Stato-mafia, Mancino contro i pm. “Non potete processarmi con i boss”

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Stato-mafia, Mancino contro i pm. “Non potete processarmi con i boss”
La Repubblica 28 Maggio 2013
Stato-mafia, Mancino contro i pm. “Non potete processarmi
con i boss”
Tutti devono aspettare fuori dal bunker, tutti tranne uno: l’imputato più eccellente.
Solo per lui si spalancano solennemente i cancelli. Nicola Mancino scavalca la
folla con la presidenziale scorta riservata a vita a chi è stato a capo di tutti i
senatori della Repubblica e scompare come un'ombra nell'aula. Con questa scena di
un'Italia sottosopra è iniziato il processo sulla trattativa fra Stato e mafia.
Palermo, carcere di massima sicurezza dei Pagliarelli, una delle fortezze dove una
volta c'erano «i 41 bis», boss, gli stessi che vent'anni fa erano stati merce di
scambio per segreti patti. Qui, a una ventina di chilometri dallo svincolo di Capaci
e a una decina dai palazzi di via Mariano D'Amelio, si alza il sipario su una
vicenda nazionale che è diventata giudiziaria ma che nasconde tante altre paure.
Chissà quanto durerà questo processo con imputati di mafia e imputati di Stato
insieme alla sbarra, chissà come finirà ma intanto vi raccontiamo come è
cominciato.
Pubblico da grandi eventi tipicamente palermitani, appuntamenti che fanno parte
della storia di questa città e oramai anche del paesaggio come Montepellegrino
(tutto attaccato) e il carro di Santa Rosalia, aula strapiena come si non vedeva da
quando Giulio Andreotti la mattina de126 settembre de11995 era salito sul banco
degli imputati carico di accuse di mafiosità. Di strage in strage e di processo in
processo fino ai Pagliarelli, con il popolo delle agende rosse in attesa e pieno di
rabbia contro Nicola Mancino. E avvocati che sono venuti da ogni parte d'Italia,
tutte le televisioni nazionali e tutte quelle siciliane, fotografi, tre o quattro deputati
del Movimento 5 Stelle, militanti dell'antimafia, i ragazzi di Libera e quelli di
Addiopizzo. La procura della Repubblica schierata al gran completo perfino con il
capo Francesco Messineo, che qualche mese fa si era rifiutato di firmare la
richiesta di rinvio a giudizio per i dieci uomini che sono accusati in pratica di avere
cospirato contro lo Stato.
Ore 8.55, il primo che entra con la sua blindata nel bunker è l'ex presidente del
Senato (ed ex presidente del Csm ed ex ministro degli Interni) Nicola Mancino.
Ore 8.58, ecco il generale Antonino Subranni, nel 1992 comandante dei reparti
speciali dell'Arma. Ore 9.02, arriva Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito,
quello che giocava su tutti i tavoli negoziando da una parte con Cosa Nostra e
dall'altra con i carabinieri.
«Milano... Milano», grida una voce alle 9.26 dall'altoparlante incastrato in una
delle quattordici tivù sparpagliate nell'aula. È il collegamento in «videoconferenza»
con i detenuti. Milano vuol dire che è in linea il carcere di Opera, nel carcere di
Opera c’è il capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina. Passa qualche minuto e la
faccia pallida dello “zio” Totò appare sugli schermi.
Ha addosso un vestito grigio, è immobile come una statua. Dopo Opera il carcere
di Ascoli Piceno: c'è Leoluca Bagarella, venti chili di meno e vent'anni di più.
Dopo Ascoli Piceno il carcere di Parma: il mafioso Antonino Cinà. E per ultimo il
«sito riservato», la prigione segreta dove è detenuto Giovanni Brusca. C'è tutta la
Cupola di quella Cosa nostra del 1992 che presenzia al processo fra lo Stato e se
stessa.
Il dibattimento è aperto. La Corte di Assise è in fondo, il procuratore aggiunto
Vittorio Teresi è in piedi su lato sinistro dell'aula – dietro di lui Nino Di Matteo,
Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia - e annuncia che la pubblica accusa vuole
contestare «un'aggravante alla falsa testimonianza cui deve rispondere l'imputato
Mancino Nicola». Il presidente Alfredo Montalto lo ferma, dice che prima deve
incardinare il processo e ascoltare chi chiede di costituirsi parte civile. Teresi si
siede, sicuro che dopo un po' potrà contestare l'aggravante all'ex presidente del
Senato. Ma non ci sarà tempo, tutto rinviato alla prossima udienza del 31 maggio.
Quale nuova accusa per l'imputato delle famose telefonate di pressione al
consigliere giuridico del Quirinale? La procura tace e dice che lo farà sapere solo
in aula. Però le indiscrezioni a Palermo corrono: l'aggravante - articolo 61 numero
2 del codice penale - è quella che si contesta a «un imputato che ha commesso un
reato per occultarne un altro», ovvero per «assicurare a sé e ad altri l'impunità». In
questo caso «gli altri» sono i capimafia e gli ufficiali dei carabinieri che, fra le
stragi Falcone e Borsellino, avrebbero imbastito la trattativa.
Nicola Mancino è seduto nella quarta fila. E sibila ai microfoni: «No, non possono
processarmi con i mafiosi». Gli risponde tre fila più giù il pm Di Matteo davanti ad
altri microfoni: «Lo Stato non può nascondere le sue colpe sotto il tappeto».
Schermaglia a distanza. I legali dell'ex ministro richiederanno prima o poi di
spostare il processo: o al tribunale ordinario di Palermo o al «tribunale dei
ministri» di Roma. Ma intanto Mancino è qui. Alle sue spalle c'è uno dei suoi accusatori più feroci, Salvatore Borsellino, il fratello del procuratore ucciso. A
sinistra il generale Subranni, a destra «Massimuccio» Ciancimino che fa le
condoglianze all'ingegnere Borsellino per la morte di Agnese. Non c'è in aula un
altro generale, Mario Mori, scivolato dentro il processo per la mancata cattura di
Bernardo Provenzano. Non c'è neanche il senatore Marcello Dell'Utri, un habitué
delle aule di giustizia di Palermo, condannato in primo e secondo grado per
concorso esterno in associazione mafiosa. Non c'è l'ex colonnello Giuseppe De
Donno, uomo fidato di Mori.
Ci sono in massa quelli che stanno sull'altro fronte, gli avvocati della parte civile.
Tanti, tantissimi. Diciassette. Enza Rando per Libera, Armando Sorrentino per il
centro Pio La Torre, Danilo Ammannato per i familiari delle vittime dei Georgofili
e per il comune e la provincia di Firenze, i legali dell'ex capo della polizia Gianni
De Gennaro, dell'associazione antiracket Libere Terre e di Rifondazione
Comunista (unico segretario di partito presente in aula Paolo Ferrero), ci sono
perfino quelli del comune di Campofelice di Roccella, il paese dove i Corleonesi
avevano progettato l'attentato allo stadio Olimpico nel 1994. La Corte di Assise
deciderà sulle parti civili venerdì. Anche sulla richiesta presentata dall'avvocato
Carlo Lo Monaco, genero di Salvo Lima, l'uomo politico più compromesso con il
potere mafioso di quegli anni, ucciso come traditore «perché non ha rispettato i
patti» con Cosa Nostra. L'avvocato Lo Monaco, sposato con Susanna, la figlia
dell'europarlamentare, chiede di costituirsi parte civile (ma solo contro i boss e non
contro gli ex ministri e gli ufficiali dei carabinieri) per conto dei familiari. Sostiene
che nel 1991 l'ultimo governo Andreotti si era qualificato come quello che più di
ogni altro aveva combattuto con provvedimenti legislativi la mafia e che, di fatto, il
famoso suocero rappresentava un ostacolo alla trattativa fra lo Stato e Totò Riina.
«Salvo Lima era amico di Falcone..», comincia a dire l'avvocato. Il presidente
Montalto capisce l'antifona e lo stoppa.
Un attimo dopo l'immagine di un dèjà vù nell'aula bunker dei Pagliarelli. A pochi
metri di distanza il piccolo Ciancimino e Carlo Lo Monaco. Così, nella stessa posa,
erano una ventina di anni fa al secondo piano del palazzo di Giustizia di Palermo davanti all'aula della quinta sezione penale - nelle pause di un processo per
riciclaggio contro don Vito.
Il tempo non passa mai in questa città dove sono arrivati da più parti d'Italia
ragazzi e signori e signore con in mano l'agenda rossa di Paolo Borsellino mai
trovata. Se ne sono stati in un angolo a ricordare in silenzio il procuratore. Quando
poi hanno rivisto Nicola Mancino uscire dall'aula sono partiti i fischi e le grida.
«Dicci la verità». E ancora: «Vergogna, vergogna». E alla fine: «Fuori lo Stato
dalla mafia». L'ex presidente del Senato indugia un po' troppo con la sua scorta
dentro la piazzola del bunker. Si ferma, parla con i suoi avvocati. E il popolo delle
agende rosse scarica tutta la sua ira contro di lui.
Attilio Bolzoni
EMEROTECA ASSOCIAZIONE MESSINESE ANTIUSURA ONLUS