ruolo del potere marittimo nella guerra del golfo
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ruolo del potere marittimo nella guerra del golfo
PRIMO PIANO RUOLO DEL POTERE MARITTIMO NELLA GUERRA DEL GOLFO (1990-91) ANDREA TANI A distanza di venti anni — l’anniversa- rio è fra poche settimane — non sono ancora chiare le ragioni, le premesse e il complicato gioco delle reciproche strategie che dettero il via all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nell’agosto del 1990. Quello che sembra assodato è che l’opinione pubblica internazionale non si attendeva la tempesta che si scatenò e che da allora nella tormentata regione del Golfo Persico non vi è stata più pace (ve n’era stata poca anche prima, in verità). Il conflitto che ha avuto inizio con l’invasione del Kuwait prosegue ancora nei paraggi — a sprazzi anche nello stesso Iraq — e potrebbe evolvere verso qualcosa di ancora più devastante, dando luogo a un ulteriore decennio di fuoco. L’incendiario (o l’incendiato) in questo caso non sarebbe più l’Iraq, ormai aduso alla democrazia e forse avviato ad una pacificazione gestibile, ma il ben più arcigno regime iraniano in lievitazione di potenza nucleare che sembra ancora più destabilizzante di quanto non fosse il suo predecessore. Oltre a fornire la catalisi per questo esito, l’invasione irachena del 1990 determinò Desert Storm, ovvero la più imponente campagna militare dai tempi del Vietnam e della Corea, persino superiore a entrambe per intensità di impiego nel tempo delle forze e applicazione di tecnologie Rivista Marittima-Giugno 2010 e tecniche belliche molto innovative. Si è anche trattato dell’ultimo esempio di conflitto classico, simmetrico, statuale, prima che l’antica arte della guerra deragliasse dai codici tutto sommato protettivi che nei millenni l’umanità si era data, per assumere le sembianze di una selvaggia faida senza regole. La stessa riedizione di Desert Storm una dozzina di anni dopo, Iraqi Freedom, ha avuto sviluppi assai più caotici e canaglieschi della sua omologa e ha contribuito a determinare quella profonda mutazione della conflittualità alla quale assistiamo in Afghanistan a altrove. Se questa evoluzione, Iran permettendo, fosse il prezzo che l’umanità deve pagare per veder affievolirsi la guerra fra stati — decisamente la più rovinosa, al di là delle regole riconosciute e del bon ton fra combattenti (ma c’è mai veramente stato?) — lasciando il campo libero alle bande dei dervisci, tutto sommato potrebbe trattarsi di un importo equo. Ma è ampiamente da dimostrare. I dispositivi militari degli stati non ne sembrano affatto convinti e continuano a prendere le misure dei missili del vicino, non delle scimitarre dei dervisci. Vale la pena quindi di ripercorrere quell’evento ormai lontano, almeno temporalmente, ripassando una lezione che potrebbe tornare di attualità nel caso la questione del nucleare iraniano dovesse essere risolta con le maniere forti. Sarà posta partico7 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) lare attenzione a un aspetto di Desert Storm (e del propedeutico Shield) che a suo tempo fu sottostimato, ovvero all’impiego del potere marittimo da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, che si rivelò molto più importante e decisivo di quanto non fu percepito allora, almeno dai non addetti ai lavori. Vediamo i fatti. Dal 16 luglio 1990 informazioni fotografiche dei satelliti della Defense Intelligence Agency mostrano il progressivo ispessirsi della presenza di forze corazzate irachene a ridosso del confine col Kuwait. È in corso quello che sembra uno dei periodici aggravamenti nei rapporti fra Bagdad e il suo mai riconosciuto vicino meridionale. Gli Iracheni accusano l’Emirato di illecito prelevamento del proprio greggio mediante trivellazioni inclinate che attraversano in profondità il confine fra i due Paesi. In realtà la diatriba è molto più complessa e profonda. Secondo gli Iracheni, il Kuwait è da sempre una costruzione artificiale delle Sette Sorelle, un sopruso geopolitico che aveva privato l’Iraq di un decente sbocco al mare e del primato mondiale nel possesso e nella produzione del greggio. La prima aspirazione — lo sbocco al mare — può essere compresa e accettata dall’Occidente. La seconda — l’egemonia planetaria sull’energia da parte di un dittatore destabilizzante prossimo a laurearsi in fisica nucleare — certamente no. Senza contare che il principale alleato di Bagdad è l’Unione Sovietica, e la contrapposizione est-ovest è ancora in atto (il simulacro formale dell’Unione Sovietica era ancora in piedi. Sarebbe stato liquidato solo il dicembre dell’anno successivo). Ufficialmente gli Stati Uniti si dicono «sorpresi» dalla mossa di Saddam Hussein e la giudicano un mezzo di pressione sul Kuwait senza reali intenzioni aggressive. 8 Confortati, in tale valutazione, dai leader arabi, egiziano e saudita. Oggi appare sempre più evidente come il dittatore iracheno avesse ricevuto, o creduto di ricevere, assicurazioni sufficienti circa una neutralità di fondo degli Stati Uniti nel caso si fosse mosso contro il Kuwait, perseguendo quella che era una meta costante nella politica irachena. Largamente condivisa, peraltro, dall’opinione pubblica del suo Paese, in una specie di aspirazione irredentista tipo Trento e Trieste condita con idrocarburi in quantità. La possibilità di un via libera americano, sostanziale, se non formale, era forse stato percepito da Saddam come una sorta di ricompensa per i sacrifici sostenuti dal suo Paese nella guerra contro l’Iran di pochi anni prima, condotta in larga misura su sollecitazione occidentale. Gli Stati Uniti erano — come sono tutt’ora — i responsabili massimi della stabilità regionale dell’area mediorientale, dell’equilibrio internazionale garantito da un regolare afflusso delle forniture energetiche e della sicurezza di Israele. Erano ancora competitori globali con l’Unione Sovietica, come accennato. Niente di più plausibile che abbiano approfittato delle megalomani pulsioni aggressive di Saddam Hussein per bloccare i suoi disegni finché erano in condizioni di farlo. Le ispezioni internazionali del primo dopoguerra iracheno hanno mostrato quanto il suo regime fosse prossimo al possesso dell’arma nucleare — tre mesi, pare, più vicino che ai tempi di Iraqi Freedom, tredici anni più tardi — e di che razza di arsenale chimico e biologico disponesse. Esistono prove abbastanza convincenti di questo tentativo americano di utilizzare la stessa aggressività del Raiss per metterlo in trappola, come le dichiarazioni dell’ambasciatrice americana a Bagdad del tempo, April Rivista Marittima-Giugno 2010 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) Glaspie, circa un suo ambiguo colloquio con Saddam il 25 luglio. Se così è stato, si sarebbe trattato di una normale prassi strategica nei rapporti di forza fra le potenze dominanti e coloro che mettono in pericolo gli equilibri e i fondamenti della convivenza internazionale. Era del tutto verosimile che l’Iraq fosse in procinto di acquisire una capacità nucleare che ne avrebbe fatto il leader regionale e il virtuale controllore delle riserve petrolifere del Golfo Persico, ponendolo al riparo dai condizionamenti degli interessi occidentali che prevalevano nell’area (e che corrispondevano a un interesse più generale della Comunità internazionale) e nel contempo mettendolo in rotta di collisione con il deterrente atomico israeliano. La preoccupata consapevolezza di questa situazione era troppo viva e giustificata per non imporre agli Stati Uniti e ai suoi alleati la ricerca di un pretesto condivisibile per fermare la sua corsa. Il governo americano dell’epoca era formato da coriacei veterani della Guerra Fredda, padroni della macchina strategica dell’Unione e consapevoli delle realtà della geopolitica come pochi esponenti di altre Amministrazioni. Bush padre era stato Rappresentante personale del Presidente Nixon in Cina e ambascia- tore alle Nazioni Unite, Direttore della CIA e vicepresidente per otto anni cruciali nel ruolo di eminenza grigia della politica di sicurezza della Presidenza Reagan, oltre a formarsi una solida posizione, in precedenza, in un mondo spietato e duramente competitivo come quello del petrolio. Difficile credere che una bella mattina abbia scoperto con sorpresa che i carri armati iracheni percorrevano contromano l’autostrada Kuwait — Bassora senza pagare il pedaggio. Meglio attribuirgli il merito di aver bloccato, con tutti i mezzi possibili — compresi la disinformazione, l’inganno e la simulazione — il sorgere di uno spietato tiranno regionale che avrebbe controllato senza condizionamenti la linfa vitale del mondo (1). Salus Rei Publicae Suprema Lex, e in questo caso si trattava della salvezza del mondo avanzato, non solo della Repubblica Stellata. Invasione irachena e conseguente Desert Shield I l 24 luglio i satelliti americani rilevano il dispiegamento di numerose unità corazzate e di artiglieria semovente irachene — un corpo corazzato di centomila soldati del- (1) A proposito del suddetto tiranno, vale la pena di riportare quanto scritto da Fernandez Armesto nel suo celebre Millennium: Il dittatore Saddam Hussein, presidente dal 1979, un ex bravaccio, millantatore nelle assemblee politiche, ha inculcato il nazionalismo irakeno sfidando da un lato il nazionalismo arabo del proprio partito e dall’altro le idee favorevoli al risveglio islamico degli oppositori: cosa ancora più notevole, egli è riuscito ad appropriarsi della retorica e dell’immaginario degli stessi movimenti da lui battuti o traditi. Ha fatto appello, al di là dell’identità islamica e di quella araba, alle glorie dell’antica Mesopotamia, facendosi effigiare sui francobolli come un costruttore e presentandosi pubblicamente come Nabucodonosor, che riedifica Babilonia e stampa sui mattoni il proprio nome. Per giustificare la formazione di un grande esercito, irto di missili, ha minacciato di distruggere Israele, ma ha usato la forza quasi esclusivamente contro i fratelli musulmani. Ha preteso di essere il discendente di Alì, l’eroe culturale sciita, ma ha scatenato una guerra sanguinosa contro l’Iran nel 1980. Si è paragonato a Kawa, il leggendario curdo domatore di serpenti, ma ha bombardato i curdi con le armi chimiche a partire dal 1988. Ha sempre parlato a lingua sciolta di solidarietà araba e islamica ma l’ultima sua guerra esterna fu un tentativo di annettersi il Kuwait. Il conflitto contro i vicini e i sudditi era una componente essenziale della sua visione dell’Iraq: indicando agli iracheni alcuni nemici esterni li obbligava a impegnarsi per uno scopo comune: sterminando le minoranze interne o costringendole alla fuga, eliminava una parte della diversità dell’Iraq». Rivista Marittima-Giugno 2010 9 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) l’esercito e della Guardia Repubblicana — al confine con il Kuwait, tutte schierate in ordine di battaglia e pronte per un’offensiva corazzata verso il Kuwait. Le unità navali americane nel Golfo vengono poste in stato di allerta. Il 2 scatta l’invasione, con l’appoggio di aerei da combattimento e di un centinaio di elicotteri. L’operazione si conclude in giornata. L’Emiro regnante nel Paese ripara in Arabia Saudita. Il 6 agosto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU condanna l’aggressione irachena, e dispone un embargo globale contro l’aggressore. L’Arabia Saudita chiede l’aiuto americano. Il giorno successivo il Presidente Bush (Sr) ordina al Segretario alla Difesa Cheney, un altro veterano dell’Impero Americano, di disporre l’immediato invio di unità da combattimento in Arabia Saudita per proteggere il Regno da una possibile invasione. È l’inizio dell’Operazione Desert Shield, prodromica a Desert Storm ma al momento tesa a scongiurare un nuovo blitz iracheno, dato per imminente. Il blitz non avrà luogo e in seguito Saddam Hussein giudicherà tale omissione come il suo più grande errore (forse è stato solo il più grande successo della disinformazione statunitense).. Il Navy Military Sealift Command dell’US Navy attiva la flotta di riserva e i piani di imbarco di mezzi e truppe previsti dalla pianificazione del Central Command, il quale assume la responsabilità globale dell’operazione. Nei giorni successivi un gruppo da battaglia centrato sulla USS Eisenhower attraversa il canale di Suez diretto verso il Golfo — la Saratoga la imiterà il successivo 22 — mentre l’USS Indipendence che si trova già in zona giunge nel golfo di Oman. I loro wing sono le prime unità aeree da combattimento pronte ad entrare in azione nel teatro. L’8 agosto l’Iraq annette il Kuwait e l’a10 vanguardia dell’82a Divisione Aviotrasportata dell’US Army atterra in Arabia Saudita, insieme a un gruppo di «F15» e alcuni AWACS dell’USAF. Unità del Secondo e Terzo Maritime Prepositioning Squadron salpano da Diego Garcia e Guam alla volta del Golfo. Cinque giorni dopo le prime navi da trasporto veloci della Marina americana — l’Altair e il Capella — partono da Savannah per il porto saudita di Jubail, con a bordo materiali pesanti per la 24a Divisione corazzata dell’US Army. Seguiranno altre sei unità. Tutte compiranno il trasferimento di settemila miglia a una media di 27 nodi. Il 15 agosto le prime unità prepositioning provenienti da Diego Garcia attraccano nei porti sauditi e a sbarcano gli equipaggiamenti pesanti dei marines che il giorno precedente hanno cominciato ad affluire per via aerea. Il 17 hanno luogo le prime intercettazioni di naviglio iracheno da parte di unità americane nel mar Rosso e nel Golfo Persico, mentre la corazzata Winsconsin attraversa il canale di Suez diretta nel Golfo. Il 28 agosto il trasporto veloce di materiali per Desert Shield raggiunge il suo apice, con 90 unità in mare, 69 dirette verso il Golfo e 21 in rientro verso gli Stati Uniti. Settembre e ottobre vedono il consolidarsi della presenza del Central Command e il conseguente, definitivo allontanarsi della minaccia di un’invasione. La strategia americana di contenimento e protezione dell’Arabia Saudita evolve in un deciso atteggiamento controffensivo, volto alla liberazione del Kuwait nel più breve tempo possibile, partendo soprattutto dal territorio saudita. Il 1° gennaio del 1991, nel primo giorno di un anno che si annuncia cruciale, la US Navy ha dislocato 25 unità nel Golfo Persico, 20 nel Golfo di Oman e 10 nel Mar Rosso. Quattro gruppi da battaglia di porRivista Marittima-Giugno 2010 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) taerei americane sono nel Mar Rosso (Saratoga, America, Kennedy e Roosevelt) e due nel Golfo (Midway, Ranger), dove sono presenti anche due navi da battaglia cariche di missili cruise (Missouri e Winsconsin) con relative scorte, anche queste ultime equipaggiate di «Tomahawk». Si tratta in totale di otto Battle Group, ovvero quattro Sixth Fleet dell’epoca. È schierato anche un nutrito contingente di navi alleate, comprendente principalmente caccia, fregate, corvette, cannoniere, cacciamine e navi di supporto delle Marine britannica, francese, olandese, australiana, spagnola, argentina, danese, saudita e italiana. Per quanto riguarda quest’ultima, il 19 agosto viene costituito un Gruppo Navale MMI — il 20° — su due fregate e un rifornitore che salpa da Taranto per dislocarsi prima nel Mediterraneo orientale e successivamente, alla fine del mese, nel Golfo Persico. Rimarrà per tutta l’esigenza Desert Shield e verrà rinforzato, all’attivazione di Desert Storm, dal caccia lanciamissili Audace. Si alterneranno sette fregate, un caccia, dodici elicotteri. Saranno controllate 2.390 unità e percorse complessivamente 287.000 miglia. Seguirà, più tardi, un gruppo di 8 (poi 10) «Tornado», primo reparto offensivo dell’Aeronautica Militare dislocato per operazioni di guerra fuori dei confini nazionali. La dislocazione dei vari contributi nazionali in relazione al progressivo intensificarsi della minaccia corrisponde al grado di condivisione degli obiettivi e delle modalità dell’operazione da parte dei vari Governi nazionali. Le sfumature sono direttamente corrispondenti alla lontananza con i campi minati e i Silkworm iracheni. Va da sé che i Britannici e gli Australiani sono in prima linea, oltre alla solita US Navy. Le Marine Latine sono un po’ defilate. Ci soRivista Marittima-Giugno 2010 no ancora 600.000 cattolici in Iraq, la più forte comunità cristiana di un Paese arabo, senza contare — per la Francia — le importanti intese petrolifere con Bagdad. Parigi soffre di ulteriori difficoltà politiche e intelligence in senso lato. Il Ministro della Difesa, noto simpatizzante dell’Iraq, si dimette. Le cospicue forniture transalpine a Saddam costituiscono la maggiore preoccupazione dei pianificatori alleati, per la loro letalità e sofisticazione. Le caratteristiche parametriche delle armi, in particolare, sono un requisito informativo essenziale, ma le ditte fornitrici sono molto restie a rivelarle. Ci vorrà una fortissima pressione da parte americana per ottenere, ad esempio, le frequenze di lavoro dei radar dei missili «SAM» a corta portata forniti a Saddam in copiosa quantità. Se non neutralizzati, tali missili sono in condizioni di mettere a rischio le vite degli stessi piloti francesi che si apprestano a bombardare bersagli da essi difesi.. Le unità più moderne delle Marine NATO e ANZAC partecipano a una serie di gigantesche reti «Link 11» che coprono tutto il Golfo Persico, assimilandolo a uno scena d’azione locale. Si tratta del primo esempio storico di «tatticizzazione» di uno scenario aeronavale di livello strategicooperativo nel quale si trova la più forte concentrazione navale dai tempi delle fasi finali della Guerra del Pacifico. Il che può significare, a parte l’aspetto tecnologico, che l’Iraq è ritenuto un osso molto più duro della Corea (più Cina) del 50-53 e del Vietnam del Nord del 64-74. Oppure che gli americani hanno imparato bene la lezione dei conflitti asiatici e intendono risolvere questa contingenza col minimo possibile tasso di perdite e nel tempo più breve, secondo l’imperante Dottrina Powell, ovvero senza costringere l’audience internazionale a verificare i propri limi11 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) ti emotivi. La «finestra di disponibilità» delle opinioni pubbliche occidentali a sopportare l’orrore di una guerra si misura ormai in settimane. Naturalmente il governo di Washington intende approfittare dell’opportunità per fornire un esempio che possa essere compreso da tutti i potenziali perturbatori dell’ordine internazionale — rogue state e similari — e osservato attentamente da chi, avendone le possibilità, potrebbe essere tentato di sfidare in qualche modo l’egemonia statunitense. Ma non è solo l’ opportunità di evitare perdite e fornire dimostrazioni esemplari il movente principale in gioco. Dopo questo conflitto, e in base a come le varie parti saranno interpretate dai diversi comprimari, USAF, US Navy, US Army e Marines, sarà decisa la composizione e l’articolazione delle forze armate americane dell’ imminente millennio. La lotta vera potrebbe verificarsi, più che contro gli iracheni, soprattutto per le future assegnazione di bilancio e ripartizione di responsabilità, essenzialmente fra Marina e Aeronautica e fra Esercito e USMC. Le ragioni di una così massiccia presenza aeronavale vanno quindi ricercate con tutta probabilità in una combinazione di tutti i fattori sopradescritti. Le motivazioni degli altri sono analoghe, anche se meno consapevoli e strutturate. La Gran Bretagna ha la sua partnership strategica con gli Stati Uniti da mantenere attraverso la fratellanza d’armi, per salvaguardare l’unica rilevanza post-imperiale possibile. La Francia tiene d’occhio Albione e cerca di starle sulla ruota. Gli altri hanno tirato fuori la migliore argenteria, volendo ovviamente presenziare, come succede per quegli eventi sociali ai quali non si può non esserci. Ognuno ha ragioni specifiche e peculiari; chi non ne ha vuole comunque partecipare e fare esperienza di 12 uno scenario di guerra ipermoderno e forse irripetibile, una sorta di battaglia traslata, concepita per conseguire la supremazia della pianura centroeuropea e combattuta nel deserto iracheno (anche la configurazione del teatro aiuta, con il Golfo Persico assimilabile a un Baltico rovesciato di 180° e lato a mare del teatro d’operazioni terrestre). Dovunque, all’interno dei propri dispositivi, le FF AA sgomitano fra di loro per stare più vicine possibile alla scena principale. La contesa, nel dopoguerra, non sarà senza conseguenze. Desert Storm A metà gennaio può essere considerato ultimato lo schieramento dell’Armada della Coalizione internazionale assemblata con grande sagacia da un George H.W.Bush che si trova nel momento di grazia della sua presidenza. I vertici politici e militari hanno imposto ai loro apparati militari un ritmo veramente sostenuto che questi sono riusciti ad assecondare. Sono presenti nello scacchiere 700.000 uomini, dei quali 425.000 americani e decine di migliaia di arabi, i cui governi hanno risposto in modo quasi compatto alla richiesta del presidente americano di non lasciare che l’operazione assuma una connotazione troppo occidentale e «Crociata». Si dirà poi che la lezione non è stata ripresa da Bush figlio dodici anni dopo, per Iraqi Freedom, ma le circostanze saranno molto diverse e George W non avrebbe certo avuto dai governi arabi, per invadere un paese fratello (e non per liberarne un altro, come nel‘91), quell’appoggio che neanche alcuni dei suoi più stretti alleati — Germania, Francia, Canada — gli avrebbero concesso per chiudere definitivamente il dossier Saddam. Rivista Marittima-Giugno 2010 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) Senza perdere tempo (il Ramadam è prossimo) il 17 viene scatenata la tempesta sul deserto, Desert Storm, ovvero una massiccia offensiva su larga scala che mira alla sola riconquista del Kuwait. Essa viene condotta con armamenti, tattiche e tecnologie militari sviluppati durante la Guerra Fredda dalle Potenze Atlantiche per arginare l’espansionismo sovietico in Europa. Il dispositivo bellico che aveva tenuto a bada l’Unione Sovietica esprime a pieno le sue potenzialità. Queste ultime si manifestano in modo joint and combined, come condotta strategica di una eterogenea coalizione multinazionale e interforze, e come sviluppo di tutte le tematiche tattiche che avevano costituto la pratica quotidiana degli apparati bellici americani e Nato nel quarantennio precedente. Di fatto l’Alleanza Atlantica combatte nel golfo Persico quella guerra che era riuscita ad evitare in Europa e lo fa con un’ampiezza si prospettive e di risorse operative che non saranno più raggiunte. Neanche nell’attuale impegno in Afghanistan, dove pure la Nato è presente in modo istituzionale, con nome e cognome, e combatte anche per dimostrare la sua credibilità. Alle 02.38 del 17 gennaio, quindi, otto elicotteri «Apache» della 1° divisione Airmobile dell’US Army penetrano a volo radente nel territorio iracheno e distruggono con missili «Hellfire» due installazioni radar. La mossa apre una breccia nella difesa AA nemica nella quale si inseriscono centinaia di missioni di penetrazione della Coalizione multinazionale. 1.000 sortite verranno effettuate nelle prime ventiquattro ore da velivoli di cinque nazioni decollati da basi aeree prossime al teatro d’operazione e molto più distanti (Gran Bretagna e ConUS-Continental US), nonché ovviamente dalle portaerei. Queste ultime avranno inizialmente non poche difficoltà Rivista Marittima-Giugno 2010 ad inserirsi nella campagna aerea di interdizione, nonostante si siano avvicinate molto ai bersagli (tre entrano progressivamente nel Golfo Persico, seguite successivamente da una quarta). L’offensiva si svolge secondo procedure di pianificazione estremamente automatizzate, gestite completamente dall’USAF, e coinvolge numeri ben più corposi dei 24 o 36 cacciabombardieri che ciascuna linea di volo di portaerei può mettere in aria (ogni Wing è articolato in modo bilanciato fra le esigenze offensive e quelle difensive dell’intero Battle Group). Si verifica così un ribaltamento di ruoli fra le due principali Forze aeree americane, con le portaerei relegate ad un ruolo quasi marginale e l’USAF che domina la scena. Sembrano molto lontani i tempi della Corea e del Vietnam, che avevano visto una sostanziale equivalenza fra le due. L’asso della manica della US Navy si rivela il missile cruise «Tomahawk» in versione anti bersaglio terrestre, da poco entrato in servizio. Nei primi minuti dell’offensiva ne verranno lanciati 106, contro obiettivi strategici dell’area di Baghdad. Nel conflitto ne saranno impiegati complessivamente 276, 264 dalle unità di superficie — corazzate, incrociatori e caccia — e 12 da sommergibili in immersione. Otto in un lancio subacqueo solo dal Mar Rosso, un record (USS Louisville), e quattro addirittura dal Mediterraneo (USS Pittsburgh). I risultati sono significativi ma forse non tali da giustificare sotto il solo profilo operativo un impiego così massiccio, indiscriminato e oneroso della nuova arma, se non in quella funzione «salvavita» (dei piloti dei velivoli d’attacco) che negli Stati Uniti è diventato il termine di paragone per giudicare della liceità di una tattica militare o di un nuovo mezzo. I drone e gli UAV/UCAV costituiranno il pas13 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) so successivo. I primi abbattimenti di aerei iracheni — «Mig 21» — sono comunque opera di «F18» della Porterei Saratoga. Durante la campagna saranno distrutti 36 velivoli iracheni da parte di caccia dell’USAF, tre dagli «F18» e «F14» navali, due da un «F15» saudita. La relativa esiguità di questi numeri complessivi deriva dal rifiuto dell’Aviazione di Saddam a prestarsi a quello che si sta rivelando un tiro al piccione da parte dei molto più sofisticati caccia della Coalizione, soprattutto americani, francesi e sauditi. Il rifiuto al combattimento si trasformerà in una migrazione di massa della linea di volo irachena in Iran, dopo pochi giorni di disfatte, primo e unico esempio storico di transumanza aviatoria pilotata che si conosca. L’Iraq cerca di riguadagnare il prestigio perduto lanciando una salva di missili Scud su Israele e Arabia Saudita, con perdite umane modeste ma di forte valore mediatico, sia per la novità che per la loro nazionalità. In gran parte si tratta di soldati americani centrati da un missile mentre sono in una caserma saudita. La mossa è militarmente poco significativa, ma ha effetti psicologici rilevanti sulla popolazione israeliana, l’opinione pubblica occidentale e le frange più estremiste e fanatizzate delle masse arabe. Nel Golfo Persico si sviluppano una serie di eventi tattici minori ma degni di nota. Il 25 gennaio due elicotteri delle Special Forces dell’US Army basati sulla fregata Nicholas attaccano una squadriglia di quattro motovedette irachene con missili «Hellfire» e fuoco di razzi e mitragliere. Un’unità viene affondata e due danneggiate gravemente. Il 29 gennaio viene effettuato un elisbarco di marines partiti dalla portaelicotteri Okinawa sulla piccola isola irachena di Umm, dodici miglia al 14 largo della costa kuwaitiana, abbandonata qualche ora prima dalla sua guarnigione. Il 31 gennaio gli Iracheni investono la cittadina di Khafji, dieci km all’interno dell’Arabia Saudita, presidiata da marines e truppe saudite. Dopo dodici ore di violenti combattimenti strada per strada gli alleati respingono gli attaccanti con l’appoggio di gunship Cobra e AC 130 Spectre. La giornata fornisce un’anticipazione di che cosa sarebbe stata la guerra terrestre di Desert Storm combattendo alle condizioni di Saddam, che vagheggiava — come si ricorderà — di una «Madre di tutte le Battaglie». Il 7 febbraio anche la Npa America entra nel Golfo. Quattro Flat top serrano sotto il nemico, sia bellico (Iraq) che budgetario (USAF). Il 16 febbraio le operazioni di neutralizzazione delle batterie «Silkworm», condotte prevalentemente dagli aerei imbarcati, vengono concluse da una spettacolare (quanto imbarazzante per la US Navy) azione di elicotteri Special Forces dell’US Army basati sulla fregata Jarret, i quali distruggono con missili «Hellfire» le batterie scampate a ben 13 incursioni dei velivoli delle portaerei. La quasi totale neutralizzazione dei «Silkworm» consente alle navi da battaglia Missouri e New Jersey di iniziare a battere la costa nemica con i loro 406 mm. Si evidenzia come sia molto più difficile neutralizzare batterie costiere mobili e mimetizzabili che unità navali missilistiche. Una volta risolto il problema della ricognizione e dell’identificazione dei bersagli, può essere più conveniente abbondare sulle prime piuttosto che sulle seconde, soprattutto in un piccolo mare chiuso nel quale la mobilità delle navi è forzatamente limitata. Il 18 febbraio accade qualcosa di grave ancorché paventato: l’incrociatore PrinceRivista Marittima-Giugno 2010 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) ton e la portaelicotteri Tripoli, della US Navy, urtano contro mine — parrebbe di fornitura italiana — appartenenti a estesi campi posati dagli iracheni nella parte settentrionale del Golfo a partire dal momento in cui è stato chiaro che gli Stati Uniti avrebbero reagito all’invasione del Kuwait. Si tratta del colpo più serio inferto a unità maggiori americane in tutte le campagne della Guerra Fredda (o, se si preferisce, dei primi accenni del «Nuovo Ordine Mondiale» evocato dal presidente Bush). Le due unità vengono seriamente danneggiate, anche se non corrono il pericolo di affondare. Avranno bisogno di quattro mesi e cinque settimane di riparazioni, rispettivamente. I due episodi avranno conseguenze notevoli: imporranno molta cautela ai movimenti delle forze navali della Coalizione al largo delle coste del Kuwait e dello Shatt el Arab, riducendo notevolmente l’efficacia della loro pressione sul dispositivo iracheno presente in zona, e impediranno, di fatto, quello sbarco anfibio che avrebbe dovuto costituire la manovra orientale della tenaglia offensiva alleata per la liberazione dell’Emirato. Il Corpo dei Marines ci tiene molto, per rinverdire gli allori un po’ appannati dal Libano. E soprattutto per rinnovare quell’epica che serve a giustificare, in Congresso e nel Paese, una specialità anfibia così ipertrofica. Il corpo di spedizione italiano riceve il suo battesimo del fuoco in una vera guerra, superando una barriera costituzionale e psicologica che un altro ex Tripartito dell’Asse oltrepasserà solo otto anni dopo, in Kossovo, mentre il Giappone forse non riuscirà mai a farlo, se non costretto con la forza. Il gruppo dei «Tornado» dell’Aeronautica Militare presente nell’area partecipa a operazioni offensive contro il dispositivo iracheno in Kuwait. Nella prima notte Rivista Marittima-Giugno 2010 di Desert Storm un velivolo è abbattuto dalla contraerea irachena mentre sta bombardando un obiettivo. L’equipaggio viene catturato. Ne seguirà in Patria uno strascico nazional-popolare concentrato sulla sorte del medesimo, che appassionerà l’opinione pubblica italiana più di tutta la Campagna. Il 20° Gruppo Navale viene integrato nei dispositivi interalleati dislocati in area di operazioni. La fregata Zeffiro e successivamente anche l’Audace sono inseriti in un gruppo da battaglia americano che effettua operazioni di volo offensive contro l’Iraq. Riescono a fare la loro onorevole parte soprattutto nell’evitare di essere tagliati in due dalle portaerei quando accostano senza preavviso a trenta nodi per lanciare gli aerei, del tutto incuranti di chi hanno nei paraggi. L’offensiva terrestre I l 24 febbraio scatta l’offensiva terrestre della Coalizione su un fronte molto ampio, 400 km, e quattro direttrici principali, preceduta, due giorni prima, da una penetrazione di 20 km dei Marines nel Kuwait per predisporre assi di avanzata per le forze corazzate attraverso i campi minati iracheni. Le prime due direttrici corrono su un lungo arco verso nord-ovest, per poi accostare a nord-est, penetrare in profondità nel territorio iracheno e tagliare i collegamenti dell’Armata irachena in Kuwait e nell’Iraq meridionale con il resto del Paese. La penetrazione sarà effettuata a una velocità molto sostenuta dalla 7a Armata americana quasi al completo (quella del Fulda Gap) nonchè da una divisione corazzata rinforzata del BAOR (British Army Over the Rhine) e da una divisione blindata leggera dell’Armée francese, che arranca con i suoi ruotati per star dietro alle pri15 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) me. Le altre due direttrici — percorse dalla fanteria, Marines americani e reparti sauditi — puntano direttamente su Kuwait City. L’avanzata incontra una scarsa resistenza, e quando ciò accade, la superiorità tattica e tecnologica alleata travolge o aggira un nemico aggrappato a posizioni difensive statiche e spesso inebetito dai bombardamenti (una compagnia irachena si arrende a un RPV, e un altra a due giornalisti occidentali). L’assoluta superiorità aerea, la gestione integrata di tutte le risorse operative disponibili e l’impiego di tecniche mutuate dalla dottrina Airland Battle 2000 dell’US Army si combinano con l’utilizzazione delle procedure più moderne di Comando e Controllo, verificate in tempo quasi reale da squadre di simulazione operativa inserite per la prima volta negli staff tattici. Il risultato stupisce il mondo, gli stessi pianificatori e i soldati sul campo, i quali non avevano mai potuto sperimentare un’operazione Airland su questa scala e su un terreno così favorevole. Nel corso delle operazioni di supporto navale all’offensiva terrestre la corazzata Missouri, che sta battendo con i suoi 406 le posizioni irachene in Kuwait, viene fatta oggetto di un lancio di Silkworm da parte dell’unica batteria costiera scampata ai bombardamenti delle settimane precedenti. Le emissioni del missile vengono intercettate dalle ESM di un velivolo di sorveglianza della US Navy, che lancia un allarme real time sul «Link 11», raccolto e valorizzato immediatamente dal CT britannico Gloucester con il lancio di due missili «Sea Dart», uno dei quali abbatte il «Silkworm». Un secondo ordigno finisce in mare, probabilmente ingannato dalle ECM americane, «SLQ 32» — e similari. In concomitanza con Desert Storm, nel 16 Mediterraneo viene attuato dalla NATO un massiccio dispositivo aeronavale per esercitare un’azione di deterrenza e difesa preventiva contro possibili attacchi alle linee di comunicazione delle forze multinazionali impegnate nella liberazione del Kuwait. Sono impegnate tre «Harrier Carrier» europee (l’Ark Royal, il Principe de Asturias e il Garibaldi), in una cooperazione di elevato valore simbolico — per la prima volta il Mediterraneo staziona un Battle Group europeo, senza ingombranti presenze americane e sovietiche — e un nucleo di scorta formato da oltre 20 fregate. Contemporaneamente Cincsouth concentra nelle acque siciliane un imponente complesso di contromisure mine, fino a 32 cacciamine e dragamine e 4 navi logistiche, una forza più corposa di quella che altre Marine abbiano mai messo in opera dai tempi della 2a G M. In tale contesto si disloca in Mediterraneo anche Stanavorfchan, la Forza permanente di contromisure mine della Manica. Questa mobilitazione navale della Nato, oltre che dare un segno visibile e rappresentativo della coesione e dell’efficienza dell’Alleanza, scoraggia l’utilizzo del Mediterraneo come cassa di risonanza delle istanze dello schieramento filo-iracheno, che annovera, in questo mare, molti adepti. Libia, Giordania, PLO, Hamas, Hezbollah, fondamentalisti maghrebini, e altri più furtivi. Se l’Alleanza non avesse preso le misure energiche e credibili che prese si sarebbe probabilmente verificata un’altra evenienza tipo Lampedusa, o Achille Lauro, oppure attacchi terroristici di varia natura. Il 27 febbraio Kuwait City viene liberata dai Marines e da forze arabe. Si tratta delle ultime fasi della campagna, e dell’ultimo bombardamento dei 406 della MisRivista Marittima-Giugno 2010 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) souri in questa campagna e nella sua leggendaria vita operativa. Dopo poche ore il Presidente Bush annuncia a Washington che dalla mezzanotte tutte le forze della Coalizione sospenderanno le operazioni offensive. È la fine della fase ufficiale e spettacolare della Guerra del Golfo. Non è l’epilogo della vicenda, come sappiamo bene, e non è neanche la fine delle operazioni militari più immediate. L’Iraq militare e la tirannia che lo gestisce come una sanguinosa satrapia rimangono in piedi, appena scalfiti nel prestigio e nei numeri (la gran parte dei soldati iracheni bruciati dal napalm degli aerei della Coalizione durante la caotica fuga verso il confine appartiene all’esercito e non alle ben più agguerrite divisioni della Guardia Repubblicana). Si conclude così, in modo strategicamente prematuro, politicamente approssimativo e operativamente inconcludente, una «Guerra Giusta» — per dirla all’Obama — che si era sviluppata attraverso una campagna militare preparata con cura da ottimi generali americani — Powell e Schwarzkopf, per citare i principali — e vinta in modo folgorante. L’abbaglio, che appanna non poco la nettezza della vittoria americana e la sagacia del Comandante in Capo Bush, porterà una dozzina di anni più tardi, come accennato, alla ripresa delle ostilità in un clima planetario decisamente mutato e con un condottiero assai meno carismatico, ancorchè della stessa stirpe. Entrambi i fattori non consentiranno — nonostante un successo militare incondizionato e questa volta esiziale per gli avventurismi del bandito Saddam Hussein — quell’unanimismo internazionale di obiettivi e di finalità che era stato il capolavoro di George Sr. Le conseguenze di tale mancato unanimismo durano ancora e hanno pesantemente condizionato i nostri tempi. Rivista Marittima-Giugno 2010 Lezioni e insegnamenti sul ruolo delle Marine Dalla narrazione della vicenda si potreb- be evincere che il ruolo delle Marine in Desert Shield & Storm sia stato nel complesso secondario, almeno nella fase calda delle operazioni. La realtà è ben diversa: tutta l’operazione non sarebbe stata realizzata senza un potere marittimo dominante che ha reso possibile: — il blocco dell’aggressione, con una credibile presenza aeronavale pronta a intervenire sin dalle prime ore del suo manifestarsi. — l’inserimento immediato di una forza aeroterrestre d’arresto e contenimento, costituita da aerei navali e Marines equipaggiati con mezzi pesanti. — il trasporto veloce nel teatro di operazioni di un enorme corpo di spedizione, in particolare del complesso dei suoi materiali. Quasi tutto quello che è stato utilizzato per Desert Storm è stato traslocato e inserito nel teatro via mare. — la campagna aerea di interdizione e scardinamento del dispositivo strategico e militare iracheno, anche con nuove armi e tecnologie decisive, come i missili cruise. Una buona parte del close air support che ha reso il blitz corazzato del Central Command un’affollata omologa della ParigiDakar è stata generata From the Sea, in stretta aderenza con l’omonima dottrina. — la copertura sui versanti a mare dello stesso teatro e sulle retrovie del Mediterraneo e dell’Oceano Indiano. — un effettivo concorso alle operazioni offensive terrestri nel Kuwait con i reparti di marines sul terreno, il tiro delle navi, l’appoggio aerotattico delle portaerei e la spada di Damocle anfibia. — la protezione delle retrovie strategiche e delle vie di comunicazione marittime. 17 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) Prova della crucialità dello strumento marittimo il fatto che è bastato qualche campo di mine — un classico strumento «navale» di interdizione — per privare l’offensiva alleata del suo prezioso gancio destro anfibio, lo sbarco dato per certo e mai avvenuto, che ha avuto il solo effetto di inchiodare sulle spiagge tre o quattro divisioni irachene, esito vantaggioso ma non decisivo. Se l’Iraq avesse potuto impiegare qualche altro strumento navale del genere avrebbe messo ancora più in luce la centralità del ruolo delle Marine della Coalizione — o meglio la mancata centralità. L’esito sarebbe stato lo stesso ma certamente non così inequivocabile, subitaneo e a buon mercato come è stato. Le portaerei, come accennato, sono state impiegate in funzione relativamente secondaria perché non vi era particolarmente bisogno di loro e delle loro caratteristiche uniche — mobilità, autonomia, tempestività, ubiquità, indipendenza da basi terrestri e condizionamenti politici. Preesisteva nell’area un complesso di infrastrutture moderne, compatibili con il materiale di volo alleato e sicure, perché situate nel deserto e lontane da mortai ed incursori iracheni (i terroristi suicidi ancora non esistevano). Vi è stato tutto il tempo di schierarlo, il suddetto materiale di volo, per l’attendismo borioso e dilettantesco di Saddam e la casuale assenza di esigenze concomitanti in altri teatri. Si è trattato di un dispositivo aereo poderoso, gigantesco; praticamente tutti gli aerei pronti al combattimento dell’USAF normalmente dislocati sulla costa atlantica degli Stati Uniti e in Europa, nonché dell’intera RAF e Royal Saudi Air Force e aliquote significative delle Aviazioni francese e di quelle dei partecipanti minori, Italia, Canada, ecc. Condizioni abbastanza uniche e difficilmente ripetibili. La «strapresenza» delle 18 Aviazioni «aeronautiche» ha imposto standard e procedure diverse da quelle dell’aeronavale americana, che come si è detto è stata penalizzata e messa (volutamente e forse maliziosamente) in disparte. Ha contribuito a questa marginalizzazione anche la composizione dei gruppi di volo delle Portaerei, che non avevano provveduto a rinforzare con una certa previdenza corporativa la componente d’attacco a scapito dei caccia puri, gli «F14». Ma chi avrebbe immaginato che l’Aviazione di Saddam avrebbe transumato? La difesa aerea delle formazioni navali, e in particolare di colossi nucleari da fantagigadollari a esemplare, non potevano essere lasciata in mano solo agli AEGIS dei Ticonderoga, o — ancor peggio — affidata agli «F15» dell’USAF. Le portaerei avrebbero corso rischi incalcolabili e inconfessabili. (La lezione è stata compresa, e da allora fino alla loro radiazione gli «F14» hanno gradualmente assunto un ruolo secondario ma sempre più importante di cacciabombardieri, con armamento intelligente, puntatori elettrottici e tutto il resto). Una vera sorpresa è stata, ancora una volta, la summenzionata mina. Come in Corea, in Vietnam, in Mar Rosso, nello stesso Golfo Persico della «guerra delle petroliere», pochi anni avanti. La sorpresa in realtà è stata di chi si vuole far sorprendere a tutti i costi da un mezzo bellico economico, semplice, stranoto, con un rapporto costo/efficacia ineguagliabile ma senza quelle potentissime lobby alle spalle che nel complesso militar-industriale nordamericano assicurano fortuna e longevità ai programmi più fashion. Un’altra realtà inaspettata si è rivelata l’obsolescenza delle difese costiere missilistiche antinave irachene, basate su un missile come il cinese «Silkworm» ad autoguida radar conical scan, che risaliva alRivista Marittima-Giugno 2010 Ruolo del potere marittimo nella Guerra del Golfo (1990-91) la tecnologia della guerra dello Yom Kippur di quasi venti anni prima ed era facilmente contrastabile dalle ECM e dalle difese contraeree delle unità angloamericane. Se gli stessi iracheni avessero impiegato da terra gli stessi Exocet sea skimmer a guida monopulse con i quali i loro Mirage avevano inutilmente sforacchiato le petroliere di tutto il mondo nei sette o otto anni precedenti, e dei quali erano dotate anche le motomissilistiche kuwaitiane da loro catturate, le unità maggiori della Coalizione si sarebbero dovute tenere ben lontane dal nord del Golfo e l’ipotesi anfibia, già messa in difficoltà dalle mine, non sarebbe stata neanche immaginata, liberando le divisioni irachene che ne hanno dovuto fronteggiare l’immanenza. Le modifiche tecniche necessarie per adattare i missili aeroportati a un impiego da terra, come già avevano fatto gli argentini alle Falkland, erano abbondantemente alla portata degli agguerriti servizi tecnici delle forze armate di Saddam. Si è trattato di una omissione inspiegabile e inspiegata, salvo forse per il fatto che per utilizzare gli Exocet alla loro portata ottimale sarebbe stata necessaria una capacità di ricognizione che gli iracheni non possedevano e che comunque non avrebbero mantenuto per un’ora dopo lo scoppio delle ostilità. Erano in condizioni di poter lanciare missili solo alla cieca, dove avevano sentore si trovassero navi nemiche. Un po’ poco, anche per gli Exocet. Per il resto, si è constatata l’importanza Rivista Marittima-Giugno 2010 e lo spessore della presenza euromediterranea della Nato a sostegno dell’operazione, e verificata l’ampiezza e l’elevato livello della partecipazione navale di moltissime Marine della Coalizione a Desert Shield/Storm. Tale partecipazione è stata condizionata dai vari gradi di cooptazione all’evento principale e dalle differenti prossimità all’area della battaglia consentiti dalle istruzioni dei rispettivi Governi. Queste diversità hanno determinato caso per caso regole d’ingaggio, tipo e spessore delle esperienze, loro attendibilità per estrapolare insegnamenti e indicazioni. Tutti hanno fatto tesoro di quanto hanno visto, sentito, capito e fatto. Si è evidenziato ed è stato forse misurato — da parte di chi era in condizioni di farlo — il divario qualitativo che le separava, ancora una volta, dalla Flotta americana. Soprattutto in quella sua concretizzazione di macrosistema integrato e universalista che racchiudeva ed esaltava le prestazioni di piattaforme aeree e navali (di per sé non inarrivabili): sensori, satelliti, reti, comandi, intelligence, armi precise, dottrina, esperienze pregresse. Il risultato di tale capacità era una incredibile capacità di assorbire e macinare diversità per generare sinergie. Un melting pot sincretico che al tempo era peculiarità, sul mare, della sola US Navy. Più tardi si sarebbe chiamata Networkcentric capability e sarebbe diventata, entro certi limiti, materia condivisa, almeno dalle Marine più equipaggiate e consapevoli. n 19