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ISSN 2284-0354 periodico di cultura dell’Università del Salento periodico di cultura dell’Università del Salento ISSN 2284-0354 giugno | luglio www.ilbollettino.unisalento.it www.ilbollettino.unisalento.it giugno|luglio Salomè e le altre PIETRO GUIDA T Nato a S. Maria Capua Vetere (Caserta) il 14 luglio 1921. Dopo il liceo classico si iscrive nell’ottobre 1939 all’Accademia di Belle Arti di Napoli, ma la chiamata alle armi e lo scoppio della guerra lo costringono presto ad abbandonare gli studi. Consegue il diploma di scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli nel 1947. In quegli anni aderisce al “Gruppo Sud”. Comincia nel frattempo la sua attività espositiva. Dal 1960 è titolare della cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti di Lecce; mentre dal 1971 al 1989 dirige il Liceo Artistico “Lisippo” di Taranto. Si inserisce da subito nel panorama artistico pugliese. La sua produzione figurativa è esposta in importanti mostre personali. Dal 1960 al 1975 la produzione è caratterizzata dall’abbandono del dato naturalistico per adoperare materiali industriali grezzi. Crescono nel frattempo la notorietà dello scultore, i premi, le commesse prestigiose. Dalla seconda metà degli anni ‘70 e per circa tre lustri, Guida sceglie di rinunciare all’attività espositiva; ritorna nel frattempo alla figura, realizzando grandi statue in scabro cemento. Nel 1993 interrompe il silenzio espositivo con la mostra personale allestita presso il Castello Carlo V di Lecce. Seguono altre mostre personali. Su tutte, l’importante mostra antologica allestita nel 2008 presso il Monastero degli Olivetani di Lecce. Sue opere figurano presso la raccolta delle stampe del Museo Sforzesco, Milano; Galleria del Cavallino, Venezia; Collezione Deana, Venezia; Presidenza del CONI, Roma; Collezione Finkelstein, New York; Collezione Civica d’Arte Modena, Bari; Fondazione T. Balestra, Longiano; Collezione Schulte, Dusseldorf; Museo della Scultura Contemporanea -MUSMA - di Matera; Museo Pagani di scultura all’aperto, Legnano; Novecebto a Napoli, Castel Sant’Elmo Napoli. ra le donne di Pietro Guida ho fantasticato, guardando le sue opere in ferro e galpomice del periodo costruttivista o quelle figure 1:1 in cemento di tanto tempo fa e di qualche giorno fa; disseminate tra l’alberato giardino o presenze misurate tra le mura casalinghe, dove prevalgono a vista gli scaffali ingombrati da libri e riviste d’arte e d’altro genere; oppure affastellate sui ripiani, passaggi di svariati stadi e materiali di elaborazione, e traboccanti sul calpestìo e sui basamenti in polistirolo nello studio in cui lavora, impolverato dal cemento residuo che penetra le narici dell’ospite; o altrimenti ordinate a mo’ di galleria d’arte tra la scarsa luce nell’umido seminterrato della villa manduriana. Ho ancora fantasticato su quale potrà essere un giorno il loro destino. E mi sono chiesto e mi chiedo tuttóra se qualche angoscia abbia mai preso Pietro sulla ventura che toccherà, dopo di lui, a quelle prove sicure di tanta feconda attività creativa, che ancor oggi caparbio novantatreenne lo vedono cimentarsi a modellare, a impastare, a dare forme plastiche alle sue creature. Forse è quella preoccupazione che dà regola agli allestimenti delle sculture nella contiguità dei suoi spazi domestici e lavorativi: una sistemazione apparentemente casuale ma, a mio avviso, di grande attenzione. E come se fossero ordinate e catalogate in funzione di una casamuseo per proseguire a memoria tra loro quel dialogo ispirato quotidianamente dall’autore. Periodo remoto appresso a periodo attuale. Costruzioni in ferro-acciaio, nudo o colorato, e composizioni geometriche di galpomice sono riposte accanto a gessi e terrecotte o a cementi tridimensionali, talvolta patinati. Linguaggi aniconici e strutture modulari di fianco al linguaggio figurativo. Testimonianze che ci sopravviveranno e compenseranno un giorno l’assenza dell’artista, dei suoi mèntori passati e presenti. Di sicuro suoi fan mai faranno difetto. Alcuni lui li conosce e appartengono alla sfera di quanti gli hanno assicurato una solida reputazione artistica e umana. Tanti altri sicuramente li ignora. Sono tra coloro che hanno lambito occasionalmente il cancello che affaccia sul suo giardino e si sono spinti a curiosare, disorientati dal pullulare di elementi plastici in quello che oggi chiameremmo un parco di sculture; e a congetturare sul responsabile di quelle statue che vegliano come custodi intorno alla casa, in contrada Campo Freddo, tra le campagne appena fuori Manduria. Chiunque passa dalle sue parti, a fargli visita, lo trova intento a leggere o ad ascoltare la musica di cui è colto; oppure impegnato ora a fissare nell’argilla un’idea ora a ripromettersi l’ultimazione di quelle due o tre o più sculture cui lavora contemporaneamente, inedite o già in là con gli anni e bisognevoli d’esser risistemate, in modo che ogni sua creatura plastica sia al meglio di sè. Mai ha ricorso la precisione del tratto realista, la meticolosità descrittiva delle sembianze; tanto meno 10 la perfezione; le sue sculture, scabre come sono, palesemente la rifuggono. Per Pietro Guida la perfezione sta nella ricerca di continuità del lavoro ovvero nella matita che tratteggia una figura, nelle mani costantemente imbrattate di materia che trasforma in opera d’arte ; e con tanta lunga vita alle spalle ora come ora non è cosa scontata. Mai si è lasciato persuadere che le sue opere dovessero procurargli lauti guadagni; nessuna agiatezza; solo il valore giusto; e, se possibile, lui chiederebbe l’equivalente per essere tradotte nel bronzo, consapevole che gli impasti cementizi - cui ha riservato tantissime fatiche - nel tempo medio e lungo potranno degradarsi, mentre la fusione nella lega nobile lascerà inalterata nei decenni la sua produzione. Pietro Guida è da considerarsi un patriarca dell’arte che convenzionalmente chiamiamo contemporanea, di cui è uno degli artefici da oltre settant’anni: ha attraversato quasi quattro generazioni, dal periodo figurativo della fine della guerra all’immediato dopoguerra, allo studio, nei primi anni sessanta, di nuove immagini costruite mentalmente e progettualmente - tra i primi scultori non figurativi se non proprio il primo a esporre alla galleria Il Sedile di Lecce nel lontano 1965 - e quindi al ritorno alla figurazione nella maturità, come continuazione dell’esperienza tradizionale, non convinto che il nuovo sia migliore apoditticamente. Nell’universo di soggetti dislocati qua e là in quella che continuo a definire casa-museo (non me ne voglia Pietro), proprio perché nel trascorrere dei decenni di attività assume sempre più il carattere di luogo di memorie, non si può fare a meno di notare che prevalgono le rappresentazioni muliebri in un instacabile rimbalzo tra il mito e la quotidianità che è motivo conduttore della sua poetica. Una annotazione che mi viene facile avendo avuto occasione solo qualche anno fa di redigere un catalogo monografico sulla sua opera, rinforzata quando di tanto in tanto vado a trovarlo. Il titolo classico, il tema mitologico, il ritratto, l’atleta di disciplina sportiva, la musicista, la madre di famiglia e persino la prostituta, senza gerarchia alcuna, si susseguono in un repertorio di rimandi costanti, tra ricordo arcaico e modernissime invenzioni. Guida racconta così le donne. Sin dalle sue produzioni iniziali il soggetto è palesamente caro all’artista campano pur tra molte varianti tematiche. Compaiono donne, floride, in scene comuni di vita quotidiana, madri allattanti, nei disegni di cui v’è testimonianza in illustrazioni degli anni 1950 e 1951, o una coppia di «donne, nude, sedute su di una panchina in atteggiamento di stanco abbandono, 11 ritratte nel più schiètto verismo» (L. Flauret, Artisti pugliesi alla Quadriennale, in “Il Corriere del Giorno”, 16 marzo 1956) della composizione “Riposo” esposta alla VII Quadriennale. Si ricordano La rematrice, L’acrobata, La tennista, per citare opere elette a esempi da Franco Sossi (Ventotto pugliesi alla “Taras”, in “La Voce del Sud”, 11 gennaio 1958). Immagini che evolvono nel corso della sua vicenda artistica, per tornare dalla metà degli anni settanta con la forza della materia cementizia a rinsaldare una nuova stagione artistica su quella sponda figurativa che giunge sino a oggi. Sono soggetti descritti in modo sintetico, dai corpi di forme morbide -a dispetto del solido cemento- con spalle, braccia e gambe tornite, in una fissità della posa ben salda. Non di rado i giovani nudi femminili, senza titolo, appena sfiorati dalla vanitas, sono cristallizzati in una posa seduta o distesa a riposare o eretta in un’azione usuale, come raccogliersi i capelli, poggiare melanconicamente il mento sul palmo della mano. Le sensuali nudità, in opere che vanno da Donna distesa (1990), ora nella collezione dell’ateneo salentino, alla recentissima Ragazza in ginocchio sulla sedia (2011), sono per Guida occasione per suggerire posture finemente seducenti, verso le quali è fortissima la tentazione tattile per via di quel disaccordo tra la durezza del cemento e la percezione di malleabilità delle carni, di una compattezza tenera su cui paradossalmente potremmo affondare le dita. Ritroviamo le divinità, mai ieratiche, colte nella tensione plastica che rende concretamente la narrazione del mito in una personale rivisitazione secondo coordinate più attuali (Euridice tra le più reiterate e imborghesite e Leda mai sazia del cigno, poi Europa che cavalca il toro, e Dafne, Selene, le tre Grazie). Le sportive e le circensi, che trovo tra i soggetti più intriganti per le posture tese in equilibri estremi quanto straordinarie, mescolano alle sue consuete reminiscenze della statuaria arcaica, agli echi novecenteschi, mariniani e martianiani, fino a Manzù e Greco, una sensibilità e un’acutezza squisitamente moderne, se confrontate con l’assortimento iconico contemporaneo che, dal cartaceo al satellitare e al web, divulga le gesta agonistiche o del mondo delle spettacolo, in cui il protagonismo femminile è ordinario (tra queste: Atleta, del 1989, Pattinaggio artistico, del 1992, Salto in alto, del 1995, e la rinnovata versione dell’Equilibrista, 2010). Nè mancano gli esempi attinti ai tanti gesti della quotidianità, che traggono ispirazione da emozioni intime fermate in un istante di vita o nell’interpretazione di un normalissimo atto. Penso al metafisico smarrimento di Balcone (1991-1992) -già da qualche tempo dichiaro che è opera tra le mie preferite- o Tenda e figura (2009); alla compostezza formale delle musiciste, enigmatiche nelle loro severe immobilità mentre ci guardano, concentrate per l’imminente inizio del concerto; alla maternità dalle forti implicazioni psicologiche, perché le prolifiche madri in posa accanto ai figli sono metafore dell’affetto umano. Queste donne, che sin qui ho citato, non derivano da una modella certa, perché i volti sfuggono a caratterizzazioni somatiche per un indefinito espressionismo. Queste donne e cento altre, tutte insieme, potrebbero considerarsi amate e amanti di Pietro Guida, vuoi perché incarnano il suo ideale di bellezza femminile o perché le ha realizzate per impersonare un sentimento amoroso che per lui assume valore assoluto. Nel suo studio ho da poco visto dare forma all’ultima Donna che si spoglia. Qualche giorno fa Pietro mi ha comunicato telefonicamente di averla terminata. Non si è detto pienamente convinto dell’esito. La mostra leccese imminente - ha aggiunto - gli ha messo fretta. Per me, osservandola è indubbiamente un esempio coerente della sua arte. Nella composizione, che trattiene la cifra della rotondità e solidità della forma tridimensionale a suo modo classicheggiante, l’artista cerca di esprimere un gesto, uno sforzo plastico naturale con le braccia impegnate a svestirsi. Il corpo, dall’anatomia non troppo dettagliata nella materia ruvida, si allontana da un’idea realistica per diventare simbolo di vitalità, richiamo all’eros. Forse siamo all’atto finale? La Donna non propriamente si spoglia; appena ultimata dallo scultore, lei smette i panni della modella ideale e per contrastare lo scorrere del tempo si accomoda da statua tra le sue simili nella casa-museo di contrada Campo Freddo, appena fuori l’abitato di Manduria. Massimo Guastella 12 D ue biglietti per la >Salomè< Le due potenti Salomè di questa mostra sono state realizzate da Pietro Guida a novantatré anni. L’artista ha sfidato se stesso. Ha sfidato la fatica fisica e ha racchiuso in due figure il tempo della narrazione e i moti dell’animo. L’animo è quello della principessa di Giudea del poema di Oscar Wilde (1891) che innamoratasi di Giovanni Battista, da questi ricusata e denigrata, ne ordina la testa su un vassoio d’argento. La prima Salomè di Guida sembra cogliere il momento immediatamente successivo alla danza dei sette veli: il corpo flessuoso e quasi matido di sudore, i capelli scomposti e il volto voluttuoso e fremente trasmettono alla testa inerte di Giovanni Battista un ultimo, inutile anelito di vita. Salomè interroga quegli occhi terribili che poco prima aveva descritto come “due buchi neri prodotti da fiaccole su un arazzo di Tiro. Due caverne nere covo di dragoni”. Le mani affondano nella chioma selvatica, resa con ciocche scomposte e rapide: lo scultore nel “fuggir l’affettazione” fa ricorso alla “sprezzatura” di memoria cinquecentesca; ricorre con disinvoltura alla sua sedimentata conoscenza delle fonti del passato, siano esse letterarie o figurative. Nella seconda Salomè, sorta di Maddalena “consumata dai digiuni e dalle astinenze”, si impongono forme geometriche e schematiche: un rigor mortis che dalla testa sembra trasmettersi al corpo della principessa, rigida statua di “sale”; trasfigurazione materica, simbolo dell’irreversibilità dell’accaduto. L’efficacia della narrazione artistica, pur nella fedeltà al tema trattato, bandisce ogni forma di illustrazione didascalica. L’interpretazione si appella piuttosto alla teoria e alla prassi del mestiere di scultore che per gli storici dell’arte rimanda al dibattito sul confronto/ scontro tra momento ideativo e momento operativo ripercorso da Ferdinando Bologna nella sua lettura storica e metodologica della storia dell’arte (1979). La fase della realizzazione di un’opera d’arte è questione assai cara al nostro scultore il quale talvolta non si sottrae a una ironica e compassata polemica verso l’arte e la critica del presente. “L’arte un tempo era difficile da fare, facile da capire”. Oggi l’aforisma sembra capovolto: l’arte è facile da fare, difficile da capire (Crespi 2013). Una difficoltà che spesso nega l’esistenza stessa dell’opera in quanto oggetto materiale a vantaggio di un mercificabile processo di natura intellettualistica e postconcettuale. L’opera sovente scompare nei giochi di prestigio di una certa critica che sostituisce il pensiero, l’idea, il concetto ad oltreanza a quell’imprescindibile e storicamente fondato momento realizzativo. A questo momento Pietro Guida, che nella prospettiva storica della fine degli anni cinquanta non ha mancato di sperimentare il linguaggio astratto, oppone una rigorosa ed etica difesa dell’arte come “il giusto criterio di realizzare le cose”. Ma altresì come sguardo su verità retrospettive fatte di studio e recupero dei maestri del passato. La prima Salomè nella torsione del busto, la cui linea di contorno continua non subisce cesure, si immette nel lungo corso di rielaborazione della classicità dei corpi e delle proporzioni: dall’antico a Michelangelo fino ad Ingres. La seconda figura segue l’altra via della 13 ricerca formale incentrata sulla frantumazione della superficie: linee spezzate e taglienti accentuano la drammaticità del tema rapprensentato e richiamano alla mente l’Assetata (1277-1281) di Arnolfo di Cambio, la scarnificata e consumata Maddalena (1454 c.a.) di Donatello già in precedenza citata, ma altresì l’illustre modello della Lupa (1930-1931) di Arturo Martini, opere e nomi che appartengono al museo immaginario di Guida; un museo da intendersi non come comodo serbatoio di idee per citazioni, bensì come solida dimensione storica. Nella stratificazione di conoscenze è contemplato il punto di avvio del soggetto in questione, intorno al quale Pietro medita da molti decenni. Risalgono alla fine degli anni quaranta i disegni e gli schizzi sulla Salomè generati dall’impatto forte ed emozionante con l’opera di Strauss e Wilde vista al teatro San Carlo di Napoli. Dell’opera teatrale messa in musica da Strauss ho avuto il privilegio di conoscere particolari di quella lontana rappresentazione grazie alla capacità dell’artista di descrivere e restituire le impresioni visive della magnetica attrice Salomè, mentre io gli ho raccontato della suggestiva interpretazione del regista Ken Russel di cui nel 1988 esce il visionario e scandaloso L’ultima Salomè. Gli ingredienti delle atmosfere decadentiste wildiane nella versione cinematografica si potenziano di ritmi e colori ossessivi nel contrasto di amore e morte. Da ciò la decisione di ritornare insieme al San Carlo a novembre prossimo per vedere ancora Salomè. Letizia Gaeta “ Com’è bella la principessa Salomè questa sera” Nel marzo del 1948 andava in scena al teatro San Carlo la Salomè di Richard Strauss interpretata da Ljuba Welitsch. Ed è stata proprio la visione di questo spettacolo, dominato da una protagonista dal fascino magnetico e seducente, che ha suscitato in Guida la prima idea di realizzare le opere esposte in mostra. Osservando le immagini della Welitsch, una figura avvenente con occhi chiari e una fiammeggiante chioma rossa, ben si comprende come il ruolo della biblica seduttrice, passionale e vendicativa, le fosse particolarmente congeniale, tanto che l’interpretazione di Salomè le valse un posto tra i grandi artisti a livello internazionale, anche se forse riusciva a conquistare l’uditorio più per il talento istrionico e la presenza scenica che per le sue doti canore. Sicuramente l’incontro con Strauss fu determinante per la carriera della cantante: questa infatti, appena ventenne studiò la parte e debuttò in Salomè sotto la direzione dello stesso compositore sviluppando un’identità pressoché assoluta con il personaggio che interpretava. Strauss invece, all’epoca della composizione della Salomè aveva da poco superato i quarant’anni ed era già un musicista popolare e affermato, sia in Germania, sia all’estero. Per dare compiutezza al suo successo mancava però la consacrazione in campo teatrale. L’occasione si presentò nel 1903, quando a Berlino fu allestita, nella traduzione tedesca di Hedweg Lachmann, la Salomè che Wilde aveva scritto in francese per Sarah Bernhardt: Strauss ne rimane folgorato e decise di musicare tout 14 court, senza mediazione librettistica, un dramma nato per il teatro in prosa. Anzi, il processo creativo del compositore fu proprio innescato dalle immagini musicali generate dall’articolazione verbale del testo e dalla sua scansione drammatica. Così annota Strauss «Un giorno mi domandai perché non comincio subito, senza aspettare altro, da “Com’è bella la principessa Salomé questa sera!”», il verso d’esordio del dramma. Sulla suggestione di queste parole prende vita una linea melodica sinuosa, guizzante e seducente espressa dal clarinetto e che si identifica con la protagonista, mentre «il soggetto orientale ed ebraico... [ispirano a Strauss] un’armonia veramente esotica, variegata di insolite cadenze, come seta cangiante. Questi elementi, che trovano il loro punto culminante nel crescendo finale, contribuirono indubbiamente alla fama di Salomè, che, fin dalla sua prima esecuzione del 1905, rapprensentò il più grande successo dell’opera in lingua tedesca dopo Wagner e, nonostante i divieti e le limitazioni della censura, rimase una delle più popolari e più frequentemente rapprensentate. La figura biblica di Salomè ha suscitato profonda emozione e interesse sempre, in tutte le epoche, e numerose versioni si trovano nelle arti figurative. La pittura ci ha lasciato veri capolavori, a partire dal Banchetto di Erode di Giotto, le Salomè di Rubens, fino alle versioni di Moreau e Klimt. Questo tema è invece molto raramente trattato nella scultura, forse anche per la difficoltà di rendere i movimenti della danza e i riflessi fisici della passione e della sensualità che caratterizzano il personaggio di Salomè. Daniela Castaldo P ietro Guida, l’antichità classica, l’archeologia Non è mai stato difficile far comprendere ai giovani laureandi di Archeologia il peso che ebbe nella formazione di Michelangelo la conoscenza diretta del gruppo scultoreo ellenistico del Laoconte. Ben più complesso è far capire che le opere di Pablo Picasso non sarebbero esistite senza la consapevolezza dell’età classica. Anche il percorso formativo di Pietro Guida è legato al mondo greco-romano nel richiamare i temi e nel superarne le rigide regole per la costruzione della figura umana. A partire dalla fine degli anni ‘80 egli adotta il cemento nella modellazione delle figure umane, ricollegandosi a precedenti esperienze in gesso. Forse è proprio in questo che Guida mostra una connessione con l’archeologia della sua terra: giovane studente napoletano, certamente rimase affascinanto dai calchi in gesso dei cittadini di Pompei sorpresi dall’eruzione del Vesuvio. Nel 1863 Fiorelli aveva intuito la possibilità di recuperare le testimonianze dirette di quel drammatico evento intuito la possibilità di recuperare le testimonianze dirette di quel drammatico evento colando il gesso nelle cavità di cenere corrispondenti ai corpi scomparsi. L’aspetto “non finito” delle sculture in cemento è imputabile al materiale, e al tempo stesso è una testimonianza delle origini dell’artista. Ma le sculture di Guida non rappresentano corpi senza vita: le figure sono vive nel movimento e nei pensieri che animano i loro sguardi e i loro silenzi. I miti della classicità, conosciuti attraverso le opere esposte al Museo di Napoli, si rivestono di una modernità che li rende più vicini ai nostri giorni. Orfeo ed Euridice sono due persone comuni che camminano tenendosi teneramente per mano e Orfeo, vanamente, cerca di nascondere l’amata alla sua vista. Talora il classicismo è mediato attraverso opere distribuite tra il ‘500 e l’800: Apollo e Dafne sono immortalati mentre si avvia la trasformazione della ninfa, come in Bernini, J. Auer e Tiepolo; Leda con il cigno ricorda i gruppi di B. Ammanati e di A. Clésinger. In altri casi l’impronta classica è fortissima, come nelle Tre Grazie. Il senso della “paideia” permea un altro gruppo di opere: gli atleti. Ciclista, Salto ad ostacoli, Il pattinaggio artistico, Il salto in alto, Il calciatore, Il giocatore di baseball ed altri sono anch’essi una rivisitazione in chiave moderna di un tema centrale nella scultura del V e IV sec. a.C.: le statue di vincitori dei giochi olimpici e di altre feste panelleniche. Da un lato la capacità dell’artista di riprodurre il campione nel momento più intenso della sua disciplina, dall’altro la volontà di celebrare un concetto fondamentale per gli antichi. I greci lo esprimevano con la formula “kalos kai agathos”; più tardi i Latini dicevano “mens sana in corpore sano” per orientare correttamente la formazione del Civis Romanus; il senso comune è che a un fisico allenato corrispondono integrità morale e sapienza. All’ideale maschile corrisponde la trattazione di quello femminile rappresentato dalle forme morbide e 15 generose dei nudi che si rifanno all’intuizione di Prassitele, il primo a scolpire Afrodite al bagno. Passato il tempo della polis in cui la donna incarnava valori fondanti della civiltà greca, in quanto sposa e madre, nei regni ellenistici si sviluppa un erotismo complesso che arriva a concepire la figura dell’ermafrodito e che genera gruppi scultorei con virtuosistici movimenti a spirale. Il richiamo a temi erotici si coglie in opere come Gli amanti (1980,1988) e Il bacio (1996); l’avvenenza delle forme della Donna nuda inginocchiata sulla sedia, attenuata da una pudica torsione, trova un riscontro diretto nell’Afrodite Callipigia. Giovanni Mastronuzzi UniSalentoStore il merchandising di UniSalento è in vendita online e presso le officine cantelmo