Elif Shafak Tre figlie di Eva

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Elif Shafak Tre figlie di Eva
Elif Shafak
Tre figlie di Eva
Traduzione di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani
Proprietà letteraria riservata
© 2016 Elif Shafak
The moral right of the author has been asserted
© 2016 Rizzoli Libri SpA / Rizzoli, Milano
ISBN 978-88-17-09118-3
Titolo originale dell’opera:
Three Daughters of Eve
Prima edizione: novembre 2016
Per le citazioni all’interno del libro: p. 7 © Rainer Maria Rilke, Poesie I (18951908), traduzione di Cesare Lievi, Biblioteca della Pléiade, Einaudi-Gallimard,
Torino 1994; © Daniel Ladinsky, Love Poems from God, edited by Daniel Ladinsky,
Penguin Compass, New York 2002; p. 219 © Lord Giorgio Byron, Opere complete.
Volume Quinto: Componimenti vari, traduzione di Carlo Rusconi, UTET, Torino
1922; © Thomas Stearn Eliot, Opere 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani,
Milano 1992; p. 220 © Daniel Ladinsky, The Gift. Poems by Hafiz the Great Sufi Master,
edited by Daniel Ladinsky, Penguin Compass, New York 1999; p. 233 © Edward
FitzGerald, The Rubaiyat of Omar Khayyam, Routledge and Sons, Londra 1905.
Realizzazione editoriale: NetPhilo, Milano
The cover design was first used by Doğan Kitap in the Turkish edition.
Tre figlie di Eva
Che farai, Dio, se muoio?
Sono la tua brocca (e se mi spacco?).
Sono la tua acqua (e se m’appesto?).
Io sono la tua veste, il tuo strumento
senza di me non hai alcun senso.
Rainer Maria Rilke
Verresti, se ti chiamassero col nome sbagliato?
Io ho pianto, perché per anni
Lui non è venuto fra le mie braccia;
poi, una notte, mi hanno detto un segreto;
forse il nome con cui chiami Dio non è veramente il Suo,
ma solo uno pseudonimo.
Attribuito a Rabi‘a,
prima santa Sufi, secolo VIII, Iraq
Prima parte
La borsetta
Istanbul, 2016
Fu in una normale giornata di primavera a Istanbul, un lungo e plumbeo pomeriggio come tanti altri, che Peri scoprì, con
un senso di vuoto allo stomaco, di essere in grado di uccidere.
Aveva sempre sospettato che persino le donne più tranquille e
amabili, in una situazione di tensione, fossero capaci di scoppi
di violenza; visto poi che lei non si riteneva né tranquilla né amabile, le era chiaro che le sue potenzialità di perdere il controllo
erano ben maggiori. Ma «potenzialità» era una parola inida:
una volta dicevano tutti che la Turchia aveva grandi potenzialità, e guarda com’era andata a inire. Perciò si era convinta che
anche le sue oscure potenzialità, in deinitiva, non avrebbero
portato a nulla.
Per fortuna il Fato – la tavoletta ben conservata su cui era
inciso tutto ciò che è accaduto e che accadrà – le aveva quasi del
tutto risparmiato le cattive azioni. Fino ad allora aveva condotto
una vita corretta e non aveva fatto alcun male ai suoi simili, o
almeno non di proposito, o almeno non di recente, a parte qualche occasionale pettegolezzo o calunnietta, che non dovrebbero
contare veramente. Del resto lo fanno tutti, e se davvero fosse
chissà quale peccato, allora le profondità dell’inferno sarebbero
piene ino a traboccare. Se proprio aveva fatto soffrire qualcuno,
questi era Dio, ma a Dio, per quanto sia facile a dispiacersi e
notoriamente volubile, è impossibile far del male. Fare del male
e farsi fare del male è una caratteristica umana.
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A quel che risultava ad amici e parenti, Nazperi Nalbantoğlu – o
Peri, come la chiamavano tutti – era una persona buona: sosteneva enti caritatevoli, si impegnava per il morbo di Alzheimer e
raccoglieva fondi per le famiglie bisognose; faceva volontariato
negli ospizi, dove partecipava a tornei di backgammon perdendo
a bella posta; girava con buste della spesa cariche di cibo per i
numerosi gatti randagi di Istanbul e ogni tanto li faceva sterilizzare a proprie spese; era sempre aggiornata sui risultati scolastici
dei igli; organizzava cene eleganti per il capo e i colleghi del
marito; digiunava il primo e l’ultimo giorno del Ramadan, anche
se tendeva a saltare quelli in mezzo; sacriicava per Id al-adha
una pecora tinta con l’henné. Non buttava mai cartacce per terra,
non passava avanti in ila al supermercato, non alzava mai la voce,
neppure quando veniva trattata con palese scortesia. Una brava
moglie, una brava madre, una brava massaia, una brava cittadina,
una brava musulmana moderna, ecco cos’era.
Il tempo è un abile sarto e aveva cucito insieme alla perfezione i due tessuti che rivestivano la sua vita: ciò che gli altri
pensavano di Peri, e ciò che ne pensava lei. La sua percezione
di sé e l’impressione che dava all’esterno formavano un tutt’uno,
talmente collaudato che neppure Peri avrebbe più saputo dire
quanta parte della giornata era deinita da quel che ci si aspettava da lei e quanta da quello che lei veramente voleva. Spesso
provava l’impulso di afferrare un secchio d’acqua saponata e lavare le strade, le piazze, il governo, il parlamento, la burocrazia
e, già che c’era, sciacquare anche qualche bocca troppo sporca.
C’era tanta sozzeria da ripulire, tanti pezzi rotti da aggiustare,
tanti errori da correggere. Ogni mattina, quando usciva di casa,
faceva un breve sospiro, come se con un iato potesse far sparire
i rimasugli del giorno prima; pur mettendo immancabilmente
in discussione il mondo intero e non essendo certo il tipo che
teneva la bocca chiusa di fronte alle ingiustizie, da qualche anno
Peri aveva deciso di accontentarsi di quello che aveva. Perciò ri-
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mase sorpresa quando, in un giorno normalissimo di primavera,
all’età di trentacinque anni, sistemata e rispettata, si ritrovò a
fissare il vuoto che aveva nell’anima.
Era stata tutta colpa del traffico, avrebbe detto a se stessa
in seguito per rassicurarsi. Ruggente, rombante, metallo contro
metallo a sferragliare come l’urlo di battaglia di un esercito di
migliaia di guerrieri. La città era tutta un unico, gigantesco cantiere: Istanbul era cresciuta in maniera incontrollabile e continuava ad allargarsi, come un pesce rosso che non si rende conto di essersi ingozzato più di quanto possa digerire e continua
ugualmente a cercare da mangiare. Ripensando a quel pomeriggio fatale, Peri avrebbe concluso che, non fosse stato per l’ingorgo senza speranza, mai si sarebbe messa in moto la catena di
eventi che finì col risvegliare una parte della sua memoria ormai
sopita da tempo.
Eccoli lì, tutti ad avanzare un millimetro per volta su una
strada a due corsie mezza ostruita da un camion ribaltato, intrappolati fra veicoli di tutte le dimensioni. Peri tamburellava le
dita sul volante e cambiava stazione radio ogni due minuti, mentre la figlia, con le cuffiette nelle orecchie, le sedeva accanto con
un’espressione annoiata. Come una bacchetta magica finita nelle
mani sbagliate, il traffico trasformava i minuti in ore, gli esseri
umani in bruti e qualsiasi traccia di salute mentale in pura pazzia. Istanbul sembrava non farci caso; di tempo, bruti e pazzi ne
aveva in abbondanza. Un’ora più o una meno, un bruto in più o
un pazzo in meno... superato un certo limite, che differenza fa?
La follia correva per le strade della città come una droga inebriante nelle vene. Ogni giorno milioni di abitanti di Istanbul si
facevano una nuova dose, senza rendersi conto di essere sempre
più squilibrati. Persone che non avrebbero mai condiviso il proprio pane erano invece pronte a condividere la propria follia.
C’è qualcosa di imperscrutabile in questa perdita collettiva della
ragione: se un numero sufficiente di occhi osserva la stessa allu-
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cinazione, questa si trasforma in realtà; se un numero suficiente
di persone ride della stessa miseria, questa si trasforma in una
barzelletta di cui sghignazzare tutti insieme.
«Oh, insomma, piantala di tormentarti le unghie!» sbottò
all’improvviso Peri. «Quante volte te lo devo dire?»
Lentamente, lentissimamente, Deniz si tolse le cufie e se le
appese al collo. «Sono le mie unghie» disse, poi prese un sorso
dal bicchierone di carta posato tra lei e la madre.
Prima di mettersi in macchina si erano fermate in uno Starbörek – una catena di caffetterie turca ripetutamente querelata da Starbucks perché usava lo stesso logo, lo stesso menu e
una versione vagamente distorta del nome, ma che era ancora
in attività grazie a una serie di cavilli legali – a prendere un caffellatte scremato per Peri e un doppio frappuccino alla panna
con scaglie di cioccolato per sua iglia. Peri il caffellatte l’aveva
terminato, mentre Deniz sorseggiava all’ininito, cauta come un
uccellino ferito. Fuori il sole si liquefaceva nell’orizzonte, con
gli ultimi raggi che coloravano della stessa sfumatura spenta di
ruggine i tetti delle baracche, le cupole delle moschee e le inestre dei grattacieli.
«E questa è la mia macchina!» rispose Peri tra i denti. «Me la
riempi di pellicine.»
Appena le furono uscite di bocca, si pentì di quelle parole. È
la mia macchina! Che cosa orribile da dire a una ragazzina, ma
anche a un adulto, se è per questo. Era diventata una di quelle
stupide materialiste che individuano chi sono e dove sono solo
in ciò che possiedono? Sperava proprio di no.
Deniz però non sembrava essersela presa: si limitò ad alzare
le spalle ossute, a buttare uno sguardo fuori dal inestrino e ad
accanirsi sulla cuticola successiva.
L’auto scattò avanti, per rifermarsi subito dopo in uno stridore di pneumatici. Era una Range Rover di una tonalità denominata «azzurro Montecarlo», secondo il catalogo del concessio-