introduzione di giuseppe casarubbea

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introduzione di giuseppe casarubbea
PORTELLA
DELLA GINESTRA
documenti sulla strage
introdotti raccolti e curati da
GIUSEPPE CASARRUBEA (1999)
INTRODUZIONE
Vengono qui presentati alcuni documenti sulla strage di Portella della Ginestra che ci è
parso utile consegnare all’attenzione dei lettori per un triplice ordine di motivi:
1) si tratta in parte di atti che servirono all’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo
per gettare le basi processuali di un decennio e per sorreggere l’atto di accusa col quale, il
4 settembre 1947, vennero denunciati, quali autori di quell’episodio efferato, Salvatore
Giuliano e gli uomini della sua banda;
2) fortissimi indizi e dati obiettivi avrebbero potuto orientare le scelte degli inquirenti
anche verso altri soggetti che assieme alla banda Giuliano avevano organizzato ed
eseguito quel battesimo di fuoco della prima Repubblica;
3) è necessario recuperare, prima che sia troppo tardi, ogni documento, memoria, traccia
utili a conservare, per le nuove generazioni, il significato di quella vicenda: un vero
“affare” per le classi dominanti di allora e al contempo banco di prova della nascita del
‘doppio Stato’ e del terrorismo eversivo.
Sono stati aggiunti alcuni documenti che riguardano la fase dibattimentale del processo
di Viterbo, con le relative dichiarazioni di Gaspare Pisciotta, e alcuni altri atti che
testimoniano i particolari sospetti del senatore Giuseppe Montalbano circa i
comportamenti tenuti dall’ispettore Messana.
Mafie locali e forze istituzionali emergono - come il lettore potrà ben vedere - come
elementi nodali. Sta di fatto tuttavia che esse, sul piano giudiziario, non ebbero rilievo
alcuno. Questo spiega anche come molti enigmi siano stati risolti a senso unico, e non
vagliando – come sarebbe stato doveroso fare - ogni indizio utile ai fini
dell’approfondimento delle indagini.
L’insufficienza e la limitatezza estrema dell’impianto accusatorio che faceva carico a una
banda di malfattori, per lo più analfabeti, di aver concepito ed eseguito un progetto
eversivo antidemocratico, si strutturano in tempi diversi, secondo una linea dettata già lo
stesso giorno della strage, dagli organi di polizia d’intesa col ministero dell’Interno.
Quest’ultimo di quel fatto tragico ebbe a circoscrivere immediatamente la natura
localistica. Si tratta di una presa di posizione sbalorditiva dagli effetti ancora oggi poco
valutati. Non era pensabile, infatti, che a meno di un giorno di distanza dall’eccidio, il
ministro dell’Interno in persona, Mario Scelba, potesse assumere un orientamento
capace di condizionare i comportamenti futuri sia degli organi inquirenti, sia anche della
Magistratura. Va detto a questo proposito che, anche durante lo svolgimento del
processo di Viterbo, gli stessi giudici non poterono fare a meno di esaminare le accuse
specificamente formulate, e di lamentare che nei confronti di certi personaggi e fatti
emergenti, non si poteva dare luogo a procedere per una specifica mancanza di capi di
accusa che solo il pubblico ministero avrebbe potuto formulare.
Evidentemente non poche furono, all’interno dei vari organi inquirenti, le forme di
soggezione allo scelbismo onnipresente, con le conseguenti sudditanze della magistratura
al potere politico.
Con questo lavoro abbiamo pensato di fornire al lettore, al di là della voce popolare che
sin dai giorni successivi alla strage ne attribuiva la responsabilità a proprietari terrieri,
mafiosi e politici collusi, una serie di materiali che contraddicono le indagini a senso
unico allora condotte, fino agli esiti estremi delle condanne che colpirono esclusivamente
i banditi di Montelepre.
Lungi dal difendere questi ultimi, qui, si è voluto semplicemente mostrare alcuni aspetti
della trama delle complicità sulle quali, ancora oggi, nonostante le pressioni dei familiari
delle vittime, e dei Comuni colpiti, nessuna indagine giudiziaria si è avviata.
Abbiamo aperto la serie dei documenti con la carta geografica dell’area di Portella della
Ginestra tracciata dagli inquirenti. Una prova di come la topografia del luogo riferita alle
dinamiche della strage raccontate da vari testimoni - le cui dichiarazioni integrali
vengono riportate in questa silloge di documenti - abbia costituito uno dei primi
elementi non secondari del depistaggio messo da subito in opera.
Il lettore scorgerà un’unica via di fuga degli esecutori materiali della strage: quella che
costeggiando il Cozzo Valanca dalla parte dei roccioni del Pelavet consentiva, attraverso
l’antica trazzera regia Piana degli Albanesi-Mulino Chiusa (oggi in buona parte non più
esistente) di raggiungere la provinciale San Giuseppe Jato-Palermo in corrispondenza
delle case Lino. Si tratta di una via in parte ben visibile dall’alto della carreggiabile San
Giuseppe Jato-Piana degli Albanesi, agli abitanti di San Cipirello e San Giuseppe Jato che
ogni anno si recavano dai loro paesi a Portella della Ginestra per la festa del primo
maggio. E’ su questa via di fuga che, dopo la strage, la comitiva di Calogero Caiola che si
trovava in contrada Caramoli a circa un chilometro di distanza da Portella, scorge dodici
persone armate e degli automezzi che si dirigono verso San Giuseppe Jato: Ugo Bellocci,
Calogero Caiola, Angelo Randazzo e Rumore Angelo i quali, recatisi a Portella della
Ginestra, si erano appartati ad un chilometro circa dal luogo dove era radunata la folla,
assieme alla prostituta Maria Roccia, dichiaravano alla loro volta che dopo l’eccidio
avevano visto allontanarsi dal Pelavet dodici armati così divisi: due avanti, seguiti da tre,
quindi altri tre e poi due e ancora altri due; tutti individui a loro sconosciuti. Uno di
costoro indossava un impermeabile chiaro. […] Avevano successivamente notato nello
stradale un’autovettura e un autocarro diretto a San Giuseppe Jato (infra, Sentenza
istruttoria).
Anche Salvatore Fusco, uno dei quattro cacciatori presi in ostaggio durante la sparatoria,
dirà:
“Vennero effettuate tre scariche e poi uno dei malfattori ha avvolto il fucile mitragliatore con una
coperta e, seguito da tutti gli altri, si è diretto verso il basso, verso lo stradale che porta a San Giuseppe”
(cfr. infra).
La traiettoria dell’avvistamento è segnata dunque dalle testimonianze del gruppo Caiola e
confermata dai cacciatori che in quella circostanza rappresentarono una sorta di
osservatorio interno al momento in cui la strage si verificava. Senonchè la via è
completamente diversa da quella indicata dal contadino Domenico Acquaviva che, a
proposito della sparizione del campiere Emanuele Busellini, avvenuta quella stessa
mattina del primo maggio, incontra pure lui un gruppo di dodici persone armate:
“Nella stessa giornata del 1° maggio 1947 era misteriosamente scomparso dall’ex feudo Strasatto di
Monreale, ove prestava servizio di vigilanza, in qualità di campiere, Busellini Emanuele da Altofonte.
Acquaviva Domenico riferiva alla Polizia di avere visto il Busellini, alle ore 13.00 del 1° maggio, in
località Presto tra un gruppo di circa dodici armati e contrariamente al suo solito non portava il fucile. Li
vide scomparire dietro una collina. La località Presto confina con Portella della Ginestra. Evidentemente
quel gruppo di armati, commessa la strage di Portella della Ginestra, aveva sequestrato il Busellini per
eliminare un teste a loro carico (Infra, Rapporto giudiziario dei Carabinieri di Altofonte)”.
Stando all’analisi degli interrogatori dei ‘picciotti’, quella mattina sui roccioni del Pelavet
dovevano esserci non meno di ventiquattro persone. Gli stessi giudici di Viterbo
confermarono che doveva trattarsi di un numero ben maggiore di persone rispetto a
quelle che - come vedremo attraverso i documenti - erano state notate dai testimoni
occasionali di quel tragico evento. Tutti, concordemente, asserirono di avere notato circa
dodici persone: il gruppo di Calogero Caiola, i cacciatori presi sotto sequestro, il
contadino Domenico Acquaviva. Erano stati testimoni oculari di ciò che avevano fatto
quei banditi durante il momento del sequestro e poi nel frangente della sparatoria;
oppure della loro presenza su una via di fuga. Se ne dovrebbe dedurre, come sostennero
alcuni difensori degli accusati, che a sparare non potevano essere state più di dodici
persone.
Tale ipotesi in sede processuale fu smontata dai giudici. Essi dimostrarono che molti
‘picciotti’ parteciparono a vario titolo: per fare carriera, per la promessa di denaro, per la
paura. Ora a parte il fatto che mai nessuna indagine fu sviluppata per venire a
conoscenza di tutte quelle figure sospette che molti testimoni dichiaravano di avere visto
nell'area di Portella durante la strage, è singolare il modo in cui vengono trattati i
cosiddetti ‘picciotti’. Essi servono prima per incastrare la banda Giuliano, dopo per
togliersi fuori dall’impiccio.
I giudici palermitani furono propensi a sostenere che essi erano stati allettati dagli aspetti
mercenari dell’ ‘affare’ e pertanto li rinviarono a giudizio; a Viterbo i loro colleghi la
pensarono diversamente. Ritennero che fosse stata la paura la molla che aveva spinto la
teppaglia che si muoveva attorno a Giuliano a imbracciare le armi e pertanto i ‘picciotti’
furono assolti per avere agito contro la loro libera volontà.
A prescindere dalla funzione dei ‘picciotti’ nella strage del 1° maggio e in quella del
successivo 22 giugno, sta di fatto che senza le loro dichiarazioni puntuali e
circostanziate contro i banditi di Montelepre, loro compaesani, sarebbe stato difficile,
per non dire impossibile, costruire un rapporto giudiziario che inchiodava alle sue
responsabilità l’intera banda di Salvatore Giuliano.
Il fatto preoccupante è che l’intera sequenza delle confessioni, e delle autodenunce,
prende lo spunto da Salvatore Ferreri, bandito-confidente al servizio dell’ispettore
Messana e dalla soffiata che due altri confidenti a lui legati (i fratelli Pianello) ebbero a
fare al colonnello dei carabinieri Giacinto Paolantonio.
Essi dettarono un nome, quello di Francesco Gaglio, inteso ‘Reversino’, come punto di
rottura che consentiva alle forze dell’ordine di seguire unicamente la pista delle
responsabilità del banditismo in quelle vicende stragiste. Questi dati, di per sé sospetti,
vengono confermati come tali anche rispetto alle testimonianze che vengono riportate
in queste pagine.
Si consideri, ad esempio, il fatto che dopo l’eccidio del 1° maggio diversi testimoni
vedono in luoghi diversi e in orari diversi due distinte squadre di individui armati:
percorrono strade diverse e sono diretti verso destinazioni diverse.
Una è avvistata dalla comitiva di Calogero Caiola sulla strada che costeggia il Cozzo
Valaca e conduce allo stradale San Giuseppe Jato-Palermo; l’altra dal contadino
Acquaviva in contrada Presto, cioè dalla parte opposta, verso Altofonte.
Prima ancora che fosse redatto l’atto di accusa contro Giuliano e gli uomini della sua
banda, gli inquirenti non si chiesero se per caso quest’ultimo gruppo di persone
potevano rappresentare uno squadrone della morte diverso da quello che aveva
imboccato la strada a valle.
La loro via di fuga non risulta segnata sulla carta topografica elaborata dagli inquirenti.
Essi non si posero neanche il problema di sapere i motivi per cui, al ritorno, Giuliano
stabilì di fare una divisione matematica del gruppo di fuoco che quella mattina era stato
presente sui roccioni del Pelavet.
Le diverse circostanze, se raffrontate con le accuse ufficiali, inducono a riflettere e non
sono così chiare come appaiono a prima vista ai carabinieri di Altofonte.
La località Presto fa parte del feudo Strasatto dove il Busellini esercitava il mestiere di
campiere al servizio di una molteplicità di piccoli e medi proprietari, soprattutto di
Altofonte. E’ un luogo di passaggio da questo comune del palermitano a Portella della
Ginestra. Per arrivare da quel punto a Portella bisogna risalire lungo i versanti
accidentati che costeggiano il Cozzo di Fratantoni e la Serra del Frassino da un lato e la
Pizzuta dall’altro, per degradare verso i costoni del Maia e Pelavet seguendo l’antica
trazzera della Scala della Targia che si imbocca in contrada Giacalone. Quest’ultimo è un
luogo famigerato: a Viterbo ne parlò ampiamente Gaspare Pisciotta che era abituale
ospite della famiglia mafiosa dei Miceli di Monreale che lì amministravano i beni del
cavalier Maio e del barone Gramignani e tenevano una masseria in contrada Fontana
Fredda. Ne parlarono anche alcuni testimoni che dichiararono che, prima dell’alba del 1°
maggio, quello era il luogo dove si sarebbe dovuta recare la squadra di Antonino
Terranova, lo specialista dei sequestri di persona.
Lo Strasatto si trova, dunque, sul versante opposto a quello della Ginestra, essendo
separato da questo dai rilievi che abbiamo menzionato.
Ora la domanda che sorge spontanea è questa: cosa ci stavano a fare, intorno alle ore
13, undici banditi oltre al Busellini, ormai sotto sequestro, in contrada Presto?
Sono essi lo stesso gruppo che, intorno alle ore 11, era stato visto percorrere una strada
completamente diversa, diretto in direzione opposta?
Si potrebbe supporre che lo stesso gruppo avvistato da Caiola e compagni a ridosso del
Cozzo Valanca, e capeggiato da Giuliano stando alla presenza dell’uomo con
l’impermeabile bianco, giunto al bivio della Figurella in località del Frassino, anziché
scendere verso il basso e dirigersi a San Giuseppe Jato, abbia preferito proseguire
incrociando la strada San Giuseppe-Palermo, girando poi a destra verso il feudo
Strasatto.
C’è da ritenere che in questa circostanza la direzione di marcia dei fuggitivi dovesse
essere verso Palermo e non già verso Montelepre. La presenza di due gruppi, composti
da un uguale numero di persone, registrata da osservatori diversi, sollecita alcuni
interrogativi. La logica vuole che una persona che imbocca una strada per raggiungere
una località non cambia poi parere per seguirne un’altra. E’ impensabile che, dopo una
strage di quelle proporzioni, i materiali esecutori se ne vadano in giro seguendo strade
molto frequentate, specie in un giorno che per consuetudine i contadini avevano
ripreso a festeggiare nelle campagne. Inoltre, si tenga conto del fatto che, essendo
ultimati gli spari certamente non dopo le 10,30, alle 13 i banditi dovevano essere ben
lontani da tutta quella zona, e molti di loro dovevano essere già vicini alle loro case, o
nei luoghi dove potevano essersi dati degli appuntamenti. Del resto i ‘picciotti’ di
Giuliano che dichiararono di aver partecipato a vario titolo alla strage ammisero tutti
che, compiuto il misfatto, se ne tornarono tranquillamente nelle loro case di
Montelepre, seguendo la via che avevano percorso la notte precedente e che essi stessi
indicarono in un tragitto che è ben definito nella sua prima parte, è molto sfumato nella
seconda.
La prima parte si può seguire anche sulle carte topografiche 1:50.000 lungo la linea
masseria dei Cippi- piano dell’Occhio- Portella Renne- Portella Bianca- Ponte di Sagana-; la
seconda dovrebbe continuare con la strada statale Borgetto-Pioppo dal Ponte di Sagana
a Giacalone- per continuare attraverso la masseria dei Miceli- lungo la Scala della Targia- fino
al Pelavet.
Ma di questo specifico tratto non fa riferimento nessuno: ammetterlo avrebbe
significato l’implicita dichiarazione che la mafia era coinvolta nell’operazione. Fa
eccezione, come adesso vedremo, ‘Reversino’ che fu il primo a parlare e forse per
questo ebbe meno tempo degli altri per riflettere. In diverse dichiarazioni il luogo è
scartato e la pista che sembrano aver seguito i fuggitivi dopo il loro barbaro delitto è
quella della trazzera che congiunge il Cozzo Valanca con lo stradale bitumato di San
Giuseppe Jato, e da qui si va a immettere alla Cannavera, da dove i banditi si sarebbero
congiunti al Ponte di Sagana.
Ora, per quanto le testimonianze - come il lettore potrà vedere - deponevano tutte sulla
presenza di soli dodici persone armate nelle diverse postazioni al momento degli spari,
non si può negare il fatto che in realtà, al momento della fuga, esse risultino
ventiquattro: dodici che imboccano la trazzera verso San Giuseppe e altre 11-12 che si
avviano invece dalla parte opposta che guarda verso lo Strasatto.
Stando ai primi interrogatori succedutisi dopo l’arresto di Francesco Gaglio, inteso
‘Reversino’, di fatto sul Pelavet dovevano esserci non meno di ventiquattro persone.
Per ragioni di spazio non ci è stato possibile riportare nel presente volume le
dichiarazioni rese dai ‘picciotti’ (da non confondere con i grandi latitanti della banda)
durante gli interrogatori della polizia giudiziaria dell’estate del ’47. Ma da una sintetica
esposizione delle loro affermazioni si può desumere la centralità del problema.
‘Reversino’disse:
“…mi diressi verso il sottostante stradale che conduce in contrada Giacalone, poi imboccai lo stradale
di Borgetto e giunto al ponte Sagana, attraverso la contrada omonima, raggiunsi l’abitato di
Montelepre.”1.
.
Ma ascoltiamo qualche altro:
Domenico Pretti:
“…Giuliano ordinò di ripiegare verso il versante opposto della collina. […] Quindi assieme al Sapienza
Vincenzo mi distaccai dal gruppo dei nostri compagni di delitto e, attraverso le campagne e lo stradale
di San Giuseppe Jato e Partinico, raggiungemmo Montelepre verso le ore 21”2.
Francesco Tinervia:
“Non appena cessò il fuoco il Russo mi ordinò di seguirlo e, a passi svelti prendemmo la stessa strada
per dove eravamo colà pervenuti, scendendo verso una valle, attraversammo quindi uno stradale
cilindrato e poi iniziammo l’ascesa della montagna che si trova alla parte opposta allo stradale stesso.
Pochi istanti dopo ci raggiunsero un buon numero degli altri compagni, tra cui ricordo Giuliano
Salvatore, il Terranova Antonino, il Candela Rosario, il Pisciotta Francesco, lo sconosciuto amico di
Giuliano, il Pisciotta Gaspare, inteso ‘Chiaravalle’, il Taormina Angelo e il Passatempo Francesco,
mentre qualche altro che non ricordo, seguiva a breve distanza.”.3
Giuseppe Sapienza di Tommaso:
Cfr.Processo Verbale di interrogatorio di Gaglio Francesco di Vincenzo e di Pizzo Giuseppa, nato a
Montelepre il 2 dicembre 1919, ivi residente, via Genovese,n.8, pastore, inteso ‘Reversino’, in Ispettorato
Generale di P.S. per la Sicilia. Nucleo Mobile Carabinieri di Palermo, Rapporto giudiziario circa le ulteriori
indagini in merito alla strage di contrada Portella Ginestra ed alle aggressioni, seguite pure da strage, alle
sedi dei partiti socialcomunisti in provincia di Palermo, n° 37 del 4 settembre 1947, in AGCA, processo 13/50
Registro generale della Corte di Assise di Viterbo, cartella n°3, vol. I; ora in Commissione parlamentare di
Inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre Associazioni criminali similari, Pubblicazione degli atti
riferibili alla strage di Portella della Ginestra deliberata dalla Commissione nella seduta del 28 aprile 1998,
doc. XXIII, n°6, ( da ora CPIM ), parte quarta, p. 390.
1
2
Cfr. ibidem, p. 398.
3
Cfr. Ibidem, p. 404.
“Anziché rientrare a Montelepre, io dopo avere raggiunto il sottostante stradale di San Giuseppe Jato,
che riconobbi perché in quell’epoca lavoravo alla dipendenza di certo Di Lorenzo, abitante in quel
comune, passando al largo di quell’abitato mi diressi nella contrada Tornamilla, precisamente nel
caseggiato del predetto Di Lorenzo, ove trovai mia moglie con la sua famiglia, rimanendo colà a
lavorare sino alla vigilia della festa di S. Antonio che si celebra a Montelepre verso la metà del mese di
giugno di ogni anno”.4
Vincenzo Sapienza di Tommaso:
“Assieme al Pretti, attraverso una trazzera, giunsi sullo stradale di San Giuseppe Jato e seguendo lo
stesso proseguimmo verso Partinico. Qui io acquistai del pane e del formaggio che assieme al Pretti
mangiai lungo la strada per Montelepre, dove arrivammo all’imbrunire”.5
Antonino Buffa:
“…scendemmo verso valle, dalla parte opposta da dove avevamo sparato, attraversammo nuovamente
lo stradale di San Giuseppe Jato, risalimmo la montagna e giungemmo a ponte Sagana e precisamente
nei pressi della cappelletta […] proseguii la mia strada verso Montelepre, percorrendo la trazzera Sagana,
Costa Stinco e Bonagrazia, giungendo a casa di pomeriggio”.6
Buffa ci spiega inoltre di avere visto nel percorso notturno di andata, sulla sua destra,
l’abitato di San Giuseppe Jato illuminato. Il particolare è significativo in quanto lascia
spazio all’ipotesi che il tragitto notturno seguito, sia stato quello di Giacalone-Scala della
Targia. Da quest’ultimo luogo infatti si intravede sulla destra il comune di San Giuseppe
Jato.
Ma ascoltiamo altri interrogatori.
Terranova Antonino l’Americano:
“Sempre in compagnia del Pisciotta Francesco e del Mannino Frank intrapresi la via del ritorno,
altrepassato, quindi, uno stradale cilindrato che, dimenticavo dirlo, avevo attraversato pure nel viaggio
di andata, salendo sopra un’alta montagna, giunsi presso la cappella del ponte Sagana. Quivi ci
fermammo un po’ e, dopo circa un’ora, ci raggiunsero il Giuliano Salvatore, il di costui cognato [ndc:
Pasquale Sciortino inteso ‘Pino’], i fratelli Passatempo Salvatore e Giuseppe ed altri amici che non ricordo.
[…] Rammento che arrivai a casa verso le ore 15.”7
Giuseppe Tinervia inteso ‘Bastardone’:
4
Cfr. ibidem, p 410.
5
Cfr. ibidem, p. 415.
6
Cfr. ibidem, p. 425.
7
Cfr. ibidem, p. 433.
“…Giuliano ci ordinò di ripiegare percorrendo la stessa strada da dove eravamo venuti e dirigerci verso
il ponte Sagana, mentre egli assieme al Passatempo Salvatore, al Pisciotta Gaspare, al Pisciotta
Francesco, al Mannino Frank, al Terranova Antonino [ndc: ‘Cacaova’], al Russo Angelo e ad altri due o
tre che non ricordo, conducendo con lui la mula dove erano legate delle armi, si allontanarono per
conto loro, però sempre nella stessa direzione.
Io, in compagnia del Passatempo Giuseppe, del Taormina e non ricordo con chi altro, scesi verso
la valle opposta quella dov’era stata fatta la sparatoria, attraversai lo stradale bitumato che da San
Giuseppe Jato va verso Palermo e, attraverso la montagna di fronte, giunsi a ponte Sagana, dove, nei
pressi della cappella sacra, trovammo il Giuliano assieme al Pisciotta Francesco e ad altri suoi
compagni con i quali era partito dalla contrada Portella della Ginestra e che ci avevano preceduti.
[…] Da solo proseguii per Montelepre dove giunsi verso la sera, perché, passando dalla contrada
‘Sassani’ mi soffermai alcune ore a lavorare nel fondo di mio padre coltivato a grano, lasciando tutti gli
altri assieme al Giuliano.”8
Gioacchino Musso:
“…Giuliano diede ordine di ripiegare in direzione della stessa strada da dove eravamo venuti”.9
Giuseppe Cristiano:
“Giuliano diede allora ordine di ripiegare nella stessa direzione da dove eravamo venuti. In compagnia
del Pisciotta Francesco intrapresi così la via del ritorno”.10
Giovanni Russo inteso ‘Marano’:
“Terminata la sparatoria anche noi ci sbandammo e a passi svelti, predemmo la via del ritorno. Io mi
allontanai assieme ai banditi Terranova Antonino e Pisciotta Francesco seguiti e preceduti a poca
distanza da diversi altri. Percorremmo sempre vie di campagna ed in circa tre ore giungemmo al ponte
Sagana”.11
Risulta chiaro da queste testimonianze che dopo la strage chi non aveva altro da fare
poteva essere nei pressi di casa intorno alle due, assumendo come destinazione
Montelepre; le vie di ritorno furono sostanzialmente due: la prima ripiegava verso lo
Strasatto-Giacalone per ricongiungersi al ponte Sagana attraverso la Cannavera; l’altra
scendeva a valle costeggiando il Cozzo Valanca fino alle case Lino per riannodarsi poi alla
Cannavera e da qui al ponte Sagana. Ma, nonostante l’ordine di Giuliano, non tutti fanno
la stessa strada. Domenico Pretti e Vincenzo Sapienza, dopo avere percorso un tratto in
comune con gli altri membri della banda, arrivano a Montelepre attraverso Partinico,
Giuseppe Sapienza preferisce tornarsene nella proprietà del latifondista Di Lorenzo,
dove non si sa perché c’è ad attenderlo sua moglie. In ogni caso chi aveva imboccato la
8
Cfr. ibidem, pp. 438-439.
9
Cfr. ibidem, p. 449
10
Cfr. ibidem, p.456.
11
Cfr. ibidem, p. 461.
strada per San Giuseppe dirigendosi verso le case Lino, non poteva aver fatto la stessa
strada che avevano percorso i dodici individui notati dal contadino Domenico Acquaviva
in contrada Presto.
Distanze e tempi di percorrenza furono spiegati ai giudici dal maresciallo Giuseppe
Calandra:
“Da Portella della Ginestra può, a piedi, percorrendo un viottolo in discesa, pervenirsi alla strada
nazionale San Giuseppe Jato-Palermo e precisamente nella località ove sono le case ‘Lino’. Da questo
punto si può in auto, percorrendo lo stradale che attraversa Pioppo e Monreale, pervenire a Palermo in
circa quaranta minuti, tenendo una velocità regolare.
Da Portella alle case ‘Lino’ vi è una distanza che può percorrersi a piedi in circa trenta minuti”12.
Dunque, se alle ore 10,30 la sparatoria è finita e alle undici i criminali potevano aver
raggiunto lo stradale per Palermo, o per San Giuseppe Jato, cosa stavano a farci in
contrada Strasatto ben due ore dopo, quelle undici persone che avevano preso sotto
sequestro il Busellini?
La risposta al problema sollevato, e cioè dell’avvistamento in due luoghi completamente
diversi di 11-12 persone armate ce la dà il cadavere dello stesso campiere che fu trovato
morto il 22 giugno 1947 (altro giorno di stragi e di assalti alle Camere del Lavoro di
diversi comuni del palermitano) in una foiba profonda 80 metri, del Cozzo Busino, a oltre
mille metri di altezza, ai confini della contrada Cannavera. Il dato singolare è che stando
agli interrogatori, la squadra di Giuliano di cui fa parte uno “sconosciuto” di cui parla
Francesco Tinervia, pur facendo un percorso più lungo per ricongiungersi all’altro
gruppo sulla Cannavera, arriva con un ritardo ragionevole che non spiegherebbe il tempo
che avrebbe dovuto impiegare per recarsi al Cozzo Busino, uccidere qui il campiere
Busellini e andarsi a ricongiungere poi alla Cannavera col gruppo dei ‘picciotti’ che
avevano fatto altra strada. Tanto più che i tempi non corrispondono. Lo stesso Tinervia
dirà che la squadra di Giuliano raggiunse il gruppo di ritorno di cui egli faceva parte
“pochi istanti dopo” e Terranova l’Americano che egli arrivò a casa alle ore 15. E’
probabile che questo compito sia stato assunto da altri, e precisamente da Salvatore
Ferreri alias ‘Fra Diavolo e cioè dal capo dello squadrone ‘coperto’. Sulla sua
responsabilità nell’uccisione di Busellini l’accusa di Terranova fu precisa. La puntuale
dichiarazione di ‘Cacaova’che egli, al momento del suo interrogatorio, ritenendo che
fosse ancora operante in Sicilia l’Ispettorato di PS, non fece i nomi dei mandanti per il
timore che avrebbe fatto la stessa fine di Ferreri, la dice lunga in proposito. Con ciò,
evidentemente, indicava nell’Ispettorato il mandante di questo delitto. E Pisciotta
aggiungerà:
“i Pianello e Ferreri furono uccisi perchè non facessero i nomi dei mandanti”13.
12
Cfr: Archivio Generale della Corte di Appello di Roma, Città Giudiziaria, Piazzale Clodio processo 13/50,
Carte di Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione (AGCA, TPUI), Esame di testimonio senza giuramento, teste
Giuseppe Calandra, maresciallo dei CC., 4 aprile 1950, cartella n. 3, vol. T., ff. 73 e retro.
13
Cfr. AGCA, Corte di Assise di Viterbo (CAV), dibattimento del 2 agosto ‘51, vol. V, n. 6, f. 730 retro, e 732.
Anche presso la seconda Corte di appello di Roma, i giudici non poterono fare a meno
di ammettere, per inciso (poche affermazioni su una sentenza di quasi mille pagine), che
era la mafia a tenere in pugno le sorti della banda,
“sostenendola ed animandola”14.
La contrada Presto, come Giacalone, il pianoro di Portella rientrano nel dominio
territoriale dei Miceli. Costoro in quel momento proteggevano Giuliano o coprivano
altri? La sovraesposizione del primo, figura molto appariscente, scenografica e quasi
onnipresente, ci dice che la mafia, al momento della strage, aveva già compiuto la scelta
decisiva di giocarsi Giuliano in cambio di qualcos’altro. Si spiega così il motivo per cui
viene ucciso Busellini, a differenza dei quattro cacciatori ai quali Giuliano aveva fatta
salva la vita: era stato non testimone della strage ma dell’esistenza di un gruppo ‘coperto’
che attraversando i territori controllati dai mafiosi che in quel momento gestivano il caso
Giuliano, avrebbe potuto fornire particolari compromettenti sulle persone che lo
componevano e sulla funzione che esse avevano avuto in tutta l’operazione. Tra queste
sicuramente c’era il confidente dell’ispettore Messana, Salvatore Ferreri, alias Fra’
Diavolo; c’erano anche i confidenti del tenente colonnello Giacinto Paolantonio: i fratelli
Giuseppe e Fedele Pianello. La versione ufficiale dell’uccisione del campiere fu invece
un’altra. Gli fu trovato addosso un biglietto del 2 aprile ’47 col quale un carabiniere lo
invitava ad andare in caserma. Il dato avrebbe confermato lo stato di confidente della
vittima. Ma è ben strano che un campiere scaltrito se ne vada in giro per quasi un mese
con un biglietto compromettente come quello. E poi che motivo aveva di portarsi dietro
quell’arma contro di lui, se già era passato un mese dall’appuntamento richiesto?
Dunque come in un gioco di scatole cinesi vediamo ora meglio le diverse funzioni dei
gruppi nella fase del rientro. Il primo doveva servire a incastrare Giuliano, il secondo
all’ulterirore dispiegarsi della manovra eversiva che doveva essere condotta a termine con
gli assalti alle Camere del Lavoro e sedi socialcomuniste il 22 giugno di quell’anno. I
grandi controllori del territorio restano fuori, ai magini, come fantasmi incombenti. Ma
come si vede c’era anche un gruppo ‘coperto’ meno esposto e sicuro delle protezioni.
In tutta la vicenda stragista di maggio-giugno, una posizione difficile da chiarire è quella
di Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Giuliano. In suo favore basti il dato che egli in
dibattimento fa nomi e cognomi dei mandanti e dei reali esecutori della strage: accusa il
gruppo Ferreri, Licari, Madonia e i Pecoraro, questi ultimi esponenti della mafia
monrealese, come Remo Corrao e Gaetano Pantuso gravitanti nell’orbita del clan dei
Miceli. Tutti personaggi profondamente coinvolti con la banda Giuliano, presenti nei
traffici d’armi che si sviluppano nei mesi precedenti la strage del 1° maggio, e tutti
processualmente inesistenti come imputati, o assolti a diverso titolo. I casi più vistosi
sono quelli di Ferreri e dei Pianello. Essi, nonostante siano dichiarati presenti
nell’organizzazione ed esecuzizone delle stragi dagli stessi giudici, non figurano neanche
nel rapporto giudiziario. Faranno tutti una fine cruenta e disumana. Avevano creduto
14
Cfr. ivi, II Corte di Appello di Roma, Sentenza, cit., vol. 3°, f. 369, e f. 571.
non solo alle promesse ma all’autorità di quello Stato che essi avevano visto nelle figure
di ispettori, colonnelli e uomini politici. Si erano fidati a tal punto da condividere con
loro incontri, giorni, conversazioni, banchetti e passeggiate; avevano avuto salvacondotti
e false carte di identità, finchè, cessata la loro funzione, non vennero tutti eliminati.
Senza eccezione alcuna.
Pisciotta viene ucciso, tuttavia, non tanto per le dichiarazioni che aveva fatto in aula,
quanto per ciò che avrebbe potuto svelare e che non aveva ancora detto. E’ certo che
egli, dopo l’eliminazione di Ferreri e dell’intero gruppo che con lui si accompagnava la
notte del 26 giugno 1947, rappresenta con Santo Fleres di Partinico, il principale
confidente delle forze dell’ordine. C’è da chiedersi, dunque, di quali segreti potesse essere
depositario Pisciotta, visto e considerato che quello che egli ha da dire lo dichiara già nel
1951 e che altri prima di lui avevano fatto analoghe dichiarazioni (è il caso della vicenda
di Gaetano Palazzolo di cui abbiamo parlato in altra sede).
Pisciotta, ancora di più di Giuliano, è una delle figure più misteriose e singolari che
costellano gli oscuri scenari della strage. Viene collocato all’esterno della scenografia. Le
versioni ufficiali, autorevoli e rappresentative agli alti vertici delle forze dell’ordine, lo
tutelano e proteggono. Analoga protezione avevano esercitato nei confrornti della
squadra di Ferreri fino alla tragica liquidazione di questa. Pisciotta segue da vicino
ispettori di polizia come Ciro Verdiani e mafiosi di spicco come Ignazio e Nino Miceli; è
amico dei Marotta di Castelvetrano e del capitano dei carabinieri Antonio Perenze che lo
ospita a casa sua a Palermo e se lo porta in giro a fare le spese. Lo sovrasta la protezione
e la tutela di Ettore Messana, ispettore generale di Ps in Sicilia prima di Verdiani, e del
colonnello dei carabinieri Ugo Luca.
Stando alle testimonianze rese durante gli interrogatori che si trovano allegati al rapporto
di denuncia, i protetti dalle forze dell’ordine sembrano non esistere a fronte di un cliché
che si ripete seguendo uno schema prestabilito. Si parte dalla riunione di Cippi, la vigilia
del 1°maggio; si segue il percorso di avvicinamento a Portella durante la notte fino
all’arrivo dei tiratori sui roccioni del Pelavet. Si passano poi in rassegna le varie presenze
nelle diverse postazioni di tiro. Tutti i ‘picciotti’ usano lo stesso stile linguistico, come se
le loro affermazioni uscissero da una sola bocca e da una sola mente. Alcuni non hanno
neppure 18 anni. Sono tutti pastori analfabeti o contadini, o calzolai. Non c’è Fra
Diavolo, non ci sono i Pianello e tutti gli altri che la cordata di Gaspare Pisciotta
accuserà come i reali esecutori della strage. C’è il capobanda nel quale sembrano
convergere i filoni palesi e occulti dell’assalto di Portella.
Come il lettore potrà constatare dall’insieme dei documenti riguardanti le testimonianze
di coloro che assistettero impotenti alla strage -comuni cittadini, familiari delle vittime, e
persino le forze dell’ordine- gli schemi delle versioni ufficiali sono palesemente
contraddetti dall’imponenza delle dichiarazioni obiettive. Nessuna madre avrebbe, ad
esempio, esposto il proprio figlio alle rappresaglie dichiarando al giudice che lì sul posto
c’erano i mafiosi a far da ‘controllori’ del territorio e dell’ ‘affare’ che si stava realizzando;
nessun segretario di partito o di Camera del Lavoro avrebbe dichiarato l’implicito
coinvolgimento delle mafie locali, se ciò non fosse risultato da fatti obiettivi e
premonitori già denunciati. Mai si sono visti nella storia della Sicilia tanti testimoni
denunciare apertamente i clan mafiosi del loro paese, con uno slancio e una fiducia nello
Stato inimmaginabili per quei tempi. Di converso mai lo Stato, di fronte a una vicenda
così tragica quanto decisiva per le sorti future della nostra Repubblica, si dimostrò
completamente ostile verso le vittime e verso ciò che esse rappresentavano: baluardi
della lotta per la nascente democrazia; punti di aggregazione e di riscossa contro la
tirannia delle mafie e il servilismo feudale. Non deve meravigliare perciò l’affermazione
che l’omertà non è mai stata una caratteristica del popolo siciliano, bensì un prodotto
specifico dell’inerzia dello Stato, il risultato della sua assenza o della sua condizione
d’apparato al servizio di un potere oligarchico e sensibile alle influenze esterne. Perché
sicuramente, come traspare da alcuni documenti e da analisi condotte in altra sede e
richiamate in nota alla presente introduzione, non furono estranei alla vicenda alcuni
nuclei eversivi che si legavano al terrorismo neofascista, con cui Giuliano era in
combutta. Ma mai nessuna indagine fu avviata per saperne di più di quel Fronte
antibolscevico nella cui sede palermitana erano stati trovati dei manifestini identici a quelli
lanciati a Partinico e Carini durante gli assalti del 22 giugno ’47; come mai nessuna
indagine fu avviata per capire come e quanto i servizi segreti americani avessero potuto
giocare la loro partita decisiva in quel momento nodale della nostra storia.
Al processo di Viterbo la condotta di Pisciotta, esponente di punta dei giochi sotterranei
intessuti da Ettore Messana prima e da Ciro Verdiani dopo, nonchè da alti ufficiali delle
forze dell’ordine, lasciò trasparire alcune piste d’indagine che nessuno prese in
considerazione. Ad esempio non si indagò sulla posizione di Francesco Alliata il cui
nome ricorre nelle vicende della massomeria italiana, o di Giovanni Genovese che a
Portella era di casa per via degli animali che egli teneva a pascolo da quelle parti e sul
senso dei legami che lo univano direttamente alla democrazia cristiana di Salvatore
Aldisio.
Poco o nulla si venne a sapere sui motivi per cui lo stesso ‘Gasparino’ fu lasciato in
libera circolazione con documenti falsi per oltre tre anni dopo la strage di Portella, e nei
mesi successivi alla stessa morte di Giuliano. Si spiega invece bene il motivo per cui
Pisciotta sia riuscito a vivere per oltre tre anni dopo il suo arresto avvenuto nel dicembre
del 1950.
A Viterbo ebbe a dichiarare di essere in possesso anche lui di un memoriale, e Antonino
Terranova inteso ‘Cacaova’, suo braccio destro, ebbe a puntualizzare che quel momoriale
constava di ben quattordici quaderni manoscritti. Sappiamo adesso, dalle carte
desecretate dalla Commissione Antimafia, il contenuto esatto dei quaderni, con relativo
indice dei capitoli. Non si tratta dei quaderni autografi di Pisciotta, ma di un memoriale
redatto da un certo Gian Vittorio Mastari, laureato in legge, di 35 anni. Questi, essendo
stato un compagno di cella del luogotenente di Giuliano, avrebbe compilato il memoriale
fondandolo su “una lunga serie di conversazioni”. Questo prezioso documento, dunque,
se esiste, va tenuto distinto dal vero e proprio memoriale di Pisciotta di cui è certa
l’esistenza in quanto l’affermarono lo stesso autore e gli uomini della sua squadra. I
quaderni furono visti e forse letti dai redattori palermitani dell’Unità che lo ebbero per le
mani e lo restituirono a Pietro Pisciotta, il fratello di Gaspare che avrebbe chiesto come
contropartita un compenso in denaro. Si tratta di un punto ancora poco chiaro che, in
ogni caso, va tenuto distinto dalla vicenda che seguì il memoriale Pisciotta-Mastari. In
quest’ultimo caso la certezza dell’esistenza del documento è attestata da una lettera che il
vicedirettore del quotidiano romano Paese Sera, Fausto Coen, inviava a Girolamo Li
Causi il 25 luglio del 1954 all’indirizzo della Camera dei Deputati. In questa lettera Coen
informava Li Causi che un certo Remo Iannotti, ex compagno di cella del Mastari,
tornato in libertà a seguito di amnistia nella sua casa romana di Piazza Costaguti, 14, si
era recato alla redazione di ‘Paese Sera’, proponendo l’acquisto del memoriale. Coen
chiedeva un giudizio sulla proposta che gli “consentisse di stabilire una linea di
condotta”, e a tale proposito riportava l’indice dell’opera. Non vi erano argomenti di
poco conto: vi si parlava dei viaggi a Roma di Pisciotta, e di un “luogo di appuntamento
col ministro Scelba”, del suo incontro con quest’ultimo e dei motivi per cui si era
preferito evitare l’appuntamento al ministero dell’Interno; dei rapporti di amicizia col
principe Alliata e dell’amicizia di Giuliano con l’on. Margherita Bontade e del cardinale
Ruffini con Pisciotta.
Vi si riferiva inoltre dei documenti che “comprovano la verità”, “di quattro assassinati
occultati con l’aiuto dell’Autorità”, dei “colpevoli di Portella”, degli “ordini della mafia
per celare la verità”, delle promesse di Scelba e delle accuse dirette a quest’ultimo,
dell’inesistente riunione di Cippi [ndc: punto forte del rapporto giudiziario sulla strage e della
pubblica accusa in dibattimento].
Che non si trattasse di cose campate in aria è dimostrato da altri due capitoli disvelatori:
‘Se vado all’Ucciardone mi uccidono’ e ‘ ‘La beffa dell’assegno della Banca Morgan’.
Doverlo uccidere dovette apparire come un rimedio estremo. In precedenza c’erano stati
tentativi di ridurlo a miglior consiglio per le vie, diciamo così, diplomatiche. Se ne era
occupato l’onorevole democristiano Ivo Coccia, sul cui conto al casellario giudiziario
della pretura di Roma, risultavano, tra il ‘27 e il ‘42, lesioni, calunnie, appropriazioni
indebite, falsi e truffe. Per questa vicenda il nome di Coccia si lega, all’opposto, a quello
di Giovanni Polacco, che dopo anni di galera e di confino, sotto il fascismo, aveva
cominciato la lotta partigiana a Roma, a capo della famosa “banda Morelli”. Ebbene il
Polacco, condannato a 13 anni di reclusione per l’uccisione di un ufficiale carrista,
avvenuta il 15 giugno 1944, durante un’operazione per arrestare il console Massa,
comandante della famigerata ‘Caserma Mussolini’, ebbe fatta, ed accettò, la proposta di
avvicinare Pisciotta, per “esercitare [su di lui] le pressioni necessarie e indurlo a
dichiarare in pubblica udienza che le accuse contro personalità del governo gli erano
state suggerite. Se fosse riuscito nell’intento il suo compito sarebbe stato esaurito”. Ne
era latore, appunto, il Coccia, suo avvocato difensore, il quale gli si presentò il 18 aprile
1951, nella casa penale di Soriano, nel Cimino (Viterbo) e gli disse che se l’impresa fosse
andata in porto avrebbe ottenuto la scarcerazione (“proprio questa mattina -spiegò- ho parlato
a lungo col ministro che mi ha assicurato che ti renderà immediatamente giustizia”). Accettata la
proposta, il 2 maggio del ‘51, Polacco fu aggregato, come previsto, al carcere di Viterbo,
su disposizione del ministero e trasferito alla sezione osservazione. Questa - scrive
Polacco “era posta nel lato adibito a carcere giudiziario e l’ambiente consisteva in una stanza munita di alcuni
letti, ma completamente disabitata quando vi fui assegnato. Oltre l’ingresso regolare -spiega megliov’era un passaggio interno composto da uno stretto e corto corridoio che dava in un’altra camera, quella
abitata dal Pisciotta, alla quale potevasi adire mediante altra porta sita all’esterno. Eravamo così separati,
ma virtualmente a contatto” .
Il tentativo di Polacco, però, non riesce perchè ‘Gasparino’ si dimostra intransigente
contro Scelba dopo averlo incontrato personalmente prima di dare ascolto alle lusinghe
di poliziotti e carabinieri15.
Il carcere di Viterbo è teatro di grandi manovre. Per quanto Pisciotta sia tenuto isolato,
non mancano le occasioni di incontrarlo, o di avere con lui dei contatti. I fratelli
Genovese, ad esempio, si servirono del detenuto addetto all’infermeria dei tubercolotici,
Pasquale Pellegrini e gli fecero sapere che volevano parlargli. Si combinò un incontro
veloce, quasi fortuito (“Genovesi parlò viso a viso con Pisciotta”). Avevano interesse che stesse
zitto e, quando furono certi della sua ostinazione a dire quanto sapeva, ricorsero ad altre
vie più persuasive. “Prepararono -dice Pisciotta ai giudici- dei pugnaletti con del ferro tolto dalle
brande” e organizzarono, in tal modo, la sua eliminazione. Che l’affermazione sia frutto di
fantasia è improbabile, perchè nella vicenda vi sono dei testimoni. Uno è il Pellegrini. Il
19 aprile del ‘51, si trovava nel cortile del passeggio, quando scorse un pugnale costruito
con un pezzo di branda. Strumenti atti ad offendere se ne erano trovati spesso in quel
carcere, ma mai della rilevanza di quello. Il cambio di turno per l’ora d’aria era avvenuto
da poco, e a precederlo erano stati proprio i componenti la camerata dei fratelli
Genovese, la numero 14, e altri imputati nello stesso processo. Conosceva o intuiva i
retroscena e avvertì il pericolo. Avvisò il comandante degli agenti di custodia, Giuseppe
Carvone e intanto si diede da fare. L’indomani, procedendo a perquisizione, scoprì nel
pagliericcio di Giuseppe Sapienza di Francesco, un altro pezzo di ferro “ridotto a forma
di trincetto”, e nella camera numero 13 “un arnese simile ben celato”. Si dovette
provvedere a piantonare l’accesso alla camera di ‘Gasparino’, notte e giorno, tanto più
che essa si affacciava nello stesso corridoio nel quale davano le camere 13 e 14.
Altro testimone è Oreste Piconi, scopino della seconda sezione che comprendeva quelle
camere, uno che viveva arrangiandosi e, quando gli capitava, rendeva qualche piccolo
servigio ai reclusi. Alcuni giorni dopo l’episodio raccontato dal Pellegrini, ebbe affidato
l’incarico di lavare un paio di pantaloni di Giuseppe Genovese. Nelle tasche c’era un
biglietto che il Piconi asseriva di avere letto e gettato via. Il Genovese -che egli indica
come la persona che ebbe a fargli la richiesta di un “pezzo di branda”- preso di
contropiede, non potè nascondere che, da quanto scritto, traspariva la sua colpevolezza e
promise di interessare l’on. Marchesano16.
15
Cfr. Giovanni Polacco, Documentiamo la cospirazione democristiana per far tacere Pisciotta. Una lettera
rivelatrice di un compagno di pena, in ‘ABC’, 27 novembre 1960.
Ma contro ‘Gasparino’ non si ordiva solo il danno, ma anche la beffa. Quando il
processo sta per concludersi, gli perviene, da New York, un assegno di 35.000 dollari
emesso dalla Corn Exchange Bank Trust Company, a firma e per conto di un certo
James P.Morgan della “Federation of Bankers- New Jersey- Michigan”. L’Interpol accertava
che il Morgan non era un correntista di quella banca e che l’assegno, pertanto, poteva
ritenersi falso17. Chi erano questi ‘amici’ americani di Pisciotta? Chi si prendeva gioco di
lui nell’altra parte del continente? Chi poteva avere mezzi tali da falsificare un assegno
che solo attraverso l’Interpol si riusciva a bloccare? A questi interrogativi nessuno diede
mai una risposta, anche perché né inquirenti né magistrati ebbero la briga di volerne
sapere di più.
La fine di Pisciotta è segnata dalla sua coerenza e lucidità, a fronte di un contesto
totalmente ostile. Lo scenario non è Viterbo, ma Palermo, l’università della mafia. La
sua morte, come quella di Giuliano, è l’ennesima conferma che i mandanti di Portella
erano tutti liberi e impuniti e continuavano il loro inesorabile percorso di morte. Era
anche un monito per i banditi in galera.
Fuori in libertà non c’erano le mezze cartucce. C’erano anche coloro che dagli Stati
Uniti si prendevano la briga di scherzare, di illudere, forse, un semianalfabeta, o di
lanciare qualche messaggio simbolico che solo Pisciotta poteva capire. Non sappiamo.
Sta di fatto che l’invisibile legame dei fatti con gli Stati Uniti è più evidente che mai.
Qui si rifugiano a strage conclusa Francesco Barone, Pasquale Sciortino e Pietro Licari;
agli Stati Uniti si riferiscono diversi testimoni che la stessa mattina del primo maggio
udirono ripetere da ambienti sospetti di mafia che quel giorno gli Americani avrebbero
“lanciato le caramelle” a Portella. Chi erano questi Americani? Dove erano collocati?
Chi li accompagnava? A dare una risposta a questi interrogativi non ci aiuteranno né gli
archivi segreti del ministero dell’Interno che ci fa sapere tramite il ministero per i Beni e
le Attività Culturali che “l’autorizzazione all’accesso alle carte riservate ai sensi dell’art.
21 del DPR 1409/63 è gestito in forza del DPR 30 dicembre 1975, n, 854”, né quelli
del ministero della Difesa, nonostante le pressioni esercitate dall’Associazione dei
familiari delle vittime “Non solo Portella”. Potranno aiutarci al contrario gli archivi
della CIA, aperti al pubblico da tempo, se su questa strada sarà messo in opera un
apposito finanziamento da parte della Regione Siciliana, o di qualche ente o ministero
che non ha scheletri nascosti dentro gli armadi.
16
Cfr. AGCA, cit., CAV, Verbale di continuazione di dibattimento, 28 giugno 1951, cartella 4, vol. V, n. 4, f.
502, retro, e 517-520; dibattimento del 2 luglio ‘51, teste Pasquale Pellegrini, ff. 533-543. Nella camerata 13
vi erano i seguenti detenuti: F.P. Motisi, Francesco e Vincenzo Pisciotta, Antonino e Vincenzo Buffa,
Giuseppe Cristiano, Pietro Lo Cullo e Domenico Pretti; nella 14: Corrao, Giuseppe Sapienza di Fr.°, i fratelli
Genovese, Vito Mazzola, Antonino Gaglio e Nunzio Badalamenti.
17
Cfr. AGCA, cit., cartella 7, vol. Z, allegato 10.