la storiografia - i nostri tempi supplementari

Transcript

la storiografia - i nostri tempi supplementari
LA STORIOGRAFIA
La storiografia greca
Le origini della storiografia latina
Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore
110
La storiografia greca
La storiografia greca
Aspetti generali del pensiero storiografico antico
La nascita del senso storico
Storia e comprensione
di sé
Historia perpetua
La «storia universale»
Ciò che noi chiamiamo senso storico comprende cose diverse: «la nozione della continuità
del tempo e dell’unità del passato, del senso degli avvenimenti, del significato del passato
per il presente, della connessione causale degli eventi ed altro»1. Una tale nozione complessa fu presso i Greci una scoperta della poesia.
Nell’epica omerica la riflessione sulle azioni umane avviene già in base a determinati modelli di comportamento, che orientano il giudizio e la comprensione degli eventi. C’è interesse per la concatenazione causale dei fatti, sia che l’origine venga ricercata nell’agire
umano (il rapimento di Elena da parte di Paride è la causa della guerra di Troia), sia che
venga identificata con una volontà divina. Nella lirica, ad esempio Mimnermo (VII, VI secolo a.C.), narrando le vicende della propria città, Colofone, spiega le disgrazie del presente
come espiazione di una colpa antica, secondo un criterio di causalità voluto dagli dei.
L’idea di un continuum dalle origini alla contemporaneità è già in Erodoto, che per primo
opera una netta separazione tra le vicende mitiche e quelle accessibili all’indagine.
In Erodoto il senso storico sembra configurarsi come l’ampliarsi della consapevolezza che il
singolo individuo ha delle propria storia personale: «Se egli vede l’unità e il senso della storia nel fatto che un’entità divina fa salire e cadere gli uomini, questa interpretazione si fonda su un’esperienza che gli uomini hanno fatto innanzitutto su se stessi, ed è chiaro che lo
storico dà all’accadere universale quel senso che altri hanno dato prima alla propria storia
personale»1. Già nella lirica corale, Pindaro aveva la consapevolezza che il moto alterno
del destino, che dispensa gioie e dolori ed è il senso stesso della vita umana, non riguarda
solo la singola esistenza, ma l’intero succedersi delle generazioni. Insomma, la comprensione della storia è preceduta da un’«autocomprensione degli uomini».
Un carattere della storiografia greca, derivato dalla cultura orale e dal racconto dei rapsodi,
è la continuità con l’opera degli storici precedenti. Erodoto comincia il suo racconto definendo il campo della propria indagine rispetto alla letteratura genealogica, della quale egli
si sente il continuatore. Tucidide si considera successore di Erodoto, in quanto ne riprende
il filo della narrazione nel punto in cui Erodoto l’aveva terminata. Si forma così «l’immagine
di una historia perpetua, in forza della quale, quando ad un autore la morte porta via di mano la penna, ad uno più giovane tocca riprenderla, al fine di proseguire il racconto»2. Ciò
implica che per lo storico antico era quasi obbligata la scelta del punto di inizio della narrazione, in quanto collegato alla fine dell’opera precedente. La storiografia classica può allora
considerarsi una catena narrativa ininterrotta, anche se di tale catena alcuni anelli sono per
noi perduti.
La dimensione universale della narrazione, che caratterizzava l’opera di Erodoto, non viene
meno con gli storici successivi. Se Tucidide restringe la propria indagine alla politica degli
stati greci e al conflitto del Peloponneso, tuttavia ritiene che questa guerra abbia una portata universale: «… la più importante di tutte quelle avvenute fin allora … il più grande sommovimento che sia mai avvenuto fra i Greci e per una parte dei barbari e, per così dire, an1. B. Snell, «Le origini della coscienza storica», in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963, p. 25.
2. L. Canfora, «Il pensiero storiografico», in Lo spazio letterario di Roma antica, Salerno,
Roma 1989.
Aspetti generali del pensiero storiografico antico
che per la maggior parte degli uomini» (I 1). L’universalità per Tucidide sta anche nel fatto
che l’oggetto dell’indagine storiografica sono le cause profonde degli eventi, le leggi generali del comportamento umano, ad esempio la legge del più forte: «È sempre stata norma
che il più debole soccombesse al più forte» (I 76, 2). Che tali leggi esistano era convinzione anche dei lirici greci, ad esempio di Archiloco («Riconosci quale ritmo governa gli uomini», frammento 67a D.). Di qui anche l’idea di Tucidide che la storia rappresenti per tutti gli
uomini un’acquisizione permanente, «un possesso per sempre». L’elemento che unifica e
orienta la storia universale è, come vedremo, per lo più l’incontro bellico.
Un altro punto fondante della storiografia antica riguarda la definizione del fine, in base all’alternativa tra «utile» e «piacere». Tucidide e Polibio privilegiano l’utile, mentre respingono
la ricerca del diletto escludendo l’elemento favolistico, dilettevole, tipico dei libri di Erodoto.
Ma Polibio, che pure dichiara la propria superiorità rispetto alla storiografia «edonistica», riconoscerà validità ad entrambi i fini. Nella prefazione alla sua opera (I 4, 1-7, vedi p. 125),
mentre afferma la necessità di scrivere una storia «universale», sostiene che proprio questa
natura universale consentirà ai fruitori di trarre, oltre che «giovamento», anche «diletto».
La concezione di Tucidide e quella di Erodoto non stanno tra loro come il primitivismo ingenuo sta al razionalismo maturo, ma piuttosto riflettono due differenti tecnologie della comunicazione: l’oralità e la scrittura. Il metodo proposto da Tucidide non si sarebbe potuto applicare in una civiltà orale. Questa non è grado di analizzare l’esperienza in una logica sequenza di causa ed effetto (per le ragioni indicate da Platone nella sua critica alla poesia
arcaica, vedi p. 162), mentre esige «immagini e atteggiamenti di pensiero che siano immediatamente percepibili dall’uditorio e lo incatenino psicologicamente all’ascolto» (B. Gentili).
L’indirizzo storiografico, legato all’oralità e opposto a quello «pragmatico» (perché basato
sui fatti, prágmata) che fa capo a Tucidide, è il cosiddetto «mimetico», cioè basato sull’idea
che l’attività dello storico, al pari di quella del poeta drammatico, consista nell’imitazione,
mimesi appunto, della vita umana. L’indirizzo pragmatico rifiuta ogni elemento non vagliabile criticamente, assume l’utile come fine del discorso storiografico, bandisce ogni componente favolosa atta a dilettare. Al contrario l’indirizzo mimetico, che risale a Erodoto e ai logografi ionici3, etnografico e antropologico, assegna allo storico il compito di dare una rappresentazione icastica e completa della vita umana. Così Duride di Samo (IV-III sec. a.C.)
rimprovera i precedecessori Eforo e Teopompo di avere privilegiato la componente dell’utilità rispetto a quella del diletto, di non avere saputo suscitare l’edoné, cioè «il piacere di leggere» nei destinatari, conferendo alla parola scritta la stessa attrattiva posseduta dalla parola parlata. La narrazione storica deve essere mimetica, cioè deve sapere commuovere gli
animi come un dramma, deve essere «capace di riattualizzare in tutta la loro carica emotiva
gli elementi narrati, sì da trasformare il lettore in spettatore. Lo storico diviene così, al pari
dell’attore drammatico, l’artefice di una mediazione mimetica tra la realtà storica ed il pubblico che la recepisce in uno stretto rapporto di immedesimazione simpatetica»4.
Come vedremo meglio trattando i singoli autori, gli storici latini come Sallustio e Livio, sempre bisognosi di giustificare la loro opera in termini di utilità per lo stato, sembrerebbero imboccare la via della storiografia pragmatica e polibiana. Ma l’attenzione che essi riservano
per gli aspetti psicagogici e la ricerca di una forma narrativa capace di impressionare e
coinvolgere il pubblico, ci dice la loro preferenza – loro, e di tutta la storiografia latina – per
il filone mimetico e drammatico. Una preferenza, questa, condivisa anche da Cicerone, per
il quale la narrazione delle vicende passate, anche dolorose, «genera piacere» (Ad fam., 5,
12, habet … delectationem). Il coinvolgimento del lettore implica un uguale coinvolgimento
3. I logografi furono i primi scrittori di racconti in prosa (logoi) di argomento vario (genealogie, eventi, usi e costumi di popoli e città). I logoi costituirono il primo esempio di genere storiografico ed il loro fine era di tenere desta la memoria collettiva di una data comunità. Letti pubblicamente nelle città della Ionia, avevano una spiccata tendenza al favoloso e
al romanzesco.
4. B. Gentili, in B. Gentili, L. Stupazzini, M. Simonetti, Storia della letteratura latina, Laterza, Bari-Roma 1987, p. 115.
L’utile o il piacere?
Storia e civiltà della scrittura
Storiografia «mimetica» e
«pragmatica»
Carattere mimetico della
storiografia latina
111
112
La storiografia greca
dello scrittore, che simpateticamente s’immedesima nei fatti narrati, come Livio che confessa: «Anche per me è un ristoro essere giunto alla fine della guerra punica, come se ne
avessi condiviso i travagli e i pericoli» (31, 1, 1) e, di fronte a un evento portentoso del passato dal quale il razionalismo dei suoi tempi consiglierebbe di prendere le distanze, si lascia idealmente trasportare in quel tempo remoto: «Quanto a me, intento a scriver la storia
dei tempi antichi, l’animo mi si fa antico e un certo scrupolo religioso mi trattiene dal giudicare indegni … quei prodigi» (43, 13, 2). Per rivivere il passato in sintonia con lo spirito dei
maiores occorre condividere anche le loro superstizioni e ingenuità.
Erodoto
La vita
I viaggi
L’opera
I libro I (Clio)
II libro (Euterpe)
III libro (Talia)
IV Libro (Melpomene)
Libro V (Tersicore)
VI Libro (Erato)
Libro VII (Polimnia)
Libro VIII (Urania)
Libro IX (Calliope)
Nato intorno al 485 a.C. ad Alicarnasso sulla costa dell’Asia Minore, Erodoto fu coinvolto in
giovinezza nelle insurrezioni della sua città contro il tiranno Ligdami vassallo di Serse. In
seguito Alicarnasso divenne città alleata di Atene, dove lo storico soggiornò a più riprese.
Erodoto viaggiò molto, in oriente fino alla Mesopotamia, in Egitto e nella Scizia, accumulando grande esperienza diretta del mondo conosciuto. L’evento più importante fu l’incontro
con l’ambiente ateniese raccolto intorno a Pericle, di cui condivise l’orientamento politico.
Negli ultimi anni si stabilì a Turii, colonia ateniese in Magna Grecia, prendendone la cittadinanza, e vi rimase fino alla morte, avvenuta probabilmente nei primi anni successivi all’inizio della guerra del Peloponneso (430 circa).
Il titolo, Storia o Storie, e la ripartizione in nove libri, ciascuno dei quali porta il nome di una
delle Muse, non furono voluti dall’autore, che divulgò la sua opera in pubbliche letture in
Atene e con essa volle assicurare un eterno ricordo alla più nobile delle imprese compiute
da questa città, la vittoria sui Persiani.
Le origini mitiche dello scontro tra Greci e barbari. Vicende della Lidia. Incontro tra Creso e
Solone (che offre lo spunto a una riflessione di carattere morale e religioso). Origini e crescita della potenza persiana.
Le imprese del re persiano Cambise. Lunga digressione etnografica (lògos) sull’Egitto di
cui sono descritti la natura geografica, la storia, gli usi e costumi degli abitanti.
Conquista dell’Egitto ad opera di Cambise. Excursus sulle vicende di Policrate tiranno di
Samo, esempio dell’eccessiva potenza umana punita dagli dei. La successione di Dario alla morte di Cambise.
Campagna militare di Dario contro gli Sciti, di cui sono descritte le abitudini e le tradizioni.
Guerra contro Cirene e storia dei suoi sovrani.
Gli antefatti del conflitto greco-persiano: ribellione delle città ioniche che chiedono aiuto alla madrepatria. Digressioni dedicate alla storia di Sparta e di Atene. Mentre Sparta rifiuta
l’aiuto, Atene accoglie la richiesta.
Repressione dei Persiani e conquista di Mileto. Storia di Milziade e della sua famiglia. Prima spedizione persiana contro la Grecia. Battaglia di Maratona. Assedio di Paro e morte di
Milziade accusato di tradimento.
Seconda spedizione persiana guidata da Serse succeduto al padre Dario. Attraversamento
dell’Ellesponto. L’invio di un’ambasceria in Sicilia è l’occasione per parlare delle vicende
storiche dei Greci di occidente. La sconfitta dello spartano Leonida con i suoi trecento alle
Termopili.
Occupazione di Atene da parte dei Persiani. Temistocle fa evacuare la città. Battaglia navale di Salamina e sconfitta dei Persiani. Ritorno in Asia di Serse.
Vittoria di Pausania a Platea. Vittoria navale dei Greci sui Persiani a Micale. I Persiani
sconfitti ritornano a Sardi. Presa di Sesto sull’Ellesponto da parte dei Greci.
Le Storie
La «pubblicazione orale»
Sono la prima grande opera in prosa della grecità. Il modello è quello dei logografi ionici,
che a sua volta risale alla poesia catalogica esiodea e omerica (vedi p. 93). Le Storie sono
Erodoto
il punto d’arrivo di una vicenda di «pubblicazione orale». Infatti la stesura in forma scritta e
unitaria era stata preceduta da recitazioni dello storico itinerante che, come i rapsodi omerici, leggeva parti dell’opera davanti a un uditorio. L’antefatto orale-aurale è percepibile nelle forme espressive «agonistiche» tipiche del messaggio non scritto, in particolare nel tono
polemico e risentito, come per prevenire le reazioni di un pubblico partecipe e interattivo.
Ciò è evidente quando l’autore rassicura l’uditorio sull’attendibilità della propria ricostruzione o ne previene le critiche esprimendo anticipatamente le proprie perplessità: «Mi riferiscono anche questa versione, ma io non la ritengo degna di fede» (III 3). Agli schemi della
cultura orale sembra conformarsi anche la struttura dell’opera nella quale sono accostate
unità narrative minori dotate ciascuna di una propria autonomia narrativa.
Rispetto alla logografia ionica le novità sono rilevanti, a partire dall’impiego del termine historìe, che indica l’indagine preliminare alla redazione dell’opera storica e comprende tre
fasi: la visione diretta (òpsis) già implicita nella parola historìe (da wid-, gr. eidon, lat. video), l’ascolto dei testimoni diretti dei fatti (akoé), la riflessione critica (gnome) in base alla
quale si sceglie tra più versioni quella più attendibile, cioè più verosimile, più probabile.
Nasce così la storiografia come genere che consiste nella ricerca dei dati di fatto, in primo
luogo ciò che l’autore ha visto o raccolto da testimoni oculari. La tradizione orale è la base
della documentazione erodotea, che ricorre tuttavia anche a fonti scritte come i testi di
iscrizioni o di oracoli. Sui dati raccolti lo storico opera una valutazione critica. Dall’impossibilità di controllare ogni notizia nasce la consapevolezza della relatività della ricostruzione
storica:
Busto
di
Erodoto.
Napoli,
Museo
Nazionale.
Il metodo
Fino ad ora le fonti di quanto ho detto sono state la mia visione diretta (òpsis), la
mia valutazione critica (gnome), la mia ricerca (historìe), ma d’ora innanzi riporto
i racconti degli Egiziani come li ho sentiti.
II 99
Queste notizie sui Persiani le posso affermare con sicurezza, perché ne ho conoscenza diretta; invece queste altre […] non mi sento di affermarle con certezza.
I 140
Il metodo prevede, come prima e imprescindibile operazione, il reperimento del materiale
documentario, nell’intento di ricostruire la realtà degli eventi. Ciò comporta che il piano
complessivo dell’opera non preesiste alla raccolta di informazioni. Le notizie raccolte sono
organizzate attorno a un filo conduttore, ma non tutto il materiale trovato serve a illustrare,
ad esempio, la causa dello scontro tra Greci e barbari. Molto di questo materiale servirà per
vari excursus d’interesse etnografico che completano un quadro complessivo di fatti genericamente «umani». Così il discorso erodoteo si dipana attraverso digressioni anche di
grandi dimensioni come la descrizione dell’Egitto nel libro II, anche se l’autore ha sempre
presente il filo principale della narrazione.
Erodoto non disdegna di introdurre il favoloso, il paradossale. Rispettoso del divino e del
soprannaturale, riporta anche fatti poco verosimili, come quello della sacerdotessa cui
cresce la barba nell’imminenza di una disgrazia, ma non li discute, non li sceglie, li considera come appartenenti ad un ambito dal quale il raziocinio dello storico è bene che resti
escluso:
Le digressioni
Se intendessi analizzare i motivi per cui sono considerati sacri [gli animali presso
gli Egizi], finirei per occuparmi di cose concernenti la divinità, che io voglio assolutamente evitare di trattare.
II 65, 2
Sulle cause della guerra persiana, Erodoto espone le motivazioni mitiche, ma diversamente da Ecateo e dagli altri logografi, non sceglie tra l’una e l’altra, dichiara anzi di non volerne parlare. Considera solo i fatti certi e documentabili: il tributo imposto da Creso ai Greci
d’Asia, i loro tentativi di liberarsi dal giogo, ecc. In tal modo egli crea la nozione di uno spatium historicum, contrapposto al tempo del mito.
Come si evince dal proemio, l’obiettivo dell’indagine storica è di impedire che il tempo cancelli la memoria di imprese e monumenti insigni, che meritano d’essere tramandati ai posteri:
Gli eventi mitici o favolosi
Lo scopo della storia
113
114
La storiografia greca
trad. di A. Izzo d’Accinni
La fondazione
della storiografia
Lingua e stile
Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Turii, perché le imprese degli
uomini col tempo non cadano in oblìo, né le gesta grandi e meravigliose delle quali han dato prova così i Greci come i barbari rimangan senza gloria, e inoltre per
mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro.
È implicita l’idea che «le gesta grandi e meravigliose» abbiano una validità paradigmatica
che trascende l’ambito municipale di quella data polis o popolo rivestendo caratteri di universalità. La verità che interessa lo storico non è contingente o particolare, ma è una visione unitaria dei processi storici. Erodoto intuisce che le Guerre Persiane non sono un conflitto qualsiasi, ma il risultato di un antagonismo secolare tra Europa e Asia, l’anello terminale di una catena di nessi causali di lungo periodo. E in questo svolgere il filo delle connessioni degli eventi sta il compito dello storico e nell’aver capito ciò è tutta la grandezza di
Erodoto. La qualifica di pater historiae di cui Cicerone lo gratificò (De leg. I 5) è il giusto riconoscimento del fatto che «egli ha creato l’idea stessa di storia» (H. Strasburger).
La decisione di lasciare una stesura scritta è condizione fondante dell’attività storiografica:
«Erodoto sembra voler intenzionalmente lasciare una versione scritta dei suoi racconti, che
potrà essere utilizzata dai posteri, da un pubblico astratto, non legato a una specifica occasione. Emerge così un altro piano cronologico, quello dei fruitori dell’opera immaginati nel
futuro […] ed è proprio questo fissarsi della ricerca in una forma scritta definitiva, utilizzabile dai posteri, a fondare, anche per la produzione storiografica, la possibilità di un “ciclo”»
(L. Canfora).
L’«omericità» è riscontrabile sia nel lessico e nelle formule, sia nell’andamento non lineare
della narrazione segmentata in episodi relativamente autonomi, nel modo tipico della tradizione rapsodica e dei testi destinati alla recitazione. La lingua – il dialetto ionico misto a
elementi attici – risente dell’influsso dell’epos, della tragedia, della lirica. Tale varietà di modelli e forme spiega la definizione di lexis poikìle che gli antichi davano allo stile delle Storie. Soprattutto all’esigenza di narrare sembrano corrispondere i numerosi inserti e novelle
(si può dire che la novella nasce con Erodoto), la grande abbondanza di notizie e particolari non funzionali alla comprensione dell’evento storico in sé. La congerie di informazioni talora rasenta la pedanteria (descrizioni di oggetti con specificazione puntuale di peso, misura, materia) e il pettegolezzo.
Costumi dei Persiani, I 131-135.
Come esempio di excursus etnografico proponiamo questo passo, in cui sono descritti alcuni aspetti della civiltà dei Persiani: il rifiuto
dell’antropomorfismo e la divinizzazione di elementi naturali, il carattere collettivo dei riti (il sacrificante è obbligato a invocare gli dei
non solo per sé, ma per tutti i Persiani), la singolare importanza attribuita alle deliberazioni in stato di ebbrezza che debbono confermare quelle prese da sobri, le forme di saluto in rapporto allo status sociale, la grande disponibilità all’integrazione culturale, cioè ad
accogliere usanze di altri popoli.
131. Mi consta che le usanze dei Persiani sono queste: non usano costruire altari, statue, templi, e considerano sciocco chi
lo fa, credo perché, a differenza dei Greci, non ritengono che gli dei abbiano aspetto umano. Usano salire sulla cima dei
monti per fare sacrifici a Zeus (chiamano Zeus la volta del cielo), e sacrificano anche al sole, alla luna, alla terra, al fuoco, all’acqua e ai venti. Questi sono i soli esseri a cui fanno sacrifici fin dall’antichità; successivamente hanno appreso dagli Assiri e dagli Arabi a sacrificare ad Afrodite celeste, che gli Assiri chiamano Militta, gli Arabi Alilat, i Persiani Mitra.
132. I sacrifici in onore di questi dei si svolgono nel modo seguente: per sacrificare non costruiscono altari, non accendono il fuoco, non fanno libagioni, non usano strumenti musicali, né bende, né orzo. Chi vuole sacrificare, conduce la vittima in un luogo puro e invoca il dio con la tiara cinta da una corona, per lo più di mirto. Il sacrificante non può chiedere
del bene soltanto per sé, ma lo chiede per il re e per tutti i Persiani: tra tutti i Persiani è compreso anche lui. Dopo aver fatta a pezzi la vittima, bolle la carne e la mette sopra uno strato d’erba più tenera possibile (soprattutto trifoglio). Fatto questo, un Mago canta un racconto sacro sulla nascita degli dei (in questo consiste il canto, dicono); senza la presenza di un
Mago non è lecito sacrificare. Dopo un breve intervallo il sacrificante porta via le carni e ne fa l’uso che crede.
133. […] Bevono molto vino, ma non è permesso vomitare né orinare in presenza di un’altra persona. Oltre a conservare la tradizione, hanno l’abitudine di deliberare ubriachi sulle questioni più importanti. Il giorno dopo, quando sono sobri, il padrone di casa sottopone loro nuovamente le deliberazioni prese e se anche da sobri le approvano, le mettono in
pratica, diversamente rinunciano. E viceversa, quanto hanno deliberato da sobri, lo riesaminano anche ubriachi.
134. Quando due persone si incontrano per la strada, se sono dello stesso livello sociale si può riconoscere dal fatto che
anziché salutarsi si baciano sulla bocca; se uno dei due è lievemente inferiore, si baciano sulle guance; se la differenza di
Tucidide
nobiltà è molto grande, l’inferiore si inchina facendo atto d’omaggio. Dopo se stessi, stimano più di tutti i popoli che
abitano più vicino a loro, e così via, meno di tutti quelli che abitano più lontano, in quanto considerano se stessi di gran
lunga i migliori e pensano che gli altri partecipano della virtù in proporzione alla distanza, e di conseguenza che i più
lontani sono i peggiori di tutti. Allo stesso modo, durante l’impero dei Medi, era organizzato il potere di un popolo sull’altro; i Medi avevano il potere universale e in particolare sulla popolazione più vicina, questa sui loro vicini, questi a
loro volta sui vicini loro, secondo il medesimo ordine di apprezzamento adottato dai Persiani. Così procedeva il ruolo assegnato ad ogni popolazione nella sovranità e nella sorveglianza delle altre.
135. Più di tutti, i Persiani sono proclivi ad accettare le usanze dei popoli stranieri. Portano gli abiti dei Medi, preferendoli ai propri, e in guerra le corazze egiziane. Tutte le forme di piacere di cui vengono a conoscenza le praticano, e così
hanno appreso dai Greci anche la pederastia. Ognuno di loro sposa molte mogli legittime e tiene un numero ancora maggiore di concubine.
(trad. di G. Paduano)
Le Termopili, VII 223-225.
Gli Spartani di Leonida, traditi da un abitante del luogo, Efialte, che ha indicato ai Persiani un sentiero per giungere rapidamente alle
Termopili, soccombono di fronte alla soverchiante forza dei nemici. Una grandiosità e un pathos omerici caratterizzano la descrizione
della famosa battaglia.
223. Serse, dopo avere compiuto le libagioni al sorgere del sole, aspettò l’ora in cui si
affolla il mercato e poi portò l’assalto secondo le istruzioni ricevute da Efialte: la discesa dal monte infatti è molto più ripida, e la via molto più breve dell’aggiramento e
della salita. Così i barbari di Serse attaccarono e i Greci di Leonida, ben sapendo di andare alla morte, avanzarono molto più di prima verso la parte più larga della gola. Prima avevano sorvegliato il muro eretto a difesa, e nei giorni precedenti avevano sempre
combattuto facendo sortite nelle strettoie. Ora invece ne uscirono per affrontare i nemici, e molti barbari cadevano; i comandanti dei battaglioni li spingevano avanti uno dopo l’altro a colpi di frusta. Molti caddero in mare e morirono, molti di più si calpestavano vivi gli uni con gli altri. Dei morti non si teneva nessun conto. Poiché i Greci sapevano che la morte li aspettava per mano di quelli che stavano aggirando il monte,
mostrarono contro i barbari tutta la forza, la temerarietà, la furia che avevano.
224. La maggior parte di loro aveva già le lance spezzate e attaccava i Persiani con le
spade. In questo scontro morì Leonida combattendo eroicamente e con lui altri nobili
spartiati di cui ho cercato tutti i nomi (ne erano ben degni), come del resto li ho cercati
di tutti e trecento. Morirono anche molti Persiani illustri, tra i quali due figli di Dario e
della figlia di Artane Fratagune, Abrocome e Iperante. Artane era fratello di Dario, figlio di Istaspe, figlio di Arsame, e quando diede in moglie a Dario sua figlia le assegnò
come dote l’intero patrimonio, perché era la sua unica discendente.
225. Due fratelli di Serse dunque caddero in battaglia e sul corpo di Leonida ci fu una
mischia feroce tra Spartani e Persiani, finché i Greci riuscirono a trascinarlo via e per
quattro volte respinsero i nemici.
(trad. di G. Paduano)
Il cosiddetto «Leonida», statua recuperata dall’acropoli spartana risalente, in realtà, al decennio precedente la morte del re (490 a.C.).
Museo di Sparta.
Tucidide
Della vita di Tucidide sappiamo poco. Nato intorno al 460 a.C. nel demo attico di Alimunte
(nella prefazione dell’opera egli si presenta come «Tucidide Ateniese»), di nobile famiglia
probabilmente di origine tracia, partecipò alla guerra del Peloponneso, che trattò nelle sue
Storie. Nel 430 a.C. contrasse la peste che aveva colpito l’Attica e di cui diede nella sua
opera una precisa descrizione, ma riuscì a guarire. Nel 424, comandante di una flotta che
avrebbe dovuto controllare le coste della Tracia, non riuscì ad impedire che Anfipoli cadesse nelle mani degli Spartani, per questo fu processato e mandato in esilio. Nell’ultima parte
della vita probabilmente intraprese una serie di viaggi, come aveva fatto Erodoto, al fine di
raccogliere materiali per la sua attività storiografica. Non conosciamo né il luogo né l’anno
della morte, probabilmente successiva alla sconfitta di Atene avvenuta nel 404 a.C.
La vita
115
116
La storiografia greca
L’opera
Libro I
Libro II
Libro III
Libro IV
Libro V
Libro VI e VII
Libro VIII
Tucidide narra in otto libri la guerra del Peloponneso. Il titolo Storie, come pure la ripartizione in otto libri, non sono originari ma, come per Erodoto, furono voluti dai grammatici alessandrini e tramandati nei codici. Gli avvenimenti narrati vanno dal 431 a.C., anno di inizio
delle ostilità, al 411. Ma l’autore intendeva giungere fino alla fine della guerra e gli ultimi avvenimenti, forse narrati dallo stesso Tucidide, saranno poi pubblicati nelle Elleniche di Senofonte.
Storia della Grecia dalle origini alle guerre persiane, la cosiddetta «Archeologia». Premessa metodologica relativa agli scopi e ai metodi. Presentazione della causa occasionale del
conflitto (ostilità tra Corinto e Corcira e intervento di Atene a favore di quest’ultima) contrapposta alla vera causa (rivalità fra Atene e Sparta per l’egemonia sulla Grecia). Excursus sui cinquant’anni intercorsi tra le guerre persiane e il conflitto tra Atene e Sparta («pentacontaetia»). Ad Atene Pericle presenta il piano di guerra, che si basa principalmente sulle forze di mare.
Vengono narrati i primi tre anni di guerra (431-429). Discorso funebre di Pericle per i caduti ateniesi nel primo anno del conflitto. Descrizione della peste che colpì Atene e di cui fu
vittima lo stesso Pericle.
Anni 428-425. Gli Ateniesi incitati da Cleone, nuovo capo dei popolari, reprimono la ribellione di Mitilene, gli Spartani conquistano Platea e la radono al suolo. Le atroci violenze cui si
abbandonano a Corcira i democratici nei confronti degli oligarchici forniscono lo spunto per
un’amara riflessione sull’imbarbarimento morale causato dalla guerra.
Anni 425-422. Dopo l’invasione dell’Attica da parte degli Spartani, Cleone porta la guerra
nel Peloponneso. Falliscono le trattative di pace. In Tracia si verifica l’episodio di Anfipoli,
nel quale rimane coinvolto Tucidide stesso.
Pace di Nicia seguita alla battaglia di Anfipoli (421 a.C.). Ma in realtà si prepara un nuovo
periodo di guerra. È narrato l’episodio degli abitanti dell’isola di Melo, che si erano rifiutati di
abbandonare lo stato di neutralità e verranno spietatamente trucidati dagli Atenesi. Segue
un’altra riflessione dell’autore sulla logica orrenda della guerra.
Spedizione in Sicilia promossa, a partire dal 416 a.C., da Alcibiade. È allestita una flotta imponente, ma la partenza avviene sotto cattivi auspici: sono trovate sfregiate le Erme, busti
in pietra del dio Hermes posti agli angoli delle strade. Alcibiade, accusato dell’empio atto, si
rifugia presso gli Spartani. Nicia e Lamaco, capi ateniesi della spedizione, non riescono a
prevalere sui Siracusani alleati degli Spartani e presso Siracusa sono vinti. I superstiti, catturati, sono gettati nelle latomie, terribili prigioni siracusane scavate nella pietra.
Anni 413-411. Condanna a morte di Alcibiade per l’episodio delle erme. Colpo di stato oligarchico ad Atene («i Quattrocento») e defezione degli alleati. Vittoria navale ateniese a
Cinossena. A questo punto il libro si interrompe. L’ultima parte del conflitto è raccontata da
Senofonte all’inizio delle Elleniche.
Il valore dell’indagine storica
La scelta dell’argomento
Lo scoppio della guerra spinse Tucidide a farsene storico, proprio perché del carattere immane e decisivo del conflitto egli ebbe subito chiara l’intuizione. Lo scrive nelle righe iniziali dell’opera, dove condensa tutti gli elementi che lo hanno deciso alla scelta.
I 1;
trad. di C. Moreschini
L’ateniese Tucidide descrisse la guerra tra Ateniesi e Peloponnesi, come combatterono tra di loro cominciando subito al suo sorgere e immaginandosi che sarebbe
stata grande e la più importante di tutte quelle avvenute fin allora. Lo immaginava
deducendolo dal fatto che le due parti si scontrarono quando entrambe erano al
culmine di tutti i loro mezzi militari e vedendo che il resto della Grecia si univa ai
due contendenti, gli uni subito, e gli altri ne avevano l’intenzione. Certo, questo è
stato il più grande sommovimento che sia mai avvenuto fra i Greci e per una parte
dei barbari e, per così dire, anche per la maggior parte degli uomini. Giacché gli
avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano impossibili a
investigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto.
Tucidide
La scelta di narrare la guerra si giustifica con la sua dimensione. Si tratta dello sconvolgimento più grande mai capitato a Greci e barbari, che ha comportato, come aggiungerà
poco dopo (I 23, 1-2), «tante disgrazie quante mai ne occorsero in uno stesso periodo di
tempo. Mai tante città furono prese o rase al suolo … né tanta gente mandata in esilio o
uccisa».
L’intuizione precoce della rilevanza dell’evento e della sua superiorità su tutto il passato nasce dalla riflessione su alcuni segni, indizio di una patologia. Il metodo è simile a quello seguito dalla medicina ippocritea e consiste nell’indagare dei sintomi. L’autore è orgoglioso
del proprio acume politico che gli ha fatto cogliere i tekméria, gli «indizi» giusti, che non potevano non annunciare gli effetti previsti. Altro motivo di orgoglio sta «nel non dover essere
al più l’emulo del grande Erodoto, il quale aveva occupato per sempre “lo spazio storiografico” dell’epopea delle guerre persiane (lasciando agli epigoni la storia della meno grande
età successiva), ma nel poter legare il proprio nome al “più memorabile” tra gli eventi umani conosciuti» (L. Canfora).
Lo scontro peloponnesiaco assume, per la sua importanza, valore emblematico. Non interessa solo i Greci, ma anche i barbari, anzi «la maggior parte degli uomini». Il valore emblematico – di cui lo storico ha lucida percezione – sta nella causa profonda che l’ha originato, non occasionale e superficiale o legata ad antefatti favolosi, ma conforme alla natura
umana: «La causa vera, ma taciuta … giudico sia il fatto che gli Ateniesi, divenuti sempre
più potenti e incutendo timore agli Spartani, obbligarono questi alla guerra» (I 23, 6). Il movente dello scontro sta in una legge umana, che ha applicazione universale: «È sempre
stata norma che il più debole soccombesse al più forte» (I 76, 2).
La ricerca della causa profonda implica la presa di distanza dagli storici precedenti, che
miravano al diletto degli ascoltatori, piuttosto che alla verità. Ma implica anche la selezione del pubblico, il quale dovrà rinunciare agli elementi favolosi e interessarsi solo alla
comprensione dei fatti. Lo sforzo nel seguire l’autore in tale ricerca sarà compensato dall’acquisizione, non effimera ma perenne (ktéma es aéi), di una chiave di lettura degli
eventi umani.
La mancanza del favoloso in questi fatti li farà apparire forse meno piacevoli all’ascolto, ma se quelli che vorranno investigare la realtà degli avvenimenti passati e di quelli futuri (i quali, secondo la natura umana saranno uguali o simili a
questi) considereranno utile la mia opera, tanto mi basta: essa è un possesso che
vale per sempre (ktéma es aéi), più che un mezzo di bravura destinato all’ascolto immediato.
Nella conoscenza delle leggi universali del comportamento umano, sempre uguali al variare delle epoche e dei popoli, consiste il «possesso per l’eternità» tucidideo. Si tratta di
un modello in grado d’interpretare gli eventi e predirne gli esiti probabili. Di qui il valore
educativo che una tale storiografia assume soprattutto per l’uomo politico, il quale nel costruire i propri progetti non potrà prescindere dai principi generali enucleati dalla riflessione tucididea.
Una storiografia che studia gli eventi in base a leggi universali del comportamento umano –
e non in base a un principio divino – è anche necessariamente laica e antropocentrica. Non
c’è più spazio per interpretazioni di tipo metafisico, per letture che esulino dall’ambito dell’uomo e della sua natura. Ogni principio divino è escluso e in ciò la visione tucididea segna
la distanza anche rispetto alla concezione erodotea. Tutti i residui della mitologia, della teologia e del misticismo che affioravano in Erodoto sono banditi.
La centralità dell’uomo non implica tuttavia la sua onnipotenza. Il successo dell’azione
umana trova precisi limiti nell’imponderabile, nella Tyche, che non è più come nella tragedia un principio metafisico, ma è, al pari dell’errore, un elemento costitutivo della natura e
del destino umano: «Per loro natura gli uomini … sono portati ad errare, e non c’è legge
che possa impedirglielo» (III 45, 3). Di qui anche i limiti della capacità previsionale delle
leggi enucleate dallo storico, che consentono di ipotizzare un esito probabile degli eventi,
ma non saprebbero con certezza predire il futuro.
La lettura degli indizi
La causa profonda
«Un possesso per sempre»
I 22, 4; trad. di F. Ferrari
L’umanizzazione della storia
La Tyche
117
118
La storiografia greca
Il metodo
L’uso delle fonti
La necessità di vagliare le testimonianze, spesso contraddittorie o difficilmente confrontabili per l’inevitabile soggettivismo, è quasi la stessa che avvertiva Erodoto:
I 22, 2-3;
trad di F. Ferrari
Gli eventi accaduti nel corso della guerra non ho considerato opportuno registrarli
informandomi dal primo che capitava, né come pareva a me, ma ho narrato quelli
a cui io stesso fui presente e quelli sui quali ho potuto informarmi da altri con la
massima esattezza possibile. Difficile era la ricerca, poiché coloro che avevano
partecipato ai fatti non dicevano tutti le stesse cose sugli stessi avvenimenti, ma li
riportavano in relazione alla loro personale simpatia per una delle due parti o alla
loro memoria.
I discorsi
L’evento storico viene indagato secondo una disposizione razionale e scientifica che ricerca i rapporti di causa ed effetto che operano nella storia. Si avverte nell’opera di Tucidide lo
sforzo di raggiungere un’obiettività in cui solo eccezionalmente traspaiono atteggiamenti di
simpatia, e una tensione nella selezione dei dati utili per raggiungere la verità che possiamo ricondurre all’ambiente ateniese, ricco di interessi scientifici (la medicina) e filosofici (la
Sofistica).
I discorsi in forma diretta sono numerosissimi e parrebbero contrastare con la professione
di esattezza e fedeltà alla verità dei fatti. Tucidide sostiene che, se anche non furono pronunciati nella forma in cui li riporta, i suoi discorsi sono verosimili, nel senso che è molto
probabile che, in quel contesto che egli ha minuziosamente ricostruito, venissero proferite
quelle parole.
I 22, 1; trad. di F. Ferrari
I discorsi che furono pronunciati prima o durante la guerra è difficile ricordarli
con esattezza, sia per me (quelli che io stesso ho sentito), sia per quelli che me li
hanno riferiti da altre fonti: ho scritto qui quello che a mio parere di volta in volta
è più verosimile che sia stato detto, tenendomi il più vicino possibile al senso generale dei discorsi effettivamente pronunciati.
Il probabile e il verisimile
Il discorso sul vero e sul verosimile ci conduce alla retorica, in particolare a quella giudiziale: «Lo storico, analogamente al retore, deve ricostruire lo svolgimento dei fatti sulla base
di testimonianze ed elementi di prova, che convalidino l’attendibilità della tesi esposta» (B.
Gentili).
Lo stile
Una storiografia che
presuppone la scrittura
Brevità e antitesi
La prosa di Tucidide – densa, irregolare e scabra – riflette la sua concezione drammatica
della storia. A volte appare intricata, «difficile», concentrata al limite dell’oscurità. Sebbene
sussistano alcuni degli elementi, che già abbiamo rilevato in Erodoto, della cultura orale (in
particolare i discorsi in forma diretta), tuttavia l’autore ha selezionato un pubblico non di uditori, ma di lettori. Questi potranno indugiare sulla pagina, ritornare sui punti precedenti, valutare i rapporti logici tra i vari blocchi del testo. Il metodo analitico e razionale di Tucidide non
sarebbe stato proponibile in una cultura orale come quella a cui prevalentemente si rivolgeva Erodoto (per il rapporto tra scrittura e analisi razionalistica dell’esperienza, vedi p. 111).
Il resoconto freddo e distaccato privilegia i contenuti ideologici, apparentemente a discapito
degli ornamenti formali. Tuttavia c’è un ampio uso di figure. In particolare abbondano la variatio e le dissimmetrie (anacoluti, costruzioni sintattiche che si accavallano, «inconcinnità»)
e soprattutto l’antitesi, assunta a principio dello stile tucidideo. Si tratta di procedimenti che,
insieme con la brevità e la tinta arcaica della lingua, avranno imitatori tra i latini, in particolare Sallustio. I livelli stilistici sono vari in rapporto agli argomenti trattati e in ossequio al
principio retorico della convenienza (prépon).
Le leggi dell’agire umano, I 76.
I moventi profondi, non occasionali o superficiali o mitici, del conflitto tra Spartani e Ateniesi sono chiariti con lucidità da questi ultimi
e ricondotti alle tre «leggi umane» seguenti: paura (déos), onore (timé), utilità (ophéleia). L’impero ateniese è giustificato in base al diritto naturale del più forte.
Eforo e Teopompo
76. «Voi, Spartani, esercitate la vostra egemonia sulle città del Peloponneso e le avete pure organizzate in vista dei vostri
interessi, e se perseverando nell’egemonia aveste incontrato l’ostilità che abbiamo avuto noi, sappiamo bene che non sareste stati meno duri verso i vostri alleati e sareste stati obbligati a governare con la forza, oppure a trovarvi voi stessi in
pericolo. Così anche noi non abbiamo fatto niente di straordinario né di strano per la natura dell’uomo se abbiamo accettato l’impero che ci è stato offerto e non l’abbiamo lasciato, per le tre massime ragioni: la paura, il senso dell’onore, il
profitto. Non siamo stati noi i primi a far questo: da sempre è invalso l’uso che il più debole sia sotto il controllo del più
forte. Noi ci riteniamo degni dell’impero, e ne eravate convinti fino ad ora anche voi, che adesso per il calcolo dei vostri
interessi usate il discorso della giustizia, il quale non ha mai impedito a nessuno, che avesse occasione di ottenere qualcosa con la forza, di perseguire questo risutato. È degno di lode chi, pur assecondando la natura umana nel suo desiderio
di dominio, esercita maggiore giustizia di quella che il suo potere gli consentirebbe. Crediamo che se altri prendessero il
nostro posto darebbero dimostrazione di quanto siamo moderati, mentre irragionevolmente da questo comportamento ci
è venuto più discredito che lode.
(trad. di G. Paduano)
La peste, II 52-54.
L’epidemia colpì Atene nel 431 a.C., fu contratta dallo stesso Tucidide, che riuscì a guarirne, e da Pericle che ne morì. La descrizione precisa e drammatica che ci ha lasciato lo storico ateniese costituirà il modello di ogni futura rappresentazione della peste nella
letteratura occidentale, da Lucrezio a Boccaccio, da Manzoni a Camus. In particolare Lucrezio avrà ben presente il brano che qui proponiamo nell’affresco apocalittico del finale del De rerum natura. «Il discorso tucidideo diventa prodigioso nell’individuazione delle
conseguenze in campo psicologico: sia di psicologia individuale, per cui possiamo ricordare … la passività e lo scoraggiamento che
più della debilitazione fisica incidono sulla mortalità; sia di psicologia sociale, per cui si impongono dei comportamenti che esautorano
di fatto il contratto sociale e le norme etico-religiose» (G. Paduano).
L’effetto più tremendo in tutta questa calamità era lo scoramento, quando ci si accorgeva di
essere colpiti (abbandonavano subito ogni speranza, si ritenevano senz’altro spacciati, e non
opponevano nessuna resistenza al male); e il fatto che, curandosi a vicenda, morivano di contagio, come avviene tra le bestie. Era appunto al contagio che si doveva la più intensa mortalità. Quelli che per paura evitavano i contatti morivano in solitudine (e molte famiglie furono
spazzate via perché nessuno volle far loro da infermiere). Quelli che non li evitavano vi rimettevano la vita: specie coloro che tenevano a mostrare una certa nobiltà di sentimenti.
Spronati dal senso dell’onore essi arrischiavano la propria esistenza visitando gli amici; mentre invece perfino i familiari alla fine oppressi ed esauriti dall’orrore del male, arrivavano a
trascurare anche le lamentazioni sui propri morti. A ogni modo maggiore pietà di questi familiari mostravano verso chi moriva e chi lottava col male coloro che ne erano scampati, per
l’esperienza fatta, e perché ormai si sentivano al sicuro. Giacché il male non tornava una seconda volta: o almeno non tornava con esito letale. Gli altri li consideravano felici: ed essi
stessi nell’esaltazione del momento si abbandonavano senza riflettere alla vaga speranza che
anche per l’avvenire nessun’altra malattia se li sarebbe mai più portati via.
Maggior tormento recava ora, in aggiunta all’epidemia, l’ammassarsi della popolazione dal
contado alla città; e più ne soffrivano i profughi. Non avevano case, vivevano in capanne soffocanti per la stagione, e la strage dilagava in cieco disordine. Giacevano alla rinfusa morti o
moribondi. Uomini semivivi si trascinavano per le strade e ovunque fossero fontane, divorati
dalla sete. I sacri recinti, ove i cittadini si erano accampati, erano pieni di cadaveri, poiché la
gente vi moriva dentro: la furia del male aveva travolto ogni argine, e gli uomini, in balia di
un destino ignoto, trascuravano con eguale indifferenza le leggi umane e le divine. Ogni consuetudine prima in onore per le sepolture era sconvolta; ognuno seppelliva come poteva. Molti ricorsero a funerali senza decoro, data la scarsezza del materiale necessario a causa dei molti morti che avevano già avuto. Mettevano i propri defunti sopra roghi altrui, che accendevano
prima che sopravvenissero i proprietari; altri gettavano il morto, che avevano portato, su di un
rogo, mentre un altro cadavere vi ardeva; e se n’andavano.
(trad. di P. Sgroi)
Busto di Pericle. Vaticano, Sala delle Muse.
Eforo e Teopompo
Eforo nacque a Cuma, in Asia eolica, nel 400 a.C. circa. Visse ad Atene dove con Teopompo fu allievo di Isocrate, il retore che teorizzava le virtù della parola scritta. Oltre a trattati retorici, scrisse una storia della Grecia in 29 libri che narrano gli avvenimenti dall’inva-
Eforo
119
120
La storiografia greca
Teopompo
sione dorica del Peloponneso al 340 a.C. e di cui restano solo frammenti. Si basò sull’opera degli autori precedenti (Erodoto, Tucidide) e fu ammirato da Polibio, che considerò la
compilazione di Eforo il primo tentativo di storia universale.
Nato a Chio nel 380 a.C. circa, allievo di Isocrate, visse alla corte di Filippo II e di Alessandro Magno. Oltre a scritti di carattere oratorio e a un’Epitome di Erodoto, compose due
opere storiche: le Elleniche in 12 libri, che continuavano la narrazione di Tucidide fino alla
battaglia navale di Cnido (394 a.C.), e le Filippiche in 58 libri, che trattavano la storia macedone dall’ascesa al trono di Filippo II (359) alla morte del sovrano (336 a.C.). Quest’opera
– la prima concentrata sui fatti di un singolo personaggio – rappresenta il superamento dell’ottica della polis. In essa infatti è centrale la Macedonia, mentre alla Grecia e alla Persia è
assegnato uno spazio marginale. La prosa di Teopompo si caratterizza per il vigore
espressivo, la compiaciuta presenza di moduli retorici isocratei assunti nell’intento di dilettare. Dell’intera produzione restano solo pochi frammenti.
Senofonte
La vita
L’esilio a Sparta
Le opere
Senofonte nacque ad Atene intorno al 430 a.C. Di famiglia benestante appartenente al ceto equestre, fu discepolo di Socrate, insieme con Platone, Alcibiade, Crizia. Forse per insofferenza verso il partito democratico e per evitare le conseguenze della propria adesione
alla dittatura filospartana dei Trenta Tiranni, nel 401 accolse l’invito a seguire i mercenari
greci arruolati da Ciro il Giovane in lotta col fratello Artaserse II, re di Persia. Senza essere
«né generale, né ufficiale, né soldato» (Anabasi III 1, 4), Senofonte probabilmente aveva ricevuto l’incarico di redigere un resoconto della spedizione, che si concluse con la sconfitta
di Ciro a Cunassa. I mercenari sopravvissuti, sbandati e dispersi, furono ricondotti da Senofonte stesso, eletto a loro guida, in Grecia e consegnati al generale spartano Tibrone.
Nel frattempo, a causa del filolaconismo, Senofonte era stato condannato all’esilio da Atene e aveva subito la confisca dei beni. Scelse Sparta come nuova patria, legandosi
d’amicizia ad Agesilao. Durante questo periodo, che durò vent’anni, soggiornò a Scillunte
presso Olimpia in un podere concessogli dagli Spartani, dedicandosi alla caccia, all’agricoltura e all’attività di scrittore. Quando, durante l’egemonia tebana, ci fu un riavvicinamento
tra Atene e Sparta, egli forse rientrò nella città natale. L’anno della morte non ci è noto, ma
è da collocare intorno al 350.
Senofonte ebbe molteplici interessi nati dalle varie esperienze di vita, e scrisse numerose
opere tradizionalmente raggruppate in tre gruppi:
• opere di carattere storico, politico, biografico: Anabasi, Elleniche, Costituzione degli
Spartani, Agesilao, Ierone, Ciropedia;
• opere socratiche, cioè incentrate sulla figura di Socrate: Apologia di Socrate, Memorabili di Socrate (quattro libri di dialoghi e scritti socratici), Simposio (sulla natura dell’amore), Economico (dialogo tra Socrate e il giovane Critobulo, nel quale si tratta dell’amministrazione della casa, del metodo per la lavorazione dei campi, dei rapporti con i subordinati, dei rapporti con la moglie);
• opere di carattere tecnico-didascalico: Trattato sull’equitazione, Ipparchico, Cinegetico
(che riguarda la caccia vista come contributo alla formazione del carattere), Poroi.
Ci occuperemo solo delle opere appartenenti al primo gruppo.
L’Anabasi
Un genere incerto
L’Anabasi in sette libri narra la spedizione di Ciro il Giovane contro Artaserse II. L’opera
racconta nel primo libro la «marcia verso l’interno» (l’anàbasis, appunto) dei Greci; negli altri sei, descrive la battaglia di Cunassa sfavorevole a Ciro, la sua morte, l’imboscata del satrapo Tissaferne e l’uccisione dei capi greci, la ritirata e il difficile rientro in patria (la katàbasis) dei Diecimila guidati da Senofonte stesso, attraverso terre sterminate e ignote. La colo-
Senofonte
ritura autocelebrativa – male dissimulata dall’uso della terza persona (l’autore si cela sotto
lo pseudonimo di Temistogene di Siracusa) – e la struttura diaristica rendono incerta
l’attribuzione dell’opera al genere storiografico. L’assenza di un’indagine approfondita delle
cause degli eventi narrati, l’interesse quasi solo cronachistico o rivolto ai dettagli tecnici, la
prevalenza dell’informazione sulla riflessione segnano un netto regresso rispetto alla visione tucididea.
Non riconducibile a un preciso modello letterario, l’Anabasi è il primo diario di guerra della
letteratura occidentale, come scrive Italo Calvino: «È il memoriale tecnico di un ufficiale, un
giornale di viaggio con tutte le distanze e i punti di riferimento geografici e notizie sulle risorse vegetali e animali. E una rassegna di problemi diplomatici, logistici, strategici e delle
rispettive soluzioni … Come scrittore d’azione Senofonte è esemplare … Quello che conta
è la successione continua di particolari visivi e di azione».
L’Anabasi è anche un’autobiografia con intenti apologetici, nella quale l’autore difende le
proprie decisioni, riportando i discorsi da lui pronunciati e sottolineando il ruolo decisivo giocato dai suoi interventi in seno all’esercito, che lo segue e lo ammira con totale fiducia. Il
resoconto fatto in terza persona, come da un estraneo, non basta a impedire che l’autore –
con la sua forza d’animo, astuzia, eloquenza – risulti il vero centro della narrazione. Per il
tono soggettivo e apologetico l’Anabasi può essere confrontata ai Commentari della Guerra
Gallica di Cesare.
L’Anabasi è infine il racconto meticoloso di un viaggio in un contesto etnografico e geografico remoto, favoloso, esotico. È una storia di avventure, di cui alcuni elementi anticipano le
rocambolesche peripezie del romanzo ellenistico e le gesta di Alessandro Magno.
Avvicinano l’autore al mondo ellenistico il brillante eclettismo e l’attitudine giornalistica a
scrivere di tutto, la scarsa simpatia per la democrazia e la propensione per le monarchie
orientali, la concezione cosmopolitica che lo porta a mutare patria senza troppi traumi, la
passione per i viaggi e lo spirito d’avventura. A confermare quest’ultimo tratto della personalità di Senofonte sta il fatto che, quando finalmente giunge con i Diecimila in vista del
Mar Nero, proprio di fronte alla Grecia, dopo un moto di commozione che percorre tutta la
truppa («il mare, il mare!», IV 7, 24), egli non mostra alcuna intenzione di tornare in patria e
prolunga la spedizione mettendo i suoi mercenari al servizio di rissosi principi traci. Senofonte, al pari del contemporaneo Alcibiade – entrambi non esitano a porsi al servizio dei
nemici della patria, perfino dei «barbari» –, fa presentire la crisi della polis e il cosmopolitismo che sarà dei tempi nuovi. Anche nell’incerta definizione del genere letterario – biografia, trattato tecnico, romanzo memorialistico – egli anticipa l’ellenismo.
Un diario di guerra
Un’autobiografia
Un racconto di viaggi
Un precursore
dell’ellenismo
Le restanti opere di carattere storico
Le Elleniche, che recano il sottotitolo Aggiunte alla storia di Tucidide, narrano in sette libri
gli eventi della storia greca dal punto in cui s’interrompe l’opera di Tucidide, cioè dal 410
a.C., alla battaglia di Mantinea (362 a.C.) che conclude con la morte di Epaminonda
l’effimera supremazia tebana. Il fatto che il primo libro e parte del secondo rivelino tratti stilistici tucididei (esposizione fredda e impersonale, ordinamento annalistico dei fatti), mentre
il resto del racconto conserva la consueta impostazione diaristica, ha fatto pensare che almeno la parte iniziale dell’opera (fino al governo dei Trenta) appartenesse a Tucidide. Confermerebbe la tesi di una redazione a due mani l’incipit brusco delle Elleniche, senza un’introduzione: «Dopo questi avvenimenti, passati non molti giorni, giunse Timocare da Atene
con poche navi …». Tranne la sezione iniziale l’opera è, come l’Anabasi, fortemente autobiografica e varia nei contenuti, fondendo personali esperienze dell’autore, storia politica,
digressioni sull’arte della guerra e considerazioni sui regimi autocratici esemplificati in figure tipiche di tiranni.
L’Agesilao è una biografia encomiastica del re spartano ammirato da Senofonte. In essa
sono descritte le imprese e le virtù del personaggio, per il quale l’autore nutriva sincera stima e amicizia ed al cui seguito rimase per parecchi anni. Il Ierone è una specie di trattato
Le Elleniche
Agesilao e Ierone
121
122
La storiografia greca
Costituzione degli Spartani
Ciropedia
encomiastico nel quale il tiranno siracusano e il poeta Simonide discutono in utramque partem, cioè sui pro e sui contro della tirannide analizzando le differenze tra la condizione del
privato cittadino e del tiranno, concludendo che è preferibile la prima. Tuttavia anche il tiranno può essere felice, se è giusto e saggio, sollecito del bene dei cittadini.
L’opera esalta la costituzione spartana e la ferrea disciplina istituita da Licurgo come la perfetta antitesi della democrazia e individua nella corruzione dei costumi che cominciava ad
affliggere anche Sparta la causa della decadenza della città.
La Ciropedia, o Educazione di Ciro, in otto libri, è la biografia di Ciro il Vecchio, fondatore
dell’impero persiano. Anche in questo caso non si tratta di una vera opera storica, bensì di
una biografia romanzata o «pseudo-biografia pedagogica» (A. Momigliano), che anticipa
temi del romanzo ellenistico, ma anche del moderno «romanzo di formazione» europeo. In
particolare la storia d’amore di Pantea ed Abradata (libro V, VI), due figure eroiche nell’amore e nella lealtà fino all’estremo sacrificio, è la prima novella della letteratura occidentale. Nella Ciropedia si parla dell’educazione, della formazione, delle conquiste del re, la cui
figura idealizzata rappresenta il prototipo del monarca illuminato, dell’optimus princeps modello di ogni virtù e grandezza morale. Ciro, che insegnava ai suoi soldati che lasciare dopo un saccheggio qualcosa ai vinti era un segno di umanità (philantropia) è un esempio di
humanitas anche per il mondo romano. Che tale esemplarità s’incarni in un sovrano «barbaro» è un altro segno dei tempi, prossimi alla visione cosmopolitica dell’ellenismo: «Il passato eroico non è più quello nazionale, ma quello straniero, barbarico. Il mondo si è ormai
aperto; il mondo monolitico e chiuso dei propri (come era nell’epopea) è sostituito dal grande e aperto mondo e dei propri e degli altri»1.
1. M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1975, p. 470.
Lo stile
Senofonte fu giudicato fin dall’antichità scrittore gradevole, limpido ed elegante. Non vero
storico ma piuttosto poligrafo, fornito di straordinaria capacità di assimilazione piuttosto che
di originalità di pensiero, egli «guarda di fuori» (Cantarella), narra episodi e avvenimenti
con ordine e chiarezza. Calvino scrive che da Senofonte si cita male, perché «quello che
conta è la successione continua di particolari visivi e d’azione». Sebbene sia stato additato
come modello di perfezione e purezza attica e sia divenuto il modello per i puristi atticizzanti, in realtà i contatti anche prolungati con diversi ambiti linguistici e la frequentazione di
letterature non attiche conferiscono alla sua lingua e al suo stile caratteri di varietà che preludono alla koinè linguistica d’età ellenistica.
Un documentario di guerra, Anabasi IV 5, 3-14.
Riportiamo il passo dell’Anabasi che Calvino considera l’archetipo del diario di guerra, confrontabile ai libri di memorie sulla ritirata di
Russia degli alpini italiani, come Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, un romanzo che già Elio Vittorini ebbe a definire come
«piccola Anabasi dialettale». Qui i mercenari, durante il difficile ritorno, si confrontano con i rischi e i disagi del gelo avvalorando il richiamo alla memorialistica della ritirata di Russia e al ridimensionamento dell’ideale eroico del soldato attraverso la descrizione delle
sofferenze patite e la difesa del principio di conservazione e dell’interesse egoistico. A Calvino il brano fa pensare a «un vecchio documentario di guerra, col fascino del bianco e nero della pellicola un po’ sbiadita, con crudi contrasti d’ombre e movimenti accelerati».
3. Di qui percorsero, attraverso un territorio pianeggiante e un’alta coltre di neve, tre tappe per cinque parasanghe. Il terzo giorno di marcia fu particolarmente sofferto: la tramontana soffiava in fronte bruciando completamente ogni cosa e
intirizzendo le persone. 4. Allora un indovino suggerì di offrire un sacrificio al vento, e così fu fatto: e tutti poterono
constatare come d’improvviso scemò l’intensità delle raffiche. Quanto alla neve, era alta un braccio, per cui molti animali e molti servi, nonché una trentina di soldati, persero la vita. 5. Si trascorreva la notte tenendo acceso il fuoco. Nelle
soste di tappa si trovava sempre molta legna e nondimeno gli ultimi arrivati ne rimanevano privi. Chi arrivava per primo
e accendeva il fuoco non permetteva a chi arrivava dopo di accostarsi alla vampa, a meno che dessero in cambio del frumento o qualche altro bene commestibile. 6. Così barattavano le sostanze di cui volta a volta disponevano. Dove si accendeva il fuoco la neve fondeva e si aprivano grosse cavità fino al suolo, attraverso le quali era possibile misurare la
profondità della neve.
Polibio
7. Di qui per tutto il giorno seguente marciarono in mezzo alla neve, e molti uomini furono colti da una fame divorante. Senofonte, che guidava la retroguardia e incappava negli uomini che via via stramazzavano al suolo, non riusciva a
rendersi conto di che cosa soffrissero. 8. Ma quando un tale, che aveva esperienza della cosa, gli disse che si trattava
palesemente di bulimia e che sarebbe bastato che ingurgitassero qualcosa per rialzarsi prontamente in piedi, ispezionò
le salmerie per vedere di trovare da qualche parte delle cibarie e ne distribuì personalmente o ne fece distribuire da chi
era in grado di muoversi tra gli affamati. E bastava un boccone perché si rialzassero e riprendessero la marcia. 9. All’imbrunire Chirisofo arrivò a un villaggio, dove trovò, davanti al muro di protezione, delle donne e delle ragazze che
erano uscite per andare ad attingere acqua alla fonte. 10. Esse chiesero loro chi fossero: in persiano l’interprete rispose
dicendo che erano truppe che il re aveva inviato al satrapo. E le donne replicarono: «Il satrapo non è qui: si trova a circa una parasanga da qui». Ma visto che ormai si era fatto troppo tardi, essi penetrarono oltre il muro seguendo le donne con le brocche e si diressero verso il capo del villaggio. 11. Così Chirosofo e quanti dell’esercito avevano avuto la
forza di arrivare fin lì vi si accamparono, mentre gli altri soldati che non erano riusciti a completare la marcia trascorsero la notte senza cibo e senza fuoco. E alcuni soldati morirono. 12. Gruppi compatti di nemici incalzavano alle spalle e catturavano le bestie che stentavano a proseguire, contendendosene il possesso. E furono abbandonati sul posto i
soldati che avevano perso la vista per il bagliore della neve e quelli a cui per il gelo si erano incancrenite le dita dei
piedi. 13. Si proteggevano gli occhi dalla neve fasciandoli con una pezza nera durante la marcia; si difendevano i piedi
muovendosi continuamente senza mai fermarsi e sciogliendo i calzari durante la notte. 14. Se dormivano calzati, i legacci penetravano nella carne dei piedi e le suole si congelavano. Del resto, dato che ormai avevano dovuto abbandonare le vecchie calzature, si trattava di sandali rimediati alla meglio con suole ricavate da buoi appena scuoiati.
(trad. di F. Ferrari)
La storiografia nell’età ellenistica
Verso la fine del IV secolo a.C. s’intensifica l’interesse per il genere storiografico, e si assiste a un pullulare di storici, memorialisti, scrittori di cronache, per lo più mediocri e incapaci
di avvicinarsi alla profondità analitica di Tucidide. Da questo essi si allontanavano anche
per la predilezione della ricerca psicagogica propria dell’indirizzo mimetico e teatrale. Quasi interamente perduta è la vasta produzione dei cosiddetti «storici di Alessandro», il sovrano che inaugurò l’usanza di condurre al proprio seguito un manipolo di scrittori che narrassero le proprie gesta. Tra questi si distinguono Callistene di Olinto (370-327), autore di dieci libri di Elleniche delle Gesta di Alessandro, e Clitarco, la cui opera sarà alla base delle
Storie di Alessandro Magno di Curzio Rufo. Di Duride di Samo (340-270 a.C.), autore di
una Storia Macedonica, abbiamo già avuto occasione di parlare come del campione della
storiografia mimetica, improntata alla ricerca del diletto e in grado di emozionare il destinatario. Contemporaneo di questi storici è il siciliano Timeo (346-250 a.C.) di Tauromenio
(Taormina), le cui Storie dell’Occidente greco andavano dalle origini mitiche alla prima
guerra punica (264 a.C.) e segnavano l’ingresso di Roma nella storiografia greca. Il solo
storico di spicco di questo arco temporale è Polibio di Megalopoli.
Polibio
Polibio nacque a Megalopoli in Arcadia alla fine del III secolo a.C. Il padre, stratego della
Lega Achea, assicurò al figlio una formazione culturale e tecnica (soprattutto militare) di largo respiro. Ben presto anche Polibio ebbe incarichi importanti nella Lega, partecipò a spedizioni in Messenia e in Egitto.
Dopo la vittoria romana sulla Macedonia a Pidna (168 a.C.), Polibio fu deportato a Roma
con altri ostaggi accusati dal partito filoromano di ostilità verso i nuovi padroni. Ebbe fortuna e fu destinato alla casa del console L. Emilio Paolo, animatore del famoso «circolo» filellenico degli Scipioni. Nella casa del vincitore di Pidna, ebbe l’incarico di occuparsi dell’educazione dei figli, Scipione Emiliano e Quinto Fabio Massimo. Con questi strinse profondi
legami d’amicizia, accompagnando Scipione in varie spedizioni militari; in particolare partecipò alla terza guerra punica, assistette alla distruzione di Cartagine (146 a.C.) e alla presa
di Numanzia (134-132 a.C.).
La vita
Il «circolo» degli Scipioni
123
124
La storiografia greca
L’ammirazione per Roma
Roma divenne per Polibio la nuova patria e l’irresistibile ascesa di questa città fu l’oggetto
della sua attività di storico. Traspare ovunque nelle Storie l’ammirazione per Roma, come
in questo passo in cui la potenza romana è posta a confronto con i grandi ma effimeri imperi precedenti:
I 2; trad. di C. Schick
Quanto l’argomento della nostra trattazione sia grande e meraviglioso, apparirà
soprattutto evidente se con cura paragoneremo i più illustri imperi precedenti, le
cui vicende gli storici hanno più diffusamente trattato, alla dominazione romana.
Tra i più degni di essere messi a confronto con Roma, i Persiani in determinate
circostanze riuscirono a conquistarla, ma la conservarono intatta per soli dodici
anni. I Macedoni signoreggiarono sull’Europa dalle coste dell’Adriatico al fiume
Istro, ma aggiunsero poi a questo il dominio dell’Asia, dopo avere abbattuta la potenza persiana. Benché possa sembrare che questi popoli abbiano conquistato vasti
territori e grande potere, essi lasciarono tuttavia ad altri il predominio su gran parte della terra abitata: neppure una volta aspirarono, infatti, alla conquista della Sicilia, della Sardegna, dell’Africa settentrionale, né conobbero le più bellicose popolazioni dell’Europa occidentale. I Romani invece assoggettarono quasi tutta la
terra abitata e instaurarono una supremazia irresistibile per i contemporanei, insuperabile per i posteri.
Gli ultimi anni
Polibio ritornò in Grecia, dopo la dissoluzione della lega Achea, come mediatore tra vincitori e vinti e partecipò alla spedizione di Scipione contro la città iberica di Numanzia. La morte lo colse, a ottantadue anni, in seguito a una caduta da cavallo nel 124 a.C.
Restano i libri I-V delle Storie che, in 40 libri, trattavano gli avvenimenti della storia romana
dall’inizio della prima guerra punica (264 a.C.) al 144 a.C. Dei libri mancanti rimangono ampi estratti, provenienti da antiche antologie dell’opera o citati da altri autori.
Comprendono una sintesi degli avvenimenti degli anni 264-220 a.C. e si collegano alla Storia di Timeo di Tauromenio, che aveva trattato questioni inerenti la sua isola, la Sicilia.
Trattano gli avvenimenti di Grecia e le vicende della guerra punica fino alla battaglia di
Canne (216 a.C.).
Nel Libro VI la narrazione s’interrompeva per lasciare il posto alla teoria delle costituzioni,
con particolare riguardo per quella romana, di cui è celebrata la superiorità. Dal libro VII in
poi erano narrati, secondo uno schema annalistico, gli avvenimenti in oriente e in occidente fino all’anno 144. Il XII conteneva la polemica contro gli storici precedenti, soprattutto Timeo. L’opera terminava con un riassunto conclusivo degli avvenimenti trattati e un quadro
generale. La divisione cronologica era in base alle Olimpiadi.
Delle opere minori ricordiamo la Vita di Filopemene, la Guerra di Numanzia, un trattato Sulla tattica, Sulla abitabilità della zona equatoriale, tutte perdute.
Le opere
Libri I e II
Libri III, IV, V
Le Storie
La storiografia pragmatica
La storia deve essere «pragmatica» nel senso che deve poggiare su dati di fatto (pràgmata), sulla realtà oggettiva. Una storiografia pragmatica non deve basarsi su minuzie erudite
di tipo antiquario (fondazioni, genealogie, ecc.) o curiosità peregrine, ma su avvenimenti
politici e militari dei quali si sia accertata la consistenza reale. Infatti scopo precipuo della
storia è la conoscenza della verità. La storia non ha per oggetto il diletto ma l’utile, e questo
s’identifica, come anche per Tucidide, nell’ammaestramento che ci viene dal confronto con
l’esperienza compiuta da altri uomini:
I 1; trad. di C. Schick
Non soltanto alcuni storici incidentalmente, ma tutti senza distinzione, con tale
elogio [della storiografia] hanno dato inizio e posto termine alle loro opere, dichiarando lo studio della storia la migliore palestra e preparazione all’attività politica e
il ricordo delle peripezie altrui il solo e più efficace incitamento a sopportare con
fortezza i rivolgimenti della sorte: è evidente quindi che a nessuno, e meno che
agli altri a noi, sembrerebbe opportuno ripetersi intorno a un argomento già trattato a fondo da molti altri.
L’utilità della storia è conseguente alla sua capacità di accertare le cause, laddove la sola
enunciazione dei fatti può al massimo avere un effetto psicagogico: «La pura e semplice
Polibio
esposizione di ciò che è accaduto può eccitare il sentimento (psychagogéi), ma non reca
alcun frutto; aggiungi la causa, e la confidenza con la materia della storia si fa immediatamente più utile» (XII 25b, 2).
Si può parlare di historia magistra vitae sia nel senso della formazione culturale del cittadino, sia nella prospettiva ancora più utilitaristica dell’acquisizione di un potente strumento
per orientarsi nella vita politica e prevedere gli eventi futuri: «Si può, sulla base di quanto è
già successo, fare previsioni certe sul futuro» (VI 3). In particolare la tesaurizzazione delle
altrui esperienze dolorose risulta proficua, consentendo di acquisire un insegnamento senza ricevere i danni:
Historia magistra vitae
Io ho voluto ricordare queste vicende proprio in grazia degli insegnamenti che i
lettori ne possono ricavare: per due vie infatti gli uomini possono divenire migliori: mediante le disgrazie proprie e mediante quelle degli altri: la prima è senz’altro
più efficace, ma la seconda è di gran lunga meno dolorosa. Mai si deve spontaneamente ricorrere a quella per trarne ammaestramento a prezzo di grandi travagli e
pericoli, mentre sempre si deve ricercare l’altro mezzo, che senza danno alcuno insegna a distinguere il partito migliore. Concludendo, la migliore preparazione al
vivere rettamente è l’esperienza che si ricava dalla storia delle vicende vissute: solo questa infatti può, senza pericolo di danno, rendere sicuri giudici del partito preferibile in ogni occasione o circostanza.
I 35; trad. di C. Schick
Una storiografia pragmatica e che mira all’ammaestramento dell’uomo politico e del cittadino non può che affermare il primato dell’utile (ophélimon) sul diletto (térpsis). Tuttavia la
presenza del diletto, respinta in linea di principio, è garantita dall’importanza delle vicende
narrate, che proprio per la loro rilevanza storica hanno in sé anche la capacità di attrarre il
lettore.
Diletto o utile?
Del resto il carattere meraviglioso delle vicende delle quali abbiamo intrapreso a
narrare, è di per sé tale da indurre e incoraggiare tutti, e giovani e vecchi, a interessarsi a questo nostro lavoro. Chi infatti può essere tanto stolto o pigro da non
sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in meno di 53 anni – fatto senza precedenti nella storia – abbiano conquistato quasi tutta la terra abitata, o chi ancora potrebbe essere tanto appassionato ad altra forma di
studio o spettacolo, da considerarlo preferibile alla ricerca storica?
I 1;
trad. di C. Schick
La polemica di Polibio era nei confronti della storiografia mimetica (vedi pag. 111) e contro
l’indirizzo isocrateo, rappresentato da Eforo e Teopompo, che aveva privilegiato gli argomenti di tipo etnografico e antropologico (tradizioni mitiche, fondazioni di città e colonie,
storie di famiglie, excursus sulla geografia e i costumi dei popoli):
Contro la storiografia
mimetica
Quasi tutti gli altri scrittori … attraggono molti alla loro opera. Infatti il discorso
sulle genealogie attira chi ascolta per il puro piacere di ascoltare; chi ama possedere una molteplicità di conoscenze e notizie erudite è attratto dai racconti sulle colonie, le fondazioni … come si legge anche in Eforo. Il politico volge il suo interesse alle vicende dei popoli, delle città e di chi le governa. Questo è il solo argomento che noi abbiamo affrontato e solo ad esso abbiamo dedicato la nostra trattazione … preparando per la maggior parte degli ascoltatori una lettura priva di ogni
fine psicagogico.
Proemio libro IX;
trad. di B. Gentili
La storia assolve alla finalità formativa suddetta solo a patto che si indaghino le cause di ciò
che è realmente accaduto con metodo rigoroso, atto ad individuare la realtà oggettiva. Tale
metodo comporta un’indagine scientifica condotta sulle fonti scritte e sulle informazioni topografiche e geografiche controllate personalmente (visitando i luoghi teatro degli eventi) e la
sicura competenza di problemi politici e militari. Fondamentale è la distinzione di Polibio tra
causa vera (aitìa), causa apparente (pròfasis), inizio degli avvenimenti (arché).
Il metodo
Ma vi sono uomini che non vedono quanto il principio dei fatti è diverso dalle
cause che li determinarono, e quanto siano tra loro lontani i motivi veri e i pretesti
occasionali e come i motivi veri sono alle origini prima dei fatti, mentre il principio è quello che si verifica per ultimo. In generale io dico che sono «princìpi» i
primi attacchi e le prime forme di attuazione di cose già stabilite; «cause» invece
III 6, 6-7;
trad. di F. Brindesi
125
126
La storiografia greca
io chiamo quelle che sono dietro le decisioni e le deliberazioni. Intendo riferirmi
alle riflessioni, agli stati d’animo, alle considerazioni relative ai deliberati che si
prendono, attraverso i quali arriviamo alle risoluzioni che ci proponiamo.
La storia universale
Violenta è la critica, in una digressione metodologica contenuta nel libro XII, nei confronti
degli storici precedenti tacciati d’incompetenza e superficialità. In particolare è contro Timeo che Polibio rivolge i suoi strali.
La storia concepita da Polibio è inoltre universale, cioè quella che trova la sua unità nell’intreccio non occasionale delle vicende, che non si limita a esporre un fatto isolato o un
evento marginale, ma collega gli avvenimenti in una visione generale e organica, in cui tutti abbiano un centro generativo. Nel caso della storia recente questo centro è Roma, la sua
rapida ascesa nel Mediterraneo, la sua azione catalizzatrice e unificatrice del mondo conosciuto. A partire dalla vittoria su Annibale, lo spirito di conquista romano unifica il mondo
mediterraneo e ne rende la storia intimamente unitaria. In particolare le vicende dal 264 al
220 a.C. sembrano appartenere a un disegno coerente (somatoeidés) teso a un solo obiettivo, il governo di Roma. «Un siffatto impianto – questo sì davvero “universale” – supera
l’aporia insita in un racconto continuo che, come quella di Eforo, rischia continuamente di
frantumarsi in monografie, e al tempo stesso dà un senso alla successione narrativa, giacché il “prima” e il “poi” non si presentano più nella casuale e falsa successione dovuta alla
mera trascrizione degli eventi»1.
I 4; trad. di B. Brindesi
Ma ciò che è proprio della nostra storia ed è novità assoluta dei nostri tempi è questo: come la fortuna volse in una sola direzione tutti gli eventi del mondo allora
abitato e li costrinse tutti a piegare verso un unico obiettivo, così sarà necessario
presentare al lettore in un unico quadro di insieme le vie di cui la fortuna si servì
per il compimento della sua opera. Proprio questo mi ha incitato e spinto alla composizione di questa storia, e inoltre la constatazione che nessuno, ai nostri tempi,
ha posto mano a scrivere una storia universale: altrimenti non mi sarei sobbarcato
a questa impresa. Ma vedendo che anche più d’uno ha trattato le singole guerre e
alcuni avvenimenti particolari ad esse contemporanei, e che nessuno, a quanto almeno mi risulta, pensò neppure di indagare, nel complesso, l’insieme dei fatti e
quando e da che cosa quei fatti ebbero origine e come si conclusero, ho ritenuto
assolutamente necessario non traslasciare né permettere che passasse inosservata
l’opera più bella e più utile della fortuna.
La teoria dei cicli
Nel VI libro, in cui sono studiate le costituzioni con le quali gli stati si reggono, Polibio enuncia sulle orme di Platone e Aristotele la cosiddetta «anaciclosi», cioè la teoria del ritorno ciclico delle forme di governo. Ci sono tre forme di governo positive che sono la monarchia,
l’aristocrazia e la democrazia a cui si oppongono le corrispondenti tre forme degenerate: la
tirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia o potere delle masse. Alle prime seguono inevitabilmente le altre secondo un ciclo discendente a cui non può sottrarsi nemmeno la costituzione
romana, che pure a Polibio sembra perfetta, in quanto in essa coesistono la monarchia (i
consoli), l’aristocrazia (il senato), la democrazia (i comitia del popolo).
Legato a una visione laica della storia, Polibio nega che le divinità tradizionali abbiano un
peso negli eventi umani, le cui cause vanno ricercate unicamente in fatti concreti come le
condizioni geografiche, la situazione politica e militare, la ricerca dell’utile. Nondimeno è ripetutamente menzionata la Tyche, la forza irrazionale del caso ora provvidenziale ora ostile, personificazione dell’imponderabile e dei limiti dell’umana capacità di comprensione dei
fatti storici. Il ricorso alla Tyche è, in taluni casi, la sola spiegazione dell’avvicendarsi insensato di imperi e di egemonie, dei bruschi capovolgimenti di fortuna, dei crolli imprevedibili
come quello dell’impero persiano. «Chi avrebbe potuto prevedere cinquant’anni fa, e anticipare ai Greci e ai Persiani che l’impero persiano sarebbe scomparso e che i Macedoni
avrebbero regnato al loro posto?»: con queste parole, tratte dal trattato Perì tyches di Demetrio Falereo, Polibio commenta la fine di Perseo di Macedonia.
La Tyche
1. L. Canfora, Polibio, in «Lo spazio letterario della Grecia antica», Salerno, Roma 1993.
Plutarco
Nella visione pragmatica e utilitaristica di Polibio, è positiva la considerazione dell’impiego
della religione a Roma, intesa come instrumentum regni, cioè come mezzo di potere e fattore di coesione politica:
La religione
Ciò che presso gli altri popoli è oggetto di biasimo, cioè lo scrupolo religioso,
mantiene la coesione dello stato romano. Questo elemento è stato introdotto in
ogni aspetto della vita privata e pubblica dei Romani, con ogni espediente per impressionare paurosamente l’immaginazione, ad un punto oltre il quale non si potrebbe andare. Ciò potrebbe apparire stupefacente a molti. Ma a mio modo di vedere i Romani hanno fatto ciò per impressionare le masse. Se fosse possibile formare uno stato di soli uomini saggi, forse non sarebbe necessario ricorrere a questo mezzo; ma, data la leggerezza, l’avidità sfrenata, la collera irragionevole e le
passioni violente delle masse, non rimane che tenerle a freno coi terrori dell’invisibile o con altre imposture dello stesso tipo. Perciò gli antichi non a torto, ma secondo un preciso proposito, hanno inculcato nelle masse le nozioni relative agli
dei e le credenze sulla vita dell’aldilà. Sciocchi i moderni che cercano di disperdere queste illusioni!
VI 56; trad. di L. Canfora
La lingua delle Storie è quella fredda e volutamente arida dei documenti ufficiali, priva di ornamenti retorici, ricca di lessico tecnico impiegato con precisione e competenza. Lo stile è
conseguentemente «cancelleresco», formale, astratto. Il periodo risulta complesso, denso
di concetti, ricco di perifrasi e, a tratti, faticoso. Non è tuttavia nella ricercatezza dello stile
che troviamo la grandezza di Polibio, che è un sostenitore della concezione pragmatica
della storia, che risulta fondata cioè sull’analisi dei fatti politici e militari senza digressioni
narrative.
Lingue e stile
Il pianto di Scipione su Cartagine distutta, XXVIII 22.
Riportiamo uno dei rari passi in cui la prosa, sempre un po’ fredda e incolore delle Storie si anima, arricchendosi di elementi patetici
normalmente banditi dalla scrittura polibiana e cari invece alla storiografia «tragica».
Scipione, vedendo ridotta ormai all’estrema rovina la città di Cartagine, pianse apertamente, si dice, per i nemici. A lungo egli rimase meditabondo, considerando come la sorte di città, popoli, domíni, varii come il destino degli uomini: ciò
era accaduto ad Ilio, città una volta potente, era accaduto ai regni degli Assiri, dei Medi e dei Persiani, che erano stati
grandissimi ai loro tempi, e recentemente al regno macedone. Infine sia volontariamente, sia che tali parole gli siano
sfuggite, esclamò: «Verrà giorno che il sacro iliaco muro / e Priamo e tutta la sua gente cada».
Polibio, che gli era stato maestro e gli poteva parlare liberamente, gli chiese che cosa egli volesse significare con queste
parole e allora Scipione senza reticenza nominò la patria, per la quale temeva considerando la sorte degli uomini. Ciò riferisce Polibio, avendolo udito con le sue orecchie.
(trad. di C. Schick)
Plutarco
Per motivi di economia espositiva trattiamo in questo capitolo anche la figura di Plutarco,
sebbene sia vissuto due secoli dopo Polibio e pertanto rispecchi una concezione storiografica assai distante da quella degli storici greci sin qui considerati.
Nacque intorno al 45 d.C. a Cheronea in Beozia da famiglia benestante; studiò ad Atene
alla scuola del filosofo platonico Ammonio, curando la matematica, le scienze, la retorica
e la filosofia. Viaggiò in Egitto, in Asia, a Roma e nell’Italia Meridionale, ma trascorse la
gran parte della vita a Cheronea che, ironicamente, diceva di non volere rendere più piccola con la propria lontananza e dove esercitò i più alti uffici. Fece parte del collegio sacerdotale del santuario di Delfi. Acquistata la cittadinanza romana, ricoprì alte cariche
onorifiche sotto Traiano e Adriano. È singolare che i contemporanei Plinio il Giovane e
Tacito non facciano menzione di lui. A Cheronea aprì una scuola, secondo l’esempio
platonico, nella quale provvedeva all’istruzione dei figli e di pochi discepoli. In essa si celebravano come festività i giorni natali di Socrate e Platone. Morì a Cheronea intorno al
125 d.C.
La vita
127
128
La storiografia greca
Le opere
Plutarco fu scrittore assai produttivo. Un catalogo antico gli attribuisce ben 227 opere, di
cui soltanto 83 sono conservate in due grandi sezioni:
• le opere morali, note come Moralia a partire dal Medioevo,
• le Vite parallele, 22 coppie di Vite, 19 di esse con l’aggiunta del confronto (sýnkrisis), e
quattro Vite singole.
I Moralia
Scritti pedagogici e politici
Le opere religiose
Scritti vari
Una miniera di citazioni
In questo raggruppamento sono contenuti scritti filosofici, pedagogici, teologici, retorici,
scientifici e letterari, accanto ad opere di contenuto etico che in forma di dialogo o di diatriba – genere tipico del trattato filosofico-morale a scopo di divulgazione popolare – sviluppano argomenti di filosofia spicciola o forniscono precetti di vita quotidiana.
In questo repertorio del sapere antico hanno uno spazio rilevante gli scritti che vertono su
problemi dell’educazione e della vita politica. Ecco alcuni titoli: Come i giovani devono leggere i poeti, Precetti politici, Se gli anziani debbano fare politica, ecc. Gli scritti sull’educazione, che influenzarono la pedagogia cristiana e quella umanistica, affrontano le questioni
non da un punto di vista teorico, ma come guida per una condotta etica corretta. Anche gli
scritti politici sono veri e propri manuali indicanti i mezzi adeguati per conseguire determinati obiettivi nella concreta pratica della vita cittadina.
Un gruppo a parte sono le opere di carattere religioso, legate anche alla funzione sacerdotale svolta dall’autore, che nel 95 d.C. ricoprì il più alto grado nella gerarchia dei sacerdoti
di Delfi. Ecco alcuni titoli: Sugli indugi della giustizia divina (che spiega l’enigma della prosperità dei malvagi), Sulla lettera E in Delfi, cioè sulla lettera E incisa sul tempio di Apollo,
per la quale l’autore propone un’interpretazione pitagorica.
Ci sono poi le opere filosofiche, nelle quali l’autore espone il proprio punto di vista, fondamentalmente platonico, moderatamente aperto allo stoicismo (Sulla tranquillità interiore, La
repressione dell’ira) e polemico verso l’epicureismo (Non è possibile vivere felici seguendo
Epicuro). Non mancano scritti bizzarri, come quelli sulla psicologia degli animali, sulla loquacità, su come distinguere un adulatore da un amico. Altri sono di carattere astronomico
(Sulla faccia della Luna, una meditazione sul cosmo), consolatorio (Consolazione alla moglie, per la morte della figlia), antiquario (Questioni greche, Questioni romane), letterario
(Confronto fra Aristotele e Menandro). Nell’ambito di quest’ultimo gruppo, è singolare come
l’autore ignori quasi completamente la letteratura latina.
I Moralia, oltre a documentare l’ampiezza degli interessi dell’autore, sono una fonte inesauribile di frammenti di testi più antichi, noti solo per le citazioni di Plutarco. Inoltre vennero
letti durante tutto il Medioevo, furono il modello della saggistica morale a partire dai Saggi
di Montaigne (1533-1592), contribuirono potentemente a trasmettere all’Europa il pensiero
e la cultura del mondo antico.
Le Vite parallele
L’opera più propriamente storica di Plutarco sono le Vite parallele: 22 coppie di ritratti di personaggi illustri, nelle quali un greco e un romano sono accostati, in base a criteri spesso evidenti (Alessandro e Cesare, Demostene e Cicerone) e quasi sempre chiariti nella sýnkrisis.
Ecco le Vite a confronto: Teseo-Romolo, Solone-Publicola, Temistocle-Camillo, AristideCatone maggiore, Cimone-Lucullo, Pericle-Fabio Massimo, Nicia-Crasso, Coriolano-Alcibiade, Demostene-Cicerone, Focione-Catone minore, Dione-Bruto, Emilio Paolo-Timoleonte, Sertorio-Eumene, Filopemene-Tito Flaminino, Pelopida-Marcello, Alessandro-Cesare,
Demetrio Poliorcete-Antonio, Pirro-Mario, Agide e Cleomene-Tiberio e Caio Gracco, Licurgo-Numa, Lisandro-Silla, Agesilao-Pompeo. Al di fuori delle biografie parallele sono le Vite
di Arato, Artaserse, Galba e Otone.
L’intento morale
Ciò che interessa è il carattere dei protagonisti, e questo si rivela nel loro modo di rapportarsi non solo alle grandi occasioni storiche, ma anche alle questioni spicciole della vita
Plutarco
quotidiana. La personalità, l’etos emerge nei tratti fisici, nelle battute memorabili, nel comportamento privato riscostruibile a partire anche dalle più minute notazioni aneddotiche, com’è detto nella Vita di Alessandro:
… Io non scrivo un’opera di storia, ma delle vite; ora, noi ritroviamo una manifestazione delle virtù e dei vizi degli uomini non soltanto nelle loro azioni più appariscenti: spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo rivelano il carattere di un individuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti, i più
grandi schieramenti di eserciti e assedi. Insomma, come i pittori colgono la somiglianza di un soggetto nel volto e nell’espressione degli occhi, poiché lì si manifesta il carattere, e si preoccupano meno delle altre parti del corpo; così anche a me
deve essere concesso di addentrarmi maggiormente in quei fatti o in quegli aspetti
di ognuno, ove si rivela il suo animo, e attraverso di essi rappresentarne la vita, lasciando ad altri di raccontare le grandi lotte.
In questo passo, Plutarco distingue la vita dalla storia – quindi il carattere del personaggio
dai fatti politici e militari – optando per la biografia peripatetica, un genere con forte accentuazione dei motivi etici. Si tratta di una prospettiva che esclude l’analisi rigorosa delle cause e degli effetti e quella visione d’insieme che secondo Polibio deve caratterizzare la ricostruzione storica. D’altronde, la priorità accordata alla dimensione etica caratterizza quasi
tutta la storiografia antica, più interessata a ricercare le cause dei fatti nei vizi e nelle virtù
dei protagonisti, che nei fattori economici e politici. Anche lo schema retorico della sýnkrisis
– già impiegato da Sallustio (è celebre la comparatio tra Cesare e Catone nel Bellum Catilinae) mira a educare il lettore. L’intento morale è enunciato in particolare nella Vita di Emilio Paolo, dove l’autore dichiara di volere uniformare il proprio comportamento a quello dei
personaggi presentati, guardando nella storia come in uno specchio. In questa prospettiva
etico-pedagogica le Vitae hanno una funzione paradigmatica e i personaggi assumono la
fissità dell’archetipo psicologico e morale (éidos).
Un secondo intento dell’autore era di mostrare la complementarità tra mondo romano e
greco, la compatibilità di Roma dominatrice e della Grecia educatrice, valorizzando le differenze tra le due civiltà ormai congiunte, ma distinte: «La formula delle Vite che introduce il
doppio principio di una corrispondenza e anche di una opposizione, esprime appunto
l’ambivalente senso della continuità culturale che collega Roma con la Grecia, e però anche della indipendenza con cui i Greci consideravano quel passato che era una eredità
esclusivamente loro» (D. Del Corno).
trad. di C. Carena
La Grecia e Roma
Il ritratto di Cesare.
Riportiamo dalla Vita di Cesare il paragrafo 17.
Chi suscitò e coltivò questa risolutezza e questo spirito di emulazione nelle sue truppe fu Cesare stesso. Egli anzi tutto elargì senza risparmio danaro e beneficenze. Così dava a vedere di non voler ricavare dalle campagne di guerra ricchezze che servissero al suo lusso e al suo benessere personale, ma tutto metteva da parte e conservava per premiare
chiunque compisse un atto di valore; la sua parte di ricchezza consisteva in ciò che dava ai suoi soldati meritevoli. In
secondo luogo si sottopose spontaneamente ad ogni loro rischio e non si sottrasse a nessuna delle loro fatiche. Che
amasse il pericolo, non stupiva i suoi uomini, perché sapevano quant’era ambizioso; ma la sua resistenza ai disagi, superiore alla forza apparente del suo corpo, li sbalordiva. Cesare era di costituzione fisica asciutta, di carnagione bianca e delicata; subiva frequenti mal di capo e andava soggetto ad attacchi di epilessia: la prima manifestazione l’ebbe,
pare, a Cordova. Eppure non sfruttò la propria debolezza come un pretesto per essere trattato con riguardo; al contrario, fece del servizio militare una cura della propria debolezza. Compiendo lunghe marce, consumando pasti frugali,
dormendo costantemente a cielo aperto, sottoponendosi ad ogni genere di disagi, sgominò i suoi malanni e serbò il
suo corpo ben difeso dai loro assalti. Si coricava la maggior parte delle notti su qualche veicolo o nella lettiga, sfruttando il riposo per fare qualcosa. Durante il giorno si faceva portare in visita alle guarnigioni, alle città, agli accampamenti ed aveva seduto al fianco uno schiavo che era abituato a scrivere sotto dettatura anche in viaggio, e dietro, in
piedi, un soldato con la spada sguainata. Viaggiava così rapidamente, che la prima volta partì da Roma e compì il
viaggio fino al Rodano in otto giorni. Cavalcare era sempre stato facile per lui fin da bambino; sapeva persino mantenersi in sella col cavallo spinto a grande carriera, tenendo le mani riunite dietro il dorso. Durante la campagna militare in Gallia si esercitò inoltre a dettare lettere mentre cavalcava, e a tenere testa contemporaneamente a due scrivani,
dice Oppio, o anche più. Si narra anzi che Cesare sia stato il primo ad usare la corrispondenza per tenersi in contatto
129
130
La storiografia greca
coi suoi amici, quando la massa dei suoi impegni e l’estensione di Roma non gli consentivano d’incontrarli di persona per discutere affari urgenti.
A dimostrare quanto poco esigente fosse in tema di vitto, si cita di solito questo episodio. Un suo ospite, presso cui mangiava a Milano, Valerio Leone, mise in tavola degli asparagi conditi con mirra, anziché con olio. Cesare li mangiò tranquillamente e rimbrottò i suoi amici che si sentivano offesi. «Bastava» disse «che coloro a cui non piacevano non se ne
servissero. Chi si lamenta di una zoticaggine come questa, è uno zotico anche lui». Un’altra volta, mentr’era in viaggio,
una tempesta lo costrinse a riparare nella capanna di un poveraccio; come vide che si componeva di non più di una stanza, capace d’ospitare a mala pena una sola persona, disse, rivolto agli amici: «Gli onori spettano ai più potenti, ma le comodità ai più deboli» e impose ad Oppio di riposare lui nell’interno, mentre egli dormì con gli altri sotto la gronda, davanti alla porta.
(trad. di C. Carena)
La storiografia romana in lingua greca: Fabio Pittore e Cincio Alimento
Le origini della storiografia latina
La fase cronachistica pontificale
La storiografia latina in origine è ufficiale e sacra e consiste nelle registrazioni dei
pontefici. Diversamente da ciò che accade nella storiografia greca che, fin dal suo
sorgere, si rapporta criticamente alla propria tradizione e la sottopone a indagine
razionale, in quella latina il carattere sacro implica l’assenza di un vaglio critico. Essa accetta le tradizioni, le registra con deferenza, quand’anche ad esse non presti
fede. Il carattere sacro le rimarrà impresso durante tutto il suo svolgersi.
L’atteggiamento di rispetto e riverenza verso il passato è ancora presente in uno
storico come Livio (I a.C.- I d.C.), il quale riporta un aneddoto portentoso (la statua
della dea Giunone si mette a parlare) che egli stesso definisce col termine di fabula normalmente riferito alla narrativa d’invenzione (V 22). Egli non crede al miracolo che racconta, ma non per questo prende le distanze da quel mondo remoto che
ancora prestava fede ai prodigi. Egli scrive in altra parte della sua opera:
Il carattere sacro
e tradizionale
So bene che, per effetto di quell’indifferenza per la quale oggi si crede che
gli dei non diano presagi coi loro portenti, non viene più rivelato in pubblico alcun prodigio né registrato nelle cronache. Quanto a me, intento a scriver la storia dei tempi antichi, l’animo, non so come, mi si fa antico e un
certo scrupolo religioso mi trattiene dal giudicare indegni di esser riportati
nei miei annali quei prodigi che i saggi uomini del passato nell’interesse
stesso dello stato decisero di accettare per veri.
43, 13 1-2
«Mentre il Greco muove audacemente in guerra contro la sua tradizione, il Romano la tradizione ama e rispetta e la giustifica, anche se non più in tutto ciecamente
vi creda» (D. Musti).
Nella storiografia latina, la fase letteraria è preceduta da quella cronachistica pontificale, che registrava quotidianamente sia eventi d’interesse pubblico sulle tabulae
dealbatae (di queste «lavagne» già s’è detto a p. 11) sia cronache di più ampio respiro temporale, relative a un intero anno (annales, vedi p. 11). Si trattava di una
memoria diretta, breve, specializzata su singoli eventi (guerre, paci, carestie, prodigi, ecc.). Il contesto sacrale, sacerdotale e statale implicava il carattere anonimo di
queste registrazioni dirette, fatte giorno per giorno o anno per anno dagli addetti alla custodia della memoria collettiva. Prima della seconda metà del III secolo a.C.,
quando sorge la storiografia riconducibile a singole personalità di storici, a Roma
c’è il vuoto di letteratura individuale.
La fase cronachistica
La storiografia romana in lingua greca: Fabio Pittore e Cincio Alimento
I primi storici romani furono autori di annales, narrazioni continuate ordinate cronologicamente dalle origini di Roma al proprio tempo. Per lo più appartenenti all’ordine senatorio, ricoprivano importanti magistrature e concepivano l’attività storiografi-
Gli annalisti di lingua greca
131
ETÀ A RCAICA
132
Le origini della storiografia latina
Il carattere celebrativo
Fabio Pittore
Cincio Alimento
ca come parte integrante dell’attività politica. I primi annalisti scrissero in greco. La
scelta di questa lingua «internazionale» era motivata dall’intento di propagandare
l’emergente potenza romana in Oriente, per procurarle le simpatie degli stati ellenistici, e dall’esigenza di contrastare una storiografia greca favorevole a Cartagine.
Quando, in seguito alla conquista romana del Mediterraneo orientale, venne meno
tale necessità, poté iniziare una storiografia in lingua latina.
La necessità di propaganda e l’appartenenza degli annalisti al rango senatorio
spiegano un carattere della storiografia annalistica che continuerà a caratterizzare
gli scritti degli storici romani anche in tempi successivi: «la caratteristica di letteratura strettamente connessa al potere politico, alla città, di letteratura destinata alla
celebrazione e alla giustificazione di Roma, animata perciò spesso da intenti edificativi, ed eventualmente anche propagandistici» (D. Musti).
Tra i primi autori di annales in greco ricordiamo Quinto Fabio Pittore, senatore della nobile gens Fabia, combattente nella guerra gallica del 225-222 a.C. La sua opera, che andava dalle origini di Roma a tutta la seconda guerra punica (fino alla
sconfitta di Canne, del 216) e di cui restano rari frammenti, s’intitolava Rhomàion
pràxeis. Si caratterizzava per l’interesse antiquario volto al recupero di antiche cerimonie e leggende mitiche, forse connesse con le radici della gens dell’autore.
L’aspetto propagandistico doveva essere marcato, dato che Polibio accusava Pittore di scarsa obiettività nella narrazione del conflitto con Cartagine.
Polibio riconosceva invece l’obiettività dell’altro annalista di lingua greca, Cincio Alimento, pretore nel 210 e combattente nella seconda guerra punica. Anche l’opera
storica di Cincio Alimento prendeva le mosse dalle origini mitiche di Roma e rifletteva il punto di vista della nobilitas romana.
Di poco posteriori sono altri due esponenti di questa «storiografia senatoria» in
greco, Gaio Acilio e Aulo Postumio Albino.
Le Origines di Catone
La carriera
L’antiellenismo
La prevalenza
della tradizione
Di modesta famiglia di agricoltori, Catone nasce a Tusculum (l’odierna Frascati) nel
234 a.C., combatte nella seconda guerra punica in Sicilia ricoprendo la carica di tribuno militare. Grazie all’appoggio di un potente esponente dell’aristocrazia, Valerio
Flacco, può intraprendere come homo novus (cioè di famiglia che non vantava magistrati) una carriera politica prestigiosa, ricoprendo la questura (nel 204, in Africa),
l’edilità, la pretura (198), il consolato (195), la censura (184).
Catone vive nel periodo in cui Roma diviene padrona del Mediterraneo e compie
importanti conquiste culturali. Nella contrapposizione che si viene a creare tra un
«partito» filellenico aperto alle novità del mondo greco e un partito conservatore,
egli è l’emblema dei difensori del mos maiorum, nemico giurato di ogni modifica
dell’assetto politico-culturale tradizionale. Nella sua persona si compendia la cultura propriamente romana, sicché la sua opera può essere vista come una specie di
«enciclopedia riassuntiva della tradizione nazionale» (Grimal).
Catone è la personificazione di una categoria antropologica squisitamente romana:
la prevalenza culturale della tradizione basata sulla convinzione della superiorità
del passato sul presente (M. Bettini). Il suo bersaglio polemico è il cosiddetto «circolo» filellenico degli Scipioni (in particolare l’Africano Maggiore, il vincitore di Cartagine) che propugnava una cultura ellenizzante non conciliabile con la moralità arcaica e contadina difesa da Catone.
Le Origines di Catone
Catone era convinto – e a giusta ragione – che il contatto con la filosofia e i costumi greci alterasse l’originaria fisionomia della società romana, mutando le mentalità dei cittadini e le gerarchie sociali. Non era contrario alla cultura greca in sé della
quale anch’egli era imbevuto, ma ne temeva «l’aspetto illuministico» (La Penna), il
razionalismo che avrebbe potuto generare un movimento d’idee in grado di minare
l’assetto repubblicano.
Soprattutto la censura fu strumento della strenua battaglia conservatrice: «E questa censura restò famosa e foriera di inimicizie» (Livio, XXXIX 44, 9). Nell’esercizio
di questa magistratura si distinse per il proverbiale rigore in difesa dell’austerità e
della frugalità, al punto da divenire nei secoli «il censore» per antonomasia. Fece
approvare varie leggi sumptuariae per arginare il lusso col quale esponenti dell’aristocrazia cominciavano a imitare il fasto delle corti ellenistiche. Già nel 195, quando era console, si era opposto all’abrogazione della Lex Oppia, che vietava alle
matrone romane di portare vesti lussuose e monili d’oro. Da censore, colpì la moda
di usare oggetti di lusso, imponendo su di essi una tassa dieci volte superiore al loro prezzo.
La furia moralizzatrice culmina in azioni e provvedimenti esemplari, che vanno dai
processi intentati all’Africano accusato di malversazione all’emanazione di decreti
antiillenici e xenofobi. Nel 161 un decreto senatorio d’ispirazione catoniana vietava
ai retori e ai filosofi greci di risiedere a Roma. Nel 155 un provvedimento analogo
espelleva dalla capitale i filosofi greci Carneade, Diogene, Critolao che avevano
fatto pubblica dimostrazione di virtuosismo retorico, in particolare Carneade, che si
era esibito in una spregiudicata «antilogia» parlando prima in favore poi contro la
giustizia.
Contrasta con l’immagine del moralista integerrimo il fatto che avesse accumulato
enormi ricchezze nel latifondo e si fosse dedicato ai commerci marittimi e all’usura,
attività che egli stesso critica nella prefazione al De agri cultura. Dei due ritratti di
Catone di cui disponiamo, quello idealizzato del De senectute di Cicerone e quello
di Plutarco che evidenzia le contraddizioni dell’uomo, è certamente più attendibile il
secondo.
Rappresentante e difensore degli interessi dei proprietari terrieri, sostenne con accanimento la necessità di distruggere Cartagine (è famoso il motto delenda Carthago), considerata una temibile concorrente per i mercati italici. Spetterà a un
esponente del «partito» filellenico, Scipione Emiliano, di iniziare la terza guerra punica proprio nell’anno della morte di Catone, il 149. Ma l’iniziativa era stata voluta
dal Censore che negli ultimi anni si era riconciliato con la fazione avversa facendo
sposare al figlio Marco la sorella dell’Emiliano.
Il rischio «illuministico»
Oltre 150 Orazioni (secondo Cicerone) delle quali restano solo frammenti. Un’opera storica,
le Origines, in sette libri. Il trattato De agri cultura. I Praecepta ad filium, manuale (o serie di
manuali) per l’istruzione privata del figlio Marco. Il Carmen de moribus, di cui possediamo
pochi frammenti di carattere gnomico, e gli Apophthegmata, raccolta di massime e detti memorabili, di cui Cicerone ci ha conservato rare citazioni.
Le opere
«Il censore»
L’opera «moralizzatrice»
Una personalità
contraddittoria
Delenda Carthago
Le Origines
Le Origines fondano la storiografia latina superando sia le ricostruzioni dei poeti,
sia le annotazioni degli annales pontificali, sia la narrazione in greco dei primi annalisti romani, Fabio Pittore e Cincio Alimento. Questi sul modello degli annali pontificali avevano tracciato, verso la fine del III secolo, scarne sintesi della storia di
La prima opera
storica latina in prosa
133
ETÀ A RCAICA
134
Le origini della storiografia latina
I contenuti
La prevalenza del
«prima» sul «dopo»
L’anonimato
Il confronto con la Grecia
Roma dalle origini al loro tempo. Come già abbiamo avuto occasione di precisare, la scelta del greco, lingua «internazionale», era motivata dall’intento di propagandare l’emergente potenza romana in Oriente, per procurarle le simpatie
degli stati ellenistici. Ma ciò non era più necessario da quando, concluse le
guerre con Antioco III di Siria, i Romani erano ormai padroni del Mediterraneo
orientale.
Delle Origines resta il riassunto che ne fa Cornelio Nepote nella Vita di Catone e
un centinaio di frammenti. Secondo Nepote, Catone avrebbe intrapreso la scrittura
dell’opera dopo i sessanta anni (Senex historias scribere instituit), quindi dopo il
174. È probabile che attendesse alla composizione dell’ultimo libro poco prima della morte; infatti Cicerone, nel dialogo Cato maior che si immagina ambientato nel
150, fa dire a Catone: Septimus mihi liber Originum est in manibus (38).
Secondo Nepote, l’opera abbracciava in sette libri il periodo dalle origini di Roma
(libro I) e delle altre città italiche (II, III) alle guerre puniche (IV, V), fino alla pretura
di Sulpicio Galba vincitore dei Lusitani in Spagna nel 151 (VI, VII). Il maggiore spazio è accordato agli avvenimenti recenti e contemporanei. Inoltre è posto in rilievo,
dall’homo novus e sabino Catone, il contributo alla potenza di Roma dato dalle città italiche, per la prima volta considerate importanti come la capitale.
Le Origines esprimono in modo particolare la citata categoria antropologica squisitamente romana della superiorità del passato, confermata anche dall’opposizione
lessicale maiores/ minores che designa gli antenati e i discendenti. In tale struttura
mentale è implicita la convinzione che, per conoscere un popolo, sia necessario risalire alle sue «origini», ovvero che nel passato stia ogni spiegazione del presente
e che le regole per comportarsi bene vadano cercate nella tradizione.
Nelle Origines erano taciuti i nomi dei generali, indicati solo con la carica pubblica
in ossequio a un’ideologia che inibiva drasticamente il culto della personalità e
l’individualismo di matrice greca. Le vittorie erano presentate come il risultato di un
anonimo sforzo corale del populus Romanus. Neppure Annibale era nominato, ma
designato col titolo di dictator Carthaginiensium. Era una concezione opposta sia a
quella prosopografica cara ai filelleni, che giudicavano la storia come prodotto dell’azione di grandi personalità, sia alla tradizione annalistica, che celebrava le gesta
dei personaggi delle famiglie nobili.
Un chiaro intento dell’opera è di dimostrare la pari dignità, se non la superiorità, dei
comandanti romani rispetto a quelli greci. In un passo riportato integralmente da
Gellio, un tribuno militare che consente col sacrificio della propria vita di salvare il
grosso delle truppe è paragonato a Leonida alle Termopili:
Noct. Att. II 36
La Grecia tutta onorò per il suo valore lo spartano Leonida, che alle Termopili compì un atto simile, con busti, statue, epigrafi elogiative … invece al tribuno militare che pure aveva compiuto un’identica impresa e aveva salvato la
situazione, è stata assegnata una lode modesta in rapporto all’atto compiuto.
Superamento degli annales
Rispetto all’impostazione degli annales pontifici, Catone è conscio della maggiore
profondità della propria trattazione, che non si ferma alla dimensione cronachistica,
ma coglie i movimenti profondi della storia, le articolazioni di lungo periodo. Già abbiamo citato il giudizio negativo che il censore rivolgeva all’arcaica storiografia italica, accusata di annotare fatti troppo legati all’attualità immediata (vedi p. 12). Al criterio «anno per anno» della tradizione annalistica è sostituito quello, mutuato dalla
storiografia ellenica, dell’accorpamento per argomenti, pur posti in ordine prevalentemente cronologico.
Le Origines di Catone
Sempre all’influenza degli storici greci, soprattutto Eforo e Timeo, è dovuto
l’interesse etnografico attestato da frammenti come questi: «Nella maggior parte
della Gallia, due sono le attività che riscuotono il massimo interesse: l’arte militare
e il parlare bene» (fr. 34 Peter); «Non danno dote alle loro figlie» (fr. 94 Peter). In
particolare il secondo frammento attesterebbe una sensibilità antropologica più interessata alle differenze che alle somiglianze, già influenzata dalla letteratura parodossografica greca dei mirabilia, cioè delle cose strane, inusitate, incomprensibili
alla nostra cultura e perciò affascinanti. Un frammento allude al carattere mendace
dei Liguri, un altro ai maiali dei Galli, così grossi che non riescono a muoversi. Il
primo dei frammenti seguenti descrive il metodo singolare per trasportare l’acqua
seguito dai Libui, gente gallica dell’Italia alpina; il secondo parla di miniere inesauribili e di un vento insostenibile:
L’interesse etnografico
Libui, qui aquatum ut lignatum videntur ire, securim atque lorum ferunt, gelum crassum excidunt, eum
loro conligatum auferunt .
Pare che i Libui vadano a prendere
l’acqua come si fa con la legna: portano sul posto una scure e una corda,
tagliano un blocco di ghiaccio e se
lo portano via legato alla corda.
fr. 33 Peter
Sed in his regionibus ferrareae, argentifodinae pulcherrimae, mons ex
sale mero magnus: quantum demas,
tantum adcrescit. Ventus Cercius,
cum loquare, buccam implet, armatum hominem plaustrum oneratum
percellit.
Ma in queste regioni vi sono miniere di ferro e d’argento eccezionali,
c’è un gran monte di sale puro: tanto ne estrai, altrettanto ne ricresce.
Il vento «Cercio», mentre parli, ti
riempie la bocca ed è in grado di
travolgere un uomo con tanto di corazza e un carro pieno.
fr. 93 Peter
Sempre dalla storiografia greca dipendono l’uso di inserire intere orazioni nel corpo
della narrazione, come l’Oratio pro Rhodiensibus pronunciata nel 167 per impedire
la guerra contro Rodi, e l’interesse per le ktíseis o «fondazioni di città» (di qui forse
anche il titolo Origines).
Si è ipotizzato che i primi tre libri delle Origines fossero un adattamento nella letteratura latina del genere delle ktìseis, cioè le storie di fondazione. Anche Fabio Pittore all’inizio della sua opera aveva posto una ktìsis di Roma. Si è pensato che le
fonti di Catone riguardassero fondazioni di città italiche e che un modello possibile
fosse Timeo. In effetti si riscontrano nelle Origines punti di contatto con le leggende
di fondazione: nel fr. I 18 Chass. Servio descrive, riferendosi all’autorità di Catone,
un rito di fondazione secondo il modello etrusco. La procedura, nota anche da altre
fonti, prevedeva che si aggiogassero all’aratro un toro e una vacca, che si tracciasse un solco in corrispondenza del tracciato delle mura, sollevando l’aratro in corrispondenza delle porte. Il frammento citato da Servio senza riferimento ad un libro
preciso delle Origines è di solito attribuito alla fondazione di Roma. In ogni caso il
passo testimonia l’attenzione di Catone per la descrizione degli adempimenti religiosi legati alla fondazione.
La prosa di Catone storico, come anche dell’oratore – ma la distinzione è tenue,
dato che le Origines includevano inserti delle orazioni realmente pronunciate dall’autore – ha molti dei tratti che rileviamo più avanti per la prosa tecnica (brevità,
gravità arcaica, paratassi, parallelismi, anafore, allitterazioni, neologismi, ecc.). Tuttavia lo stile è più elaborato, più attento ai dettami di quella retorica greca alla qua-
Le ktìseis
Lo stile di Catone storico
135
ETÀ A RCAICA
136
Le origini della storiografia latina
le – come Catone consiglia di fare al figlio – non bisogna conformarsi ciecamente,
ma conviene pur sempre dare un’occhiata: eorum litteras inspicere, non perdiscere
(«buttare un occhio sulla loro letteratura, non impararla fino in fondo», fr. 1 Jordan).
Di qui l’uso di tutti quegli espedienti retorici tipici (sillogismo, exempla ficta, artifici
argomentativi, ecc.) che indurranno Sallustio a proclamare Catone Romani generis
dissertissimus e a farne un modello da imitare.
La storiografia dopo Catone
La lezione di Catone
Celio Antipatro
L’elaborazione formale
e gli excursus
Sempronio Asellione
Ritroviamo i caratteri della storiografia catoniana – uso del latino in luogo del greco,
dispiego di mezzi retorici, ottica moralistica, interesse per l’intera penisola e non solo
per Roma – negli annalisti che vennero dopo di lui. Tra questi ricordiamo L. Cassio
Emìna, autore di una storia di Roma da Enea alla II guerra punica, e L. Calpurnio Pisone Frugi, console nel 132 a.C., autore di Annales dalle origini alla III guerra punica.
L’evoluzione della prosa storica dal genere annalistico ai modelli della storiografia
ellenistica è attestata dai sette libri sulla seconda guerra punica di Lucio Celio Antipatro, attivo nell’età dei Gracchi. La monografia, scritta dopo il 120 a.C. e di cui restano pochi frammenti, riflette bene due tendenze della storiografia postcatoniana.
La prima riguarda il superamento dello schema annalistico «anno per anno» (già
abbandonato da Catone, che raggruppava gli avvenimenti mettendo in rilievo quelli
di maggiore importanza). L’altra tendenza consiste nella riduzione dello spazio destinato alle origini di Roma, per concentrarsi sugli eventi contemporanei privilegiando un taglio monografico.
Un’altra novità è nella cura formale posta da Celio, testimoniata da Cicerone: «Si è
un poco innalzato … Antipatro. Gli altri non curavano la forma, semplicemente riportavano i fatti» (Orat. II 54). Il riconoscimento di Cicerone dimostra che Antipatro
concepiva l’opera storica anche come fatto artistico. Nell’intento di accrescere il
pregio letterario e sull’esempio della storiografia «drammatica», Celio valorizzava
l’elemento spettacolare, la peripezia, l’iperbolico, il meraviglioso e, sul piano formale, ricercava uno stile magniloquente ed epicheggiante (cioè enniano). Il racconto
era concepito come un immane dramma di popoli che, tra lutti e sofferenze indicibili, lottano per la sopravvivenza. In questa prospettiva patetica che mira a sfruttare
le risorse della retorica, si spiega l’inserimento di discorsi inventati (non quelli veri
ed effettivamente pronunciati, che Catone inseriva nelle Origines). Questa innovazione sarà seguita da tutti i maggiori storici latini, da Sallustio a Livio, fino a Tacito.
Altre novità tratte dalla storiografia greca che l’opera di Celio trasmette a quella latina sono l’introduzione di excursus su argomenti che l’autore è interessato a trattare e la dichiarazione programmatica di fornire contenuti veritieri. Nei casi dubbi erano fornite più versioni di un medesimo evento.
Tribuno a Numanzia sotto il comando di Scipione Emiliano nel 134, compone un’opera storica intitolata Res gestae che abbraccia il periodo dalla fine della III guerra
punica all’inizio della guerra sociale (91 a.C.). Nell’analizzare eventi contemporanei
di cui è stato testimone egli propugna – sull’esempio di Polibio con cui è entrato in
contatto – la necessità di una storiografia che non si limiti a enumerare i fatti come
facevano gli annalisti, ma li vagli criticamente spiegando le ragioni, sempre umane
e mai prodigiose o fantastiche, che li hanno determinati. Ecco il manifesto di questa nuova storiografia che – proprio in quanto ricerca le cause e interpreta razionalmente gli eventi senza mai ricorrere alle fabulae e all’irrazionale – acquista un
valore educativo:
La storiografia dopo Catone
1. Fra coloro che vollero lasciare degli annali e coloro che si provarono a
narrare accuratamente le imprese dei Romani, vi era in generale questa differenza. I libri annali si limitavano a riferire ciò che accadeva ogni anno,
un po’ come fanno quelli che scrivono un giornale, che i Greci chiamano
ephemeris1. Per parte nostra, vedo che non basta far conoscere quello che è
accaduto, ma che occorre anche spiegare con quale intendimento e per
quale ragione tali fatti siano avvenuti.
2. Infatti i libri annali non possono per nulla rendere i cittadini più alacri
nella difesa dello Stato, né più lenti nel fare il male. Scrivere poi sotto qual
console abbia avuto inizio la guerra e sotto quale si sia conclusa, e chi sia
entrato in città da trionfatore, e in tale narrazione far sapere che cosa accadde nel corso della guerra, senza però intanto chiarire quali deliberazioni
abbia prese il senato o quale legge sia stata approvata con l’appello al popolo, e senza far sapere i motivi che ispirarono quegli avvenimenti, questo
non è scrivere di storia, ma narrar favole ai bambini.
Fr. 1-2 Peter;
trad. di G. Pontiggia
Cicerone testimonia che, diversamente da Celio Antipatro, Asellione non avrebbe
avuto particolare interesse per il momento dell’elaborazione formale. L’opposizione
alla «storiografia drammatica» ed «edonistica» di Celio Antipatro non potrebbe essere più netta: gli abbellimenti ricercati per il diletto del lettore (digressioni fantastiche, discorsi, artifici retorici) sono solo un fabulas pueris narrare per Celio. Il quale
si pone sulla linea pragmatica e utilitaristica teorizzata da Polibio – che come Celio
frequentava il Circolo degli Scipioni – in base alla quale lo studio della storia deve
servire alla formazione politica e morale del cittadino.
Delle opere degli storici anteriori a Cesare vanno ricordate le Historiae di Cornelio
Sisenna (120 circa, 67 a.C.), che narra gli avvenimenti contemporanei dalla guerra
sociale alla morte di Silla, di cui era partigiano. Della sua opera, che abbraccia una
dozzina d’anni e forse continua quella di Sempronio Asellione, restano solo frammenti. L’opera di Sallustio si riallaccerà a sua volta a questa di Sisenna. Il culto della personalità per il dittatore caratterizzava la narrazione delle Historiae, che significativamente Cicerone (De legibus I 7) avvicinava alla storia romanzesca di Alessandro Magno scritta da Clitarco (vedi p. 123). Ai tratti romanzeschi (colpi di scena,
peripezie, ecc.) conformi ai canoni della storiografia «tragica» la narrazione aggiungeva particolari piccanti (turpis … iocos, dirà Ovidio in Trist. II 434).
L’ispirazione giocosa di Sisenna è confermata anche dalla traduzione che egli fece
delle Fabulae Milesiae di Aristìde di Mileto, un’opera piuttosto osée, che – come riferisce Plutarco – i Romani si portavano dietro nelle loro sarcinae durante la campagna di Crasso contro i Parti.
Primato dell’utile
sul diletto
1. ephemerìs: «effemèride, cronaca giornaliera», esposizione giorno per giorno secondo lo
schema annalistico.
Sisenna
137
STORIOGRAFIA,
BIOGRAFIA,
ANTIQUARIA
Varrone
Cornelio Nepote
Cesare
Sallustio
Res Gestae
Livio
Asinio Pollione, Pompeo Trogo,
Tito Labieno
Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore
196
Storiografia, biografia, antiquaria
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
La produzione antiquaria di Varrone
La vita
Marco Terenzio Varrone nacque a Rieti nel 116 a.C. da facoltosa famiglia sabina.
L’educazione familiare fu austera e semplice, come egli stesso ricorda: «Da piccolo
avevo una tunica modesta e una toga, calzari privi di fasce, cavalcavo senza sella.
Non facevo il bagno ogni giorno». Ebbe come maestri Accio e Elio Stilone, che lo
avviarono agli studi grammaticali e filologici. Frequentò, come anche Cicerone, ad
Atene la Nuova Accademia di Antioco di Ascalona (maestro anche di Cicerone).
Politicamente fu un conservatore, ostile ai Gracchi, rigido difensore della legalità
repubblicana, fedele al modello etico catoniano. Seguì Pompeo nelle campagne in
Spagna e in Oriente, ma espresse la propria contrarietà all’alleanza di Pompeo
con Crasso e Cesare nel 60 a.C. (il «primo triumvirato», che egli definì in una satira Tricàranos, «mostro a tre teste»). Durante le guerre civili non ebbe una condotta
limpida: prima si schierò con Pompeo, poi in Spagna si arrese a Cesare, che lo
trattò con clemenza (ironizzando, nel De bello civili, sui suoi tentennamenti). Dopo
Farsalo (48 a.C.) si ritirò a vita privata. Nel 46 a.C. ricevette da Cesare l’incarico di
allestire a Roma una grande biblioteca. Passò indenne attraverso le proscrizioni
seguite alla morte di Cesare e al II triumvirato e trascorse gli ultimi anni immerso
negli studi, nelle sue sontuose ville di Tuscolo, Cassino, Baia. Morì nel 27 a.C.
Le opere
Varrone scrisse oltre 620 libri e per tale produttività fu da Cicerone definito polygraphótatos
(«il più fecondo degli scrittori»). Di tale immensa produzione, che spaziava dalla filologia alla grammatica, dall’antiquaria alla letteratura tecnico-scientifica, restano solo:
• il De re rustica, trattato in prosa sull’agricoltura;
• 6 libri (su 25) del De lingua latina (vedi p. 228);
• frammenti delle altre opere.
Le Antiquitates
Strettamente connessa all’ideologia conservatrice di Varrone è tutta la produzione
di argomento antiquariale. A questioni relative all’origine del popolo romano e ai
suoi costumi erano dedicati numerosi scritti come il De gente populi Romani, il De
familiis Troianis, il De vita populi Romani (con dedica ad Attico), ma soprattutto le
Antiquitates. Quest’opera monumentale ripartita in sezioni (uomini, luoghi, tempi,
cose) si proponeva di illustrare e ordinare il patrimonio immenso della cultura latina. Era in 41 libri divisi in due blocchi:
• 25 libri di «antichità umane» (rerum humanarum) che trattavano la storia di Roma antica, la topografia dell’urbe, la geografia e le istituzioni dell’Italia, il calendario romano, la costituzione repubblicana;
• 16 libri di «antichità divine» (rerum divinarum) che riguardavano le istituzioni sacre latine, i sacerdozi, le feste, i culti pubblici. In questa sezione era esposta la
dottrina di ascendenza stoica delle tre forme di religione, ovvero delle tre maniere di concepire la divinità: la mitologica (propria dei poeti), la naturale (propria filosofi, che ricercano razionalmente la natura degli dei), la civile (cardine delle
La produzione antiquaria di Varrone
istituzioni politiche e strumento di controllo sociale). La forma di teologia naturale
trattava le teorie dei filosofi sugli dei e non doveva essere diffusa tra il popolo, se
non coincideva con la terza concezione, per non minare il fondamento religioso
dello stato (analoga posizione agnostica esprime Cicerone nel De natura deorum).
Sottesa alla tripartizione è l’idea stoica della religione come creazione umana. Per
questo motivo – spiega S. Agostino nella Città di Dio – Varrone ha trattato prima le
antichità umane, poi quelle divine: come un dipinto presuppone un pittore che
l’abbia eseguito, così le istituzioni religiose richiedono gli uomini che le hanno create.
La chiave ideologica di quest’opera – come delle altre opere di Varrone, tutte rivolte alla ricerca delle origini – era di trovare nel passato di Roma la giustificazione
della sua superiorità in ogni campo.
Le Antiquitates ebbero grande successo e la loro pubblicazione fu salutata con toni entusiastici da Cicerone:
La fortuna
Acad. Post. I 9
In patria eravamo inconsapevoli e stranieri. I tuoi libri ci hanno riportato
nella nostra casa antica. Tu di questa patria ci hai svelato le età, le divisioni dei tempi, i sacri riti, i sacerdoti, il costume domestico, la disciplina militare, i luoghi, la religione, i monumenti.
In effetti questa enciclopedia sistematica di notizie su personaggi, luoghi, vicende
della storia giuridica, istituzionale e religiosa di Roma fu il passaggio obbligato di
tutta la ricerca erudita e antiquaria antica, a cominciare da Virgilio, che nella stesura dell’Eneide fece ampio ricorso a questo inesauribile repertorio di informazioni.
Le Disciplinae
Le Disciplinae sono un’enciclopedia universale di letteratura, filosofia e tecnica in nove libri.
Da qui il Medioevo trarrà con lievi modifiche la distinzione delle Arti liberali in trivio (grammatica, dialettica, retorica) e quadrivio (geometria, aritmetica, astronomia, musica).
Le Imagines sono una raccolta di ritratti figurativi di personaggi famosi latini e greci (personalità politiche e d’azione come gli Scipioni, ma anche intellettuali come Pitagora, Platone,
Aristotele), ripartiti per categorie «professionali» (re, filosofi, poeti, ecc.) e riuniti in gruppi di
sette (di qui il titolo secondario Hebdomades), numero di particolare valenza simbolica nella dottrina pitagorica seguita da Varrone (che, come egli stesso faceva notare, allora aveva
77 anni e aveva già scritto 70 volte 7 volumi). Di ciascuna personalità erano dati il ritratto e
una succinta biografia chiusa da un epigramma encomiastico.
I Logistorici sono dialoghi in prosa su temi di filosofia morale, imperniati sulla presentazione
di uomini famosi, storici o mitici. Ciascun dialogo trattava un tema specifico e recava un
doppio titolo, uno per l’argomento e l’altro per il personaggio: Marius de fortuna, Orestes de
insania, Curio de cultu deorum, Pius de pace, ecc. La moda del doppio titolo sarà seguita
da Cicerone (Cato maior de senectute, Laelius de amicitia).
Le Imagines
I Logistorici
197
198
Storiografia, biografia, antiquaria
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Le biografie di Cornelio Nepote
La vita
Di Cornelio Nepote non conosciamo il prenome, né l’anno e il luogo della nascita.
Sappiamo solo che era originario della Gallia cisalpina (Padi accola è definito da
Plinio il Vecchio) e apparteneva alla ricca borghesia padana. Probabilmente nacque intorno al 100 a.C., forse a Ostiglia, e morì verso il 25 a.C.
L’altro grande cisalpino, Catullo, in segno di gratitudine per l’attenzione dimostrata ai
propri versi (tu solebas / meas esse aliquid putare nugas, «tu eri solito pensare che
le mie inezie valessero qualcosa»), gli dedicò il suo «libretto». Sempre Catullo si
congratulava con l’amico, cui riconosceva doctrina e labor, per una storia universale
perduta, i Chronica: ausus es unus Italorum / omne aevum … explicare …, «osasti,
solo fra gli Italici, svolgere tutta la storia» (I 5, 7). Nepote fu amico di Tito Pomponio
Attico, nella cui cerchia erudita gravitavano anche Varrone e Cicerone. Con quest’ultimo intrattenne un carteggio epistolare per noi perduto, ma noto agli antichi. Non si
impegnò mai nella vita politica, come l’amico Attico di cui elogia, nella biografia dedicatagli, la prudenza e l’abilità nel tenersi fuori dai pericoli delle guerre civili.
6, 1
In politica si comportò in modo tale da essere e apparire fautore degli ottimati, ma sempre senza farsi coinvolgere nelle tempeste civili, perché reputava che quanti vi si impegnavano perdevano il controllo di loro stessi, al
pari di quelli che sono agitati dai flutti marini.
La scelta di una vita improntata all’otium intellettuale – ma anche all’avvedutezza e
alla moderazione (consilium, prudentia) – è emblematica dell’atteggiamento di molti intellettuali romani in quegli anni travagliati della repubblica.
L’opera
Oltre agli accennati Chronica in tre libri interamente perduti – sinossi degli avvenimenti di
Grecia, Roma e Oriente esposti sincronicamente – sappiamo che Nepote scrisse una raccolta di Exempla contenenti aneddoti e curiosità varie e due ampie biografie di Catone il
Censore e di Cicerone, andate perdute. Plinio il Giovane ci informa che si dedicò anche alla poesia d’argomento amoroso, e ciò è verosimile data l’amicizia con Catullo.
La sola opera di cui conserviamo parti consistenti è il De viris illustribus (noto anche col titolo
di Vitae), raccolta di biografie sull’esempio delle Imagines di Varrone. Le Vitae erano probabilmente in 16 libri ripartiti in almeno otto categorie (re, generali, poeti, oratori, storici, filosofi,
giuristi, grammatici e scienziati), ciascuna delle quali affiancava il ritratto di un romano al ritratto di uno straniero. Restano l’intero libro I contenente i profili di generali e re stranieri (De execellentibus ducibus exterarum gentium), le biografie di Catone il Censore (riassunto del profilo
autonomo perduto, citato sopra) e di Attico, entrambe appartenenti alla sezione degli storici.
La biografia
L’intento delle Vitae è meramente divulgativo. L’opera mirava – in tempi in cui la riflessione storiografica acquistava un peso crescente nella società romana – a soddisfare la domanda dei lettori di media cultura, ai quali le minute e dotte indagini di
Varrone sarebbero rimaste indigeste. Nepote manca di profondità d’analisi, ma non
è neppure interessato a compiere una riflessione storica rigorosa, consapevole
che il suo pubblico è ghiotto di aneddoti, di particolari curiosi e attinenti alla vita privata dei personaggi. L’intento di scrivere un’opera d’intrattenimento, destinata a lettori a digiuno di greco (expertes litterarum Graecarum) e bisognosi di un’esposizione semplificata e attraente, è chiarito dall’autore stesso, quando distingue tra biografia e storia scegliendo il genere della biografia peripatetica (più impegnata sul
piano letterario che su quello del rigore documentario):
Pelopidas I 1
Pelopida tebano è meglio conosciuto dagli storici che dai lettori comuni.
Non so bene come io possa meglio dare risalto alle sue virtù: se comincias-
Le biografie di Cornelio Nepote
si a narrare per filo e per segno le imprese, temo che darei l’impressione di
volere, invece di raccontare la sua vita, scrivere un’opera propriamente storica. Se tratterò solo gli aspetti politicamente più importanti della sua vita,
temo che, per chi non ha nozioni di letteratura greca, il personaggio non risulti in tutta la sua grandezza. Cercherò allora, come potrò, di tenermi lontano da questi due estremi, cercando sia d’essere sintetico sia di tenere
conto delle modeste conoscenze del lettore.
Dunque altro è enarrare vitam, altro è scribere historiam. Lo storico si concentra
sui fatti, il biografo sui personaggi. Questi sono prescelti non in base alla loro importanza storica, ma all’esemplarità etico-pedagogica. Analoga distinzione programmatica farà nel I secolo d.C. Plutarco, certo influenzato dalle Vitae di Nepote
(vedi p. 127). Diversamente dalla biografia coltivata dai filologi alessandrini, più
«scientifica» nella raccolta e selezione di materiali e più criticamente meditata, la
biografia di scuola aristotelica si caratterizza per la forte accentuazione dei motivi
etici. Così abbondano le notazioni moralistiche e le parti di testo che illustrano, talora in forma di encomio, le virtù del personaggio.
Il moralismo
La cultura latina arcaica ebbe scarsa propensione a porre in primo piano l’individuo. Perciò
la biografia fu un genere inizialmente poco coltivato, anche se elementi autobiografici erano presenti nelle laudationes funebres e negli elogia (vedi p. 7), nei tituli (brevi note sulla
vita e le imprese) scritti sotto le statue di uomini famosi. In seguito all’affermarsi di grandi
personalità di generali e uomini politici, si crearono i presupposti ideologici della biografia,
che a Roma può considerarsi soprattutto l’evoluzione dei commentarii, cioè dei diari sui
quali i magistrati annotavano memorie personali, fatti rilevanti dell’anno in cui erano stati in
carica. Oltre che delle perdute Imagines di Varrone (dove le immagini dei personaggi erano
accompagnate da brevi profili) si ha notizia di un’autobiografia di Silla, elaborata da Cornelio Epicado liberto del dittatore, di una di biografia di Pompeo Magno redatta da un suo liberto, di una serie di vite di letterati curata da un certo Santra.
Quanto alla tecnica compositiva, la biografia greca offriva due modelli distinti: uno prevedeva l’esposizione cronologica lineare dalla nascita alla morte, l’altro passava in rassegna i
vari aspetti della vita distinguendoli per species, cioè in base a categorie codificate: le origini familiari, le imprese civili o militari, le virtù, i difetti, ecc. Cornelio Nepote alterna le due
modalità narrative, talora le combina nel medesimo ritratto.
La biografia a Roma
L’idea di accostare biografie di personalità romane e straniere, mentre apre una via
che sarà seguita nel I secolo d.C. da Plutarco con le sue Vite parallele, riflette l’intento
di porre a confronto varie civiltà, soddisfacendo le curiosità dei lettori. Nel momento in
cui si aprono a culture diverse, i Romani sono interessati sia a conoscere le tradizioni
di altri popoli, sia a definire attraverso il confronto con l’«altro» la propria identità culturale. L’atteggiamento di Nepote di fronte alle diversità pare aperto e non viziato da
pregiudizi etnocentrici. La selezione di vizi e virtù non è quasi mai funzionale alla tesi
della superiorità romana. Anzi, l’autore fa professione di relativismo etico nella prefazione, quando afferma che le categorie morali non sono assolute: ciò che è virtù in un
dato contesto civile può diventare un vizio, se mutano i valori etici di riferimento
(maiorum instituta). Così musica e danza sarebbero disdicevoli nella formazione di un
giovane romano, mentre sono essenziali nell’educazione di un principe greco:
Il confronto interculturale
Epaminonda tebano, figlio di Polimnio. Prima di scriverne penso di dover
suggerire ai lettori di non giudicare col metro dei loro costumi le abitudini
straniere, e di non pensare che quanto a loro pare di scarso peso sia ritenuto tale anche presso tutte le altre nazioni. Sappiamo ad esempio che la musica, nel nostro costume, non si confà ad un personaggio autorevole e che
la danza è addirittura una sconvenienza: tutte cose che tra i Greci sono invece bene accette e lodevoli. Se quindi vogliamo ritrarre dal vivo le consuetudini e la vita di Epaminonda, non dovremo – così ci pare – omettere
nulla di quanto valga ad approfondirne la conoscenza.
I 1-3;
trad. di G. Pontiggia
199
200
Storiografia, biografia, antiquaria
Lo stile
Lo stile piano e disteso, l’abilità nel narrare in modo gradevole e disinvolto, la sintassi cordinativa priva di complessità (tranne i pochi casi in cui è imitato, con scarso
successo, lo stile ampio e ipotattico di Cicerone) hanno sempre contribuito alla fortuna di questo autore nei primi gradi della scuola. Ma la piattezza e l’uniformità monotona dei profili attestano una qualità artistica modesta. Ai pochi passi veramente
brillanti, come la vita di Annibale, si affiancano testi incolori e ripetitivi. Non tanto di
profondità d’analisi storica – del resto esclusa programmaticamente dalla biografia –
si avverte la mancanza, quanto proprio di quella capacità di «riprodurre l’immagine
di una vita» (I 3), che sarebbe secondo Nepote stesso il vero obiettivo del biografo.
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Moderazione e cultura di T. Pomponio Attico (Atticus, 13-14, 18). Tito Pomponio Attico (110-32 a.C.), amico e protettore di Nepote, fu personaggio di spicco nella vita intellettuale romana. Di orientamento epicureo in filosofia, amico e
editore di Cicerone, fu autore di opere perdute, tra le quali ricordiamo un Liber annalis del tipo dei Chronica di Nepote e
una raccolta di biografie probabilmente simile alle Imagines di Varrone. Dalla Vita di Attico, che occupava la sezione del
De viris illustribus dedicata agli storici, riportiamo un passo nel quale sono elogiate le doti di sobrietà ed erudizione dell’eminente personaggio.
[13] Anche il privato non fu inferiore al cittadino. Per quanto fosse molto ricco, nessuno meno
di lui era desideroso di comprare, nessuno meno
proclive a costruire. Ciò non vuol dire che egli
non avesse abitazioni signorili o che non si concedesse le migliori comodità. 2. Infatti abitava
sul colle Quirinale la casa Tamfiliana avuta in
eredità dallo zio materno, l’amenità della quale
consisteva non tanto nella costruzione quanto
nel giardino; l’edificio, che risaliva a tempi antichi, era più di buon gusto che lussuoso; ed egli
non vi portò che i cambiamenti richiesti dal
tempo. 3. La servitù era ottima dal punto di
vista dell’utilità, appena mediocre da quello della prestanza. Vi si trovavano infatti schiavi
coltissimi, lettori ottimi, moltissimi copisti:
persino i camerieri erano addestrati a compiere
bene l’uno e l’altro ufficio: così pure abilissimi
gli artigiani necessari al buon andamento della
casa. 4. Non ne voleva che non fossero nati in
casa o formati in casa, il che denota non solo
misura, ma anche saggia amministrazione; perché si può chiamare misura il non desiderare eccessivamente ciò che si vede desiderato dai più;
ed è segno di non comune abilità procurarselo
con le proprie cure e non con il danaro. 5. Era
elegante senza fasto, signorile senza ostentazione: tutte le sue cure miravano alla distinzione, non al lusso: l’arredamento era proporzionato ai suoi mezzi, non eccessivo, tale da
non dar nell’occhio in nessun senso. 6. E non
voglio omettere, ancorché sappia che a taluno
sembrerà un perdersi nelle inezie, che egli, ricchissimo tra i cavalieri romani e largo d’inviti in
casa a gente di ogni condizione, usava segnare
nel libro dei conti giornalieri una somma non
eccedente i tremila sesterzi al mese per queste
spese. 7. E lo affermo non per sentito dire ma
per cognizione diretta; spesso, infatti, la nostra
[13] Neque vero ille minus bonus pater familias
habitus est quam ciuis. Nam cum esset pecuniosus, nemo illo minus fuit emax, minus aedificator. Neque tamen non in primis bene habitauit
omnibusque optimis rebus usus est. Nam domum habuit in colle Quirinali Tamphilianam,
ab avunculo hereditate relictam, cuius amoenitas non aedificio, sed silva constabat: ipsum
enim tectum antiquitus constitutum plus salis
quam sumptus habebat: in quo nihil commutauit, nisi si quid vetustate coactus est. Usus est
familia, si utilitate iudicandum est, optima, si
forma, vix mediocri. Namque in ea erant pueri
litteratissimi, anagnostae optimi et plurimi librarii, ut ne pedisequus quidem quisquam esset, qui non utrumque horum pulchre facere
posset, pari modo artifices ceteri, quos cultus
domesticus desiderat, adprime boni. Neque tamen horum quemquam nisi domi natum domique factum habuit: quod est signum non solum
continentiae, sed etiam diligentiae. Nam et non
intemperanter concupiscere, quod a plurimis
videas, continentis debet duci, et potius diligentia quam pretio parare non mediocris est industriae. elegans, non magnificus, splendidus,
non sumptuosus: omnique diligentia munditiam, non affluentiam affectabat. Supellex modica, non multa, ut in neutram partem conspici
posset. Nec praeteribo, quamquam nonnullis
leue visum iri putem, cum in primis lautus esset
eques Romanus et non parum liberaliter domum suam omnium ordinum homines inuitaret,
non amplius quam terna milia peraeque in singulos menses ex ephemeride eum expensum
sumptui ferre solitum. Atque hoc non auditum,
sed cognitum praedicamus: saepe enim propter
familiaritatem domesticis rebus interfuimus.
Le biografie di Cornelio Nepote
comune amicizia mi portò ad occuparmi del suo
andamento di casa.
[14] Alla sua tavola nessuno udì altri allettamenti che la voce del lettore, che pare anche a
me la cosa più piacevole; non si pranzava mai
in casa sua che non si leggesse qualche cosa, di
modo che i convitati avessero modo di ricrearsi
non solo nel palato, ma anche nella mente; 2. e
appunto invitava quelli che la pensavano come
lui. Anche quando il suo patrimonio si fu tanto
accresciuto, non cambiò nulla nelle sua abitudini quotidiane, nulla del suo tenore di vita; ed
ebbe sempre tanta misura che con i due milioni
di sesterzi ereditati dal padre non mostrò mai
grettezza, e con i dieci visse non più largamente
di prima: nelle due diverse condizioni si mantenne negli stessi limiti. 3. Non ebbe grandi giardini, non ville sfarzose fuori città o al mare,
non vaste tenute in Italia, ma solo un podere in
quel di Arezzo e uno in quel di Nomento; tutti i
suoi redditi provenivano dai possedimenti in
Epiro e da stabili in città: da ciò si può capire
come fosse suo principio far uso del danaro non
secondo la quantità, ma secondo il buon senso.
[18] Fu anche appassionato cultore delle costumanze del passato, studioso dell’antichità: e ne
acquistò sì vasta competenza da farne una completa esposizione in quel libro in cui diede
l’elenco dei magistrati: 2. non c’è legge o pace
o guerra o fatto importante del popolo romano
che non vi sia ricordata alla giusta data; e seppe
introdurvi – il che dové essere molto difficile –
le origini delle varie famiglie, così da renderci
possibile la conoscenza delle discendenze degli
uomini celebri. 3. Trattò lo stesso argomento
anche in operette separate; così, richiesto da
Marco Bruto, stese la genealogia della famiglia
Giunia dal capostipite fino ai nostri giorni, dando di ciascun membro la paternità, le magistrature esercitate e le date relative; 4. altrettanto
fece per Claudio Marcello intorno alla famiglia
dei Marcelli, per Scipione Cornelio e per Fabio
Massimo intorno a quelle dei Fabi e degli Emili.
Tutti quelli che hanno piacere di conoscere
qualche cosa degli uomini famosi non potrebbero trovare un libro più gradevole. 5. Si cimentò anche con la poesia, per non rimanere
digiuno, almeno credo, di quella dolcezza: erano versi in onore di coloro che per dignità o per
importanza di azioni compiute si distinsero tra
gli altri del popolo romano, così concepiti che,
6. riuniti in gruppi di quattro o cinque al massimo sotto i ritratti di ciascuno, ne compendiavano fatti e magistrature: ed è appena credibile
come si possano conciliare tanta brevità e tanta
grandezza di cose. Ci rimane anche un libro, in
greco, sul consolato di Cicerone.
[14] Nemo in convivio eius aliud acroama audivit quam anagnosten, quod nos quidem iucundissimum arbitramur; neque umquam sine
aliqua lectione apud eum cenatum est, ut non
minus animo quam ventre conuivae delectarentur: namque eos vocabat, quorum mores a suis
non abhorrerent. Cum tanta pecuniae facta esset accessio, nihil de cotidiano cultu mutavit,
nihil de vitae consuetudine, tantaque usus est
moderatione, ut neque in sestertio vicies, quod
a patre acceperat, parum se splendide gesserit
neque in sestertio centies affluentius vixerit,
quam instituerat, parique fastigio steterit in
utraque fortuna.
Nullos habuit hortos, nullam suburbanam aut
maritimam sumptuosam uillam, neque in Italia,
praeter Arretinum et Nomentanum, rusticum
praedium, omnisque eius pecuniae reditus constabat in Epiroticis et urbanis possessionibus.
Ex quo cognosci potest usum eum pecuniae non
magnitudine, sed ratione metiri solitum.
[18] Moris etiam maiorum summus imitator fuit
antiquitatisque amator, quam adeo diligenter
habuit cognitam, ut eam totam in eo volu mine
exposuerit, quo magistratus ordinavit. Nulla
enim lex neque pax neque bellum neque res illustris est populi Romani, quae non in eo suo
tempore sit notata, et, quod difficillimum fuit,
sic familiarum originem subtexuit, ut ex eo clarorum virorum propagines possimus cognoscere. Fecit hoc idem separatim in aliis libris, ut
M. Bruti rogatu Iuniam familiam a stirpe ad
hanc aetatem ordine enumeraverit, notans, qui
a quo ortus quos honores quibusque temporibus cepisset: pari modo Marcelli Claudii de
Marcellorum, Scipionis Cornelii et Fabii Maximi Fabiorum et Aemiliorum. quibus libris nihil
potest esse dulcius iis, qui aliquam cupiditatem
habent notitiae clarorum virorum. Attigit poeticen quoque, credimus, ne eius expers esset suavitatis. Namque versibus, qui honore rerumque
gestarum amplitudine ceteros Romani populi
praestiterunt, exposuit ita, ut sub singulorum
imaginibus facta magistratusque eorum non
amplius quaternis quinisque versibus descripserit: quod uix credendum sit tantas res tam
breviter potuisse declarari. Est etiam unus liber
Graece confectus, de consulatu Ciceronis.
(trad. di C. Vitali)
201
202
Storiografia, biografia, antiquaria
Giulio Cesare
La vita
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Giulio Cesare. Musei Vaticani.
La guerra gallica
Traiamo la maggior parte delle notizie sulla vita di Cesare da Plutarco e da Svetonio, biografi l’uno greco, l’altro latino della fine I secolo - inizio II secolo d.C., nelle
cui opere figura una Vita di Cesare.
Nato a Roma verso il 100 a.C. dalla famiglia patrizia dei Giulii, che vantava una mitica discendenza da Iulo, figlio di Enea, ebbe una giovinezza movimentata. I suoi
legami familiari con Mario (ne era il nipote) e con altri capi della fazione popolare
(aveva sposato la figlia di Cornelio Cinna, seguace del partito di Mario) lo rendevano sospetto al dittatore Silla che lo osteggiò e ne arrivò a meditare l’uccisione. Costretto ad una fuga rocambolesca e a nascondersi, fu risparmiato grazie all’intercessione di Aurelio Cotta, fratello della madre, appartenente al partito aristocratico.
L’ostilità di Silla lo indusse, ventenne, ad allontanarsi da Roma, dove rientrerà solo
nel 78, dopo la sua morte. Partì quindi per l’Asia, dove si fece particolarmente onore come ufficiale. Tornato a Roma, dove aveva avuto come maestro di retorica
l’analogista Gnifone, celebre retore della Gallia, nel 77 si diede alla carriera forense, strumento indispensabile per chi volesse dedicarsi alla vita politica: accusò di
concussione prima Dolabella per la sua gestione come proconsole in Macedonia,
poi Gaio Antonio Ibrida, entrambi di parte sillana. Non vinse (la parte politica avversa era ancora molto forte), ma si fece conoscere ed apprezzare per le sue doti di
eloquenza. Altri discorsi, di cui ci sono pervenuti solo frammenti, terrà in diverse
occasioni: fra questi gli elogi funebri, secondo la tradizione, per la morte della zia
paterna Giulia, vedova di Gaio Mario e per quella della moglie Cornelia, morte a
poca distanza di tempo fra il 69 e l’inizio del 68. Nel 75 si recò a fare un viaggio
d’istruzione in Grecia a Rodi, luogo in cui si recavano i giovani delle classi elevate
per avere una buona formazione, e dove seguirà le lezioni del maestro di eloquenza Apollonio Molone, che fu maestro anche di Cicerone. Fu però catturato dai pirati della Cilicia; rimase a lungo loro prigioniero e, dopo essere stato liberato dietro il
pagamento di un riscatto, diede loro la caccia e, catturatili, si vendicò facendoli crocifiggere tutti. Tornato a Roma nel 72 fu eletto tribuno militare e si dedicò ad una
serie di battaglie peculiari della tradizione e dello schieramento dei populares, divenendone il leader riconosciuto. Fra il 69 e il 60 percorse tutto il cursus honorum. In
questo periodo si impone all’attenzione della «grande» politica: a Roma, in particolare con l’edilità (65) ottenne, con una politica di munificenza, feste e spettacoli,
una forte affermazione personale presso la plebe; fuori Roma si segnalò in diverse
campagne militari in Oriente (Asia Minore nel 63) e in Occidente (Penisola iberica
nel 61); ottenne il pontificato massimo (63), carica a vita di carattere religioso che
gli conferì ulteriore prestigio; strinse con Crasso e Pompeo il «primo triumvirato»,
accordo privato di reciproco sostegno politico.
Nel 58 a.C. fu eletto proconsole per la Gallia meridionale dove condusse una lunga
guerra contro i Galli, conclusasi nel 52 a.C., che avrebbe portato Roma alla conquista di tutta la Gallia. Tali azioni sono da lui stesso narrate nei Commentarii de
bello Gallico in sette libri, uno per ogni anno. Mentre egli era in Gallia, a Roma, il
partito a lui avverso degli optimates (oligarchia senatoriale), di fronte al suo crescente prestigio e potere, cercava di ostacolarne l’ascesa: temendone la popolarità, dopo la morte di Crasso nel 53 a.C, affidò a Pompeo la difesa degli interessi e
dell’autorità del senato nominandolo nel 52 a.C. «console senza collega». Intanto a
Giulio Cesare
Cesare veniva negato il prolungamento del comando in Gallia fino alla fine del 49
nonché la possibilità di chiedere per quello stesso anno il consolato anche se assente da Roma. Di fronte a queste azioni e alla richiesta di licenziare l’esercito e
cedere il comando della Gallia (il comando supremo veniva affidato a Pompeo),
Cesare, dopo aver invano tentato una conciliazione con il senato, disobbedendo
agli ordini ricevuti, entrò in Italia con truppe armate: con il passaggio del Rubicone,
piccolo fiume a sud di Ravenna che segnava il confine fra la Gallia Cisalpina e
l’Italia attraversando il quale, secondo il racconto di Svetonio, avrebbe pronunciato
la famosa frase Iacta alea est («Il dado è tratto»), cominciò la guerra civile, che
conclusasi con la sconfitta di Pompeo a Farsàlo (in Tessaglia, regione della Grecia)
nel 48 a.C. e dei suoi seguaci a Tapso (in Africa) nel 46 e a Munda (in Spagna) nel
marzo del 45, viene narrata da Cesare nei tre libri dei Commentarii de bello civili,
scritti forse nel 45 a.C. Nel 44 a.C. fu nominato dittatore a vita ma, nonostante la
sua politica di clemenza e la sua condotta, protese come sempre, alla ricerca del
consenso e al compromesso, fu ordita una congiura dalla nobiltà senatoriale che
mal vedeva il suo programma di riforme istituzionali che avrebbe limitato il potere
degli optimates. Cadde, secondo il racconto di Svetonio, trafitto da ventitré pugnalate. Fra i cesaricidi Marco Bruto a cui, secondo uno dei drammatici aneddoti sulla
sua morte narrato, ancora una volta, da Svetonio, Cesare avrebbe rivolto le famose
parole: Tu quoque, Brute, fili mi? («Anche tu, Bruto, figlio mio», in Svetonio in greco: kài su técnon?)1.
La guerra civile
I commentarii
La forma dei commentarii (calco semantico dal greco upomnémata = «appunti,
pro-memoria») scelta da Cesare per le sue opere, si iscriveva nella più recente tradizione storiografica romana. Fino ad allora il ricordo degli avvenimenti e delle imprese compiute era stata affidata ad opere annalistiche spesso scritte, a scopo
propagandistico, in greco, perché fossero conosciute anche al di là dell’Italia, opere, dal punto di vista letterario, di scarso rilievo. Dalla fine del II secolo a.C. si ha
una larga fioritura di memorie particolarmente apprezzata dal pubblico romano che
in esse trovava la testimonianza «che ha per noi la stampa quotidiana e appassionava il pubblico proprio per quello che a noi può dispiacere, la sua aggressività polemica, la sua tendenziosità più o meno scoperta» (La Penna). Si era diffusa infatti
la consuetudine, da parte di chi aveva compiuto imprese ritenute memorabili, pretori, censori, consoli, generali vittoriosi, di affidare a commentarii il ricordo delle
proprie gesta. Questi non rientravano per gli antichi fra le opere appartenenti al genere storiografico, che richiedeva un progetto letterario vero e proprio; erano solo
materiali da cui trarre eventualmente una vera e propria historia . Tuttavia quelli di
Cesare furono considerati anche dai contemporanei così ben scritti (Cic., Brutus
262: nudi … sunt, recti et venusti, «sono disadorni, semplici (puntuali, schietti) ed
eleganti»; Irzio, B. G. VIII praef. 6: bene atque emendate, «bene e correttamente»)
da distogliere chiunque dal metterci mano.
Con molta probabilità Cesare, nel mettere insieme i materiali riguardanti le due
guerre da lui condotte (i resoconti al senato delle campagne militari, i rapporti stesi
dai suoi luogotenenti operanti sui vari fronti, i pro-memoria e le annotazioni perso1. Era opinione diffusa che Bruto fosse figlio di Cesare e Servilia, madre di Bruto, che, in
contrasto con lo schieramento politico della sua famiglia, aveva coltivato una forte passione
per Cesare.
La dignità letteraria dei
commentari
203
204
Storiografia, biografia, antiquaria
nali), li rielaborò in vista di una loro pubblicazione. Scrivendo in un nuovo stile narrativo «delle cui possibilità rinnovatrici forse non era del tutto consapevole lo stesso
Cesare» (La Penna), diede una diversa dignità letteraria ad un genere che fino ad
allora non aveva avuto pretese artistiche.
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
I commentarii di Cesare
Il De bello Gallico
Due i commentarii scritti da Cesare: il De bello Gallico e il De bello civili, la cui veridicità già alcuni degli antichi misero in discussione. Riguardo la guerra gallica i suoi
avversari lo accusavano di aver condotto una campagna inutile e costosa sia in termini economici che di vite umane solo per la propria ambizione di potere; riguardo
la guerra civile l’accusa era di averla scatenata non per difendere la legalità, come
egli sosteneva, ma i propri interessi. Le opere scritte per raccontarle avrebbero
avuto solo intenti propagandistici (la verità sarebbe stata deformata, secondo Asinio Pollione, vuoi «intenzionalmente», vuoi «per dimenticanza»), per giustificare il
proprio operato.
La questione si è protratta fino ad oggi ma è ancora irrisolta.
Gli studi più recenti, forti della conoscenza dei mezzi della propaganda politica,
tendono a ridimensionare il problema riconoscendo alle opere sì uno scopo apologetico, e quindi una visione parziale dei fatti, ma senza sostanziali falsificazioni che
d’altronde il pubblico contemporaneo avrebbe subito individuato.
Oggetto del De bello Gallico è la descrizione particolareggiata della guerra condotta contro i Galli dal 58 al 52 a.C., guerra che si iscrive nella politica romana di
espansione del I secolo a.C.
• Eletto proconsole per cinque anni nella provincia romana (Cisalpina e Narbonese) della
Gallia meridionale (incarico che gli verrà poi protratto per altri cinque anni), Cesare, approfittando inizialmente di rivalità fra le tribù del luogo, e interpretando, a torto o a ragione, alcuni movimenti migratori come una possibile minaccia per la provincia romana, costringe la tribù gallica degli Elvezi a tornare nei propri territori e ricaccia al di là del Reno
la tribù germanica degli Svevi guidati da Ariovisto, dopo averli sconfitti in Alsazia; Cesare ottiene così il dominio della parte centrale della Gallia (58 a.C. – I libro).
• Cesare volge la sua campagna contro i Belgi nel nord-est della Gallia e ottiene un’importante vittoria sulla loro tribù dei Nervi, per celebrare la quale dal senato viene decretata una festa di ringraziamento (supplicatio) di quindici giorni (57 a.C. – II libro).
• Cesare combatte nel nord della Gallia: in Normandia, dove sottomette la popolazione
dei Venelli; in Bretagna, dove annienta i Veneti; frattanto il suo luogotenente Publio Licinio Crasso, figlio del triumviro, sconfigge gli Aquitani stanziati a sud- ovest della Gallia.
Sulla costa settentrionale vengono sottomesse anche le popolazioni belgiche dei Mòrini
e dei Mènapi (56 a.C. – III libro).
• Le tribù germaniche dei Tèncteri e degli Usipeti, stanziati sulla riva destra del Reno (sui
Germani Cesare si sofferma in un lungo excursus), attraversano il fiume e passano in
territorio gallico, ma sono annientate da Cesare. Viene costruito un ponte sul Reno e i
Romani passano al di là e devastano alcuni territori della popolazione germanica dei Sigambri. Cesare si spinge in Britannia, ma, mentre egli è lì, le navi che devono raggiungerlo con la cavalleria, vengono colte da una tempesta e sono costrette a tornare indietro; il senato decreta nuove feste di ringraziamento, questa volta di venti giorni (maggiore era la durata, maggiore l’onore per il comandante) (55 a.C. – IV libro).
• Cesare compie una seconda spedizione in Britannia (su cui Cesare fa un breve excursus etno-geografico) arrivando fino al Tamigi (Tamesis) dove vince il comandante dei
Britanni Cassivellauno. Tornato indietro, deve affrontare tentativi di ribellione nella Gallia
nord-orientale che riesce a reprimere, seppure con qualche iniziale insuccesso e grandi
perdite nell’esercito romano (54 a.C. – V libro).
• I Galli della Gallia Belgica e i Germani cisrenani tentano di ribellarsi al dominio romano,
ma Cesare assale i Mènapi e muove contro i Trèviri. Compie poi un’azione dimostrativa:
attraversa per la seconda volta il Reno e insegue la popolazione germanica dei Suebi.
Giulio Cesare
Fermatosi alla Foresta nera (silva Hercynia) torna in Gallia dove riesce ad annientare gli
Eburoni il cui territorio confinava con quello dei Mènapi (53 a.C. – VI libro).
• I Galli, messe da parte le loro reciproche ostilità, si uniscono contro i Romani sotto la
guida di Vercingetorige, capo degli Arverni. Dopo alcuni successi i Romani, in seguito
all’azione di Vercingetorige che taglia loro ogni possibilità di vettovagliamento bruciando
campi e villaggi, nonostante le difficoltà riescono a conquistare Avarico, capitale dei Biturigi; pongono sotto assedio anche Gergovia, città degli Arverni, di cui tuttavia non
riescono a impadronirsi; infine assediano Alesia dove i Galli, presi per fame, vengono
definitivamente sconfitti. Il loro capo si arrende e si consegna a Cesare. Il senato decreta una terza supplicatio di venti giorni (52 a.C. – VII libro).
• Dopo la morte di Cesare Aulo Irzio, suo luogotenente, aggiunge ai libri scritti da Cesare
un ottavo libro in cui descrive la campagna militare contro i Bellovaci ed espone gli antefatti della guerra civile (51-50 a.C. – VIII libro).
In tal modo viene colmato l’intervallo di tempo intercorrente fra gli avvenimenti descritti
nel De bello Gallico e quelli del De bello civili.
La pubblicazione del racconto di questi avvenimenti avvenuta nel 51, quando si
profilava la rottura fra Cesare e Pompeo, doveva avere, per Cesare, lo scopo di far
conoscere al popolo romano i «veri» motivi che lo avevano spinto a tale e così
aspra guerra. I suoi avversari infatti (fra cui Catone l’Uticense) lo accusavano di
aver voluto quella guerra solo per arricchirsi (effettivamente ne ricavò una grande
forza economica – ma questo era d’altronde ciò che spingeva ad andare a governare terre lontane – grazie alla quale poté poi affrontare i suoi avversari) e di aver
compiuto inutili stragi. Egli con la sua opera vuole dimostrare l’infondatezza di tali
accuse e al tempo stesso mettere in luce la sua abilità militare: la guerra era necessaria perché la situazione in Gallia era pericolosa per le province romane confinanti. Il ricordo dell’invasione dei Cimbri favorì in molti la convinzione che le cose
stessero effettivamente così e il timore di una nuova minaccia germanica fece ritenere necessario l’intervento armato. Non si può negare comunque l’intento propagandistico: la reticenza sugli insuccessi, l’enfasi sulle azioni di Cesare, pur nella lucida analisi delle situazioni, dimostrano grande abilità nei resoconti cesariani. La
scelta di raccontare le sue imprese in terza persona con il conseguente effetto di
«spersonalizzazione della voce narrante è di incredibile rilievo … i maggiori vantaggi vengono conseguiti a livello di credibilità … Cesare imperator affida ad un imparziale Cesare-scrittore il ruolo di testimone degli avvenimenti» (Cipriani). Ricordiamo d’altronde che per i Romani non era ritenuto opportuno autoelogiarsi: Cicerone (Ad fam. V, 12, 8) afferma che chi scrive del proprio operato deve farlo verecundius («con toni sfumati») e comunque corre il rischio che la fides («credibilità») e la auctoritas («autorevolezza») del suo racconto sia minore che se la narrazione fosse fatta da un altro (per questo egli aveva chiesto a più amici-scrittori di
narrare gli anni del suo consolato).
Mentre Cesare conduceva la guerra contro i Galli, a Roma si conduceva un’aspra
contesa fra optimates e populares. Egli più volte era tornato a Roma per tenere la
situazione sotto controllo; e così fu finché restò in vita l’accordo con Pompeo da
cui entrambi avevano tratto vantaggi: Cesare aveva appoggiato Pompeo precedentemente, nel 67, per l’attribuzione del comando della guerra contro i pirati (lex Gabinia) e nel 66 per il conferimento del comando della guerra contro Mitridate (lex
Manilia); Pompeo aveva, insieme con Crasso, appoggiato Cesare nel 60 per
l’elezione al consolato e nel 56 per il rinnovo per un secondo quinquennio del suo
proconsolato in Gallia.
Ma i rapporti si faranno critici soprattutto quando, dopo la morte di Crasso sconfitto
dai Parti, il senato, nel 52, sceglierà Pompeo come tutore dell’ordine (in seguito ai
L’intento propagandistico
Il De bello civili
205
206
Storiografia, biografia, antiquaria
disordini provocati dall’uccisione di Clodio) e difensore dei suoi interessi; da parte
sua Pompeo, temendo che Cesare avrebbe finito per conquistare il governo e fors’anche per riformare lo stato, dopo tante incertezze decise di salvare l’oligarchia
(Syme). Dunque dopo la vittoria sulla Gallia e la sua definitiva pacificazione e organizzazione, il senato cercò di impedire a Cesare di presentare la sua candidatura
al consolato per il 48 in absentia. Era un modo per tenerlo lontano dal potere ma
egli reagì: al comando di sciogliere l’esercito2 oppose un netto rifiuto e passò in armi il Rubicone. Siamo nel 49 ed è l’inizio della guerra civile, da Cesare narrata nel
de bello civili, opera rimasta incompiuta, scritta forse dopo la vittoria di Munda del
45 a.C. e pubblicata dopo la sua morte.
Nel I e II libro sono narrati gli avvenimenti del 49, nel III quelli del 48.
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
• L’opera si apre con la descrizione delle sedute del senato dei cui componenti viene dipinta con particolare efficacia la psicologia nella scelta di porsi come nemici di Cesare.
La situazione precipita verso la guerra. Il senato, contro il parere dei tribuni della plebe,
decide che Cesare deve deporre il comando dell’esercito e gli invia un ultimatum che
egli non accetta. Entrato in Italia, tra vittorie e rese spontanee di città, conquista con facilità l’Italia centrale e si dirige a sud verso Brindisi dove si era ritirato Pompeo con i consoli. Da Brindisi Pompeo si imbarca per l’Epiro ma Cesare, che non ha navi, non riesce
ad inseguirlo. Si sposta allora in Spagna, dove si trovava un altro esercito di pompeiani
che, dopo esiti altalenanti, riesce ad annientare ad Ilerda (I libro).
• Dopo aver sottomesso tutta la Spagna Cesare si reca nella pompeiana Marsiglia; dopo
un lungo assedio, ampiamente descritto, riesce a farla capitolare. I cesariani, guidati da
Curione, sono sconfitti in Africa dai pompeiani aiutati da Giuba, re di Numidia (II libro).
• Nominato console nel 48, Cesare si ferma a Roma solo pochi giorni; poi va a Brindisi da
dove si imbarca per Durazzo, con le poche truppe che possono essere trasportate dalla
piccola flotta di cui dispone. Dopo la resa di alcune città presidiate dai pompeiani la situazione rimane a lungo incerta: i due eserciti ora bloccano i rifornimenti agli avversari,
ora si fronteggiano in scontri non decisivi. A Durazzo Cesare subisce una grave sconfitta in seguito alla quale è costretto a ritirarsi in Tessaglia. Qui, a Farsàlo, avviene la battaglia decisiva, da Cesare descritta nei più piccoli dettagli: dal giorno della vigilia in cui i
pompeiani, sicuri della vittoria, discutono dei loro progetti e si spartiscono cariche, a
quello della vittoria resa possibile dalla superiore efficienza dell’esercito cesariano.
Pompeo fugge e si reca prima in Asia Minore, poi a Cipro, infine in Egitto, dove viene
ucciso a tradimento dal prefetto del giovane re Tolomeo, fratello di Cleopatra, con lei in
guerra per il trono. Coinvolto in questo conflitto Cesare si schiera con Cleopatra (divenuta sua amante), ma viene assediato ad Alessandria (III libro).
Bellum Alexandrinum,
Bellum Africanum,
Bellum Hispaniense
Il seguito delle vicende (48-47 a.C.) sarà materia del Bellum Alexandrinum, opera
contenuta nel corpus cesariano.
I codici che contengono il Bellum Gallicum e il Bellum civile ci hanno tramandato
infatti anche un ottavo libro del Bellum Gallicum scritto, come si è detto, dal luogotenente di Cesare, Aulo Irzio, con l’intento di completarne l’opera dando il resoconto degli avvenimenti del 51 a.C. (in Gallia c’era stato qualche tentativo di ribellione),
il Bellum Alexandrinum, anch’esso forse opera di Irzio, il Bellum Africum che narra
gli avvenimenti del 46, il Bellum Hispaniense riguardante quelli del 45. Di questi ultimi due non conosciamo l’autore.
Lingua e stile
L’analogia
Formatosi alla scuola del grammatico Gnifone, analogista, Cesare ne abbracciò
l’impostazione del pensiero da cui gli deriveranno le scelte in ambito linguistico e
2. Ricordiamo che già in questo tempo il legame fra esercito e comandante era fortissimo
andandosi a costituire come elemento di potere del comandante stesso che sulle sue forze
militari poteva contare, a livello personale, incondizionatamente.
Giulio Cesare
stilistico. È di quei tempi (I sec. a.C.) la polemica fra atticismo (scuola di Alessandria) e asianesimo (scuola di Pergamo), due indirizzi che si contrapponevano nella
concezione della lingua e che diedero luogo a due teorie, quella dell’«analogia» e
quella dell’«anomalia». La prima, partendo dalla convinzione che la lingua è fondata sulla ratio, propugnava rigide norme grammaticali ed uno stile sobrio ed asciutto;
la seconda riteneva che la lingua fosse determinata dall’usus e accoglieva ogni libertà espressiva, per cui ne risultava uno stile ridondante e ampolloso.
A determinare lo stile contribuiscono le scelte lessicali, morfologiche, sintattiche.
Cesare, obbedendo al principio da lui stesso espresso: tamquam scopulum, sic fugias inauditum atque insolens verbum («evita, così come uno scoglio, le parole mai
sentite e inusuali»), non si serve di parole disusate ed evita arcaismi, barbarismi e
neologismi; le poche parole greche che si incontrano nella sua opera o sono già da
tempo radicate nella lingua latina o sono termini tecnici riguardanti soprattutto la
guerra.
Così nelle scelte di carattere morfologico usa le forme generalmente accettate;
d’altronde «le tendenze della scuola pergamena a favore dell’“anomalia” non andavano d’accordo con le esigenze della lingua letteraria in via di sviluppo, cui era necessaria la stabilizzazione del sistema morfologico alquanto indebolito» (Tronskij).
Altrettanto normalizzata è la sintassi. Ciò che la caratterizza particolarmente è
l’uso frequente di ablativi assoluti con participi perfetti, caratteristica forse più che
di Cesare, del genere da lui scelto dei commentarii, che per loro stessa natura tendono alla brevità.
Anche l’ampio uso del discorso indiretto in cui spesso ci imbattiamo nella sua opera «forse trae la stessa origine dal linguaggio di governo e dallo stile di cancelleria»
(Leeman).
Ma al di là dell’origine o dei motivi delle scelte, Cesare, grazie ad esse, raggiunge
uno stile che al lettore risulta semplice eppure, senza fronzoli e ricercatezze erudite, limpido ed elegante.
Questa semplicità, che, come è stato dimostrato (Perrotta), è in realtà frutto di una
profonda elaborazione, non gli ha impedito di permeare spesso di pathos – la
drammatizzazione gli derivava dalla storiografia ellenistica – gli avvenimenti narrati.
È questo che ha fatto dire a La Penna: «leggo sempre con piacere ed ammirazione
il suo racconto piano, tutto cose, le sue descrizioni precise, ma non sento lì la grandezza di Cesare scrittore: essa è soprattutto là dove quello stile, senza nulla perdere della sua chiarezza e sobrietà, sa rendere la forza ed anche la complicatezza
d’una situazione drammatica. … Cesare drammatizza con vigore, ma senza gonfiezza; lascia da parte la drammatizzazione esteriore, scenografica dei suoi biografi … non esagera nei colori, rifugge dall’orrido … e qui si rivela in tutto il suo valore
la sua elaborata semplicità».
La semplicità
La fortuna
Già fra i contemporanei la figura di Cesare ha goduto di un grande prestigio che si
è conservato per lunghi secoli. Non era d’altronde personaggio che si potesse
ignorare, se ne fosse ammiratori o avversari. Sul duplice aspetto della sua personalità di scrittore e di uomo politico gli atteggiamenti e i giudizi, come sempre accade soprattutto per il secondo aspetto, sono stati discordi fin dall’antichità. Giudicato
oratore brillante (Cic., Epist. a Cornelio Nepote: «Chi gli vorresti anteporre, anche
cercando fra quelli che non si dedicarono ad altro? Chi più arguto, più ricco di con-
Gli autori antichi
207
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
208
Storiografia, biografia, antiquaria
Il Medioevo
Dall’Umanesimo
all’Ottocento
cetti, più ornato, più elegante?», Quint., Inst. or., 114 C.: «Cesare, se si fosse dato
soltanto all’attività oratoria, sarebbe stato l’unico da contrapporre a Cicerone…»),
gli veniva per lo più riconosciuta capacità di scrittore se pur disadorno, asciutto ed
elegante (Cic., Brutus 262). Ma c’era anche chi discordava dall’atteggiamento di
ammirazione: Asinio Pollione giudicò i suoi commentarii poco curati e poco rispettosi della verità e scriverà, una ventina di anni dopo la guerra civile, in cui aveva
militato dalla parte di Cesare, delle Historiae che volevano contrastare la «verità»
di Cesare e demolire i commentarii come fonte; Catullo gli dimostrò avversione attaccandolo più volte nei suoi carmi (11, 29, 54, 57, 93). Tuttavia le sue opere storiche furono fonte per Livio e Tacito, che, nella Germania (28, 1) lo definisce summus auctorum Divus Iulius («storico di somma autorità»).
Ne riconobbe la statura gigantesca Virgilio, che nelle Georgiche (I 463-488) affidò
l’annuncio della sua uccisione a prodigi naturali, come fosse un semidio. Una diversa immagine di Cesare emergerà nel secolo seguente nell’opera di Lucano: avversario di ogni forma di assolutismo, in Cesare ne vide il prototipo e il simbolo così
da rappresentarlo eroe superbo ed empio.
Così Cesare come personaggio conserverà questo duplice aspetto: eroe positivo
ed eroe negativo, e di questi si approprieranno governanti, intellettuali e scrittori di
ogni tempo presentandolo in un modo o nell’altro secondo la loro chiave di lettura,
soprattutto politica.
Dopo l’oblio da parte dei Padri della Chiesa e l’errata attribuzione dei commentarii
ad altri storici (lo storico Orosio nel V secolo li attribuì a Svetonio), nel Medioevo
l’opera di Cesare non fu nota.
Neanche Dante, che lo conobbe attraverso l’immagine che ne avevano dato Svetonio e Lucano (da qui la figurazione, nell’Inferno IV 123, di «Cesare armato con li
occhi grifagni»), aveva letto i suoi commentarii.
Fu nel Trecento che gli fu restituita la paternità della sua opera storica per merito
soprattutto di Coluccio Salutati.
Petrarca, che lo lesse direttamente e gli dedicò una biografia (De gestis Caesaris),
lo presenta nella Canzone IV, Italia mia, vv. 49-51, come «genio della guerra»,
(«Cesare taccio, che per ogni piaggia / fece l’erbe sanguigne / di lor vene ove ’l nostro ferro mise»). È la stessa ammirazione per il grande condottiero che proverà
Manzoni verso Napoleone.
Cesare ha riscosso grande ammirazione ora come scrittore, ora come statista e
genio militare. Fin dall’Umanesimo i suoi commentarii furono letti e diffusi anche in
traduzione riscuotendo l’interesse di scrittori e statisti di gran parte dell’Europa e
non solo. Fra i primi ricordiamo Erasmo da Rotterdam, Montaigne, Shakespeare,
Voltaire, Alfieri; fra i secondi, segnalati da Napoleone III, autore di una incompiuta
Histoire de Jules Caesar, Carlo VIII, che si fece regalare una traduzione del Bellum Gallicum, l’imperatore Carlo V che lo studiò con cura glossandolo con osservazioni personali, il sultano turco Solimano II, Enrico IV, Luigi XIII, Luigi II detto il
Gran Condé; infine Napoleone Bonaparte, nel quale c’è «un vero e proprio processo di auto-identificazione» (Canfora), autore di un Précis des guerres de César,
scritto, sotto sua dettatura, da M. Marchand.
Ma, come si è accennato, se governanti e statisti lo vedevano in genere come
grande generale da cui imparare strategia e tattica di guerra (tanto da divenire testo di studio nelle scuole militari), spesso, nei periodi di lotta ai regimi assoluti, come il Rinascimento o durante la rivoluzione francese, letterati e difensori della libertà ne coglievano un altro aspetto, quello del tiranno liberticida; erano così esal-
Giulio Cesare
tati ed osannati i tirannicidi, Bruto in particolare, che veniva a rappresentare
l’amore per la libertà sopra ogni cosa, anche gli affetti.
Anche l’arte figurativa segue la duplice interpretazione di Cesare e da una parte
possiamo ammirare il «Trionfo di Cesare» del Mantegna, dall’altra la statua raffigurante Bruto di Michelangelo che rappresenterebbe, secondo alcuni critici, le idee
politiche dell’artista e la «incarnazione della libertà del cittadino».
Dopo la Rivoluzione francese e gli anni del Risorgimento italiano in cui le idee libertarie rendevano avverse figure come quella di Cesare, venne la sua rivalutazione. Verso la metà dell’Ottocento lo storico tedesco Theodor Mommsen, con cui iniziò una nuova considerazione del suo operato, scrisse a proposito della sua conquista in Gallia: «… secoli passarono prima di comprendere che Cesare non aveva
soltanto acquistato pei Romani una nuova provincia, ma che aveva fondata la romanizzazione delle province occidentali … Questo ampliamento dell’orizzonte storico oltre le Alpi fu un avvenimento della stessa importanza storico-universale dell’esplorazione dell’America da parte degli europei … È opera di Cesare, quindi, se,
dalla passata grandezza dell’Ellade e dell’Italia, un ponte conduce all’edificio più
magnifico della moderna storia del mondo, se l’Europa occidentale è diventata romana, se l’Europa germanica è divenuta classica…».
Nel XIX secolo, da una nuova elaborazione e anche dall’ammirazione per la sua figura in cui si incarna l’«uomo del destino, superuomo, risolutore di antinomie storiche» (Momigliano), nasce il Cesarismo, un nuovo ideale politico che trova realizzazione in Napolene III.
Seguirà nel Novecento, durante il fascismo, una nuova esaltazione di Cesare e si
tenterà «nella propaganda la sua identificazione, peraltro incerta e superficiale,
con Mussolini».
In tale secolo Cesare torna ad essere personaggio, spesso protagonista, in più di
un’opera letteraria: un nome per tutti, il più noto: Bertolt Brecht con il romanzo Gli
affari del signor Giulio Cesare, pubblicato dopo la sua morte nel 1957.
Vanno infine ricordati gli autori dei quaderni di fumetti di Asterix, eroe gallico di un
villaggio ancora tutto celtico e immune dalla romanizzazione di Petibonum, che
«assegnano a Cesare la statura di un eroe dei fumetti, millantatore, insofferente e
prepotente, ma anche debole e infantile e sempre, ovviamente, battuto e giuocato,
pur con il suo grande e potente esercito, dal coraggio e dalla destrezza di Asterix
cui si affianca la forza, di origine magica, di Obelix; non mancano pagine di notevole e brillante spirito, ispirate di prima mano al testo dei commentarii» (Pennacini),
letti, naturalmente, con l’occhio dei francesi!
Fine Ottocento
e Novecento
209
210
Storiografia, biografia, antiquaria
Sallustio
La vita
I dati del Chronicon
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
L’origine municipale
e agiata
Sallustio, medaglione (Roma,
Museo Capitolino).
La militanza nel partito
popolare
Una vita non irreprensibile
Il governatorato d’Africa
Il distacco dalla politica e
l’attività di storico
Le poche notizie sulla vita di Gaio Sallustio Crispo si traggono dal Chronicon (prospetto sinottico di avvenimenti ordinati in base alla data delle olimpiadi) di Girolamo
(IV-V secolo d.C.), che le deriva probabilmente da una biografia scritta da Svetonio
(II secolo d.C.) per una serie De historicis (accanto a quelle De poetis, De grammaticis, ecc.).
All’altezza della 173a olimpiade (celebrata nell’anno 86 a.C.) leggiamo: «Nasce ad
Amiterno, in Sabina, lo storico Sallustio Crispo».
All’altezza della 186a olimpiade (celebrata nel 36 a.C.) leggiamo: «Sallustio chiude
la sua vita quattro anni prima della battaglia di Azio», che si combatté nel 31 a.C.
Dunque Sallustio morì nel 34 o nel 35 (secondo che s’includa o no nei «quattro anni» anche l’anno 31).
L’origine municipale (Amiternum era in Sabina e il suo territorio coincide con
l’odierna San Vittorino, in provincia dell’Aquila) accomuna Sallustio ai più importanti personaggi politici dell’ultima età repubblicana e «può riguardarsi, anche simbolicamente, come segno dell’integrazione – sancita dal sangue della guerra sociale
del 91-89 – tra Roma e le antiche comunità italiche un tempo nemiche e poi gradualmente sottomesse» (Scarcia).
Di famiglia plebea probabilmente facoltosa, il giovane Sallustio ricevette il grado
d’istruzione che l’ambizione della carriera pubblica imponeva: studio della retorica
ai fini dell’oratoria forense e politica.
Incerte sono le notizie relative ai primi honores ricoperti. Forse fu questore nel 54.
Nel 52, tribuno della plebe, fu accusatore accanito del demagogo conservatore Annio
Milone, difeso da Cicerone nel processo per l’uccisione di Clodio. Legato al partito
popolare, nell’anno 50, durante una breve pausa di restaurazione d’ordine avvenuta
sotto il segno dei nobiles, fu escluso dal senato per indegnità morale (probri causa).
L’accusa sarà anche stata in parte pretestuosa nel clima di accese faziosità di quegli anni arroventati, che furono il preambolo dello scontro tra Cesare e Pompeo e
della guerra civile del 49-45. Tuttavia Sallustio stesso ammette di sé che la giovanile debolezza restò presa nella corruzione diffusa in quei tempi di decadenza morale: …inter tanta vitia imbecilla aetas ambitione corrupta tenebatur (B. C. 3, 4). Del
resto la fama è che «accettò molti doni e molto rubò» (Dione Cassio, St. Rom. XLIII
9, 2) e fu scostumato, al punto che Milone (lo stesso del processo del 52) lo sorprese in intimità con la propria moglie Faustina, e per questo lo fece frustare debitamente e lo costrinse a pagare una somma per rilasciarlo: … C. Sallustium in
adulterio deprehensum ab Annio Milone loris bene caesum dicit [Varro] et, cum dedisset pecuniam, dimissum (Gellio, XVII 18). E un liberto di Pompeo, Lenèo, riassumeva il suo giudizio su di lui con le parole: Homo vita et scriptis monstruosus (Svetonio, De gramm. 15).
Riammesso in senato da Cesare, fu questore per la seconda volta nel 49. Servì il
suo protettore nella campagna d’Africa del 47, divenne governatore dell’Africa Nova nel 46, vi si arricchì senza scrupoli, ma uscì indenne da un processo di concussione ancora grazie alla protezione di Cesare.
Dopo l’assassinio del dittatore (44), ormai privo di un avvenire pubblico, si ritirò a
vita privata in una splendida villa tra il Quirinale e il Pincio (i cosiddetti Horti Sallustiani), per dedicarsi alla riflessione, alle memorie, alla storia. All’attività letteraria lo
Sallustio
spingeva l’ambizione di gloria, il desiderio di non vedere trascorsa la propria vita
nel silenzio, come accade alle bestie, che la natura creò chine a terra e schiave del
ventre: pecora, quae prona atque ventri oboedientia finxit (B. C. 1, 1).
Le opere
Sallustio ha composto due monografie: Bellum Catilinae1 e Bellum Iugurthinum,
che pubblicò tra il 43 e il 40.
Dopo il 39 iniziò un’opera di più vasto respiro, le Historiae, che riguardano il periodo
dalla morte di Silla alla fine della guerra di Pompeo contro i pirati (dal 79 al 66) e della
quale restano, oltre a numerosi frammenti, i discorsi e le lettere che vi erano inseriti.
Sono probabilmente da considerarsi spurie due Epistulae ad Caesarem senem de
re publica (lettere aperte che costituiscono, sotto la forma di consigli a Cesare, una
specie di manifesto politico del partito cesariano), e un’Invectiva in Ciceronem.
Le due monografie
Le Historiae
Le opere spurie
Storia contemporanea e «fuga dal presente»
Sallustio vede crollare un regime considerato eterno e cerca di capire, nella sua
qualità di sopravvissuto a una tragedia collettiva, le cause del crollo. E le ravvisa
principalmente nell’egoismo, avidità e depravazione dell’aristocrazia, che aveva tradito un codice etico, una tradizione, un costume ormai cristallizzato in formule
esemplari, e non sentiva più il dovere di proporre la propria condotta a esempio per
il popolo. A questa aristocrazia degenere – che aveva portato lo stato alla rovina e
che, pur agonizzante, si ribellava al nuovo assetto «democratico» voluto dai popolari – Sallustio intende gettare in faccia la lista delle colpe commesse.
La critica recente ha molto attenuato l’accusa di tendenziosità della visione storica
sallustiana, apparsa per lungo tempo animata dalla volontà partigiana di esaltare
Cesare e immeschinire la figura politica di Cicerone, e ha posto in primo piano da
un lato l’impegno dello storico attento a studiare le cause che provocano la decadenza dello stato; dall’altro l’intenzione artistica assai marcata (anche al di là del
valore di opus oratorium maxime proprio d’ogni opera storiografica romana). Del
resto, sempre lo storico compie una selezione tendenziosa, attingendo materiale
negli archivi del passato.
Eppure l’opera sallustiana – anche se non può certo ritenersi un pamphlet
d’intervento filocesariano – si valuta pienamente anche in rapporto alla pubblicistica contemporanea, favorevole o contraria a Cesare e alla sua politica.
Il Bellum Catilinae da un lato attribuisce allo strapotere dell’aristocrazia e alla pessima conduzione dello stato la responsabilità dei guasti che hanno permesso il fecondo germinare della mala pianta della congiura; dall’altro «mira a purificare la
memoria di Cesare dalla macchia più nera che l’offuscava» (T. Mommsen): il sospetto di connivenza coi congiurati.
Nel Bellum Iugurthinum il medesimo bersaglio polemico – la superbia nobilitatis –
si precisa con il salto indietro di una generazione, verso un nodo storico di Roma:
la fase che seguì il crudele soffocamento della politica popolare dei tribuni Gracchi:
fu nel corso di quella guerra che «per la prima volta si affrontò l’arroganza della nobiltà». E in quella guerra la nobiltà aveva messo in luce la sua bancarotta morale.
1. O anche Bellum Catilinarium o Liber Catilinarius, tutti titoli desunti dai codici. Sallustio forse preferiva come titolo: De Catilinae coniuratione (B. C. 4, 3).
Le cause della rovina
dello Stato
La tendenziosità
dello storico
Il Bellum Catilinae
Il Bellum Iugurhinum
211
212
Storiografia, biografia, antiquaria
Le Historiae
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
La progressiva
«fuga dal presente»
La decadenza del regime dei nobili s’era in seguito manifestata nella guerra contro
Sertorio, in quella contro i gladiatori e gli schiavi, in quella contro i pirati. E sono
questi per l’appunto gli avvenimenti narrati nella terza opera, le Historiae, che segna un ridimensionamento dell’operato di Pompeo: «al quale gli adulatori avevano
fatto credere che avrebbe uguagliato Alessandro Magno, e lui ritenne che ciò fosse
la verità».
Il legame con il presente è particolarmente forte nel Bellum Catilinae, di cui la critica ha messo in evidenza il carattere di cronaca passionale, narrata con vivacità e
irruenza ancora «comunali».
Più distaccato dal presente e dalla politica corrente a Roma è il Bellum Iugurthinum. In tempi in cui la frode e il furto hanno preso il posto che un tempo occupavano le bonae artes, la professione dello storico appare sempre più un’evasione, un
procedere libero e alto nel disdegno per i costumi della città grande e corrotta.
Le Historiae, saldando narrativamente le due isole monografiche precedenti, segnano un ulteriore passo in una progressiva «fuga dal presente» verso i lidi più sereni e appartati della storia.
Il Bellum Catilinae
La congiura come sintomo
La diagnosi
Il moralismo
I valori delle origini
Una virtus agonistica
La «congiura» di Catilina, repressa nel 63 da Cicerone console, mirava a sollevare
contro lo strapotere senatorio il proletariato urbano (e in parte municipale), alcuni
nobili indebitati, masse di schiavi. In questo episodio, tutto sommato marginale, ma
che destò nei ceti abbienti la paura di un sovvertimento sociale, Sallustio vede un
sintomo della malattia dello stato.
La diagnosi è nella cosiddetta «archeologia», un excursus che, sull’esempio dello
storico greco Tucidide, interrompe la narrazione della congiura: dopo la distruzione
di Cartagine, cessato il metus hostium, vennero meno i valori di concordia, saggezza, giustizia, semplicità, onestà che avevano accompagnato e favorito la crescita della città. Così si ebbe in massimo onore il danaro e il lusso, la povertà fu
disonore, l’integrità beffeggiata. Lussuria, avarizia, arroganza e violenza contaminarono la vita dei giovani. Al tempo di Silla – alla cui scuola si era formato Catilina,
macchiandosi di atroci delitti nelle proscrizioni – lo sfacelo morale raggiunse il culmine. Allora l’avaritia, con il suo seguito di luxuria e superbia, regnò senza limiti:
non fu più la semplice soddisfazione, ma l’esasperazione e il raffinamento del vizio.
Su questo terreno germoglia e prende vigore la mala pianta catilinaria.
La visione unicamente moralistica marca la distanza di Sallustio dal modello tucidideo. L’«archeologia», che in Tucidide era un’analisi critica del passato per spiegare
il presente, in Sallustio risponde al bisogno di cercare in un passato idealizzato il
modello etico-politico per il presente, e di affermare nella storia valori eterni.
Il valore cardine che emerge nella descrizione delle remote origini è la concordia,
da cui dipende la sorprendente capacità di Roma antica di fondere le diversità: Ita
brevi multitudo dispersa atque vaga concordia civitas facta erat (B. C. 6, 1).
Indispensabili poi alla salute del regime repubblicano sono, oltre alla concordia
salda, la mancanza di avidità (minuma avaritia 9, 1) e la fides nei rapporti con gli
amici.
Dopo la monarchia, che comprime l’esplicazione libera e piena della virtus e reca
connaturato in sé il pericolo della tirannia, il regime repubblicano pare il più adatto
a contenere la licentia popolare e soprattutto a valorizzare le energie individuali poste al servizio della comunità. La virtus incorrotta dei padri assume, nel proemio,
Sallustio
connotazioni agonistiche, è energia irrefrenabile: virtus omnia domuerat (7, 5).
Più che l’aequitas, l’uguaglianza dei cittadini, sta cuore al «liberale» e «uomo nuovo» Sallustio la possibilità di aprire libero e vasto campo alle risorse dell’individuo:
«La libertas, come facoltà di tutti gli uomini dotati di far valere il proprio talento, dev’essere stata un valore ideologico particolarmente caro agli homines novi romani
e italici contro le cricche dei casati gentilizi» (A. La Penna).
Per spiegare l’ideologia di Sallustio, si è dato risalto da un lato alla provenienza
dalla Sabina, famosa per aver conservato purezza e rigidità arcaiche, dall’altro alla
condizione certamente agiata della famiglia: «Sallustio riflette idee e interessi dei
ceti possidenti della penisola, che non coincidono con quelli della nobilitas romana,
ma ancor meno con quelli degli strati subalterni» (A. La Penna).
In realtà la militanza popolare di Sallustio al seguito di Cesare rispecchia gli interessi delle élites sociali italiche, alle quali, pur detentrici di un considerevole potere
economico, una nobiltà ottusamente legata ai suoi privilegi negava l’accesso alle
leve della decisione politica (le magistrature più importanti, il senato stesso).
Quanto all’ideologia arcaica dei boni mores è da credere, come ritiene Luca Canali, che a questa fede, che certamente avrà animato Sallustio in gioventù, si fossero
poi sovrapposti, lacerandola e cancellandone i contorni, troppi eventi tragici: lo
scontro tra Mario e Silla, la dittatura sillana, la guerra sociale contro gli italici, la sollevazione di Sertorio, la ribellione di Spartaco, la guerra con i pirati, il primo triumvirato, la lotta fra Cesare e Pompeo, la dittatura di Cesare, le avvisaglie del conflitto
fra Ottaviano e Antonio. Avvenimenti, questi, che segnando l’agonia della «libera»
polis romana preludevano al definitivo consolidamento autoritario sotto le dittature
di Cesare e di Augusto. In quest’epoca tempestosa e feroce, il sembiante della res
publica maiorum doveva essere un’immagine stinta e l’ideologia della virtus e dei
boni mores trovava ormai solo in Catone il giovane il rigido e un po’ patetico paladino: «[I boni mores] sembravano piuttosto un baluginante miraggio e, a un livello più
basso, un locus communis, di cui nel Bellum Catilinae non è documentata la validità, oltre la troppo rapida sintesi del proemio o i discorsi dei patres e le esortazioni
dei condottieri: tutto ciò che resta è corruzione, avidità, violenza» (L. Canali).
Secondo Canali il «progressismo» moderato di Sallustio altro non sarebbe allora
che l’illusione (o la malafede) di quanti, in tempi di forte tensione sociale, auspicano un rinnovamento e una ridistribuzione dei beni e del potere, che scongiurino la
rivoluzione, quando le forze più retrive della società non vogliano rinunciare ai loro
privilegi. E la collocazione per così dire «di centro», equidistante fra optimates e
populares, non riflette la preoccupazione per il bene di uno stato super partes, ma
la paura che le forze sociali emarginate possano con le loro rivendicazioni economiche mettere in forse la solidità della posizione sociale dei ceti benestanti.
Ma è difficile pensare che, intorno agli anni 40, quando scrisse il Bellum Catilinae,
Sallustio potesse ancora coltivare l’illusione di un pacifico riformismo. «Il suo ritiro dalla vita politica deve essere inteso come il frutto della paura … più che come il disgusto
dell’uomo probo e valoroso che non era mai stato … Al più si può concedere la presenza di entrambe le motivazioni, togliendo però alla seconda tutti gli orpelli di un moralismo in gran parte di stampo retorico … In questo senso si può dire che Sallustio
era un uomo privo di ideali, sgomento egli stesso di tale vuoto di valori» (L. Canali).
Capitoli 1-4. Nel proemio l’autore spiega d’essersi dedicato alla storia per il disgusto della
corruzione dei suoi tempi e per il desiderio, proprio della natura umana, di lasciare memoria
di sé con opere d’ingegno.
Il «liberismo» dell’homo
novus…
… e delle élites sociali
italiche
I boni mores: un locus
communis?
Particolare
di un affresco di Cesare Maccari (Siena
1840 – Roma 1919),
che raffigura Catilina,
isolato nel
Senato,
mentre Cicerone sta pronunciando contro di lui l’infiammata
orazione (Catilinaria).
Il «progressismo»
sallustiano
Un uomo ormai privo
di ideali?
Riassunto dell’opera
213
Storiografia, biografia, antiquaria
Capitolo 5. Segue il ritratto di Catilina la cui personalità è emblematica della decadenza
dei costumi romani.
Capitoli 6-9. Si apre poi un primo excursus (la cosiddetta «archeologia») che traccia una
rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma.
Capitoli 10-13. Dopo l’elogio appassionato dei prisci mores, sono descritti l’inizio e il dilagare della corruzione in conseguenza dell’accrescersi dell’impero e della diffusione del lusso, fino ai tempi di Silla, nei quali lo sfacelo morale toccò il culmine.
Capitoli 14-22. In questo clima di depravazione, Catilina concepisce la congiura contro lo
stato riunendo attorno a sé disperati e debosciati d’ogni risma e adescando giovani che addestra alla falsità e al delitto.
Capitoli 23-28. La notizia della congiura trapela: sono nominati consoli Antonio e Cicerone,
mentre Catilina, sconfitto nelle elezioni consolari, accelera, estendendoli a tutta l’Italia, i
preparativi del suo disegno criminoso.
Capitoli 29-36. Cicerone porta l’affare in senato accusando apertamente Catilina (prima Catilinaria) e ottenendo pieni poteri. Catilina fugge da Roma e raggiunge a Fiesole l’esercito
apprestato dal suo luogotenente Manlio. Il senato dichiara entrambi «nemici della patria».
Capitoli 37-39. Segue un secondo excursus che denuncia la degenerazione della vita politica nel periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra civile fra Cesare e Pompeo.
La condanna accomuna nobiltà e populares. Favorevoli alla congiura erano la plebe per
desiderio di novità, i tribuni per volontà di gloria e di potenza, i disonesti, i dissipatori, i criminali confluiti a Roma da ogni parte. Contro costoro era schierata la nobiltà «in apparenza
in difesa del senato, in realtà per il proprio potere».
Capitoli 40-52. Riprende la narrazione. Gli ambasciatori Allobrogi, incautamente coinvolti
dai cospiratori, forniscono le prove tangibili del complotto a Cicerone, il quale fa arrestare i
congiurati presenti in città e convoca il senato per decidere la pena. Si avvicendano due
oratori, Cesare e Catone l’Uticense. Il primo sconsiglia la pena di morte proponendo la confisca dei beni e la detenzione. Il secondo confuta gli argomenti di Cesare e chiede che i
colpevoli siano giustiziati.
Capitoli 53-54. «Ritratti» di Cesare e di Catone a confronto.
Capitoli 55-60. I congiurati sono condannati e giustiziati. Catilina con l’esercito male armato di Manlio tenta di aprirsi la strada verso la Gallia, ma viene chiuso dalle truppe regolari di
Antonio e costretto a battersi sui colli di Pistoia.
Capitolo 61. Il dramma si chiude con l’immagine desolata del campo di battaglia e del cadavere di Catilina che spira ancora indomabile fierezza dal volto, in mezzo ai corpi massacrati dei suoi.
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
214
Il Bellum Iugurthinum
Un episodio esemplare
Moneta di Giugurta. Parigi, Bibliothèque Nationale.
Nel Bellum Iugurthinum Sallustio tratta un episodio più lontano nel tempo – la guerra contro Giugurta, svoltasi in Numidia fra il 111 e il 105 a.C. – scelto per la rilevanza («perché fu grande e atroce e con alterna vittoria») e l’esemplarità in rapporto al
conflitto tra nobiles e populares («perché allora per la prima volta si affrontò
l’arroganza dei nobili»). Così uno dei bersagli polemici del Bellum Catilinae – lo
strapotere, la iattanza degli aristocratici e la cattiva gestione della res publica quale
origine dei guasti che avevano fecondato e nutrito la pianta della congiura – si precisa ulteriormente, nella narrazione dei fatti che seguirono la dura repressione della
politica popolare dei Gracchi. In quella guerra, che si era colorata delle tinte dello
scandalo (a causa del danaro profuso da Giugurta per condizionare a proprio vantaggio la politica del senato), Sallustio scorge da un lato i segni più evidenti della
corruzione della nobilitas, dall’altro l’occasione che si offrì ai democratici di alzare la
testa e contrastare la superbia di un’aristocrazia inadeguata a reggere con dignità
lo stato, eppure ostinatamente decisa a perpetuare l’oppressione sui ceti subalter-
Sallustio
ni.
La tendenziosità è innegabile: l’infelice conduzione della guerra è da imputare unicamente alla venalità e all’inettitudine dei nobili, mentre l’esito sarà capovolto dalle
virtù di Mario, l’homo novus italico, rappresentante delle forze valide che costituiscono l’alternativa alla «cricca» senatoria.
In realtà gli insuccessi di questa guerra dipendevano, prima ancora che dalla corruzione, dalla riluttanza del senato a impegnarsi in un conflitto difficile (aggravato dai
vantaggi che la guerriglia concedeva alle genti indigene), concomitante con la minaccia da nord di Cimbri e Teutoni, e soprattutto non rispondente ai propri interessi
di casta. Infatti non la nobilitas traeva vantaggi dalla politica d’espansione in Africa,
bensì gli equites e i ceti imprenditoriali e mercantili italici, in cerca di nuovi mercati
e aree per uno sfruttamento coloniale. Tuttavia la faziosità dell’interpretazione moralistica – del resto condivisa dagli altri storici antichi (Livio, Appiano, Floro, Eutropio) che pure riferirono in termini scandalistici l’affaire Giugurta – non impedisce a
Sallustio di riconoscere i meriti degli avversari: l’integrità morale e la perizia dell’aristocratico Metello, l’astuzia e l’abilità di Silla. E di Mario non sono celati i difetti:
l’eccesso di ambizione e alcuni tratti meschini dell’indole.
In un excursus centrale della monografia e nel discorso del tribuno Memmio, Sallustio stigmatizza il «regime dei partiti» condannando con giudizio «equidistante» sia
i demagoghi populares che eccitano l’emotività delle masse per appagare la propria ambizione, sia l’egoismo dei nobili pervicacemente attaccati ai loro privilegi. In
particolare le parole di Memmio – che condanna la divisione in factiones e la «conflittualità» diffusa ed è vagamente consenziente con la politica dei Gracchi, della
quale approva la sostanza ideale ma non l’estremismo – riassumono l’ideologia
«centrista» dell’autore e si traducono in un invito alla moderazione.
L’impressione complessiva è che in quest’opera, forse meno allettante della precedente, ma più solida e organica, lo storico e il politico siano cresciuti di statura.
C’è qui una più sicura percezione del valore esemplare dei fatti, una meglio approfondita ricerca degli sfondi sociali.
Come nel Bellum Catilinae, il racconto si concentra intorno alle figure principali,
che però sono meno spettacolarmente sbalzate, ma più sottilmente analizzate e
chiaramente assunte come portatrici di un significato politico, di una mentalità che
è specchio di una condizione sociale o etnica. Giugurta appare abile e insensibile
alle più frivole seduzioni della vita, in grado di corrompere o tenere in scacco i fragili e venali comandanti romani, ma soprattutto carico di quell’energia inquieta, instancabile, che per Sallustio è una dimensione della virtus. Silla si presenta nobile,
colto, smanioso di onori ma controllato nei piaceri, astuto, dissimulatore. Mario, il
protagonista glorioso dell’intera guerra, è raffigurato ambizioso, ricolmo di pregi
«tranne l’antichità della famiglia». In lui s’incarna l’ideologia dell’homo novus.
Alla maturazione dello storico corrisponde una maggiore coerenza stilistica. La patetica varietà di toni del Catilina si smorza in quest’opera più compatta e monocroma. L’ interesse artistico è ravvivato dal colorito esotico e a tratti pittoresco, che
conferisce un’impronta dominante agli intermezzi favolosi e romanzeschi, agli
eventi militari narrati con gusto epico, alle descrizioni del teatro desertico e selvaggio di queste avventure: il paesaggio africano, ben noto a Sallustio che deve esserne rimasto affascinato dai tempi del suo governatorato in Numidia. «Il Giugurta è
un bel romanzo d’avventura, pieno di macchinazioni tenebrose, di imboscate, di
assassinii premeditati con freddezza, di arditi colpi di mano» (Bayet).
La tendenziosità
Moneta coniata dal figlio di L.C.
Silla, Fausto Silla, triumviro
monetario nel 64 a.C. In rilievo
è raffigurato Silla vestito da magistrato romano, assiso su un
piedistallo. Davanti a lui il re
Bocco in ginocchio offre un rano
d’olivo, alle sue spalle è Giugurta prigioniero, con le mani legate dietro alla schiena.
Contro il «regime dei
partiti»
Un’opera matura
I protagonisti del Bellum
La coerenza artistica
215
216
Storiografia, biografia, antiquaria
Riassunto dell’opera
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Moneta di Micipsa, Parigi. Bibliothèque Nationale. Succeduto
sul trono al padre Massinissa
insieme con in fratelli Mastanabale e Gulussa, alla loro morte
rimase unico sovrano e fu fedele
alleato di Roma. Adottò il nipote
Giugurta, nominandolo erede al
regno insieme con i propri figli
Aderbale e Iempsale.
Capitoli 1-5. L’argomento è la guerra contro Giugurta, re di Numidia (l’odierna Algeria),
svoltasi tra il 111 e il 105 a.C. Dopo il proemio e la giustificazione della scelta del tema sono riassunte le vicende del regno numidico da Massinissa a Giugurta, le lotte tra questo e
l’imbelle cugino Aderbale (legittimo erede al trono) per il possesso del regno, l’intervento
dei Romani come mediatori, che verrebbero corrotti dall’oro di Giugurta, il quale infine invade il territorio assegnato ad Aderbale e lo uccide.
Capitoli 6-26. In particolare, dopo il clamoroso massacro di una comunità di mercanti italici
ospiti del regno (già legato a Roma da una tradizione di alleanza risalente alla guerra annibalica), l’intervento militare contro l’usurpatore è giocoforza per il senato.
Capitoli 27-62. La guerra, condotta con scarsa convinzione, si trascina stancamente sotto
il comando di generali fragili e venali, che l’abile Giugurta tiene in scacco o corrompe. Mentre a Roma si apre un’inchiesta sull’andamento delle operazioni – e qui s’inserisce
l’excursus in cui è condannato l’operato dei partiti – entra in scena l’aristocratico Metello,
valoroso e integerrimo, ai cui ordini il corpo di spedizione si riorganizza e infligge a Giugurta alcune dure sconfitte, ma non risolutive.
Capitoli 63-114. Nel corso di queste operazioni si distingue il democratico Mario, un «popolare» che la plebe elegge console affidandogli la missione di concludere finalmente il
conflitto. Mario, ottenuto il comando della campagna numidica, subentra a Metello e sconfigge più volte, privandolo di forze e mezzi, Giugurta, a tal punto che suo suocero fino ad
allora alleato, Bocco re di Mauritania, lo fa cadere con l’inganno nelle mani dei Romani.
Giugurta è portato a Roma e trascinato in catene davanti al carro trionfale di Mario, che celebra il trionfo e assume il secondo consolato.
Lo stile
Brevità e difficoltà
di Tucidide
Differenza da Tucidide
L’influenza di Catone
Di Tucidide (vedi p. 115 ss.) Sallustio vuole ricreare la brevità e la densità, la difficoltà e l’asprezza.
Abbondano le ellissi dei verba dicendi (ma anche di quelli d’opinione). Concorrono
a una densa brevità costruzioni come in e ablativo o accusativo: in maxuma fortuna
minuma licentia est. La variatio (imbecilla atque aevi brevis, «debole e di breve vita») rifiuta l’armonia troppo prevedibile derivante dalla concinnitas, frustra l’attesa
d’ogni parallelismo stilistico. Analoga è la funzione degli zeugmi: pacem an bellum
gerens (solo bellum gerere è nell’uso).
Ma, oltre a scuotere di continuo l’attenzione del lettore, Sallustio lo chiama a collaborare alla costruzione del senso stimolando la sua capacità interpretativa (e qui la
sua arte è vicina a quella neoterica). Ciò avviene ad esempio nelle frequenti costruzioni a senso, che rispondono anche al gusto della difficoltà: Coniuravere pauci
contra rem publicam, de qua quam verissume potero dicam (B. C. 18, 2), «Pochi
uomini avevano congiurato contro lo stato: di tale congiura dirò quanto più veracemente possibile» (de qua coniuratione si ricava da coniuravere).
Alla difficoltà e all’asprezza asimmetrica in funzione di un effetto di nobile gravitas,
concorrono, come in Tucidide, ma in forma più accentuata, l’asindeto, la frase nominale, l’infinito descrittivo e soprattutto l’arcaismo.
Ma in Sallustio i procedimenti tucididei assumono un senso nuovo, dato principalmente dal pathos inquieto, mentre di Tucidide mancano quella capacità
d’elaborazione di concetti generali e quella robustezza di logica che presuppongono
una cultura filosofica e scientifica: a Roma mancava la sofistica e la medicina greca.
Al culto per Tucidide si unisce nel sabino Sallustio la venerazione per il grande conterraneo Catone (vedi p. 132 s.). Da questo, più ancora che da Tucidide, viene la
spinta all’arcaismo carico (il «catonismo» lessicale, che offrì l’esca alle critiche dei
contemporanei).
Sallustio
Catoniano è il gusto per l’accumulo dei sinonimi (fortibus strenuisque, ingenio malo
pravoque), per le antitesi: pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia
(B. C. 5, 8), «due mali funesti e fra loro discordi: il lusso e l’avidità».
Ma quasi tutti i procedimenti arcaizzanti di Sallustio sono riscontrabili in Catone (oltre che nella precedente storiografia latina) e riguardano ogni livello d’espressione:
– ortografico e morfologico: optumus per optimus, maxume per maxime; novos (per
novus), arduom (per arduum, accus.), volt (per vult); fuere, invasere (per fuerunt,
invaserunt); quoi (per cui), quom (per cum); forma dissimilata nei composti, come
adpetere (per appetere), conruptus (per corruptus);
– lessicale: scelta di termini desueti, come i nomi in -mentum e in -tudo (cognomentum, claritudo in luogo di cognomen, claritas), gli aggettivi in -osus e in -bundus (discordiosus, furibundus); uso di parole di registro alto (mortales per homines), riecheggiamenti della poesia arcaica (cupidine caecus, metu perculsus, formidine attonitus) soprattutto in funzione del pathos; neologismi: loquentia (per eloquentia)2;
– sintattico: asindeto, paratassi, cambiamento di soggetto senza stretta necessità,
frequente ricorso al passivo, preferenza dell’indicativo rispetto al congiuntivo, predilezione per l’infinito descrittivo.
L’obiettivo dell’impiego di questi procedimenti è un’espressione che ispiri nobiltà e dignità, ma anche aspra rudezza: «Dignitas senatoria sì, ma dignitas che vuol far pensare ai Cincinnati e ai Catoni e far disprezzare le eleganze della bella letteratura» (A.
La Penna).
Il risultato è quello di uno stile scabro, scattante, sintatticamente disarticolato, carico di pathos3.
C’è in Sallustio un vero e proprio «linguaggio del pathos» (A. La Penna), un ricco
lessico delle passioni definite nelle varie sfumature e gradazioni: la brama insaziabile (avaritia, avidus, affectare, exoptare); l’inquietudine e l’angoscia (anxius, inquies, trepidus, excitus); il divampare fulmineo (incendio, ardeo, l’espressione allitterante animun accendere); il rimorso (conscientia, conscius, come in B. C. 5, 7:
agitabatur conscientia scelerum «era agitato dal rimorso dei delitti»).
Un campo lessicale affine è quello delle parole che indicano l’attività energica, la
forza sana non ancora corrotta dal vizio (industrius, impiger, alacer, sollers, enitor);
la concitazione e il movimento rapido (festinare, maturare, effundere, erumpere,
ruere) che sconfina nella violenza distruttrice (vis è parola assai cara a Sallustio).
Ma il senso del movimento incessante – quella immortalis velocitas che Quintiliano
riconosceva a Sallustio – è dato, oltre che dal lessico, dai procedimenti sintattici
sopra ricordati, in particolare dall’uso dell’infinito storico. E ancora più dalla paratassi, che obbedisce anche a «un’intenzione di oggettività nuda, bruta, gettata dinnanzi al lettore prima che il pensiero ne interpreti le relazioni» (A. La Penna).
Ma questa oggettività (cui concorre non poco la preferenza dell’indicativo nelle
subordinate) non riesce a controbilanciare i molti elementi di soggettività, evidenti
soprattutto nel lessico per lo più valutativo (superbus, innocens, impudicus, immo2. Novator verborum è definito Sallustio dal grammatico Valerio Probo, citato da Gellio (I
15, 18).
3. Una definizione efficace dello stile di Sallustio si ha combinando i giudizi che ne diedero Quintiliano e Seneca. Il primo parla di abruptum sermonis genus (Inst. Or. IV 2, 45), il
secondo di amputatae sententiae et verba ante exspectatum cadentia et obscura brevitas
(Epist. 114, 17), «pensieri troncati, parole che arrivano prima di quando sono aspettate,
concisione oscura».
I procedimenti arcaizzanti
Il linguaggio del pathos
L’immortalis velocitas
Lessico valutativo
e moralismo
217
218
Storiografia, biografia, antiquaria
deratus, avaritia, malitia, flagitia, ignominia, depravo, corrumpo), proprio di un’incapacità – che fu di tutta la cultura latina – di superare i limiti del moralismo nell’individuare le forze che governano la storia.
La fortuna
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
I contemporanei
Il Medioevo
L’Umanesimo
Il Preromanticismo
I contemporanei lo giudicarono poco favorevolmente. Leneo lo definì «un ignorantissimo ladro di parole di Catone» e l’eccesso di arcaismo gli fu rimproverato anche
dallo storico Asinio Pollione. Ma, per queste stesse ragioni, fu in gran voga quando,
nell’età antoniniana, il gusto arcaizzante riprese vigore.
Grande fu l’influenza di Sallustio sulla storiografia posteriore, che si colorò dei tratti dominanti della psicologia e del pessimismo morale. Livio ne subì la lezione combinandola con il proprio fondamentale ciceronianesimo. Tacito lo reputò il maggior
storico romano (rerum Romanarum florentissimus auctor) e ne imitò i procedimenti
di stile. Fondamentale per la fortuna nei secoli fu il giudizio di Quintiliano, il quale
ne lodò la brevità (immortalem illam Sallustii velocitatem) e, considerandolo pari a
Tucidide e superiore a Livio, lo rese testo scolastico a tutti gli effetti: diffuso, commentato filologicamente e finanche – circostanza eccezionale per un autore romano – tradotto in greco, nell’età di Adriano.
Destinato, per la concettosità, all’antologizzazione per estratti, Sallustio fu letto durante il Medioevo in tutta Europa, volgarizzato nei romanzi e nelle cronache comunali. In particolare il Bellum Catilinae – di cui nel Duecento Brunetto Latini pubblica
una scelta di passi in italiano e in francese – fornisce materiali alle favole di fondazione di Fiesole, Pistoia, Firenze, dove Catilina è l’eroe eponimo.
Grande fu l’influenza di Sallustio, spesso combinata con quella di Tacito, sulla storiografia umanistica: in particolare è presente nel pensiero politico di Leonardo
Bruni ed è un modello a cui s’ispira il Poliziano nell’opuscolo sulla congiura dei
Pazzi. In particolare «il tema della congiura ritorna come un robusto inconfondibile
filo della storiografia moderna, e fintanto che il prestigio della forma dominerà su
altri interessi» (Luca Canali).
Sallustio fu nel Settecento preromantico molto amato da Alfieri che, pur professandosi «debolissimo latinista», tradusse il Bellum Catilinae con «ostinata instancabile
diligenza». L’influenza di Sallustio è evidente soprattutto nello stile tragico dell’Alfieri, che al pari dell’auctor latino, tende alla concisione esasperata, alla frantumazione del periodo, all’espressione dura, carica di solennità e pathos. Nella traduzione
del Catilina Alfieri gareggia in brevitas con l’originale:
B. C. 3, 1
Pulchrum est bene facere rei publicae, etiam bene dicere haud absurdum est; vel pace vel bello clarum
fieri licet; et qui fecere, et qui facta
aliorum scripsere, multi laudantur.
«Bello è il giovar bene oprando alla
patria; bello altresì il ben dire: in
pace come in guerra, fama si acquista; e lode ottenne chi oprava e chi
gli altrui fatti scriveva».
B. C. 61, 4
… ferociam … animi quam habuerat vivus in voltu retinens.
«… tuttavia nell’esangue volto ritenea la prisca ferocia».
Le Res gestae di Augusto
Le Res gestae di Augusto
C. Gaio Ottaviano nacque nel 63 a.C. Adottato da Cesare, fu console nel 43 a.C.,
costituì il secondo triumvirato con Marco Antonio ed Emilio Lepido. Sconfitti i cesaricidi Bruto e Cassio e battuto il rivale Antonio ad Azio (31 a.C.), ottenne a Roma il
potere assoluto, esercitandolo sotto una parvenza di legalità repubblicana (rifiutò
sempre la dittatura e ricoprì le ordinarie magistrature repubblicane). Come riferisce
Svetonio nella Vita di Augusto, Ottaviano scrisse opere sia in prosa sia in poesia:
un libro in esametri sulla Sicilia, epigrammi, una tragedia intitolata Aiace che egli
stesso distrusse, evidentemente scontento della propria opera.
Sebbene non rappresentino una biografia vera e propria, rientrano in qualche modo in questo genere letterario le Res gestae divi Augusti, testamento politico e bilancio di governo dettato dall’imperatore all’età di 75 anni. Destinate ad essere
esposte nel mausoleo dell’imperatore nel Campo Marzio, le Res gestae furono anche riprodotte in numerose copie epigrafiche bilingui (in latino e in greco) nelle varie regioni dell’impero. Nella versione più completa – in 35 capitoli, rinvenuta ad
Ancyra (Ankara) e perciò denominata Monumentum Ancyranum – leggiamo la rassegna delle imprese militari vittoriose di Augusto imperator e pater patriae, degli
onori tributatigli dal popolo e dal senato, delle distribuzioni in denaro e frumento
fatte alla plebe, degli spettacoli da lui finanziati: è spesso sottolineato il carattere
«privato» dei donativi, che non gravavano sulle casse pubbliche (ricorrono le formule privato consilio, privata impensa). L’intento autocelebrativo implica la selezione tendenziosa delle res gestae, ad esempio l’omissione di gravi sconfitte come
quella subita da Varo nel 9 d.C. nella selva di Teotoburgo.
Pur nell’intento apologetico, questo monumento funebre e manifesto del regime
augusteo è, per il suo carattere ufficiale, depurato degli elementi troppo scopertamente autocelebrativi. Questi elementi volti a creare un alone carismatico (prodigi,
presagi, sogni che accompagnavano l’ascesa al potere del protagonista) probabilmente non mancavano nei Commentarii de vita sua, che Augusto scrisse personalmente e di cui restano pochi frammenti.
Frequenti sono i punti in cui Augusto sottolinea il proprio impegno nel rigenerare i
costumi sulla base del mos maiorum, nel restaurare le vetuste tradizioni romane,
anche ricoprendo personalmente le più arcaiche cariche sacerdotali: «Fui pontefice
massimo, augure, quindecemviro addetto ai sacri riti, settemviro epulone, fratello
arvale, sodale Tizio e Feziale» (7, 1). Ma su questo versante i successi dell’imperatore furono modesti: «Ciò che le Res gestae non poterono affermare, perché in effetti non vi fu, è la vittoria ideale del principato. L’ideologia dello stoicismo passò all’oligarchia senatoria come arma nella lotta contro gli imperatori; il mos maiorum,
fondato su una rude purezza, fu calpestato nell’ambito della stessa famiglia augustea, né poté divenire il “costume” di ceti ricchi in cerca di raffinatezze e sensazioni; il “secolo d’oro” fu problematicamente cantato da Virgilio e da Orazio, ma gli elegiaci Tibullo e Properzio e il versatile Ovidio erano già fuori dalla severa concezione augustea della vita. Ben presto, salvo rare eccezioni, la letteratura sarebbe stata all’opposizione, da Seneca a Lucano, a Petronio e Tacito. L’unica grande sconfitta di Augusto fu il fallimento di un’auspicata leadership ideale e morale della monarchia da lui instaurata»1.
1. L. Canali, Res gestae divi Augusti, Editori riuniti, Roma 1982, p. 16.
La vita
Il «manifesto» del regime
augusteo
Il recupero del
mos maiorum
Gemma Augustea (10 d.C. circa). Augusto in trono accanto
alla dea Roma, incoronato da
Oikoumene (il mondo); da sinistra, Tiberio che scende dal carro della Vittoria e Germanico in
piedi. Vienna Kunsthistorisches
Museum.
219
220
Storiografia, biografia, antiquaria
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Stile e genere
Lo stile atticista (vedi p. 207) è asciutto, conciso e lapidario, il periodare semplice
ma efficace. È evitato, per usare le parole di Augusto stesso, il «fetore delle parole
disusate». Quanto al genere cui le Res gestae apparterrebbero, vale per quest’opera ciò che è vero per tutta la letteratura augustea, nella quale i confini tra i generi diventano quanto mai incerti. Canali ammette la parziale validità di tutte le interpretazioni proposte: dall’elogio funebre al resoconto di gesta (Index secondo la definizione di Svetonio), dal testamento politico all’autobiografia trionfale confrontabile con le iscrizioni rupestri dei sovrani orientali (premessa della loro apoteosi). Tuttavia i modelli privilegiati dovettero essere gli antichi elogia dei grandi romani (vedi
pp. 7 ss.) e i commentari di Cesare.
L’auctoritas, fulcro del potere monarchico. Nel passo che proponiamo è messo a fuoco con grande lucidità il significato rivoluzionario della propria assunzione del titolo di Augustus (nel 27 a.C.). Il termine – linguisticamente connesso
con augere («accrescere»), auctor, augur (il sacerdote che traeva gli auspici) – rinvia alla sfera sacrale e significa «venerabile», «santo». Alla radice di Augustus si lega anche auctoritas, che indica il fondamento e la leggittimità della nuova monarchia, l’origine di tutte le prerogative del principe. L’auctoritas indica un potere di fatto, basato sul prestigio e sul
carisma personali, quindi non riconducibile a quello derivante dalla carica ricoperta (potestas). L’investitura sancisce la
superiorità di Ottaviano (auctoritate omnibus praestiti), pur senza avergli conferito alcun potere istituzione in più rispetto
alle magistrature ordinarie.
Nel mio sesto e settimo consolato, dopo che ebbi estinto le guerre civili, assunto per universale consenso
(per consensum universorum) il controllo di tutti gli affari dello stato, trasmisi il governo della repubblica
dal mio potere (potestate) alla libera volontà del senato e del popolo romano. Per questa mia benemerenza,
con decreto del senato ebbi l’appellativo di Augusto, la porta della mia casa fu pubblicamente ornata di alloro, e sull’entrata fu affissa una corona civica; nella curia Giulia fu posto uno scudo d’oro con una iscrizione attestante che esso mi veniva offerto dal senato e dal popolo romano in riconoscimento del mio valore, della mia clemenza, della mia giustizia e pietà. Da allora in poi fui superiore a tutti in autorità (auctoritate), sebbene non avessi maggior potere (potestatis) di tutti gli altri che furono miei colleghi in ciascuna
magistratura.
(34, trad. di L. Canali)
Monumentum Ancyranum. Ankara, Tempio di Roma e di Augusto.
Livio
Livio
La vita
Scarse le notizie sulla vita di Tito Livio, che attingiamo soprattutto dal Chronicon di
Girolamo. Nacque nel 59 a.C. da famiglia, a quel che si presume dalla possibilità di
dedicare tutta la sua vita all’attività letteraria, di condizione agiata, nella Gallia Cisalpina, a Padova, cittadina in cui i costumi, a confronto di quelli di Roma, dove dilagavano dissolutezza e corruzione, si conservavano puri e severi. In questo ambiente conservatore egli visse gran parte della sua vita e si formarono i suoi ideali
etici e politici. Lo sappiamo a Roma per un certo tempo dove fu a contatto con i
personaggi più autorevoli; strinse amicizia anche con lo stesso Augusto, del quale,
senza ombra di adulazione, ebbe a dire che aveva restituito la pace all’impero e
sedato le discordie interne (cfr. Liv. I 19, 3; modo sit perpetuus huius, qua vivimus
pacis amor et civilis cura concordiae «purché sia eterno l’amore per questa pace
nella quale viviamo e la cura della concordia fra i cittadini» IX 19, 17). Da Tacito
(Ann. IV 34) sappiamo che lodò a tal punto Gneo Pompeo che Augusto scherzosamente lo chiamava Pompeianus, mentre verso la politica di Cesare, di cui Ottaviano amava presentarsi come continuatore, espresse un giudizio negativo affermando che era dubbio se fosse stato più utile o dannoso alla patria (in incerto esse
utrum illum nasci magis rei publicae profuerit, an non nasci).
Durante la sua giovinezza si dedicò agli studi di filosofia e di retorica e compose alcuni dialoghi di argomento storico-filosofico, affini ai logistorici di Varrone. Cominciò
a scrivere la sua monumentale opera storica tra il 27 e il 25 a.C., ma non poté condurla a termine perché lo colse la morte a Padova nel 17 d.C.
L’opera
L’opera di Livio Ab urbe condita libri abbracciava oltre sette secoli di storia, dalle
origini di Roma, 754 a.C., fino alla morte di Druso, 9 a.C. Essa era divisa in 142 libri, che lo scrittore pubblicò volta per volta in gruppi di cinque o di dieci libri. A noi
sono giunti soltanto 35 libri: la prima deca, libri I-X, dalla fondazione di Roma fino
alla III guerra sannitica (293 a.C.); la terza deca, libri XXI-XXX, seconda guerra punica (218-202 a.C.); la quarta deca, libri XXXI-XL, vicende dal 201 alla morte di Filippo V di Macedonia (179 a.C.); metà della quinta deca, con varie lacune: libri XLIXLV, avvenimenti dal 178 a.C. fino alla vittoria del console Lucio Emilio Paolo a Pidna nel 167 a.C. Di tutti i 142 libri, ad eccezione del CXXXVI e del CXXXVII, possediamo brevi sommari, periochae, compilazioni scolastiche di scarso valore redatte
nei primi secoli dell’impero (forse fra il III e il IV) da autore ignoto, probabilmente su
precedenti epitomi.
La concezione storiografica
I criteri storiografici ai quali Livio si attenne sono quelli peculiari degli annalisti romani, ma solo esteriormente, dal momento che egli, intendendo dare ai Romani
«non tanto il documento preciso della loro storia, quanto il monumento glorioso del
loro passato», seguì l’onda commossa dei suoi stati d’animo. Non seguì quindi
l’impianto monografico dell’opera storica di Sallustio, dal quale tuttavia derivò suggerimenti vitali: l’esposizione letteraria dei discorsi fittizi, che personaggi celebri
pronunciano in momenti particolarmente significativi della vicenda storica, i proemi,
Criteri storiografici
221
222
Storiografia, biografia, antiquaria
Teoria eroica
della potenza di Roma
che ci illuminano sulla sua concezione storiografica, i ritratti di uomini illustri, rapidamente sbozzati.
Racconto storico, quello liviano, caratterizzato dalla sua teoria eroica della potenza
di Roma, non privo di accenti pessimistici soprattutto nella considerazione della
realtà contemporanea e nella accorata previsione dell’incombente decadenza dei
costumi romani, dopo gli esempi luminosi di probità, di sacrificio, di eroismo dei
cittadini antichi. Storia dunque magistra vitae, storia di un popolo maestro di moralità, a cui dovevano guardare, come a modello da imitare, non solo i singoli individui, ma anche gli stati che intendessero consolidarsi e prosperare.
Le fonti
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
La storia come
opus oratorium
Una visione obiettiva
Se ai nostri occhi lo storico è colui che consulta documenti ed archivi e da essi trae
materiale per la sua opera, nella quale essenziali risultano il lavoro di verifica, quello di vaglio e di critica che egli conduce, pochi furono fra gli scrittori antichi gli storici e Livio non fu fra essi. Si consideri d’altronde con quali finalità era nata la storia
romana (propaganda politica) e qual era per molti letterati antichi la considerazione
del genere storiografico (opus oratorium): dunque Livio fu uno storico dei suoi tempi, un narratore di storie, diremmo noi, a cui non si può riconoscere il rigore scientifico secondo noi necessario ad un vero storico. L’elemento che induce a questa riflessione è innanzitutto il fatto che Livio non ricercò per la sua narrazione più testi
mettendoli a confronto, ma si limitò per lo più ad uno solo utilizzandone qualche altro solo per conferma; e, quand’anche vi fosse discordanza fra i testi presi in esame, egli non procedeva nella ricerca della verità, magari attraverso documenti, né
proponeva una sua ricostruzione dei fatti, ma si limitava per lo più a segnalare tale
discrepanza senza prendere posizione. Inoltre non sottopose a vaglio critico le fonti, quasi esclusivamente letterarie, ma riportò i fatti ivi narrati così come erano stati
presentati. Fonti per la sua opera furono gli annalisti (Fabio Pittore, Cincio Alimento
e i più recenti Valerio Anziate, Licinio Macro, Claudio Quadrigario) soprattutto per
la I deca, per la III Celio Antipatro e Polibio che utilizzò anche per i libri XXXI-XL;
soltanto per la storia più recente, per la quale dovevano scarseggiare fonti letterarie, dovette ricorrere a documenti ufficiali.
Livio però ebbe la piena consapevolezza dei limiti e delle difficoltà immanenti nell’indagine storica e la coscienza della relatività della ricostruzione di avvenimenti di un
lontano passato; tuttavia bisogna riconoscergli notevole obiettività nel giudicare vicende importanti come quelle delle lotte fra patrizi e plebei perché, se è vero che
egli mostrò propensione per la causa degli ottimati, non rivelò mai malanimo preconcetto nei riguardi della plebe, e, se fu tradizionalista e conservatore nella sua visione
della storia, manifestò anche, apertamente, la sua inclinazione alla libertà civile e
politica, incompatibile con la servitù e con la licenza, nelle quali suole cadere la moltitudine abbandonata a se stessa: ea natura multitudo est aut servit humiliter aut superbe dominatur. Perciò le accuse rivolte a Livio di scarso rigore scientifico non appaiono adeguate, perché bisogna tener conto del carattere artistico del suo racconto
storico, che lo portava a drammatizzare gli avvenimenti e a presentare i personaggi
in una luce di vita e di umanità, e che talvolta gli impediva di attenersi scrupolosamente a quei rigidi canoni storiografici di aderenza alla realtà obiettiva, di imparzialità e serenità di giudizio che gli valsero la definizione di candidus da parte degli autori antichi e, in particolare da parte di Tacito, quella di fidei praeclarus in primis.
Livio
Lo stile
I maggiori storici di età repubblicana, Cesare e Sallustio, avevano partecipato attivamente alla vita politica di Roma ed avevano fatto rifluire nelle loro opere, seppure diversamente, la propria esperienza personale. Livio invece, che non ricoprì mai
cariche pubbliche, fu uno storico letterato.
Da Cicerone, a cui guardava come al modello stilistico da imitare (ci narra Quintiliano che al figlio consigliava, per lo stile oratorio, la lettura di Cicerone e Demostene) egli ereditò la concezione dell’opera storica come opus oratorium maxime; così, diversamente da Sallustio, amante di un periodare conciso, adottò uno stile piano e scorrevole che gli valse da parte di Quintiliano la definizione di lactea ubertas
ad indicare la ricchezza e la piacevolezza del linguaggio in contrapposizione con la
brevitas dello stile di Sallustio (senza peraltro implicare per questo un giudizio di
superiorità del primo rispetto al secondo).
Il lessico liviano talora si avvicina al linguaggio familiare (ci si avvia d’altronde verso la letteratura d’età imperiale), talora è ricco di parole arcaiche e poetiche che ricordano da vicino Ennio. D’altra parte lo stesso Cicerone, che sconsigliava il ricorso a tali parole per l’oratoria, lo ammetteva per adornare anche un discorso in prosa (De or. III 38, 153).
Tali arcaismi abbondano in particolare nella prima deca, forse anche per il tipo di
fonti alle quali Livio ricorse per essa, in cui doveva trovare leggende, formule di carattere giuridico e religioso che egli dovette riprendere nella sua opera; non ne sono però privi neppure gli altri libri in cui vengono utilizzati per dare un colore epico
alla narrazione e concorrono a determinare un tono solenne.
Il periodare di Livio è talvolta semplice ed essenziale, ma per lo più ampio e ricco
di subordinate, non privo di ornamenti retorici, come d’altronde richiedeva un opus
oratorium; tuttavia non presenta preziosismi che rendano barocco il suo stile.
Particolarmente accurata risulta dal punto di vista retorico la costruzione dei
discorsi in bocca ai personaggi della sua storia; essi furono ammirati fin dall’antichità per la loro capacità di render conto ad un tempo della situazione e dello stato
d’animo di chi li pronunciava.
Il suo modo di render viva la storia, di «drammatizzare» gli avvenimenti narrati non
raggiunge comunque la forza di un pathos intenso ed acceso come quello sallustiano; è questo uno degli aspetti in cui Livio si distingue da Sallustio: raggiunge
un’armonia che contempera in un difficile equilibrio gravitas e intensità emotiva. In
tal modo egli fornisce un modello di stile diverso da quello sallustiano, ma non meno apprezzato.
Riguarda forse lo stile, ma non ne abbiamo certezza, l’accusa di patavinitas («padovanità») rivoltagli da Asinio Pollione. Dal brano di Quintiliano in cui ne abbiamo
testimonianza essa sembra far riferimento all’uso di forme di espressione intinte di
provincialismo dialettale (noi comunque non siamo in grado di individuarle), ma c’è
chi ritiene (Ronald Syme), considerando che spesso per l’autore antico lo stile rifletteva una dimensione anche di contenuto, che l’accusa riguardasse la sua concezione della storia eccessivamente moralistica.
La fortuna
Numquamne legisti gaditanum quemdam, Titi Livi nomine gloriaque commotum, ad
visendum eum ab ultimo terrarum orbe venisse, statimque, ut viderat, abiisse?
Il lessico
Il periodo
I discorsi
Drammatizzazione della
storia
Patavinitas
223
224
Storiografia, biografia, antiquaria
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Il Medioevo
Umanesimo
e Rinascimento
Età moderna
e contemporanea
«Non hai mai letto di un tale di Cadice che, spinto dal nome e dalla fama di Tito Livio, venne dalla parte più lontana della terra per vederlo e, appena l’ebbe visto, subito ripartì?» Questo episodio narrato da Plinio il Giovane (Epist. 2, 3, 8) rivela che
grande era la fama di Livio quando egli era ancora in vita. Gli autori del I secolo concordemente gli riconoscevano valore di storico e di artista cosicché attinsero alla
sua opera sia storici che poeti come Lucano e Silio Italico. Per la sua ampiezza la
lettura integrale dell’opera però non era agevole e presto, già al tempo di Tiberio, come ci testimonia Marziale (14, 190), ne furono fatte epitomi da cui derivano numerosi storici di età imperiale. Queste da un lato portarono alla conoscenza degli avvenimenti narrati da Livio, dall’altra però, sentendosi sempre meno il bisogno di ricorrere
all’originale, ne favorirono la perdita, facilitata anche dalla divisione in deche.
I numerosi codici medioevali, soprattutto della I deca, testimoniano la fortuna di Livio in questo periodo. La sua fama è riflessa nel verso di Dante «Livio che non erra» (Inf. 28, 12), anche se non è certa da parte del nostro poeta una conoscenza
diretta dello storico patavino. Comunque a lui ricorse Dante per le prove della santità dell’impero romano, emanazione del volere divino nel De monarchia». Oltre
Dante ricevettero suggestioni da Livio Arnaldo da Brescia, che all’inizio del XII secolo istituì un governo che si ispirava alla repubblica romana, e più tardi Cola di Rienzo che nella prima metà del XIV secolo vagheggiò la restaurazione dell’antica
gloria di Roma.
Da Livio trasse ispirazione per la sua Africa il Petrarca, che dallo storico romano riprese episodi come quello di Magone morente e quello di Sofonisba e Massinissa
che, dopo il Petrarca, divenne argomento per i poeti drammatici, a cominciare dal
Trissino.
In epoca umanistica dunque Livio diventò uno degli autori più ammirati. I libri perduti vennero cercati con grande zelo e passione, ma inutilmente; soltanto verso la
metà del Cinquecento furono ritrovati i libri XLI-XLV. L’opera di Livio fu oggetto di
studio per Machiavelli, che scrisse i Discorsi sopra la I deca di Tito Livio da cui derivò considerazioni sulle leggi politiche necessarie per governare una repubblica.
Gli studi condotti su Livio in età moderna hanno visto un duplice atteggiamento: di
riconoscimento delle sue doti di artista, e di svalutazione della sua opera di storico.
Il secondo vede in tempi più recenti, anche se in varia misura, una rivalutazione di
Livio come storico e alla sua opera viene riconosciuta quella veridicità, in particolare nella tradizione antica da lui tramandata, negatagli.
Storici minori: Asinio Pollione, Pompeo Trogo, Tito Labieno
Storici minori: Asinio Pollione, Pompeo Trogo, Tito Labieno
I 17 libri di Historiae di Asinio Pollione, luogotenente di Cesare, partono dal 60 a.C.
– anno del primo triumvirato giudicato come l’inizio del processo che porterà alla
morte della repubblica – per arrivare almeno sino a Filippi (42 a.C.). Si trattava di
«un periodo irto di rischi», come ebbe a definirlo Orazio in un’ode (II 1, 6) in cui salutava l’inizio dell’opera di Pollione. Le Historiae, di cui restano pochi frammenti (fra
cui quello della morte di Cicerone), erano attente agli aspetti tralasciati nei Commentarii di Cesare – ad esempio documentano i particolari del passaggio del Rubicone, quando fu pronunciata la famosa frase alea iacta est. Lo stile era sobrio, uniformato ai modelli dell’atticismo, come si può desumere anche dai giudizi negativi
che Pollione assegna a Sallustio e a Livio, rimproverando al primo l’eccesso di arcaismi e l’oscurità, al secondo la patavinitas (le tracce di provincialismo padovano)
e l’enfasi patriottica.
Pollione svolse inoltre un’intensa l’attività di promotore di iniziative culturali importanti (biblioteche, impulso alle recitationes, ecc.).
Poco allineate con l’ideologia augustea – virgiliana e liviana – della centralità di Roma sono le Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, originario della Gallia Narbonese e attivo come scrittore nell’ultimo periodo augusteo. Dell’opera, in 44 libri e il cui
titolo riecheggia i Philippikà di Teopompo, restano i sommari dell’autore (prologi),
pochi frammenti e l’epitome di Giustino (III sec. d.C.). Si tratta di una storia universale, nella quale la narrazione delle vicende macedoni era preceduta dai capitoli
relativi ai precedenti regni degli Assiri, dei Medi, dei Persiani, dei Greci, con digressioni su Cartagine, le tribù celtiche, i Parti. Il concetto informatore della storiografia
di Trogo era quello di un perenne avvicendarsi di imperi «universali», necessariamente effimeri. Tale carattere di transitorietà avrebbe avuto inevitabilmente anche
la dominazione di Roma, ora caput totius mundi secondo le stesse parole di Trogo,
ma in prospettiva di medio periodo destinata a lasciare il posto ad altri imperi. E
comunque a Roma lo storico gallico dedicava gli ultimi due libri, mentre le vicende
della Macedonia ne occupavano ben trentatré. La visione non romanocentrica, se
non proprio antiromana – tra le fonti di Trogo figurava il contemporaneo Teagene di
Alessandria, storico ostile a Roma – fa sì che le Historiae Philippicae rappresentino l’antitesi della storiografia nazionale e patriottica liviana. La concezione universalistica e la marginalità di Roma spiegano anche l’impostazione erododea e
l’interesse etnografico in quest’opera, che divenne fonte di notizie per gli autori seguenti.
Se le Storie di Trogo ebbero, almeno nell’epitome di Giustino, grande fortuna nel
Medioevo, in età augustea per il carattere non allineato furono avvolte nel silenzio.
Ben peggiore sorte toccò all’opera storica di Tito Labieno, che sul finire del principato augusteo fu con decreto imperiale destinata al rogo. A quest’atto di intolleranza del regime l’autore reagì suicidandosi nel 12 d.C. sulla tomba degli antenati, testimoniando la propria appartenenza a una tradizione etico-politica repubblicana,
che si andava rivelando inconciliabile col principato. L’opera di Labieno (soprannominato Rabienus per l’acre vena polemica), i cui contenuti erano evidentemente
d’opposizione al regime, diviene emblematica del divorzio tra letteratura e impero e
inaugura la storiografia d’opposizione senatoria contraria al principato. Pochi anni
dopo, sotto Tiberio, agli Annales di Cremuzio Cordo sarà riservata la stessa sorte
(anche se l’opera riuscì fortunosamente a salvarsi dal rogo) e l’autore si suicidò.
Asinio Pollione
Pompeo Trogo
Tito Labieno e l’inizio
della storiografia
senatoria
225