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Il rapporto tra la figura femminile e la guerra nelle commedie di
Aristofane. Si analizzi il ruolo che il commediografo ateniese
attribuisce alla donna, valutando se la visione del poeta rimanga
ancora oggi una provocazione o abbia trovato concreta realizzazione
nella storia recente
Quando Ulisse tornò a casa, dopo il suo lungo girovagare tra isole
abitate da terribili mostri e da bellissime donne, sazio ormai di eccitanti
avventure, placato nella sua passione per la conoscenza, trovò ad
attenderlo la fedele Penelope, sua dolce sposa. Ella era rimasta lì, nella
casa che le era stata assegnata dalla tradizione, dal costume dell’epoca,
perché quello era il posto dato alle donne. In questo famoso episodio
dell’Odissea è possibile riassumere la condizione della donna nella
tradizione classica: l’uomo è libero della sua vita, può disporre di sé
come meglio crede, può allontanarsi da casa, affrontare l’ignoto,
ritornare, e trovare ancora gli affetti e il focolare. La donna no, lei è
ancorata al ruolo che l’uomo le ha affidato: moglie e madre, chiusa nella
realtà angusta del gineceo, sottratta a qualunque possibilità di emergere.
Un sfocata, appena visibile, sfumatura del processo di modernizzazione
della società occidentale a proposito della condizione della donna è
percepibile in tre commedie di Aristofane: in “Lisistrata”,
“Tesmoforiazuse” ed “Ecclesiazuse” è riconoscibile un lieve mutamento
della concezione della donna: i contenuti fantastici (e quelli di donne a
capo di rivolte erano proprio fantastici) tipici del filone comico
tradizionale, si intrecciano ai contenuti reali caratteristici del filone
politico. Così la donna, che nelle commedie aristofanee precedenti era
relegata a svolgere una parte per lo più marginale perché marginale
rimaneva il suo ruolo all’interno della società, ora si trova a
rappresentare un personaggio importante, anzi, protagonistico. In questo
caso il “limite” ideologico che si rimprovera ad Aristofane potrebbe
coincidere con il fatto che alla pars destruens di feroce critica di un
mondo che perdeva a pezzi sia la pace che la forza e i valori con i quali
era cresciuto, egli non fece seguire concrete proposte di modelli politici
alternativi. Ma un poeta non può improvvisarsi architetto costituzionale,
né trovare soluzioni a una crisi politica che peraltro già sembrava (ed
era) irreversibile. O forse la soluzione c’era e glielo consentiva la
finzione letteraria: l’utopia di un mondo esattamente al contrario di
quello che c’era e che Aristofane non immaginava certo che avrebbe
potuto esserci un giorno, se non in una isola comunitaria del tipo
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platonico. Così nelle “Ecclesiazuse” il grande drammaturgo ci presenta
una figura femminile la quale, presa coscienza di sé, non accetta più
come unico ruolo quello di moglie e di madre, ma individua un’ulteriore
possibilità di realizzazione nel mondo della politica, in cui può applicare
le sue doti d’intelligenza e le sue naturali inclinazioni: su considerazioni
di tal genere si innesta l’utopistica soluzione ginecocratica immaginata
da Aristofane. E poi, ancora, nelle Tesmoforiazuse, che contengono il
primo atto di ardimento e di rivolta contro gli uomini, Aristofane dà
finalmente voce a quelle donne indignate dagli innumerevoli discorsi
denigratori sul gentil sesso di Euripide; esse, indispettite dalla pessima
connotazione con cui il tragediografo le dipinge, hanno deciso di
approfittare della festa delle Tesmoforie per processarlo. La vicenda è
narrata in toni piccanti e burleschi, secondo una struttura articolata, ma
ciò che conta maggiormente è che la donna si ribelli alla tradizione
misogina che caratterizza, allora come in seguito, l’andamento della
società. E infine, nella Lisistrata la sostanziale incomprensione
dell’universo femminile da parte del sesso dominante sfocia in una
umoristica e paradossale presa di posizione da parte delle silenziose e
docili compagne degli uomini ateniesi, e la loro ostilità alla guerra
costituisce,
proprio
in
occasione
dell’estenuante
conflitto
peloponnesiaco, una dimostrazione di quel buon senso di cui i loro
mariti sembravano invece essere privi. Ecco il colpo di genio: tutte le
donne della Grecia giureranno di negare ai rispettivi mariti i piaceri del
letto coniugale finché essi non decideranno di comune accordo di
stipulare pace duratura, consapevoli dell’animalità nel desiderio
sessuale, regola insaziabile, che contraddistingue, in genere, più il sesso
maschile che quello femminile. Infatti la forza della protagonista
Lisistrata, il cui stesso “nome parlante” (<<colei che scioglie gli
eserciti>>) sta ad indicare la caparbietà e il piglio decisionista che
caratterizzano il personaggio, sta nell’aver compreso l’enorme potere
che le donne sono in grado di esercitare attraverso il sesso, arma ben più
efficace di quelle con cui gli uomini si massacrano da tempo sui campi
di battaglia. E proprio il campo di battaglia costituisce la nota dolente
della commedia: non dimentichiamoci che nobilissimo scopo finale
dello “sciopero sessuale” intrapreso da Lisistrata è proprio la cessazione
della guerra, flagello dell’Ellade da ormai troppo tempo. La vivacità
bellica di cui Atene si vanta pesa ormai sulle spalle dei cittadini della
polis in modo insostenibile: la contingenza del presente appare sottesa
alla trama stessa della commedia: erano quelli gli anni in cui tutta una
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serie di eventi precipitosi facevano presentire, ormai imminente, la fine
di Atene: la spedizione di Sicilia, ad esempio, si tramuta ben presto in
disfatta lenta e angosciosa; l’entusiasmo, la fiducia popolare crollano, e
Aristofane in prima persona è ormai stanco di quell’istinto crudele e
violento, insopprimibile, che spinge l’uomo a sopraffare i suoi simili, ad
imporsi a qualsiasi prezzo, dal bastone alla fionda alla lancia (e,
successivamente, dal fucile al cannone alla bomba atomica). Ed è
strettamente necessario che qualcuno interpreti il ruolo di ambasciatore
di pace; ruolo, questo, che Aristofane, anche stavolta utopisticamente,
attribuisce alla donna, ma senza dubbio in chiave allegorico-parodistica;
ad ogni modo, fra le utopie che popolano le sue opere, la sua idea
riguardo la donna, che trova concretizzazione poi nei progetti artistici, è
certo la più eversiva (per il rovesciamento della realtà, caratteristico del
meccanismo comico, che in questo caso giunge al suo limite estremo,
violando un tabù sociale fra i più radicati nella civiltà greca) e
problematica (visto che rimane incerta la vera posizione che l’autore
assume dinanzi ai bizzarri progetti istituzionali da lui stesso ideati e
messi in scena).
La convinzione secondo la quale l’uomo è destinato al comando e la
donna alla passiva obbedienza, si manterrà a lungo nel mondo greco,
fino a giungere, anche se con minore risonanza, in quello romano, e
perpetuandosi con successo anche nelle epoche seguenti. Bisogna,
infatti, giungere sino al Medioevo per incontrare note figure femminili:
si tratta per lo più di Sante. Oppure al Rinascimento, dove spiccano
nomi di poetesse, pittrici, cortigiane (ancora il sesso!) e soprattutto
ispiratrici dei grandi artisti dell’epoca. Fino a giungere al ‘700, con la
rivoluzione industriale, quando la donna compie un passo decisivo per la
sua emancipazione, affiancandosi all’uomo nel lavoro in fabbrica,
benché retribuita con un salario nettamente inferiore e dequalificante.
Esaurita la parentesi fascista, in cui torna ad essere relegata nel ruolo
esclusivo di angelo del focolare, la donna riprende- ironia della sorteproprio durante la guerra, la sua ascesa sociale, che è continuata
ininterrottamente fino ai nostri giorni. Si può allora parlare di vittoria?
No, questo termine è improprio, perchè non si tratta di rivalità tra i due
sessi, di capovolgimento di ruoli, ma soltanto di complementarità e non,
si badi bene, di uguaglianza. Perché la donna, come sostiene la filosofa
francese Luce Irigaray, non può diventare uguale all’uomo e se è stata
una grande conquista la possibilità di realizzarsi autonomamente nel
lavoro, nel “voler invece diventare come un uomo, la donna porterebbe a
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compimento l’antico sogno maschile, di cancellare la differenza
sessuata” (Irigaray). Insomma, un mondo ancora fallocratico, in cui, a
dispetto dei risultati raggiunti, la donna in quanto tale finirebbe per
autoescludersi dalla storia, proprio come la paziente e devota Penelope.
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