mens sana in corpore sano

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mens sana in corpore sano
MENS SANA IN CORPORE SANO
Prof.ssa Attilia Rossi
Questa famosa espressione latina si usa
abitualmente per sottolineare l’importanza
dell’esercizio fisico, che aiuta a rasserenare la
mente e a migliorarne le prestazioni, e dunque
contribuisce
al
benessere
psicologico
dell’individuo.
Con questo significato, che non è però
quello originario, la massima ha avuto ed
ha tuttora un’enorme diffusione: è il
motto di numerose associazioni sportive,
istituzioni militari e scuole; compare
spesso in articoli di giornale o altri testi
divulgativi, che illustrano la stretta
correlazione esistente fra attività fisica e
igiene mentale o mantenimento di buone
funzioni cerebrali.
Ecco alcuni esempi di titoli:
 Mens sana in corpore sano
Uno studio svedese svela che chi fa attività fisica aerobica da giovane va
meglio anche all’università (dal Corriere della Sera del 18 gennaio
2010)
 Mens sana in corpore sano: tutto merito di una
proteina
Lo stesso fattore neurotrofico che promuove la crescita dei neuroni
agisce sul cuore e ne regola contrazione (dalla Stampa del 28 gennaio
2015)
 Mente sana in corpo sano: grazie a una proteina
Una proteina conosciuta per il suo ruolo protettivo sulle cellule
cerebrali sarebbe anche fondamentale per il corretto funzionamento
del muscolo cardiaco: lo rivela una ricerca americana (da Focus del 12
gennaio 2015)
UNA
CURIOSITÀ
Che cosa hanno
in comune la
locuzione mens
sana in corpore
sano
e
una
scarpa ASICS?
ASICS,
nome
della
nota
azienda
giapponese di articoli sportivi nata nel
1949, è l’acronimo della frase Anima
Sana In Corpore Sano, che costituisce
una variante della nostra mens sana in
corpore sano.
La locuzione mens sana in
corpore sano si deve al poeta
Giovenale, vissuto tra il I e il
II secolo d.C., che la inserisce
nella X Satira, in cui tratta
della
insensatezza
dei
desideri umani quando si
indirizzano ai beni terreni,
considerati vani ed effimeri.
Si consilium uis,
permittes ipsis expendere numinibus quid
conveniat nobis rebusque sit utile nostris.
Se vuoi un consiglio, lascia che siano gli dèi a
decidere quel che ti conviene e che è più utile
ai tuoi interessi.
(Satira X, vv. 346-348, trad. di E. Barelli)
Ut tamen exposcas aliquid voveasque sacellis
exta et candiduli divina tomacula porci,
orandum est ut sit mens sana in corpore sano.
Tuttavia, onde tu possa aver qualcosa da chiedere ai
numi […], chiedi una mente sana in un corpo
sano.
(Satira X, vv. 354-356, trad. di E. Barelli)
Fortem posce animum mortis
terrore carentem,
qui spatium vitae extremum inter
munera ponat
naturae,
qui
ferre
queat
quoscumque dolores,
nesciat irasci, cupiat nihil et
potiores
Herculis
aerumnas
credat
saevosque labores
et venere et cenis et pluma
Sardanapali.
(Satira X, vv. 357-365)
Chiedi un animo forte, che sia
sgombro dal terrore della morte,
che ponga la durata della vita
come l'ultimo dono di natura,
che sappia tollerare qualunque
sofferenza,
che non sia capace di adirarsi,
non abbia alcun desiderio
e preferisca le fatiche di Ercole, i
suoi duri travagli,
alle gioie dell’amore, alle cene e al
letto di piume di Sardanapalo.
[Sardanapàlo fu l’ultimo re degli Assiri, noto per
la sua fastosa ricchezza]
Giovenale esorta quindi i suoi lettori a pregare gli
dèi non per ottenere ricchezza, fama, potenza,
gloria e bellezza, bensì quell’equilibrio tra
salute mentale e fisica che rappresenta il più
saggio ideale di vita. Uno spirito forte e un fisico
robusto ci aiutano a sopportare le fatiche e a far
fronte alla paura della morte. L’unico cammino
che può condurci a un’esistenza tranquilla è
quello della virtù. Se ci affidiamo alla nostra
capacità di giudizio (prudentia), non abbiamo
bisogno degli dèi. Siamo noi uomini a fare della
Fortuna una dea e ad innalzarla al cielo.
Dunque il vero significato dell’espressione mens sana in
corpore sano è ben diverso da quello che
comunemente le si attribuisce.
Come si spiega tale differenza?
La risposta sta nel fatto che la frase è stata
‘decontestualizzata’, ossia estrapolata dal contesto
specifico in cui era inserita, in questo caso la X Satira
di Giovenale, e utilizzata per avvalorare una tesi
(l’esercizio fisico, e quindi la buona forma che ne consegue,
è condizione indispensabile per l’efficienza della facoltà
spirituale; è necessario avere un corpo sano, ovvero stare
bene fisicamente, per poter stare bene anche
psicologicamente, cioè nell'anima) che è più propria del
modo di pensare di noi moderni che non di quello
degli antichi.
Un concetto simile a quello presente nella massima di
Giovenale è attribuito anche al filosofo pre-socratico
Talete (VII-VI sec. a.C.):
τίς εὐδαίμων; "ὁ τὸ μὲν σῶμα [sóma] ὑγιής,
τὴν δὲ ψυχὴν [psyché] εὔπορος, τὴν δὲ φύσιν
εὐπαίδευτος“.
“Chi è felice? Colui che è sano nel corpo, pieno di risorse
nella mente e docile (lett.: “ben educato,
ammaestrato”) di natura”.
corpus, corpŏris (n.), termine di etimologia incerta,
indica in latino il “corpo” sia umano che animale,
vivente o inanimato, nella sua fisicità. Significa
quindi, fra l’altro, anche:
- corpo (vivente)
- essere (animato), persona, individuo
- corpo inanimato, cadavere.
sóma, sómatos (n.), anch’esso di etimologia incerta, in
Omero designa il “corpo morto”, il “cadavere”, mentre
nella successiva letteratura greca assume il significato
di “corpo”, “essere vivente”, “persona”.
mens, mentis (f.) deriva, secondo l’ipotesi più accreditata, da una radice
indoeuropea da cui hanno origine nelle lingue antiche numerose parole riferite
alle aree semantiche del “pensare” e del “ricordare”: per esempio,
- in greco mimnésko, “ricordo”
- in sanscrito matis, “pensiero” (cfr. il greco métis, “saggezza, prudenza, abilità”)
- nell’antico germanico munan, “pensare, ricordare” (cfr. l’inglese mind).
In latino mens designa sia “mente, intelletto” che “animo” come sede di emozioni: in
questo secondo significato risulta sinonimo di anĭmus, anĭmi (dalla medesima
radice del greco ánemos, “vento”), che significa:
- “animo”, ossia il principio pensante, “mente”, “coscienza”, “volontà”
- la forza che regge e domina il corpo, quindi “spirito”, “cuore”, “sentimento”,
“coraggio”, “ardore”
- “anima” nel senso metafisico (cfr. immortalĭtas animōrum).
L’anĭmus dunque è la sede sia della ragione che del sentimento.
anĭma, anĭmae (f.) significa:
- - soffio, soffio vitale, aria, vita (per cui anĭmam efflāre
o anĭmam effundĕre = spirare, morire)
- - anima (dei morti), in quanto il soffio vitale,
sfuggendo dal morente, passa agli Inferi
- - anima come appellativo affettuoso (cfr. vos, meae
carissimae animae in Cicerone).
La differenza di genere (maschile e femminile)
probabilmente indica la preminenza di anĭmus,
principio superiore in quanto esprime le nostre
disposizioni interiori, le passioni, le inclinazioni, ecc.
Da anĭma derivano:
- anĭmo, as, āvi, ātum, āre = animare, dare la vita a
- anĭmal, animālis = essere vivente (usato spesso
per gli animali in contrapposizione agli uomini)
- exanĭmis., is (agg.) e exanĭmus, a, um (agg.) =
senza fiato, esanime, morto
- inanimātus, a, um (agg.) = inanimato
Tutti questi termini sono passati in italiano.
Da anĭmus derivano:
animōsus, a, um (agg.) = coraggioso
animosĭtas, animositātis (f.) = coraggio, animosità.
Un composto di anĭmus è
animadverto,
animadvertis,
animadverti,
animadversum,
animadvertĕre (anĭmum + adverto, “rivolgo
l’animo a”), che assume i significati di “badare a”,
“prestare attenzione a”, “osservare”, ma anche
“castigare”, “punire”.
Poiché nel corso del tempo anĭmus è stato spesso
usato con il significato di anĭma, sono composti
non differenziabili per derivazione:
- aequanĭmus, a, um (agg.) = equànime, sereno,
imparziale
- magnanĭmus, a, um (agg.) = magnanimo
- longanĭmus, a, um (agg.) = clemente, indulgente.
Anche in questo caso si tratta di termini passati in
italiano (“longànime” significa ‘comprensivo,
indulgente’, ‘fiducioso’ e ‘imperturbabile’).
Per concludere la nostra riflessione sulla distinzione fra
anĭmus e anĭma, possiamo citare un frammento del
tragediografo Accio (II-I secolo a.C.):
Sapĭmus animo, fruĭmur anima;
sine animo anima est debĭlis.
(Accio, Trag. 296 Ribbeck)
Il passo non è facile da interpretare; tuttavia è chiara la contrapposizione
fra i due termini. Nonio Marcello, il grammatico latino del IV secolo d.C.
che cita il frammento, ne fornisce la seguente introduzione:
Nonius, 426, 25: ‘Animus’ et ‘anima’ hoc distant: animus est quo
sapimus, anima qua vivimus.
‘Animus’ e ‘anima’ differiscono in questo:
‘animus’ è il principio grazie al
quale abbiamo senno, ‘anima’ il principio grazie al quale siamo vivi.
E che dire del termine spirĭtus?
Spirĭtus, spirĭtus (m.) significa propriamente
“soffio”, “respiro”, “afflato vitale”, “vita”, e quindi
“energia”, “fierezza”, “superbia”. Il termine in età
imperiale finisce per sostituirsi ad anĭmus,
diffondendosi anche in ambito ecclesiastico:
Spirĭtus Sanctus (o solo Spirĭtus), “lo Spirito
Santo”.
Torniamo ora ai due termini presenti nel
frammento di Talete citato in precedenza:
sóma, sómatos, come abbiamo visto, in Omero
indica il “corpo morto”, il “cadavere”, mentre
nella successiva letteratura greca assume il
significato di “corpo”, “essere vivente”, “persona”.
Psyché, termine greco corrispondente in latino sia
a mens sia ad anima, deriva da una radice che
esprime la nozione del “soffiare” (in greco
psýchein, “soffiare, respirare”); analogamente al
latino anima, indica dunque lo “spirito” come
soffio, il principio vitale.
Quali sono gli esiti in italiano dei termini sóma e psyché?
Sòma, nel linguaggio della biologia, indica «l’insieme delle cellule, dette
cellule somatiche, che negli organismi pluricellulari formano i tessuti e
gli organi e quindi il corpo dell’organismo; il sòma si distingue dal
germe, le cui cellule (cellule germinali) sono destinate esclusivamente
alla produzione degli elementi sessuali, cioè spermatozoi e uova»
(Enciclopedia Treccani on line).
Nel linguaggio della medicina, il termine significa “corpo”, inteso in
contrapposizione a “psiche”.
Inoltre –sòma compare come secondo elemento in composti della
terminologia scientifica, sempre con il significato di ‘corpo’ (per
esempio, “cromosoma”).
Da sóma, sómatos derivano in italiano i termini “somatico”, “somatizzare”,
“somatizzazione” e il primo elemento di composti scientifici nei quali si
indica il riferimento al corpo (per esempio, “somatologia”, ossia lo
studio dei caratteri relativi al corpo umano, l’antropologia fisica).
Psyché è passato in italiano nel termine “psiche”, il
quale, nella psicologia moderna e nell’uso comune,
indica «il complesso dei fenomeni e delle funzioni che
consentono all’individuo di formarsi un’esperienza di
sé e del mondo, e di agire di conseguenza» (DevotoOli).
Inoltre anche psic0- (o psic-) compare come primo
elemento in parole composte, soprattutto della
terminologia filosofica, medica e scientifica, per
indicare una «relazione con la psiche, con i processi,
le
condizioni
della
coscienza,
dell’anima,
dell’individuo» (Zingarelli). Come esempi si possono
citare “psicodramma”, “psicologia”, “psicofarmaco”,
ecc.
Tornando alla massima mens sana in corpore
sano, possiamo dire che in essa si racchiude
una concezione della salute come equilibrio di
corpo e mente, tipica della cultura classica;
una concezione laica e razionale, che
attribuisce a un consapevole stile di vita la
funzione di prevenire più che di curare le
malattie e di ottenere un benessere
individuale e sociale.
(Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno
Mondadori, 2011)
Nel contesto romano tali risultati sono raggiunti
grazie alla convergenza di alcune condizioni
particolarmente efficaci:
- un sistema sanitario nel quale le conoscenze e
le competenze mediche di origine greca
vengono adattate alla pragmatica cultura
romana e si avvalgono delle strutture di uno
Stato ben organizzato
- un sistema igienico caratterizzato dalla
disponibilità generalizzata di acqua, garantita
dagli acquedotti, e dalla diffusione capillare di
impianti termali, in grado di soddisfare le
esigenze di pulizia personale e di offrire, al
contempo, opportunità di svago e di
ricreazione fisica e mentale
- un regime alimentare sano ed equilibrato, fondato
sugli elementi di quella che oggi definiamo “dieta
mediterranea”,
perché
basata
su
alimenti
tradizionalmente presenti in alcuni Paesi del bacino
del Mediterraneo (ad esempio, olio, vino, cereali
integrali).
(Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno
Mondadori, 2011)
In questo corso ci occuperemo di alcuni aspetti della
medicina romana.
A Roma la medicina delle origini, in parte influenzata dagli
Etruschi, è inizialmente autoctona, popolare e contadina.
Spesso è il pater familias a preparare i farmaci per gli
appartenenti alla famiglia (moglie, figli, schiavi e liberti),
facendo ricorso all’esperienza tramandata di padre in
figlio. Le “terapie” sono spesso basate sulla conoscenza
della natura, in particolare delle erbe (scientia herbarum),
e addirittura su pratiche magiche e superstizioni.
Questa medicina di tipo ‘familiare’ non è solo terapeutica,
ma in un certo senso anche ‘chirurgica’, perché prevede
come intervenire nel caso di lussazioni, fratture, ascessi,
ecc.
Un bell’esempio di ‘terapia’ contro le lussazioni è presente in
Catone il Censore.
Luxum si quod est, hac cantione sanum fiet:
harundinem prende tibi viridem p. IIII aut quinque
longam, mediam diffinde, et duo homines teneant ad
coxendices; incipe cantare «Moetas vaeta daries
dardaries asiadaries una petes» usque dum coeant.
Ferrum insuper iactato. Ubi coierint et altera alteram
tetigerint, id manu prehende et dextera sinistra
praecide; ad luxum aut ad fracturam alliga: sanum
fiet. Et tamen cotidie cantato: «Huat huat huat ista
pista sista damnabo damna vestra».
(De agri cultura, cap. 160)
Se hai qualcosa di lussato, con questo incantesimo
tornerà sano. Prendi con te una canna verde, lunga 4 o
5 piedi ; tagliala in due parti secondo la lunghezza:
due uomini le tengano ferme all’altezza dell’anca.
Allora comincia a recitare questa formula magica:
«Moetas vaeta daries dardaries asiadaries una petes»,
finché non si riuniscano le due parti. Agiterai sopra
un ferro. Quando le due parti si sono congiunte e
toccate l’una con l’altra, prendile in mano e taglia le
estremità alla destra e alla sinistra; legale poi sopra la
lussazione o la frattura: così guarirà. E poi recita ogni
giorno questa formula: «Huat huat huat ista pista
sista damnabo damna vestra».
Si tratta di un tipico esempio di magia simbolica, per cui la
canna spezzata e ricomposta simboleggia la slogatura: se
ne trovano ancora tracce nel folclore medievale. Da notare
la presenza del ferro per allontanare il male (come il nostro
“ferro di cavallo”) e la particolare forma fonica delle
formule magiche, basate sulla ripetizione di sillabe uguali
e quasi sempre prive di significato (come “abracadabra”).
Sono comprensibili solo le parole una petes, “ti troverai
insieme”, forse riferite all’atto del saldarsi delle due parti, e
damnabo damna vestra, “sconfiggerò i vostri mali”. Inoltre
nella formula finale potrebbe esservi una storpiatura di
ista pestis sistat, “questa malattia si fermi”.
(Fonte: M. Bettini, a c. di, Limina. Letteratura e antropologia di Roma antica, vol. I, La Nuova Italia, 2005)
Dicam tibi de istis Graecis suo loco, Marce fili, quid
Athenis exquisitum habeam, et quod bonum sit
illorum litteras inspicere, non perdiscere. Vincam
nequissimum et indocile esse genus illorum. Et hoc
puta vatem dixisse, quandoque ista gens suas litteras
dabit, omnia conrumpet, tum etiam magis, si medicos
suos huc mittet. Iurarunt inter se barbaros necare
omnis medicina, sed hoc ipsum mercede facient, ut
fides iis sit et facile disperdant. Nos quoque dictitant
barbaros et spurcius nos quam alios Opicon
appellatione foedant. Interdixi tibi de medicis.
(Libri ad Marcum filium, fr. 1 Jordan)
Ti dirò a suo luogo, o figlio Marco, di questi Greci che cosa io
abbia scoperto ad Atene, e perché sia opportuno conoscere
la loro letteratura, non impararla a fondo. Ti proverò che la
loro razza è malvagia e ribelle. E prendi queste mie parole
come una profezia: quando questa gente ci darà la sua
scienza, corromperà ogni cosa, specialmente se ci manderà
qui i suoi medici. Hanno giurato tra loro di uccidere tutti i
barbari con la medicina, ma compiranno questo delitto
facendosi pagare, per conquistare la nostra fiducia e
compiere più facilmente il loro crimine. Ci chiamano
barbari e ci disprezzano più di tutti gli altri popoli,
affibbiandoci lo sporco nome di Opici. Ti proibisco di
chiamare i medici.
Il termine “Opici” è di origine greca: con esso i Greci indicavano gli Osci (antico popolo della Campania) e
alludevano al fatto che erano contadini, ma attribuendo al nome una connotazione negativa (“zoticoni”).
(Testo e traduzione tratti da Limina. Letteratura e antropologia di Roma antica, a c. di M. Bettini, vol. I, La
Nuova Italia, 2005)
Che cosa emerge da questo passo di Catone?
 Il giudizio fortemente negativo sulla medicina si
inquadra in un più generale rifiuto della scienza
greca, giudicata pericolosa per la moralità
tradizionale.
 Al giudizio negativo si accompagna la “profezia” su
una vera e propria “congiura dei medici” contro i
Romani.
 Ci troviamo dunque di fronte ad un atteggiamento di
chiusura verso le altre culture così forte, da sconfinare
apertamente nel razzismo.
(Fonte: M. Bettini, a c. di, Limina. Letteratura e antropologia di Roma antica, vol. I, La Nuova Italia, 2005)
Si noti, fra l’altro, come Catone consigli al figlio di
leggere ed esaminare (inspicĕre) le opere
letterarie dei Greci, ma di non impararle al punto
da farle proprie (perdiscĕre).
Secondo quanto ci riferisce Plinio il Vecchio (Naturalis
historia, XXIX, 12-13), fu solo nel 219 a.C. che giunse a
Roma il primo medico greco, un tale Arcagato, al
quale vennero concesse la cittadinanza e una bottega
(una sorta di clinica chirurgica) a spese pubbliche.
All’inizio Arcagato si conquistò la fama di abilissimo
nel curare le ferite; in seguito, però, un uso
eccessivamente disinvolto degli strumenti chirurgici
(bisturi e cauterio) e l’abitudine a praticare le
amputazioni gli valsero il soprannome di carnĭfex,
“carnefice”, e lo fecero cadere in disgrazia, finché egli
non fu mandato in esilio.
Ecco, con qualche adattamento, il passo
di Plinio:
Cassio Emina, uno delle nostre antiche
autorità, narra che il primo medico
che venne a Roma dal Peloponneso fu
Arcagato, figlio di Lisania, sotto il
consolato di Lucio Emilio e Marco
Livio, nell’anno 535 di Roma. Egli
ottenne la cittadinanza romana e gli
fu acquistata con soldi pubblici una
bottega al crocevia di Acilia, perché
esercitasse la professione. Fu un
chirurgo egregio, straordinariamente
popolare al suo arrivo, ma ben presto
si guadagnò l’appellativo di
"carnefice" a causa del suo uso
selvaggio dello scalpello e del
cauterio, ed ingenerò avversione
verso la professione sua e degli altri
medici.
Sembra dunque che Arcagato abbia inaugurato la professione
medica ‘pubblica’, esercitata in luoghi a metà strada fra
ambulatori, farmacie e scuole, detti tabernae o tabernae
medicinae, che ricordavano molto da vicino gli iatréia
(sorta di ambulatori medici o cliniche) dell'antica Grecia.
Dopo Arcagato, in particolare tra la fine della repubblica e
l’inizio dell’età imperiale, un gran numero di medici greci
affluì a Roma. Si trattava spesso di schiavi o liberti, alcuni
dei quali fondarono vere e proprie scuole di medicina
(sectae), ispirate a quelle greche d’epoca classica ed
ellenistica. Questi medici esercitavano la “professione”
senza alcun controllo, suscitando spesso diffidenza e
ostilità.
Il termine taberna ha in latino un significato molto
ampio, potendosi tradurre con:
- dimora molto umile, capanna, baracca
- osteria, locanda, albergo
- bottega, negozio (anche “magazzino”, “officina”).
Nel significato di “bottega, negozio”, il vocabolo si
unisce a un aggettivo che ne specifica la natura: ad
esempio, taberna librarĭa, “libreria”, taberna sutrīna,
“bottega del calzolaio”, taberna unguentarĭa,
“profumeria”.
La taberna medica equivale al moderno “ambulatorio”.
La taberna medica non era molto diversa dalle altre
botteghe. Oggi gli archeologi riescono a
distinguerla solo grazie al ritrovamento di
attrezzature e strumenti medici.
Tali ritrovamenti sono piuttosto rari. Possiamo
ricordare la “Casa del Chirurgo” a Pompei e la
“Casa del Chirurgo” a Rimini, nelle quali sono
stati rinvenuti diversi strumenti chirurgici (nel
caso di Rimini, ben 150) appartenuti al
proprietario della casa.
La taberna si compone di due vani,
realizzati in scala leggermente
ridotta rispetto al reale: lo studio
con il mosaico di Orfeo
attorniato dagli animali e la
stanza per il ricovero giornaliero
dei pazienti. Un'ambientazione
suggestiva e scientificamente
rigorosa, che restituisce le
decorazioni degli intonaci alle
pareti e ai soffitti nonché gli
arredi
e
lo
strumentario
utilizzato dal medico per gli
interventi chirurgici e per la
produzione dei farmaci.
(Fonte: www.museicomunalirimini.it)
All'interno della domus sono stati ritrovati centinaia di reperti archeologici: ferri
chirurgici, vasellame da cucina e monete, oltre a una lunga serie di decorazioni e
mosaici.
Gli strumenti chirurgici ritrovati a Rimini rappresentano a oggi la più ricca
collezione chirurgica antica al mondo, per varietà e numero degli oggetti: si tratta
infatti di circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una
serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali.
Nel corredo chirurgico spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, tenaglie
odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri
utilizzati per asportare calcoli urinari. La tipologia dei ferri chirurgici indica che
il chirurgo riminese era specializzato nella professione medica militare.
Uno dei ritrovamenti più importanti è stato quello del cosiddetto Cucchiaio di
Diocle, un pezzo unico al mondo, che serviva per estrarre le punte di freccia
conficcate nel corpo umano. Si tratta di un arnese composto da un manico di
ferro che termina con una lamina a forma di cucchiaio, forata al centro, in modo
da bloccare ed estrarre la freccia. Veniva utilizzato in particolare dai medici che
operavano sul campo di battaglia.
(Fonte: Wikipedia)
La storia di Antonio
Musa
I medici greci, inizialmente tenuti ai
margini della società, acquisirono
sempre maggior prestigio sociale.
Ne è un esempio Antonio Musa,
che, avendo guarito Augusto da
una grave artrite e da scompensi di
fegato, divenne ricco e famoso,
arrivando a conquistarsi una statua
onoraria sul Palatino accanto
all’altare di Esculapio, dio della
medicina.
Sotto il nome di Antonio Musa ci
resta uno scritto intitolato De
herba vettonica, ma si tratta, con
tutta probabilità, di un’opera più
tarda.
Statua di Augusto
Pontefice
Antonio Musa credeva nel potere terapeutico
della cicoria, della lattuga e dell’indivia. A
Pompei è stato rinvenuto un urceus (ossia un
orcio) con l’iscrizione faecula aminea Musae
ad varia petita (“Feccia di vino amineo di Musa
adatta alla cura di varie malattie”). Si tratta di
un preparato medicinale a base di vino,
attribuibile ad Antonio Musa.
(Fonte: www.pompeiisites.org)
In età imperiale, lo sviluppo della medicina è favorito da
un’attenta politica degli imperatori, volta a creare un
sistema sanitario ben distribuito sul territorio e tra le fasce
sociali.
Tra le scelte politiche degli imperatori possiamo citare:
- i privilegi accordati alla categoria dei medici
- la costruzione dei valetudinaria (specie di ospedali o
infermerie) nelle città, oltre che negli accampamenti
militari
- l’aumento del numero dei medici militari (medici legionis)
e gladiatorii
- l’istituzione di cattedre di insegnamento della medicina e
di medici “pubblici” per i cittadini meno abbienti.
(Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno
Mondadori, 2011)
Soltanto in epoca imperiale tarda, però, si attua in qualche modo una struttura
sanitaria organizzata. Fino a questo momento, essendo i medici privati a
pagamento, le classi più indigenti erano ovviamente senza assistenza. Inoltre
anche le piccole città difficilmente ne avevano, perché chiaramente i
professionisti sceglievano i grossi centri, che potevano offrire maggiori fonti di
guadagno. Così fu probabilmente per cause contingenti, come il propagarsi di
epidemie, che venne creata, prima nelle province e poi in Italia, la figura del
medicus salariarĭus o medicus civitātis, stipendiato dal tesoro pubblico.
Naturalmente questa istituzione non era dovuta tanto a motivi umanitari quanto
politici, perché un’assistenza sanitaria garantita, riducendo la mortalità,
impediva che il numero dei cittadini abili alle armi diminuisse eccessivamente.
Tali medici, scelti sulla base della loro onestà e competenza, avevano l’obbligo di
assistere gratuitamente i meno abbienti, in cambio di tutta una serie di vantaggi
(un salario fisso, numerose esenzioni, la possibilità di usufruire, secondo il
merito, di forniture gratuite di viveri), e potevano anche esercitare la libera
professione.
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola,
1993)
Con tutta probabilità essi dovettero avere anche delle funzioni ufficiali,
come redigere dei certificati di malattia, fare dei rapporti sugli incidenti
mortali, rilasciare testimonianze scritte ai tribunali e dare il permesso
di inumare. A Roma, comunque, è solo nel IV secolo d.C. che compare la
figura del medico pubblico, denominato archiatra [in latino, archiāter,
archiātri e archiātrus, archiātri] alla stregua di quello di corte.
Neppure in età imperiale comunque esistevano degli ospedali pubblici.
Forme di assistenza nascono in epoca tarda con il cristianesimo, quando
si ha una concezione completamente diversa della medicina, intesa non
più come indagine scientifica e come studio delle malattie, ma
esclusivamente come forma di assistenza umanitaria sia da parte del
singolo che della comunità. Sorgono quindi, per esempio, i nosocomīa
(ospedali) e gli xenodochīa (ospizi o ospedali per stranieri), in cui si
offrono ai malati contemporaneamente cure del corpo (basate sulle
conoscenze mediche precedenti), ma soprattutto conforto spirituale.
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola,
1993)
Al centro si trova un ampio cortile;
lungo i quattro lati sono
posizionate le corsie mediche,
formate da tante stanze sia lungo
il perimetro interno (che si
affaccia sul cortile interno) sia
lungo quello esterno. In queste
camere erano ricoverati gli
ammalati e i feriti di guerra. Tra
la serie di stanze interne e quelle
esterne vi è un ampio corridoio.
Alcune di queste stanze erano
utilizzate
dal
personale
amministrativo,
medico
ed
infermieristico.
(Fonte: www.imperium-romanum.com)
medĭcus, medĭci, “medico” (in generale)
ocularĭus medĭcus, oculista
chirurgus, chirurgi, “chirurgo”. Si tratta della latinizzazione di cheirurgós,
composto di chéir, “mano”, ed érgon, “lavoro”, da cui il significato
originario di ‘chirurgo’ come ‘colui che opera con le mani’; questo
grecismo sostituisce in età imperiale il termine latino vulnerarĭus,
vulnerarĭi (da vulnus, “ferita, taglio”), che si legge in Plinio come
definizione del primo medico giunto a Roma nel 219 a.C.
clinĭcus, i, latinizzazione di klinikós, derivante da klíne, “letto” (ma anche
“lettiga su cui vengono deposti i cadaveri”); indica il medico che esegue
la visita al letto del paziente, dunque cura i degenti.
vulnerarĭus, vulnerarĭi, “medico specialista in ferite”
vulnus, vulnĕris (n.) = “ferita” (in senso fisico e morale)
vulnĕro, as, āvi, ātum, āre = “ferire”, “colpire” [in italiano ne derivano
‘vulnerabile’ e ‘invulnerabile’]
clìnico agg. e s. m. [dal lat. clinĭcus, gr. κλινικός, der. di κλίνη «letto»] (pl. m. -ci). –
1. aggettivo - Che riguarda la clinica medica, cioè l’esame, lo studio e la cura del malato:
quadro clinico, il complesso dei sintomi; caso clinico, la concreta realizzazione di una
malattia o di una sindrome (nell’uso comune, essere un caso clinico, di persona che esce
dalla normalità); guarigione clinica, regressione o scomparsa del quadro morboso, con o
senza scomparsa delle lesioni organiche; chimica clinica, l’insieme dei metodi chimici di
analisi (analisi cliniche) impiegati in medicina a scopo diagnostico e anche, spesso, per
controllo della terapia. Nel linguaggio comune: avere l’occhio clinico, con riferimento a
un medico, avere la capacità di trovare abitualmente un rapido e giusto orientamento
diagnostico; in senso figurato, avere prontezza nel giudicare, nell’intendere il significato
intimo delle cose
2. sostantivo maschile - Il docente universitario di clinica medica; nell’uso comune è
spesso sinonimo di medico, normalmente accompagnato da un attributo di merito, in
frasi come essere un buon clinico, un cattivo clinico, un celebre clinico, e simili. Il termine
è usato al maschile anche con riferimento a donna: la dottoressa Bianchi è il più abile
clinico della città. ◆ Avv. clinicaménte, secondo i procedimenti della clinica medica,
dal punto di vista clinico: dichiarare un paziente clinicamente guarito.
(Fonte: Vocabolario Treccani on line)
valetūdo, valetudĭnis (f.) è una vox media, ossia un termine che può
assumere significato positivo o negativo a seconda del contesto.
Indica uno stato di salute, buono o cattivo; ha la stessa radice del
verbo valĕo, es, valŭi, ēre, “essere forte”, “aver forza” o “vigore”
(ma anche “essere in buona salute”, essere sano”, “star bene”), e
dell’aggettivo valĭdus, a, um, “forte” (ma anche “sano”, “in buona
salute”, “in forze”).
Più precisamente, valetūdo significa:
1.
buona salute
2.
stato di salute, salute (buona o cattiva)
3.
cattivo stato di salute, malattia, indisposizione.
Nel significato n° 2, il termine è spesso unito a un aggettivo:
possiamo citare, a titolo di esempio, bona valetūdo, “buona
salute”, optima valetūdo, “ottima salute”, mala valetūdo (o
valetūdo adversa), “malattia”.
Da valetūdo deriva il termine valetudinarĭum, ĭi (n.), che
significa “infermeria” (anche militare), “ospedale”.
salus, salūtis (f.) indica “salute”, buona condizione fisica”, ma
anche “salvezza”, “sopravvivenza”; nel latino ecclesiastico,
assume il significato di “salvezza” dell’anima, “vita eterna”.
Ha la stessa radice di salvĕo, es, ēre, “essere in buona
salute”, “star bene” (ma anche “salutare”), e di salvus, a , um
(agg.), “intero”, “sano e salvo”.
Salve è imperativo presente, seconda persona singolare, di
salvĕo, ed è usato come formula di saluto (“salve!”,
“salute”!); in questo significato è passato anche in italiano.
In latino compare anche nel commiato (“addio!”, “stammi
bene!”).
Salvātor, Salvatōris (m.), traduzione del greco Sotér,
“Salvatore”, indica per i Cristiani il Cristo.
Sanĭtas, sanitātis (f.) significa “buona salute”,
“guarigione”, ma anche “sanità mentale”, “buon
senso”, “ragione”, “senno”. Sano, as, āvi, ātum, āre
equivale a “guarire”, “curare”, mentre insānus, a,
um (agg.) indica il “malato” in senso spirituale,
quindi significa “pazzo”, “folle”, “furioso” e simili.
Qual è il significato del termine “deontologia”?
La deontologia è il «complesso dei doveri inerenti a
particolari categorie, specialmente professionali, di
persone» (Zingarelli).
In particolare, la deontologia medica è l’«insieme delle
norme riguardanti i diritti e, soprattutto, i doveri e le
responsabilità del medico, nei suoi rapporti con i
pazienti e con i colleghi» (Vocabolario Treccani on
line).
Il termine deriva del greco déon, déontos, “ dovere”, e
–logìa, “discorso, teoria, trattazione”.
Il dibattito sulla deontologia
professionale nasce in ambito
greco con la riflessione di
Ippocrate di Cos (V-IV secolo
a.C.), il primo e il più
importante
dei
medici
d’epoca classica, fondatore
della medicina razionale.
Sotto il nome di Corpus
Hippocraticum sono raccolte
le opere a lui attribuite dagli
eruditi
del
Museo
di
Alessandria nel III secolo a. C.
Di questi scritti (circa
settanta), solo alcuni
sono
attribuibili
ad
Ippocrate; gli altri sono
stati composti nei secoli
successivi.
Fra i testi inclusi nel
Corpus Hippocraticum,
per
quanto
non
ascrivibili a lui, vi è
anche
il
famoso
“Giuramento”, nel quale
sono contenuti i principi
fondamentali
della
deontologia medica.
 Condivisione
delle
proprie
conoscenze
 Difesa della vita (rifiuto
dell’aborto e dell’eutanasia)
 Senso del proprio limite e
orgoglio
della
propria
professione (medica)
 Correttezza
nei
comportamenti
 Segreto professionale.
Vedremo più avanti come tale
testo abbia sensibilmente
influito sul pensiero degli
scrittori latini di medicina.
Testo "classico"
Giuro per Apollo medico e per Asclepio e per Igea e per
Panacea e per tutti gli dèi e le dee, chiamandoli a
testimoni, che rispetterò, secondo le mie forze e il mio
giudizio, questo giuramento e questo patto scritto.
Stimerò chi mi ha insegnato quest'arte come mio padre
e dividerò con lui i miei beni, e se avrà bisogno lo
metterò a parte dei miei averi in cambio del debito
contratto con lui, e considererò i suoi figli come
fratelli, e insegnerò loro quest'arte, se vorranno
apprenderla, senza richiedere compensi né patti
scritti.
Metterò a parte dei precetti e degli insegnamenti
orali e di tutto ciò che ho appreso i miei figli e i
figli del mio maestro e i discepoli che avranno
sottoscritto il patto e prestato il giuramento
medico, e nessun altro. Sceglierò il regime per il
bene dei malati, secondo le mie forze e il mio
giudizio, e mi asterrò dal recar danno e offesa.
Non somministrerò a nessuno, neppure se
richiesto, alcun farmaco mortale, né suggerirò un
tale consiglio; e neppure fornirò mai a una donna
un mezzo per procurare l'aborto. Conserverò pia e
pura la mia vita e la mia arte.
Non opererò neppure chi soffre di mal della pietra
[chi soffre di calcolosi], ma cederò il posto a chi è
esperto di questa pratica. In tutte le case che
visiterò entrerò per il bene dei malati,
astenendomi da ogni offesa e da ogni danno
volontario, e soprattutto da atti sessuali sul corpo
delle donne e degli uomini, sia liberi che schiavi.
Tutto ciò ch'io vedrò e ascolterò nell'esercizio
della mia professione, o anche al di fuori della
professione nei miei contatti con gli uomini, e che
non dev’essere riferito ad altri, lo tacerò
considerando la cosa segreta.
Se adempirò a questo giuramento e non lo tradirò,
possa io godere dei frutti della vita e dell'arte,
stimato in perpetuo da tutti gli uomini; se lo
trasgredirò e spergiurerò, possa toccarmi tutto il
contrario.
(Testo tratto da www.atlantemedicina.wordpress.com, con adattamenti)
Una curiosità
Nel “Giuramento di Ippocrate” si legge che il medico
deve astenersi dall’intervenire chirurgicamente sui
pazienti affetti dal “mal della pietra”, ossia dalla
calcolosi renale.
La ragione principale di tale divieto consiste nel fatto
che nel mondo antico le professioni di “medico” e di
“chirurgo” sono ben distinte: pertanto il medico non
può eseguire un intervento chirurgico quale, appunto,
il “taglio della pietra” (litotomìa), che, comportando
un altissimo rischio di morte e di gravi complicazioni
per il paziente, risulta, per così dire, “indegno” della
professione medica.
Nel mondo romano, gli scrittori che si inseriscono
nel dibattito sulla deontologia professionale
sono:
- gli esperti di medicina, come AULO CORNELIO
CELSO, vissuto sotto Tiberio (14-37 d.C.,), e
SCRIBONIO LARGO, attivo al tempo di Claudio
(41-54 d.C.)
- i filosofi, come SENECA (4 a.C./1 d.C.-65 d.C.)
- gli autori di opere a carattere satirico, come
FEDRO (20 ca. a.C.-50 d.C.), MARZIALE (38/41-104
ca. d.C.) e GIOVENALE (50/60-dopo il 127 d.C.).
Celso e Scribonio Largo sono i soli
scrittori latini di medicina che si
occupino
espressamente
di
deontologia, ispirandosi ai testi
ippocratici relativi alla formazione
del medico e, soprattutto, al
“Giuramento di Ippocrate”.
Chi era Celso?
Probabilmente non un vero e proprio medico, ma
un esperto di medicina. Scrisse un’opera
enciclopedica intitolata Artes, di cui ci resta solo
la sezione De medicina, in otto libri (VI-XIII
dell’opera completa), che costituisce il più
importante manuale latino di tale disciplina. Si
tratta di un’opera a carattere divulgativo, rivolta a
un pubblico non specialistico. Per le sue
conoscenze, oltre che per lo stile chiaro ed
elegante, Celso è passato alla storia come il
“Cicerone della medicina”.
Il chirurgo ideale secondo Celso
Esse autem chirurgus debet adulescens aut certe
adulescentiae propior; manu strenua, stabili, nec
umquam intremescente, eaque non minus sinistra
quam dextra promptus; acie oculorum acri
claraque; animo intrepidus; misericors sic, ut
sanari velit eum, quem accepit, non ut clamore
eius motus vel magis quam res desiderat properet,
vel minus quam necesse est secet; sed perinde
faciat omnia, ac si nullus ex vagitibus alterius
adfectus oriatur.
(De medicina, VII, Prooemium, 4)
Il
chirurgo deve essere innanzitutto
giovane, o almeno non lontano dalla
giovinezza; deve avere la mano forte,
ferma e capace, mai tremante, ed essere
abile con la sinistra non meno che con
la destra. Deve possedere vista acuta e
nitida; deve essere coraggioso, tanto
compassionevole da desiderare la
guarigione del malato che ha in cura,
ma non tanto da lasciarsi indurre,
commosso dalle sue grida, a fare più in
fretta di quanto occorra, o a tagliare
meno di quanto sia necessario; egli
deve, invece, fare ogni cosa come se i
lamenti del paziente non suscitassero in
lui
alcuna
emozione.
In his autem ante omnia scire medicus debet, quae
insanabilia sint, quae difficilem curationem habeant, quae
promptiorem. Est enim prudentis hominis primum eum,
qui servari non potest, non adtingere, nec subire speciem
. . . eius, ut occisi, quem sors ipsius interemit; deinde ubi
gravis metus sine certa tamen desperatione est, indicare
necessariis periclitantis in difficili spem esse, ne, si victa
ars malo fuerit, vel ignorasse vel fefellisse videatur. Sed ut
haec prudenti viro conveniunt, sic rursus histrionis est
parvam rem adtollere, quo plus praestitisse videatur.
Obligarique aequum est confessione promptae rei, quo
curiosius etiam circumspiciat, ne, quod per se exiguum est,
maius curantis neglegentia fiat.
(De medicina, V, 26, 1)
A proposito [delle ferite] il medico deve prima di
tutto sapere quali sono inguaribili, quali difficili
da curarsi, quali più agevolmente curabili. Infatti
prudenza vuole in primo luogo non porre mano a
curare chi non può essere salvato, per non dare
l’impressione di avere ucciso chi è vittima del
proprio destino; poi, trattandosi di caso grave ma
non assolutamente disperato, far presente ai
parenti della persona che è in pericolo, la
precarietà della situazione, affinché, se l’arte
dovrà cedere al male, non si passi per ignoranti o
per impostori.
Ma se questo è l’atteggiamento che si conviene al
medico prudente,
sarebbe da ciarlatani
ingrandire una cosa da nulla per accrescere agli
occhi degli altri il valore della propria
prestazione. Ed è giusto impegnarsi con la
promessa di una rapida soluzione, per essere
anche più attenti a evitare che un caso di modeste
proporzioni divenga più grave per trascuratezza
della cura.
(Trad. di U. Capitani)
Vediamo ora il passo più nel
dettaglio:
In his autem ante omnia scire
medicus
debet,
quae A proposito [delle ferite] il
medico deve prima di
insanabilia
sint,
quae
tutto sapere quali sono
difficilem
curationem
inguaribili, quali difficili
habeant,
quae
promptiorem.
da curarsi, quali più
agevolmente curabili.
insanabĭlis,
e
(agg.)
=
insanabile,
inguaribile,
non curabile
curatĭo, onis (f.) = cura,
trattamento
Est
enim
prudentis Infatti prudenza vuole in
hominis primum eum,
primo luogo non porre
qui servari non potest,
mano a curare chi non
non adtingere, nec
può essere salvato, per
subire speciem . . .
non dare l’impressione
eius, ut occisi, quem
di avere ucciso chi è
sors ipsius interemit;
vittima del proprio
destino;
servo, as, āvi, ātum, āre
= salvare
deinde ubi gravis metus
sine
certa
tamen
desperatione
est,
indicare
necessariis
periclitantis in difficili
spem esse, ne, si victa ars
malo
fuerit,
vel
ignorasse vel fefellisse
videatur.
ars, artis (f.) = arte,
scienza, disciplina
malum, i (n.) = male,
malattia
poi, trattandosi di caso
grave
ma
non
assolutamente
disperato, far presente ai
parenti della persona
che è in pericolo, la
precarietà
della
situazione, affinché, se
l’arte dovrà cedere al
male, non si passi per
ignoranti
o
per
impostori.
Sed ut haec prudenti
viro conveniunt, sic
rursus histrionis est
parvam rem adtollere,
quo plus praestitisse
videatur.
Ma
se
questo
è
l’atteggiamento che si
conviene al medico
prudente, sarebbe da
ciarlatani ingrandire
una cosa da nulla per
accrescere agli occhi
degli altri il valore
della
propria
prestazione.
Obligarique aequum est Ed è giusto impegnarsi
confessione promptae
con la promessa di una
rei,
quo
curiosius
rapida soluzione, per
etiam circumspiciat,
essere
anche
più
ne, quod per se
attenti a evitare che un
exiguum est, maius
caso
di
modeste
curantis
neglegentia
proporzioni
divenga
fiat.
più
grave
per
trascuratezza
della
cura.
neglegentĭa, ae (f.) =
negligenza,
trascuratezza
Il sostantivo medĭcus, i è legato al verbo medĕor, ēris,
ēri, “dare la proprie cure a”, “curare”, “guarire”.
Alla stessa radice si ricollegano:
medicīna, ae (propriamente aggettivo, riferito ad ars) =
arte medica, medicina, rimedio
medĭco, as, āvi, ātum, āre e medĭcor, āris, ātus sum, āri
= medicare, curare, guarire
medicāmen, ĭnis (n.) = medicina, droga, veleno,
cosmetico
medicamentum, i (n.) = medicamento, medicina, filtro
magico, cosmetico
Sono termini passati in gran parte in italiano, dove
però ‘medicamento’ ha solo il significato di
‘sostanza curativa’.
Il ‘medico condotto’ deriva dal latino conducĕre ,
“ingaggiare, assoldare”, mentre il nostro ‘dottore’
si ricollega al verbo docĕo, es, docŭi, doctum, ēre,
“insegno”, e a doctor, ōris, “insegnante, maestro”.
Il verbo curo, as, āvi, ātum, āre (“curare, prendersi
cura di, occuparsi di”) si trova anche riferito alle
cure di un malato, come poi in italiano, e in tal
caso significa “curare, avere in cura, trattare”.
In latino esistono due termini che significano
malattia:
morbus, i (m.) indica una corruzione di tutto il
corpo, ma significa anche “malattia morale”,
“passione”, “manìa”, “vizio”
[vitĭum, ii (n.) indica invece un’«imperfezione»
fisica o morale, un “difetto”, come poi anche in
italiano]
aegritūdo, ĭnis (f.) significa “debolezza, infermità
fisica”, ma anche “malessere spirituale, ansietà,
dolore”.
Un passo di Aulo Gellio (Noctes Atticae, 4.2.1-5) ci illumina
sulla differenza di significato tra i due termini.
Caelius Sabinus in libro, quem de edicto aedilium curulium
composuit, Labeonem refert, quid esset ‘morbus’, hisce
verbis definisse: «’Morbus’ est habitus cuiusque corporis
contra naturam, qui usum eius facit deteriorem». Sed
‘morbum’ alias in toto corpore accidere dicit, alias in parte
corporis. Totius corporis ‘morbum’ esse, veluti sit pthisis
aut febris, partis autem, veluti sit caecitas aut pedis
debilitas. «Balbus autem, inquit, et atypus vitiosi magis
quam morbosi sunt, et equus mordax aut calcitro vitiosus,
non morbosus est. Sed cui morbus est, idem etiam vitiosus
est. Neque id tamen contra fit; potest enim qui vitiosus est
non morbosus esse».
Celio Sabino nel suo libro L’Editto degli edili curuli
riferisce che Labeone definì con le seguenti parole che
cosa s’intenda per morbus: «La malattia è la
condizione anormale di un corpo, che ne peggiora la
funzionalità». Poi dice che la malattia talora interessa
tutto il corpo, talora una sua parte. Sono per esempio
malattie di tutto il corpo la tisi o la febbre, sono
malattie di una sua parte la cecità o un handicap a una
gamba. Inoltre dice: «Uno balbuziente o dislessico ha
piuttosto un difetto che una malattia, e un cavallo che
morde o scalcia ha un difetto, non una malattia. Solo
che, chi ha una malattia, è anche difettoso, mentre
però non vale l’inverso: chi ha un difetto non è detto
che sia malato».
(Trad. di V. Bugliani)
Da morbus derivano:
 l’aggettivo morbĭdus, a, um, “ammalato, indisposto,
malsano”
 l’aggettivo morbōsus, a, um, “malato, malsano, affetto da
una passione morbosa”
 il sostantivo morbosĭtas, ātis (f.), “malattia” [latino tardo]
In italiano morbo è rimasto nel linguaggio medico nel senso
di ‘malattia’, con l’aggiunta di opportune determinazioni
(ad esempio, “il morbo di Parkinson”); morbido indica cosa
delicata e cedevole al tatto, mentre morboso, oltre ad
essere termine medico (“che è sintomo o effetto di
malattia”), è usato anche nel senso di ‘anormale in quanto
mancante di equilibrio’.
UNA CURIOSITÀ
MORBILLO, nome che designa una
malattia virale dell’infanzia, deriva da
un diminutivo di morbus, in quanto fin
dal’età medievale il morbillo apparve
meno grave del vaiolo, a cui pure
assomiglia per qualche aspetto.
Il termine ‘terapia’, proprio del lessico specifico della
medicina,
presente
in
numerosi
composti
(fisioterapia, talassoterapia, elioterapia, ecc.), deriva
dal greco therapéia, “cura”, “servizio”.
Di origine greca è anche –iátra, secondo elemento di
numerosi composti, derivato dal greco iatrós,
“medico”, per cui troviamo ‘pediatra’, ‘psichiatra’,
‘fisiatra’, ‘otorinolaringoiatra’, tutte parole con
componenti greche, fatto frequentissimo nella
medicina.
–iatría (dal greco iatréia, “cura medica”) significa
appunto “cura” (ad esempio, “pediatria”, “psichiatria”,
ecc.).
Noi medici facciamo un grandissimo affidamento
nel polso, elemento diagnostico più ingannevole
di ogni altro, perché spesso è più lento o più
affrettato a seconda dell’età, del sesso, della
costituzione fisica. E in genere, pur essendo
l’organismo nel suo complesso sufficientemente
sano, se lo stomaco è indisposto, talora anche
all’inizio di una febbre, il polso si fa piccolo e
lento, cosicché può sembrare malato un soggetto
in grado invece di sopportare facilmente il grave
accesso febbrile che lo minaccia.
Al contrario, spesso, suole rendere affrettato il polso il
bagno, l’esercizio fisico, la paura, l’ira e qualsiasi altro
stato d’animo, a tal punto che, al sopraggiungere del
medico, l’apprensione del malato, incerto su come
quello lo troverà, basta ad alterarne il battito. Perciò
un medico accorto non deve, subito appena arriva,
prendere il braccio del paziente, ma prima mettersi
seduto con atteggiamento cordiale, chiedere al malato
come si sente, e se nota in lui qualche apprensione,
rassicurarlo con parole convincenti, poi visitarlo.
(De medicina, XIII, V, 5-6 – Trad. di U. Capitani)
Celso segue sicuramente le indicazioni contenute
in un famoso passo di Ippocrate:
“Nel momento in cui il medico entra nella stanza
del malato, si ricordi di stare attento al modo di
sedersi, al modo di comportarsi; egli deve essere
vestito bene, essere sereno nel volto e nell’agire,
deve attendere con cura all’ammalato, rispondere
con tranquillità alle obiezioni e non perdere la
pazienza e la calma di fronte alle difficoltà che gli
si presentano”.
Chi era Scribonio Largo?
Scribonio Largo, forse un
liberto
di
origini
siciliane, fu un medico
vicino
all’imperatore
Claudio. Tra il 44 e il 48
scrisse
un
manuale
specialistico
(Compositiones),
nel
quale sono indicate le
composizioni
di
271
ricette contro svariate
malattie e per la cura e
l’igiene del corpo.
Nell’epistola introduttiva alla sua raccolta di
ricette, Scribonio Largo afferma che i
doveri del medico non vengono meno
neanche in guerra, nei confronti del
nemico.
Secondo
questo
ideale
universalistico, compito della medicina è
di portare aiuto indistintamente a chi ne
ha bisogno, senza preconcetti o valutazioni
opportunistiche.
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993)
Vediamo il passo in questione:
“Quindi, chi è legato secondo le regole al sacro
giuramento del medico, non dovrà dare un veleno
nemmeno ai nemici, ma li perseguiterà, quando
le circostanze lo richiederanno, solo come soldato
e cittadino che compie il proprio dovere, perché la
medicina non valuta gli individui in base alla
sorte o alle situazioni, ma promette il suo
soccorso senza distinzione a tutti quelli che lo
invocano e s’impegna a non recare danno a
nessuno.
Ippocrate, fondatore della nostra professione, pose
alla base di questa disciplina un giuramento in cui
è sancito che un medico non deve neppure dare o
indicare a una donna incinta un abortivo; egli
voleva così imprimere un profondo senso di
rispetto verso la vita umana nell’animo di chi si
dedica a quest’arte. Chi infatti considererà azione
sacrilega troncare quella che non è ancora
certezza di vita, quanto più delittuoso giudicherà
nuocere a un individuo già formato e perfetto!
Ippocrate dunque considerò di estrema importanza
che ognuno salvaguardasse con animo reverente e
puro il nome e il decoro della medicina,
comportandosi secondo le regole del suo
giuramento: la medicina è la scienza del guarire,
non del nuocere. E se il medico non dedicasse
tutto se stesso a soccorrere chi soffre, non farebbe
dono agli uomini di quella pietà a cui si è
impegnato con la sua promessa.
(Compositiones, ep. intr. 4-5; trad. di U. Capitani)
Ecco il testo latino:
Idcirco ne hostibus quidem malum medicamentum
dabit, qui sacramento medicinae legitime est
obligatus (sed persequetur eos, cum res postulaverit,
ut militans et civis bonus omni modo), quia medicina
non fortuna neque personis homines aestimat, verum
aequaliter omnibus implorantibus auxilia sua
succursuram se pollicetur nullique umquam
nocituram profitetur. Hippocrates, conditor nostrae
professionis, initia disciplinae ab iureiurando
tradidit, in quo sanctum est, ut ne praegnanti quidem
medicamentum, quo conceptum excutitur, aut detur
aut demostretur a quoquam medico, longe
praeformans animos discentium ad humanitatem.
Qui enim nefas existimaverint spem dubiam
hominis laedere, quanto scelestius perfecto iam
nocere iudicabunt? Magni ergo aestimavit nomen
decusque medicinae conservare pio sanctoque
animo quemque secundum ipsius propositum se
gerentem: scientia enim sanandi, non nocendi est
medicina. Quae nisi omni parte sua plene
incumbat in auxilia laborantium, non praestat
quam pollicetur hominibus misericordiam.
SENECA, De beneficiis, VI, 16, 1-2; 4-5
Quid ergo? quare et medico et praeceptori plus
quiddam debeo, nec adversus illos mercede
defungor? Quia ex medico et praeceptore in
amicum
transeunt, et nos non arte quam
vendunt, obligant, sed benigna et familiari
voluntate. Itaque medico, si nihil amplius quam
manum tangit, et me inter eos, quos perambulat,
ponit, sine ullo affectu facienda vitandave
praecipens, nihil amplius debeo: quia me non
tamquam
amicum
vidit,
sed
tamquam
imperatorem. […]
Quid ergo est, quare istis debeamus multum? Non
quia pluris est quod vendiderunt quam emimus,
sed quia nobis ipsis aliquid praestiterunt. Ille
magis pependit quam medico necesse est: pro me,
non pro fama artis, extimuit; non fuit contentus
remedia monstrare, sed admovit; inter sollicitos
assedit, ad suspecta tempora accurrit; nullum
ministerium oneri illi, nullum fastidium fuit. [...]
Huic ego non tamquam medico, sed tamquam
amico obligatus sum.
Perché al medico e al precettore sono debitore di
qualcosa in più e non estinguo il mio debito
pagandoli? Perché da medico e da precettore si
trasformano in amici, e noi siamo in debito verso
di loro non per le loro prestazioni, che paghiamo,
ma per la loro disposizione d’animo benevola e
affettuosa. E così, se il medico non fa nient’altro
che tastarmi il polso e considerarmi uno dei tanti
pazienti che visita, prescrivendomi senza alcuna
partecipazione ciò che devo fare e ciò che devo
evitare, non gli sono debitore di nulla, perché non
mi vede come un amico, ma come un cliente. […]
[…] Perché, dunque, dovremmo essere debitori di molto
a costoro? Non perché quello che ci hanno venduto
vale di più del prezzo al quale l’abbiamo acquistato,
ma perché hanno fatto qualcosa per noi
personalmente. Il medico si è preoccupato per noi più
di quanto sia necessario a un medico: ha avuto paura
non per la sua reputazione come medico, ma per me;
non si è accontentato di indicarmi i rimedi, ma me li
ha anche applicati; è stato fra quelli che mi hanno
assistito, è accorso nei momenti critici; nessun
servizio gli è pesato o gli ha dato fastidio. […] Verso
quest’uomo sono in debito non come verso un
medico, ma come verso un amico.
(Trad. di M. Natali)
Marziale si esprime così sull’incompetenza di alcuni
medici:
Nuper erat medicus, nunc est vispillo Dialus:
Quod vispillo facit, fecerat et medicus.
(Marziale, Epigrammata, I, 47)
Poco fa Diaulo era medico; ora fa il seppellitore.
Quello che fa da becchino, lo faceva pure da dottore.
(Trad. di Simone Beta)
Chirurgus fuerat, nunc est vispillo Diaulus.
Coepit quo poterat clinicus esse modo.
(Marziale, Epigrammata, I, 30)
Diaulo, che prima era medico, ora fa il becchino.
Già da medico faceva sdraiare la gente sul lettino.
(Trad. di Simone Beta)
Oplomachus nunc es, fueras ophthalmicus ante.
Fecisti medicus quod facis hoplomachus.
(Marziale, Epigrammata, VIII, 74)
Ora fai il gladiatore, prima facevi l’oculista.
Cavavi gli occhi prima, cavi gli occhi adesso.
[lett.: “Quello che ora fai da gladiatore, l’hai fatto da medico”]
(Trad. di Simone Beta)
hoplomăchus, i (m.) = oplòmaco (gladiatore che
combatte in pieno assetto di guerra)
ophthalmĭcus , i (m.) = oculista
Languebam: sed tu comitatus protinus ad me
venisti centum, Symmache, discipulis.
Centum me tetigere (= tetigerunt) manus aquilone
gelatae:
non habui febrem, Symmache, nunc habeo.
(Marziale, Epigrammata, V, 9)
Stavo male: ma tu, Simmaco, venisti subito da me,
accompagnato da cento discepoli.
Mi tastarono cento mani ghiacciate dall’Aquilone:
non avevo la febbre, Simmaco, ora ce l’ho.
languĕo, es, langŭi, ēre = “stare male”, “essere” o
“sentirsi debole” o “fiacco” (il verbo indica
malattia accompagnata da uno stato di grande
prostrazione fisica)
febris, is (f.) = “febbre” (per gli antichi la febbre non
era un sintomo, ma una malattia); la dea “Febbre”,
di cui esisteva un antico altare sul Palatino
In questo epigramma Marziale, più che sulla scarsa preparazione
del medico, ironizza sulla consuetudine dei consulti medici, che
imperversò in tutta la latinità, ma soprattutto in età imperiale.
Anche Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXIX, V, 11) critica
questa consuetudine, ricordando un’iscrizione funebre in cui si
leggeva: turba se medicorum perisse, cioè “morto per troppi
medici”. Si tratta evidentemente di un tópos, ma che doveva
rispecchiare una realtà effettiva, perché ritorna spesso nella
letteratura latina ed è presente anche in autori tecnici, proprio
nel momento in cui essi accennano a quelle che devono essere le
caratteristiche deontologiche di un buon medico. Ancora nel V
secolo d.C. il medico Teodoro Prisciano stigmatizza l’abitudine
dei colleghi di correre in massa presso il letto del malato,
discutendo accanitamente e gareggiando in eloquenza, come in
un agone olimpico, mentre quello muore.
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola,
1993)
Motivi analoghi si ritrovano in altri poeti satirici. Fedro, per esempio,
descrive un ex calzolaio divenuto medico (I, 14); Giovenale biasima la
disinvoltura con cui un certo Temisone è solito ammazzare i suoi
pazienti (quot Themison aegros autumno occiderit uno, Sat. X, 221).
Marziale e gli altri poeti satirici, per essere pungenti, hanno interesse a
presentare casi paradossali di cambiamenti di professione, ma il
quadro dei medici contemporanei che ne risulta doveva avere un
riscontro nella realtà. Dato, infatti, che nella Roma del tempo non
esisteva il concetto della qualificazione professionale, non era cosa
insolita che uno passasse da un mestiere all’altro alla ricerca del
successo. Questi “passaggi” erano agevolati anche dalle concezioni di
certe scuole mediche, come quella “metodica”, che non richiedevano
particolari competenze scientifico-anatomiche.
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993)
Ex sutore medicus
Malus cum sutor inopia deperditus
medicinam ignoto facere coepisset loco
et venditaret falso antidotum nomine,
verbosis adquisivit sibi famam strophis.
Hic cum iaceret morbo confectus gravi
rex urbis, eius experiendi gratia
scyphum poposcit: fusa dein simulans aqua
illius se miscere antidoto toxicum,
combibere iussit ipsum, posito praemio.
Timore mortis ille tum confessus est,
non artis ulla medicum se prudentia,
verum stupore vulgi, factum nobilem.
Rex advocata contione haec edidit:
'Quantae putatis esse vos dementiae,
qui capita vestra non dubitatis credere,
cui calceandos nemo commisit pedes?'
Hoc pertinere vere ad illos dixerim,
quorum stultitia quaestus impudentiae est.
Come abbiamo visto, il medico esercitava in una sorta di
ambulatorio (taberna), dove c’era una sala d’attesa, un
locale per la visita e uno spazio in cui egli preparava le
medicine. In questo ambiente il medico aveva a
disposizione strumenti chirurgici e attrezzi di vario
genere.
Per quel che concerne la visita del malato, sappiamo che
essa iniziava con l’esame del polso e proseguiva con
altre indagini, come la palpazione dell’addome,
l’auscultazione del torace e l’osservazione della gola:
una diagnosi
veniva effettuata anche con
l’osservazione dell’urina e delle feci.
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter Antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola,
1993)
Naturalmente, oltre ai medici “privati”, che
esercitavano liberamente la loro professione, vi
dovettero essere a Roma fin dall’epoca più antica
quelli che si occupavano di particolari categorie
sociali. Per esempio, all’epoca dei grandi domini
rurali, esistevano nelle grosse fattorie dei
valetudinaria, specie di ospedali per gli schiavi, in
cui essi venivano curati prontamente perché
potessero tornare al lavoro prima possibile.
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter Antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola,
1993)
In ambito militare ci dovette essere ben presto una
sorta di assistenza sanitaria per la cura delle ferite
da guerra, che richiedevano interventi particolari
e una chirurgia specifica (come per esempio
quella per l’estrazione delle frecce e la sutura degli
intestini), di cui ci informa solo Celso. I pazienti
erano
ricoverati
in
tende
attrezzate
appositamente, come degli ospedali da campo.
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter Antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola,
1993)
Dei medici stabili vi erano anche presso le scuole
gladiatorie, in quanto il tipo stesso di attività che
vi si svolgeva richiedeva interventi immediati e
cure costanti. Un esempio illustre di questa
categoria è GALENO (129-199 circa) che, all’età di
ventisette anni, venne a Roma da Pergamo
proprio al seguito di una compagnia di gladiatori,
acquistando con questa attività una grande
pratica chirurgica.
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter Antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola,
1993)
Oltre ai medici uomini, a Roma esistevano anche le
figure delle obstetrīces e delle medĭcae, che si
occupavano per lo più dell’aspetto ostetricoginecologico e delle malattie specificamente
femminili, come per esempio la sterilità e l’isteria.
L'esistenza di donne medico è testimoniata, fra
l'altro, anche da diverse iscrizioni.
Obstĕtrix, īcis (f.) = ostetrica, levatrice
Medĭca, ae (f.) = dottoressa, infermiera
In età imperiale, accanto ai medici generici, cominciano a
diffondersi i medici specialisti. Troviamo traccia di ciò in un
epigramma di Marziale (10.56.3-7):
Eximit aut reficit dentem Cascellius aegrum,
infestos oculis uris, Hygine, pilos;
non secat et tollit stillantem Fannius uvam,
tristia †saxorum† stigmata delet Eros;
enterocelarum fertur Podalirius Hermes.
Cascellio estrae oppure ottura il dente malato;
tu, Igino, bruci i peli che danno fastidio agli occhi;
Fannio guarisce senza inciderla una cisti in suppurazione;
Eros fa sparire le terribili cicatrici degli schiavi fuggitivi;
Ermes è chiamato l’Ippocrate [lett.: “il Podalirio”] delle ernie
inguinali.
(Trad. di Simone Beta)
[Podalirio era un mitico guaritore, figlio di Asclepio]
Queste specializzazioni trovano conferma nei testi
medici e nelle fonti documentarie. L’oculistica, in
particolare, era molto diffusa.
I medici ocularii curavano malattie come la
lippitūdo, “congiuntivite”, o la aspritūdo,
“tracoma” (infezione batterica della congiuntiva e
della cornea) con il collyrium (grecismo da
Kollýrion), una pomata da spalmare sugli occhi,
solidificata e venduta sotto forma di bastoncini.
Sulla ‘confezione’ era impressa con un sigillo di
pietra (signacŭlum medici ocularii) una specie di
‘etichetta’, contenente le seguenti informazioni:
- nome del medico al genitivo
- denominazione del collirio (spesso un grecismo)
- scopo terapeutico o tempi di somministrazione.
(Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno
Mondadori, 2011)
Vediamo alcuni esempi:
Gentiani dialepidos [= διὰ λεπίδος] ad aspritudines
Genziano – Collirio al metallo [rame] per il tracoma (le
infiammazioni delle palpebre)
Gentiani lene ad impetum lippitudinis
Genziano – Collirio dolce per lo stadio acuto della
congiuntivite
M. Valeri Seduli euodes [= εὐώδης] ad aspritudines et
cicatrices veteres
Marco Valerio Sedulo – Collirio profumato per tracoma e
vecchie cicatrici
Gentiani herbacium (= -κιον) ad claritatem
Genziano – Collirio alle erbe per schiarire la vista
Gentiani diamisus (= διὰ μίσυος) ad ueteres
cicatrices
Genziano - Collirio al rame per vecchie cicatrici
M. Valeri Seduli penicille [= penicillum] ad omne
lippitudinem ex ouo
Marco Valerio Sedulo – Pennello per tutti i tipi di
congiuntivite. All’uovo
M. Valeri Seduli diamisus crocodes (= κροκοδής) ad
aspritudines ueteres
Marco Valerio Sedulo - Collirio al rame e allo
zafferano per vecchie infiammazioni delle
palpebre
M. Valeri Seduli diasmyrnes (= διὰ σμύρνης) post
impetum lippitudinem ex ouo
Marco Valerio Sedulo – Collirio alla mirra dopo lo
stadio acuto della congiuntivite. All’uovo
(Fonte: www.noctes-gallicanae.fr)
Legenda del signaculum:
VEGETINI DIA MISUS
AD ASPRIT(udines)
Un alto livello di specializzazione è raggiunto dai
medici romani anche nell’odontoiatria, dal punto
di vista della cura clinica (otturazioni, ecc.),
dell’odontotecnica (dentiere, “ponti”), della
medicina preventiva e soprattutto della chirurgia
estrattiva , come possiamo ricavare da Celso:
Anche nella bocca alcune malattie si curano con la mano. In essa, in primo
luogo, talora, i denti si muovono, ora a causa della debolezza delle
radici, ora a causa della malattia delle gengive che si prosciugano. In
entrambi i casi occorre accostare alle gengive un cauterio, in modo che le
tocchi leggermente, senza penetrarvi. Le gengive cauterizzate sono da
spalmare con miele e lavare con vino e miele. Appena le piaghe
cominciano ad essere pulite, vanno strofinati dei medicamenti in
polvere, di quelli astringenti. Se però il dente fa male e si è deciso di
estrarlo perché i medicamenti non sono di alcun aiuto, deve essere
scalzato in modo che le gengive si distacchino, poi smosso. Sono da fare
queste operazioni fino a che si muove bene: infatti un dente che sta fisso
si estrae con sommo pericolo e talora la mandibola si sloga. Un siffatto
modo di procedere è ancora più rischioso nei denti superiori, poiché è
possibile smuovere le tempie o gli occhi. Allora, il dente va estratto, se
possibile con la mano, altrimenti con le pinze. E se il dente è scavato,
dapprima tal foro va riempito con filacce oppure con piombo ben
preparato, in modo che sotto l’azione delle pinze non si frantumi.
(Celso, De medicina, VII, 12, 1 – Trad. di U. Capitani)
In altre parti della sua opera Celso illustra pratiche
relative
all’otorinolaringoiatria,
come
la
tonsillectomia. In Plinio il Vecchio si trovano
invece consigli circa terapie odontoiatriche di tipo
farmacologico, nelle quali si coglie il retaggio di
una medicina popolare.
Così lo chiama Celso, mentre Scribonio Largo preferisce
il termine auriscalpium: si tratta di uno strumento
impiegato per rimuovere dalle orecchie cera, cerume e
corpi estranei, vermi compresi, ma anche per
compiere altri tipi di interventi (per esempio, la
rimozione di calcoli delle vie urinarie ).
Ubi vero vermes orti sunt, protrahendi auriculario
specillo sunt.
(Celso, De medicina,VII, 7)
 Datazione: 9 a.C. come terminus ante quem
 Provenienza: Dangstetten (Germania) – castellum
romano
 Materiale: bronzo
 Lunghezza: 18,5 cm
Datazione: seconda
metà del I secolo d.C.
Provenienza: Keulen
(Germania)
Lunghezza: 6,3 cm
Secondo Ippocrate, tre sono gli ambiti della medicina:
 la farmaceutica (dal greco phármakon), che si occupa
dei medicinali (ovviamente di origine naturale)
 la chirurgia, ovvero l’insieme delle pratiche manuali
sul corpo del paziente
 la dietetica (dal greco díaita), ossia lo studio degli
effetti sulla salute di un corretto stile di vita, con
funzione sia preventiva che terapeutica.
Per quanto riguarda la FARMACEUTICA, bisogna
precisare che nella letteratura latina troviamo
raccolte sia di ricette (compositiones di più
elementi) sia di “semplici”, cioè di prodotti
naturali (soprattutto erbe) usati singolarmente.
Un esempio è offerto da Plinio il Vecchio, il quale
consiglia il seguente rimedio per il mal di gola:
Lacte
bubulo
aut Le infiammazioni delle
caprino tonsillae et
tonsille e della trachea
arteriae
exulceratae
si curano con latte di
iuvantur. Gargarizatur
mucca o di capra. Una
tepidum, ut est usus
volta
munto
e
expressum
aut
riscaldato, come è uso,
calefactum. Caprinum
se ne fanno gargarismi
utilius cum malva
tiepidi. Il latte di capra
decoctum
et
sale
è più efficace quando è
exiguo.
bollito con malva e un
po’ di sale.
Lingua exulcerationi et
arteriarum prodest ius
omasi
gargarizatum,
tonsillis autem privatim
renes vulpium aridi cum
melle
triti
inlitique,
anginae fel taurinum vel
caprinum cum melle,
iocur melis ex aqua. Oris
gravitatem
ulceraque
butyrum emendat.
(Plinio il Vecchio, Naturalis Historia,
XXVIII, 189-190)
[Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum.
Letteratura e cultura latina, vol. 3,
Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori,
2011]
Alle
ulcerazioni
della
lingua e della trachea
fanno bene i gargarismi
con il succo della trippa
bovina,
alle tonsille
invece
giovano
in
particolare le reni di
volpi, disseccate, tritate
e spalmate con miele,
all’angina il fiele di toro
o di capra con miele, e il
fegato di tasso acquatico.
Il burro sana il cattivo
odore e le ulcere della
bocca.
Lo stesso Plinio suggerisce questo rimedio per chi soffre
di milza:
“Dicono che sia anche un medicamento per la milza, se
si mangia la menta nell’orto senza svellerla e se chi la
mastica dice ad alta voce che si sta curando la milza:
tutto questo va fatto per nove giorni”.
Molte delle ricette tramandate da Plinio sono a base di
ingredienti disgustosi, cui nella tradizioni popolare si
attribuivano virtù medicamentose o addirittura poteri
magici (insetti,vermi, serpi, escrementi).
(Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola,
1993)
Vediamo qualche altro esempio, tratto dalla Naturalis
Historia (libro XXX, capp. 11, 12, 14 e 17):
- Baciare le narici di un mulo fa passare il raffreddore
- Per curare la tonsillite e il mal di gola, si possono fare
gargarismi con latte di pecora oppure … con del
passito a cui siano state aggiunte scolopendre
triturate e sterco di colombo
- - Rimedio contro l’angina: un buon brodo di topo
cotto con la verbena
- E per curare le malattie polmonari?
Topi
(specialmente quelli africani) spellati e scottati in olio
e sale.
- Per chi soffre di dolori alla milza, è utile mangiare la
milza di un cane tolta all’animale ancora vivo.
Vediamo ora alcuni esempi di prodotti naturali
impiegati nella medicina romana popolare:
Il laserpicium, il "silfio" dei Greci, è la più
importante delle piante medicinali usate
nell’antica Roma, “uno dei doni più preziosi della
natura” (Plinio il Vecchio). Il laserpizio, oggi
estinto, secondo alcuni sarebbe stato una specie
di “finocchio gigante”. Dalle sue radici si estraeva
un succo, il laser, ritenuto un toccasana per
innumerevoli malesseri.
Sebbene il laserpizio crescesse
in Media, in Siria, in Libia e in
Armenia, Plinio afferma che
la specie più pregiata era
quella cirenaica. I Romani lo
ritennero
talmente
indispensabile, che con il suo
commercio fecero arricchire
la città di Cirene, ma
determinarono
la
rapida
estinzione della pianta.
[Antica moneta d’argento di
Cirene raffigurante uno stelo
di silfio]
Si riteneva che curasse
diverse tipi di malattie:
il raffreddore, la tosse, la
gola irritata, la febbre,
l'indigestione, i dolori
alle articolazioni, le
verruche,
l’avvelenamento,
le
scottature, il mal di
cuore,
l’epilessia,
l’idropisia, la pleurite,
ecc. Ma soprattutto,
secondo
Plinio
il
Vecchio, era utilizzato
come contraccettivo.
Inoltre faceva ricrescere
i capelli a chi soffriva
di alopecia. Insomma,
per
i
Romani
il
laserpizio era una
medicina dai poteri
miracolosi. Pare vi
fosse una sola malattia
che il laserpizio non
riusciva a guarire: il
mal di denti!
(Fonti: Wikipedia; www.pompeiisites.org)
Lo
zafferano
(crocus
satīvus) era ritenuto
idoneo per la cura di
ulcere, infiammazioni,
suppurazioni,
avvelenamenti.
Si
riteneva
inoltre
che
avesse
proprietà
antinfiammatorie,
diuretiche
e
afrodisiache.
(Fonte: www.sipps.it)
L’aglio, presente in un
gran numero di ricette
tramandate da Plinio,
era un rimedio per
varie patologie (ad
esempio, morsi di
serpente, emicrania,
ulcere, epilessia).
(Fonte: www.pompeiisites.org)
Il
papavero
da
oppio
(Papāver somnifĕrum) era
largamente
utilizzato,
principalmente
come
antidolorifico. Il succo
essiccato (oppio grezzo)
estratto dalle sue capsule
non ancora mature, dosato
in gocce, veniva mescolato
ad altre erbe e sostanze, e
somministrato in pillole o
disciolto nel vino, nello
zibibbo o nell'acqua.
(Fonte: www.romanoimpero.com)
La brassĭca, cioè il cavolo, in
tutte le sue varietà, era, fra
l’altro, un ottimo rimedio
per le malattie degli occhi.
Bagnare gli occhi o la testa
con l’urina di chi avesse
mangiato
cavolo
era
ritenuto efficace contro i
disturbi
visivi
e
le
emicranie, mentre lavare i
bambini con questo stesso
“liquido”
serviva
a
irrobustirli.
M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter
antiquum. La cultura latina attraverso i testi,
Marietti Scuola, 1993)
(Fonte:
 Lessico specifico, costituito per lo più da grecismi, spesso
riferiti a una parte anatomica, in composizione con un
altro elemento (-alghía, “dolore”, -tomía, “taglio”, ecc.)
kephalé, “testa”
kardía, “cuore”
stóma, “bocca”
ophthalmós, “occhio”
glaucōma, “glaucoma”, “cateratta”
collyrĭum, “collirio”
emplastrum, “impiastro” (unguento medicamentoso da
apporre su ferite e piaghe).
Tali termini specifici possono anche essere formati con
suffissi di origine greca (-ma, -sis, -ismus, ecc.).
 Tecnicismi, presenti o come termini propri del
linguaggio settoriale, o come termini della lingua
comune usati con un significato particolare.
Esempi del secondo tipo sono, ad esempio loci
(per indicare le parti del corpo) o causa (per
indicare la malattia, con ellissi del genitivo
morbi); a questo valore tecnico di causa si
riallaccia il derivato causarĭus, a, um, per indicare
chi è facilmente soggetto a malattie (cfr. l’italiano
cagionevole da cagione, ‘causa’)
 Sintassi caratterizzata da:
- periodi piuttosto brevi, per lo più paratattici
- costruzioni in funzione prescrittiva (perifrastica
passiva, congiuntivo esortativo, oportet, opus est,
ecc.)
- ellissi del predicato e del soggetto
 Scarsa cura dello stile (con l’eccezione di Celso)
 Uso ripetuto di aggettivi o participi sostantivati
(ad esempio, fracta o contusa usati isolatamente,
con il termine membra sottinteso).
(Fonte: www.rivistazetesis.it)
M. Bettini, a c. di, Limina. Letteratura e antropologia di Roma antica, vol. I, La
Nuova Italia, 2005
S. Carollo, La vera storia di 400 frasi celebri e modi di dire, Giunti-Demetra, 2008
G.B. Conte-E. Pianezzola-G. Ranucci, Il dizionario della lingua latina, Le Monnier,
2000 [per le schede lessicali]
E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni
Scolastiche Bruno Mondadori, 2011
M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi,
Marietti Scuola, 1993
A.M. Lanini, Letture di autori latini, Carlo Signorelli Editore, 1995 [per le schede
lessicali]
Si precisa che tutte le immagini sono state tratte da siti internet.
Si resta a disposizione per eventuali integrazioni o rettifiche.