COMUNICARE CON LE IMMAGINI
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COMUNICARE CON LE IMMAGINI
Breve STORIA DELLA FOTOGRAFIA – a cura del prof. Maurizio Zanetti 1 - COMUNICARE CON LE IMMAGINI Dal tempo dei tempi l'uomo ha comunicato usando le immagini. Dipingere una caverna quando ancora molto probabilmente il linguaggio era fatto di sgrunt-sgrunt, più che una forma d'arte era un utile modo di spiegare alla tribù dove stava la pappa e dove si rischiava di diventare pappa. Le ricerche archeologiche e antropologiche ci dicono che più o meno parallelamente in ogni angolo del mondo nel paleolitico l'uomo ha iniziato a dipingere scene di caccia o forme di animali. O a lasciare delle “firme” sul cui valore comunicativo si sta ancora discutendo. Già qualche migliaio di anni dopo (quando si parla delle epoche remote si dice sempre così, come se qualche migliaio di anni fossero niente... Giusto per dire: quando sono nato io i pochi computer esistenti al mondo erano grandi come dei condomini e avevano una memoria che oggi sta in un videogioco; e sono passati meno di sessant’anni…), le immagini avrebbero avuto ben altra valenza, diventando via via simboliche, commemorative, religiose, e chi più ne ha più ne metta. Arrivando col tempo ad un livello sempre più raffinato di astrazione, trasformandosi con i Sumeri da pittogrammi ad ideogrammi prima, a fonogrammi poi per culminare nell'invenzione della scrittura cuneiforme che come sappiamo è la base del moderno alfabeto. Siamo più o meno nel 3300 a.C., data che sui libri viene indicata come la fine della preistoria e l'inizio della storia. Circa 300 anni dopo anche gli Egiziani inventeranno una loro scrittura che era geroglifica ma che col tempo diventerà fonemica. Ma se ad un certo punto la comunicazione si dividerà tra "scrittura" e "pittura" lo dobbiamo ai Sumeri. La Storia ci dice che parallelamente all'evoluzione di pittura e scultura l'uomo da un certo momento in poi ha cominciato a porsi due problemi: a) rendere riproducibile in più copie il frutto delle sue fatiche, per comunicare meglio a più persone notizie o sentimenti; b) fare un po' meno fatica e riprodurre in maniera quanto più precisa ciò che vedeva intorno a lui. La "Storia della fotografia" non può quindi prescindere da qualche accenno alla storia dell'evoluzione della "riproducibilità" e dei meccanismi studiati e inventati per rendere con un disegno il vero (se possibile) più vero del vero. 2 – LE INCISIONI Quando si parla di riproducibilità di un disegno in genere si taglia corto e si comincia con la Xilografia. Semplificazione di comodo, perché di certo prima di questa tecnica c'erano i timbri e i sigilli usati già dai soliti Sumeri per produrre formelle di terracotta tutte uguali tra loro o dalle antiche civiltà precolombiane per dipingersi il corpo o dai Romani per certificare il contenuto di anfore e botti o ornare le tazze più preziose. E' sul principio del timbro, che fin dall'inizio era in legno, che si basa la possibilità di creare una matrice e da quella stampare un numero teoricamente illimitato di copie. Teoricamente perché timbrata dopo timbrata la qualità dei rilievi in legno andava a farsi benedire e il timbro era da buttare. Se questi timbri non furono usati né dai Sumeri né da nessun altro su carta è semplicemente perché la carta ancora non esisteva. O almeno non in Mesopotamia o Messico o qui da noi. Vero è che nell'antico Egitto già dal 3000 a.C. c'erano i fogli di papiro, ma era troppo delicato per essere preso a timbrate. Ed anche una volta arrivato, tramite i Fenici, a Greci e Romani, il papiro sarà usato solo per scrivere a mano o dipingere. Stessa sorte che toccherà alla pergamena (che prende il nome dalla antica Pergamo, nell'Asia Minore, primo famoso luogo di produzione), pregiato foglio ricavato dalla pelle di ovino lavorata e messa a macerare in calce, che sostituirà definitivamente il papiro a partire dal II - III secolo d.C. L' invenzione della carta è infatti una cosa tutta cinese, risale al secondo secolo a.C. ed è dovuta a tale Ts'ai Lun che, usando fibre vegetali macerate in acqua e poi lavorate e strizzate e pressate migliorava una pre-carta ottenuta con pelo animale che era di origine ben più antica. (Giusto per ricordarlo: sarà proprio in Cina che verranno inventate le banconote che altro non sono che foglietti di carta timbrati.) Intorno al 700 gli Arabi introdussero come materia prima stracci di cotone, lino e canapa. Intorno al 1100 la carta arrivò in Spagna e successivamente in Italia. Ottenendo un grandissimo successo e sostituendo progressivamente la pergamena fino ad allora in uso. E i vecchi timbri in legno tornarono ad essere guardati con molto interesse. XILOGRAFIA = rappresento con il legno (xylos): tra gli antenati della fotografia è il più antico, precedente all'invenzione della stampa a caratteri mobili (Gutenberg, 1455) e da alcuni datato intorno al 1200. Chi l'abbia inventata non si sa. Le più vecchie xilografie giunte fino a noi sono fogli volanti (incunaboli) con incisioni piuttosto primitive in cui prevaleva il contorno e non c'era quasi l'effetto chiaroscuro ottenuto con le linee incrociate. Serviva per stampare più copie di una pagina scritta o di un Anonimo – 1450 ca disegno. La xilografia è un'incisione a RILIEVO. Su una tavoletta di legno si disegna l'immagine alla rovescia (o si scrivono le parole da destra verso sinistra). Poi l'incisore (xilografo) con uno scalpellino ricurvo chiamato sgorbia toglie il legno intorno al disegno (o ai caratteri) in modo che alla fine risulti in rilievo ciò che si vuole mostrare. Su questa matrice inchiostrata si appoggia il foglio, con un torchio lo si pressa fino a fargli assorbire l'inchiostro delle parti in rilievo, disegno e parole che siano. INCISIONI A CAVO: in genere su lastre di metallo si incide con punte più o meno acuminate o si fa incidere da sostanze chimiche. L'inchiostro penetra nei solchi, quello sulle parti non incise viene raschiato, si pressa con molta forza e il disegno è dato dal tratto del solco. E' il contrario della procedura a rilievo, dove il segno è ottenuto scavandogli intorno. Tipi: CALCOGRAFIA = rappresento con il rame (chalcòs): detta anche "bulino", nasce nella valle del Reno con origine collegate alle attività degli orafi e si diffonde in tutta Europa nella seconda metà del 1400. Al posto del legno si usa una lastra di rame che viene affumicata o ricoperta da una vernice Rubens, sulla quale si può comodamente disegnare. Con disegno punteruoli acuminati si incide il disegno (e non il suo contorno come nella xilografia). Alla fine si inchiostra facendo penetrare bene l'inchiostro nei solchi tracciati e si raschia via la superficie. Rimane così una lastra con l'inchiostro solo nei solchi, sulla Jegher, quale appoggiare un foglio inumidito e pressato con incisione un torchio ben più potente di quello usato per la xilografia. Il risultato era una stampa molto più precisa, specie nella scuola italiana che usava un tratteggio molto fitto, a volta con linee incrociate. La Storia dell’Arte ci racconta di pittori che facevano un disegno (o dipingevano) e di incisori che quel disegno riportavano su lastra in modo da poterne tirare (e vendere) molte copie. Un esempio per tutti: il duo Rubens pittore – Jegher incisore. ACQUAFORTE = variazione della calcografia: la lastra di rame ricoperta di vernice (in genere un miscuglio di resina e cera) e disegnata, viene incisa solo superficialmente, senza intaccare il rame. Poi viene immersa nell'acido nitrico (detto anche mordente o, appunto, acquaforte) che corrode il rame, lo scava ovviamente solo nei punti lasciati liberi dall'incisione. Con un solvente si asporta completamente la vernice e la lastra è pronta alla stampa col torchio come la calcografia. Il vantaggio rispetto a quest'ultima è che l'incisore si limita a disegnare, il che è molto più semplice e preciso dell'incidere. LITOGRAFIA = rappresento con la pietra (lìthos): inventata dal tedesco Giovanni Alois Senefelder (1771-1834) verso la fine del 1700. Non si tratta di una vera incisione ma fa sempre parte dei sistemi usati dall'uomo per rendere riproducibile in più copie un disegno. Su una pietra calcarea di circa 10 cm di spessore, si disegna o si scrive con particolari matite molto grasse o con inchiostri a base di resina e cera. La lastra viene poi lavata con una soluzione di acido nitrico e gomma arabica che in pratica fissa il disegno e corrode leggermente le parti non disegnate rendendole adatte ad assorbire l'acqua. Si impregna la pietra d'acqua e la si inchiostra: l'inchiostro aderirà solo alle parti disegnate e verrà respinto da quelle bagnate. Si passa al torchio a rulli e le parti inchiostrate aderiranno alla carta riproducendo il disegno originale. Con più Henri de passaggi e usando inchiostri diversi, la litografia Tolouse-Lautrec diventa a colori. Presto la pietra sarà sostituita da (F) 1895 ca una lastra di zinco e la litografia avrà una rapida e felice diffusione in tutta Europa, usata da artisti del calibro di Goya, Daumier, Tolouse-Lautrec. Questi sono considerati gli antenati della fotografia come è comunemente intesa. E cioè un sistema atto a riprodurre la realtà in un numero di stampe teoricamente illimitato. I vecchi sistemi non erano ovviamente automatici e richiedevano una grande manualità da parte dell'incisore (che comunque spesso si aiutava con la camera oscura che vedremo tra un attimo per disegnare in maniera il più possibile simile alla realtà che voleva rappresentare). Ma alla fine producevano una matrice o una lastra da cui ottenere più copie uguali tra loro. Come nella fotografia da un negativo si possono ottenere più positivi. 3 - LA "FISICA": DALLA "CAMERA OBSCURA" ALLA MACCHINA FOTOGRAFICA E' dovuto al fenomeno "fisico" della riflessione FISICA: RIFLESSIONE della LUCE della luce il principio della "camera oscura": in una stanza perfettamente buia ed ermeticamente chiusa, producendo un piccolo foro al centro di La “camera o(b)scura” una parete si nota sulla parete opposta l'immagina capovolta e rovesciata di ciò che sta davanti al foro, fuori dalla camera. Tralasciando le leggende su chi per primo abbia notato questo "miracolo" della natura, di certo già Plinio e soprattutto Aristotele (384-322 a.C.) ce ne parlano. Si deve ad uno scienziato arabo, Ibn al-Haytham o Alhazen di Al-Basra (nato a Bassora nell'odierno Iraq e morto al Cairo nel 1038) la costruzione di una vera camera oscura: era grande come una stanza ma funzionava egregiamente per osservare le eclissi di sole senza lesionarsi la retina. In Europa il fenomeno non sembra invece interessare più a nessuno fino al 13° secolo, quando il monaco e fisico Ruggero Bacone (1214-1294), noto anche per averci fatto conoscere e aver perfezionato la polvere da sparo, aver ideato un congegno per volare, inventato un telescopio, una specie di automobile e (sembra) gli occhiali per presbiti, studia nuovamente il principio delle immagini capovolte, applicandolo anche lui all'analisi delle eclissi solari. Nel 1437 Leon Battista Alberti si interessa ancora alla camera oscura; Leonardo da Vinci ce ne fornisce una precisa descrizione nel Codice Atlantico. Camera oscura abitabile - 1646 Grande passo nella sua evoluzione è la sostituzione del foro con una lente. Secondo alcuni ad opera di Gerolamo Cardano (1501-1576), matematico e scienziato a cui si deve, fra l'altro, il giunto cardanico; secondo altri ad opera di Daniele Barbaro che nel 1568 descrive in un suo libro l'importanza di una lente piano-convessa applicata alla camera oscura. Di certo Giovan Battista della Porta (1538-1615), scienziato e drammaturgo napoletano, nel suo libro Magiae naturalis (1558) dà della camera oscura una prima accurata descrizione. Di più: nella seconda edizione intitolata Della rifrazione ottica (1593) oltre alla lente fanno la loro comparsa il vetro smerigliato e la regolazione della distanza piano focale-lente. Con lui, in pratica, la possibilità di costruire una camera oscura di dimensioni ridotte è una realtà. E così fu: le prime sono ad uso e consumo dei ciarlatani che per poche monete stupiscono il popolo; in seguito sono gli studiosi e gli artisti che iniziano ad utilizzarle per disegnare con più precisione. Nel 1646 Athanasius Kircher (1601-1680), gesuita tedesco studioso, tra l'altro, di geroglifici egizi, civiltà cinese, musica e scienze varie, costruisce una camera oscura da trasporto in cui il pittore poteva entrare e, comodamente, disegnare il paesaggio che stava oltre il foro munito di lente. Quarant'anni dopo (1685) Johann Zahan inventa una camera oscura portatile con all'interno uno specchio inclinato di 45 gradi rispetto alla lente, in modo tale che l'immagine si riflettesse sulla parete alta della camera su cui era posto un vetro smerigliato. In pratica una "reflex" su cui poggiare un foglio e disegnare. E' storia provata che di reflex di questo tipo si servissero pittori, a cominciare da quel Gaspard Van Wittel (noto anche come Gaspard Vanvitelli), pittore nato in Olanda nel 1653 e morto a Roma, sua città di Camera oscura portatile reflex – 1685 ca adozione, nel 1736, che ci ha lasciato, oltre al figlio Luigi noto architetto autore, tra l'altro, della Reggia di Caserta, una serie di "vedute" egregiamente dipinte su disegni presi con la camera oscura. Vedutisti come lui e come lui dichiarati estimatori della camera oscura saranno Giovanni Antonio Canal detto il Canaletto (1697-1768) e suo nipote Bernardo Bellotto (detto Canaletto il Giovane, 1720-1780). Concludendo: alla fine del 17° secolo l'aspetto "fisico" era praticamente risolto e la "macchina fotografica" era pronta. Restava la "chimica" e ci vorrà ancora un secolo e mezzo prima che del materiale fotosensibile possa riprodurre e mantenere nel tempo un'immagine catturata con una camera oscura. 4 - LA "CHIMICA" Che il nitrato d'argento scurisse in presenza della luce era noto fin dall'antichità, e già nel medioevo molti alchimisti lo utilizzavano per "dipingere" la pelle. Nel 1725 il medico-scienziato tedesco Schultze riempiendo dei fiaschi di nitrato d'argento aveva di fatto sperimentato delle prime lastre fotografiche. I primi che provarono a trarre vantaggio da questo fenomeno chimico furono gli inglesi Thomas Wedgwood e Humphry Davy. Già nei primi anni dell'800 sperimentano infatti gli effetti della luce sul nitrato e sul cloruro d'argento. I due trovano il modo di sensibilizzare della carta col cloruro d'argento. Disegnando a mano una matrice su una lastra di vetro, pongono sotto di essa il foglio sensibilizzato ed espongono il tutto alla luce del sole: le parti colpite dalla luce annerivano mentre quelle coperte dal disegno rimanevano bianche. Con una sola matrice si potevano stampare facilmente molte copie. Peccato che dopo un po' l'intero foglio tendesse ad annerire (non era stato ancora inventato il fissaggio). E infatti nessuno dei loro lavori è resistito nel tempo. E dei loro esperimenti non sempre si trova traccia quando si parla di storia della fotografia. Joseph Niècephore Niepce (1765-1833): scienziato e gentiluomo, scopre la caratteristica del bitume di Giudea, una specie di asfalto che diventa bianco e duro quando è colpito dalla luce. Dopo aver disegnato su un foglio e averlo reso quasi trasparente trattandolo con paraffina, lo poneva sopra una lastra di stagno o di peltro ricoperta di bitume. Esponendo il tutto al sole, la parte trasparente e non disegnata faceva indurire il bitume mentre quella disegnata lo lasciava morbido. Un successivo lavaggio con olio di lavanda e petrolio se lo portava via, scoprendo le parti di metallo sottostanti che venivano rese LUCE = Bitume di Giudea indurito più scure con l'esposizione a vapori di solfuro di potassio o iodio. Intorno al 1822 iniziano i suoi esperimenti col bitume steso su una lastra di peltro questa volta inserita in una camera oscura munita di lente. L'immagine delle case e degli oggetti più illuminati dalla luce del sole, passando attraverso l'obiettivo OMBRA = lastra di peltro affumicato indurivano il bitume; le zone più in ombra lo lasciavano morbido. E' probabilmente del 1826 la prima fotografia: un paesaggio, dei Niepce (F) - 1826: la prima fotografia tetti di fronte alla sua finestra, ripresi con un tempo di esposizione tra le 8 e le 15 ore (le informazioni sono contrastanti). Una volta lavata la lastra con l'olio di lavanda, aveva ottenuto un positivo non alterabile nel tempo, con le parti più luminose date dal bitume e quelle in ombra date dalla lastra di peltro annerita. Era un esemplare unico, non riproducibile. Louis Daguerre (1798-1851): pittore francese con la passione della chimica, conosciuto anche a Londra per i suoi Diorama già nel 1820, si appassiona alla fotografia a partire dal 1826 ma otterrà i primi risultati dopo l'incontro con Niepce. Daguerre (F) Nel 1829 i due si mettono insieme e fondano una società con l'intenzione di sviluppare la ricerca che fino ad allora avevano condotto separatamente. Quando nel 1833 Niepce muore, lo sostituisce il figlio Isidoro. Con lui Daguerre continua a sperimentare e a cercare fondi. Nel settembre 1839 davanti all'accademia delle Scienze viene esposto il procedimento per il "dagherrotipo", procedimento che aveva scoperto casualmente Un boulevard a Parigi (1839) e poi perfezionato negli anni. La lastra (il primo uomo fotografato) sensibile veniva preparata partendo da una base di rame argentato strofinato da cotone imbevuto di iodio, così da farla diventare giallognola. Si esponeva all'interno di una camera oscura per un tempo variabile tra i 15 e 30 minuti, ma sulla lastrina non appariva nulla. Occorreva infatti "sviluppare" l'immagine che era solo latente, e ciò avveniva al buio, dentro un recipiente contenete una piccola quantità di mercurio che veniva riscaldato a 50°. I vapori prodotti si attaccavano alla lastra colpita dalla luce in proporzione alla luce ricevuta, fornendo così un'immagine positiva di quanto ripreso. Si fissava il tutto con lunghi lavaggi a base di una soluzione di acqua calda con sciolto del sale da cucina (dopo l'invenzione di Herschel anche Daguerre userà il più stabile iposolfito). Ciò che si ottiene, il "dagherrotipo", Andrea Forzani (I) non è ovviamente una matrice da cui ricavare copie ma un pezzo unico, così come le prime fotografie su peltro di Niepce. Il successo è straordinario: si diffonde rapidamente e si perfezionano vere e proprie macchine fotografiche con obiettivi sempre più raffinati. Ma a parte l'intuizione della possibilità di "sviluppare" l'immagine successivamente e in luogo diverso Ritratto di signore (in astuccio) dalla sua ripresa, l'invenzione di Daguerre era un (1855) passo indietro nella storia della riproducibilità partita già con la xilografia. Per di più il dagherrotipo era difficile da guardare (si vedeva ciò che la luce aveva disegnato solo con certe inclinazioni) e da conservare (si screpolava facilmente). E infatti la sua diffusione non andrà oltre un ventennio, presto surclassata dalla fotografia che aveva risultati migliori ma, soprattutto, consentiva una ri-produzione illimitata. In vent'anni si calcola siano stati comunque prodotti milioni di dagherrotipi. John Frederick Herschel (1792-1871): astronomo, chimico, matematico e fisico inglese è considerato il vero inventore della fotografia. Nel gennaio 1839 dopo aver sensibilizzato con dei sali d'argento un foglio, ne nascose metà in un libro chiuso esponendo l'altra metà alla luce del giorno. Come era già noto, la parte esposta annerì abbastanza rapidamente. La novità fu che Herschel tornò nella penombra del suo laboratorio e spruzzò l'intero foglio con una soluzione di iposolfito di soda, lavando infine con cura il tutto. Il foglio così trattato poteva essere esposto nuovamente alla luce del sole, ma non cambiava più: i sali d'argento che erano stai "bruciati" dall'esposizione restavano neri, quelli non esposti rimasti bianchi non annerivano. In pratica era stato inventato il "fissaggio" e con esso la possibilità di fare foto e di poterle poi conservare e mostrare. La camera oscura già esisteva, la possibilità di riprodurre con grande precisione e automaticamente ciò che stava davanti allo spiracolo o ad una lente era finalmente una realtà. Naturalmente la foto era all'incontrario: dove c'era più luce la foto diventava nera, dove non c'era o ce n'era meno rimaneva bianca. In pratica il risultato era un negativo. Herschel capì subito che bastava riesporlo alla luce per contatto su un altro foglio sensibilizzato e il "negativo" sarebbe tornato "positivo". Con l'evidente vantaggio che da un solo negativo si potevano stampare quanti positivi si volevano. Detto questo, essendo i suoi interessi di ben più alto livello (suo padre fu lo scopritore di Urano, dei satelliti di Saturno oltre che primo teorico delle Galassie, e lo stesso John aveva catalogato 1707 nebulose), Herschel raccontò di questa sua scoperta all'amico Talbot e non se ne occupò più. William Henry Fox Talbot (1800-1877), fisico Talbot (GB) 1840 ca inglese, in un certo senso inventa come Daguerre il procedimento dello "sviluppo" successivo alla ripresa, ma lo perfeziona su carta sensibilizzata ai sali d'argento e resa poi trasparente in modo da poterla usare come negativo utilizzabile per un numero teoricamente infinito di stampe. Già nel 1835 ottiene delle stampe su carta al cloruro d'argento fissata in ioduro di potassio (procedimento detto della "carta salata" e da lui brevettato come "talbotipia"). Ma non soddisfatto continua con altri esperimenti e finalmente nel 1841 brevetta il "calotipo". Processo un tantino complicato ma dalla grande resa: un foglio di carta viene trattato prima con una soluzione di nitrato d'argento e in seguito con una di ioduro di potassio; viene poi sensibilizzato con soluzioni di acido gallico e ancora nitrato d'argento. Dopo l'esposizione il foglio viene sviluppato in una soluzione di gallo-nitrato e il negativo ottenuto fissato con l'iposolfito di sodio scoperto da Herschel. Da questo negativo su carta, reso trasparente con paraffina, si stampa per contatto su un altro foglio di carta trattata con cloruro d'argento. Nonostante rappresentasse una rivoluzione rispetto all'unicità del dagherrotipo, il calotipo non avrà grande successo: la qualità della grana era in effetti modesta e gli "utenti" facoltosi della fotografia preferivano ancora la Maxime Du Camp (F) qualità e unicità del dagherrotipo. Verrà Abu Simbel definitivamente soppiantato dalla carta (calotipo - 1850) all'albume già a partire dal 1850. Claude Felix Abel Niepce de Saint-Victor (1805-1870): cugino del socio di Daguerre, nel 1847 inventa il negativo all'albume su lastra di vetro. In pratica: sbattendo il bianco d'uovo a neve con lo ioduro e il bromuro di potassio e il cloruro di sodio si formava un liquido chiaro che lui spalmava al buio del laboratorio sulla lastra. Una volta asciutta veniva sensibilizzata con un bagno di nitrato d'argento. Sulla lastra si formava così il cloruro d'argento, sensibile alla luce. Dopo l'esposizione fatta usando la camera oscura, si sviluppava con acido gallico, e poi si usava il negativo per stampe a contatto. Essendo Anonimo: senza titolo l'emulsione molto più lenta del calotipo, (stampa all’albumina - 1860 ca) queste lastre non erano indicate per i ritratti; ottime invece, vista la nitidezza, per i paesaggi. Anche le stampe avevano a che fare con l'uovo: è di quegli anni l'inizio dell'uso della carta albuminata, trattata cioè col bianco d'uovo per renderla più lucida e sensibilizzata col nitrato d'argento. Lastre e carte all'albume, via via perfezionate e usatissime fino al 1890, decretarono già a partire dal 1860 la fine del dagherrotipo. Nel 1880 una ditta tedesca che produceva carta albuminata usava la bellezza di 60.000 uova al giorno! L'alleanza tra galline e fotografi, come veniva già allora scherzosamente chiamata, aveva dei grossi limiti: 1) la carta doveva essere sensibilizzata al momento; 2) l'esposizione era lunghissima (con cielo coperto anche un paio di giorni!); 3) il fotografo aveva bisogno di assistenti. E’ per questo che la ricerca continuerà sia nel senso di migliorare questa scoperta sia in quello di trovare un'alternativa. Frederick Scott Archer (1813-1857): scultore con la passione per la FOTOGRAFIA, nel 1851 inventa e brevetta le lastre al COLLODIO. Qualche anno prima, nel 1846, un chimico svizzero aveva scoperto un nuovo esplosivo: il FULMICOTONE. L’anno successivo prova a mescolarlo con alcol ed etere ed ottiene una sostanza Roger Fenton (GB) collosa e trasparente, alla quale viene dato il nome di collodio. Usato inizialmente in chirurgia proprio per “incollare” le ferite, per la fotografia grazie ad Archer sarà una vera rivoluzione. Procedimento: su una lastra di vetro veniva steso il collodio mescolato a ioduro di potassio. Prima che asciugasse, la lastra veniva sensibilizzata con il nitrato d’argento. Si esponeva subito e, prima che il collodio asciugasse, Reportage sulla guerra in Crimea si sviluppava e si fissava. Nel 1854 si (stampa al collodio - 1855) introdussero le lastre “a secco”, più comode (si potevano preparare prima) ma di qualità inferiore a quelle “umide” fatte al momento dello scatto. I vantaggi erano comunque eccezionali: grande qualità dovuta alla migliore trasparenza del COLLODIO rispetto l’albume d’uovo, grande economicità, tempi di esposizioni più brevi. Richard Leach Maddox (1816-1902): fisico e medico inglese ma anche fotoamatore, si rende conto del pericolo per la salute costituito dai bagni di preparazione e di trattamento delle lastre al collodio (soprattutto dai vapori di etere). Quasi per caso inventa ma non brevetta il procedimento alla gelatina-bromuro d’argento. Che verrà usata inizialmente per la carta fotografica e in seguito anche per le lastre. In pratica: si preparavano le lastre al buio, le si usavano con la macchina fotografica, poi al buio si sviluppavano e si stampavano i positivi sulla carta preparata con le stesse sostanze. Una carta di gran Carlo Naya (I) lunga più sensibile di tutte le carte fino ad allora in uso, poteva essere esposta anche alla luce artificiale. La nitidezza è altissima, si possono stampare grandi foto e nascono gli ingranditori; le lastre (e quindi le macchine fotografiche) possono rimpicciolirsi. Il bromuro d’argento sostituirà velocemente il collodio, che uscirà di produzione intorno al 1890. Con varie migliorie ed evoluzioni la carta fotografica al bromuro d’argento è San Trovaso a Venezia tuttora in uso, anche per stampare (stampa al bromuro - 1880 ca) fotografie scattate con la macchina digitale. Il fatto di non aver brevettato la sua invenzione vedrà Maddox morire in miseria. Solo in seguito la sua figura sarà riabilitata e il suo nome finirà a grandi lettere nei libri della Storia della Fotografia. Nel 1889 la EASTMAN KODAK COMPANY metterà in commercio la prima pellicola flessibile di nitrato di cellulosa. Nascono i “rullini”, più pratici delle lastre in vetro ma soprattutto infrangibili. Le lastre di vetro continueranno per anni ad essere usate dai Pocket Kodak “Brownie” professionisti negli studi fotografaci, i rullini (USA – 1895) renderanno la fotografia alla portata di tutti. Migliorano le emulsioni e si differenziano per rispondere alle diverse esigenze dei diversi fotografi. Nel 1895 sempre la KODAK mette in commercio la “Brownie”: piccola (cm 7 x 6 x 10), leggera (era di cartone pressato o legno), economica (all’inizio costa 5 $, un po’ alla volta scende a 1 $), è abbinata ad una pellicola in rotolo da 12 esposizioni. George Eastman, il fondatore, lancia lo slogan “you press the button, we do the rest” (voi premete il bottone, noi facciamo il resto). La fotografia diventa realmente una cosa facile, alla portata di tutti. La KODAK (che oltre a pellicole, carte, sostanze chimiche produceva macchine fotografiche per tutte le tasche ed esigenze) diventa la più grande azienda fotografica del mondo. E lo rimarrà per oltre un secolo. Il suo declino inizierà con l’avvento del digitale e arriverà al parziale fallimento dell’azienda nel 2012. Ancora oggi però sono KODAK le migliori pellicole negative per la fotografia professionale e il cinema. P.S.: Per i curiosi metto il titolo di un libro. Di William Crawford: L’età del collodio – Cesco Ciapanna Editore, 1981. In effetti un po’ difficile da trovare, ma una miniera per chi volesse conoscere tutte le altre tecniche usate tra ‘800 e ‘900 per la produzione di foto. Dalla carta al carbone a quella alla gomma, dalle ambrotipie alla cianotipie… © Maurizio Zanetti Riproduzione (parziale) permessa citando l’autore.