue figurine. Gli altri continuano,
mentre lui resta in disparte a guardare.
«Le hai perse tutte, vero? – gli chiedo. – Non sei capace di tirarle, al muro?»
«Sono capace. Ma loro sono più capaci di me».
«Ti dispiace?»
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«Un po’».
Mi osserva, un po’ scontroso.
«Le vendono qui in paese, quelle figurine?»
«Sì, dalla Martinaccia».
«Io, a casa, ne ho un pacco così».
Il bambino alza le spalle. Non gli importa nulla delle
figurine che dico di avere a casa.
«Le ho guadagnate tutte in un giorno. Ho giocato
dalla mattina alla sera, senza perdere mai».
«Eeeh! – dice il ragazzino facendo una giravolta sui
tacchi, con le mani sprofondate nelle tasche. – Non si
può vincere sempre!»
«Beh, anche se non ci credi la cosa non cambia. Tu sei
padrone di crederci o di non crederci».
I giocatori fanno un chiasso improvviso. C’è stata una
vincita favolosa: tutte le figurine dalla parte colorata.
Il ragazzino si tende verso i compagni. Si consuma
dalla voglia di tornare a giocare.
«Ehi, Walter! Me ne presti una?» grida. Ma nessuno
di quelli gli risponde.
«Senti – gli dico – perché non le vai a comprare?»
«Perché non ho soldi».
«E se te li do io?»
«Per comprare le figurine?»
«Ma sì. Poi, se vinci, me ne dai metà».
«Oh, sì, sei bravo tu – grida lui, battendo il pugno
sulla mano aperta. – Dopo li vinco tutti, sono sicuro che
li vinco tutti. Non ci credi?»
«Sì che ci credo. Io ti do i soldi per comperarne due
o tre mazzetti, o magari quattro o cinque. Tu però prima
dovresti farmi un piacere».
«Che cosa?»
«Questo pacchetto: vuoi aiutarmi a portarlo qui vicino, dove ci sono i partigiani?»
Il ragazzino annuisce.
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«Però è un po’ lontano» dice. Prende il pacchetto dal
muro, senza meravigliarsi della sua leggerezza. E aggiunge, con impazienza:
«Andiamo, così torno presto, e li batto tutti».
Imbocchiamo una strada che ci porta fuori del paese.
La neve si è sciolta e il fondo fangoso rende disagevole
il cammino. Dopo un po’, dico:
«Scommetto che non riesci a vederli, da qui».
«No, sono troppo lontani, e poi stanno nascosti. Da
qui si vede appena il tetto della cascina».
Il bambino punta l’indice a una collina boscosa.
«È un pezzo che non vengono in paese?»
«Ci sono tutte le sere!»
«Come sono vestiti?»
«Perché, tu non li hai visti mai?»
«Sì che li ho visti, ma prima che venissero qui. Io sono
di un’altra parte. Vedi quella montagna? Ecco, di là da
quella».
«Questi qui sono i partigiani della Volante. Sono vestiti di marrone, ma non tutti. E poi hanno il mitra, il
fucile e la pistola».
«Davvero?»
«Perché, non lo sai che i partigiani hanno il mitra e
la pistola?»
«Sì, lo so, ma non tutti».
«Questi qui ce l’hanno».
«E sono molti?»
«Eh, un battaglione!» dice il bambino, col tono di chi
pensa a qualcosa di molto grande.
«Lo sai cosa c’è in quel pacchetto? Una pistola».
«Me la fai vedere?»
«No, qui è pericoloso. Aspetta più avanti».
«È tua?»
«Certo. Sono anch’io un partigiano, si può dire».
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«E perché non la tieni alla cintura?»
«Perché nei paesi non voglio farmi scoprire».
Così discorrendo deviamo per un sentiero che affronta il bosco. Dopo un po’ siamo abbastanza in alto,
in mezzo alle piante.
Mi fermo, e tolgo la pistola dal pacchetto.
«La vedi? È una pistola a tamburo».
«Come quella di Buffalo Bill!»
«Ha le pallottole caricate a balistite».
«Dici davvero? Me la lasci prendere in mano?»
«Te la lascerei, se fossi sicuro che la sai maneggiare.
Però, ora che ci penso bene, te la posso anche lasciare,
ma solo per un minuto».
Tolgo le pallottole, poi affido la piccola pistola al ragazzino che si diverte a passarsela da una mano all’altra, a puntarla, e osserva il funzionamento del grilletto che contemporaneamente fa girare il tamburo e
scattare il cane. Lui vuole vedere anche le pallottole,
palparle; sono lucenti, molto lunghe e sottili, corazzate
di acciaio.
«E hai provato a sparare? – chiede il ragazzinoı».
«Certo. È facile come mangiare una patata».
«E tiri bene?»
«Becco un turacciolo a dieci metri».
«Accidenti. E hai ammazzato qualcuno?»
«Oh no, no, nessuno – rispondo vivacemente. – E non
desidero neanche farlo, per il momento».
«Certo che è una bella pistola. Mi lasci provare?»
«No, qui non si può. Ci sentirebbero tutti».
«Se andiamo al prato grande, mi lasci provare? È un
po’ lontano da qui, non ci va mai nessuno».
«No, non posso venire. Devo arrivare subito da
questi partigiani, devo consegnare delle cose».
«Peccato. Mi sarebbe piaciuto molto».
Metto in tasca la pistola e offro al ragazzo alcune mo23
nete, per le figurine. Lui dapprima si schermisce, ma
l’idea del gioco si fa poi così viva che le prende e le infila nel tascone.
«Grazie – dice. – Non vorrei prenderli, i soldi; ma se
non li prendo, come faccio per le figurine?»
«Dovresti stare a vedere gli altri che giocano».
«È brutto, stare solo a vedere».
Il sentiero sale lungo il bosco di castagni, e qui la neve
forma un manto ancora quasi uniforme. È una neve
marcia, coperta da un sottile strato di ghiaccio; nei
punti dove si è del tutto sciolta si vedono le foglie fradice. Gli alberelli sorgono a cespi, e non hanno più di
otto o dieci anni. Il sole li illumina in alto senza riuscire
ad arrivare sul terreno.
Più sopra, ai castagni subentrano cespugli di nocciolo, folti cespugli attraverso i quali si riesce a stento a
passare. Poi il bosco cessa nel punto stesso in cui comincia un ampio prato in salita, per gran parte coperto
di neve. Quasi in cima scorgo, fra alcuni grandi ciliegi,
una cascina. Più in alto il bosco ricomincia, e copre la
sommità della collina, e poi il fianco del monte al quale
essa si appoggia come un contrafforte.
«È quella, la casa?» chiedo.
«Quella».
«Io però non vedo nessuno».
«Non vedi niente? Guarda là – dice il ragazzino».
Nel punto da lui indicato c’è un uomo, di schiena,
avvolto in una coperta a strisce.
«È un partigiano? – chiedo, piano».
«Certo. Lo conosco. È Omero».
«Prova a chiamarlo».
Il ragazzino fa alcuni passi, mentre io me ne sto
fermo, mezzo nascosto dietro un muretto. Poi si mette
due dita in bocca e fa partire un fischio. L’uomo si ab24
bassa, e nel contempo si volta, con un fucile in mano.
Ma il mio accompagnatore, per nulla impressionato,
cammina avanti nella neve.
«Omero! Omero! – grida».
Il partigiano lo riconosce e si rialza, levando in aria
il fucile in segno di saluto.
«Oh, Franchino! Che vuoi? Cosa sei venuto a fare da
queste parti? – esclama. La lunga barba gli scende sul
collo come un tovagliolo».
«Francoforte, Francobollo, dimmi, che fai qui?»
«Sono venuto ad accompagnare lui».
«Lui? Lui chi?»
Il partigiano volge il fucile verso il punto che Franco
(solo ora ne conosco il nome) gli indica.
«E chi è? Chi ti ha detto di accompagnarlo?»
«È stato lui a chiedermelo».
«Ah, sì? E chi sei?»
Mi faccio avanti nel prato. Quando sono vicino ad
Omero, questi ancora mi chiede, e il tono è duro:
«Cosa sei venuto a fare quassù?»
«Per stare coi partigiani. Son due giorni che li cerco».
«Tu? » Omero mi osserva un momento, l’espressione
si fa più dolce, tra la barba spunta un lieve sorriso.
«Ma quanti anni hai? E da dove vieni?»
«Diciassette – rispondo. – Vengo da Milano».
«Sicché saresti venuto per fare il partigiano?» Tra la
barba il sorriso diviene sempre più largo.
«Omero – dice Franco. – Ha anche una pistola».
«Hai una pistola? Fai vedere».
Mostro la pistola. Omero la prende, la osserva e poi
me la restituisce mentre il sorriso si tramuta in una risata allegra.
«Bravo – mi dice poi, battendomi una mano guantata
sulla spalla – bravo! Tienti la tua pistola, Non è granché
ma val sempre qualcosa. Io sono Omero, dopo mi dirai
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come ti vuoi chiamare tu. Adesso però andiamo al Comando. Vieni».
«Ciao Omero!» dice il ragazzino. E poi, rivolto a me:
«Ciao, ci vediamo giù in paese».
«Ciao, Francobollo» gli grida Omero. Ma quello è già
lontano, corre diritto verso le sue figurine.
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Fine dell'anteprima
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