Autobiografia di una zucchina
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Autobiografia di una zucchina
Autobiografia di una zucchina a cura di Roberto Parmeggiani, educatore e scrittore “Ti ricordi, Rosy, quando siamo andati in chiesa?” “Preferisco non ricordarlo.” E mi versa un’altra tazza di tè. “Avanti, non tenere il broncio Rosy. Pensavo solo alle parole di Pauline, sul pullmino.” Ammetto di provocarla un po’. Ma questo è un trucco dei marmocchi. Non sappiamo fermarci e ci piace tanto girare il coltello nella piaga. “A volte pensi troppo, Zucchina. Pauline è una brava ragazza. Non ho nulla contro di lei ma non mi fa neanche impazzire. È fatta a suo modo, tutto qui.” “Tra noi la chiamiamo ‘sgualdrinella’.” E guardo Rosy con l’aria angelica. Rosy ride “non va bene chiamarla così” ma la sua risata dice il contrario e ci facciamo l’occhiolino Rosy e io. Poi mi chiede se voglio tanto bene a Camille e il mio occhiolino sparisce. Sono affari nostri. Prendo l’ultimo biscotto e lo mangio in silenzio. Rosy non è scema, si sistema i capelli con le mani come se non sapesse cosa fare e non serve a niente visto che sono duri come la paglia e dice con una voce strana “anch’io ti voglio tanto bene, Zucchina”. Guardo Rosy e i suoi libri e i nostri disegni su tutti i muri. Penso che ha solo questo Rosy e che, a dire il vero, lei è più sola di noi bambini dell’istituto, e mi avvicino a lei e le faccio una coccola. Non diciamo niente. La coccola dice tutto. Quando me ne vado, Rosy mi sorride. E mi dico che è un peccato che non abbia bambini suoi, perché lei li avrebbe amati ancora più di quanto ama noi, anche se non riesco a immaginarlo quell’amore. Rosy non è il tipo da bere birre e guardare la tele. Se avessi avuto una mamma come lei non ci sarei mai salito sul granaio e non avrei mai frugato nel cassetto del comò. E se anche avessi frugato, non avrei mai trovato il revolver. Ma se avessi avuto una mamma come lei, non avrei mai incontrato Camille ed è meglio così. Il magico Alvermann 89 A volte mi dico che sono “un minore incapace” come dice il giudice, anche se io tengo a mente la peggiore di quelle due parole. Incapace. Capisco bene di averne fatta una davvero grossa. E poi a volte mi dico che se non l’avessi fatto, non sarei qui con i miei nuovi amici e soprattutto con Camille. Prima avevo solo Marcel e Gregory, ma non era la stessa cosa. Il grosso Marcel è una nullità a biglie e non avevo niente da dirgli tranne “non vali niente a biglie” anche se mi piaceva tanto batterlo. E Gregory, a parte far finire il pallone nella finestra, non sapeva niente di niente. Non è che io sappia tutto, ma con Simon e i fratelli Chafouin almeno si ragiona. (Gilles Paris, Autobiografia di una zucchina) Questo bellissimo libro è un reality (nel senso etimologico della parola e non secondo il linguaggio televisivo), perché rappresenta perfettamente la realtà, non una immaginata o costruita, non una fiction pensata a tavolino, ma la vita vera. La vita di bambini abbandonati o allontanati dalle loro famiglie di origine per i più svariati motivi. La vita vera che lo stesso autore ha scelto di trascorrere per alcuni mesi in una casa di accoglienza. E che quella sia vita vera ne sono prova i dialoghi dei bambini, le loro domande e le loro riflessioni (quelle espresse e quelle trattenute). La mamma di Icaro, che tutti chiamano Zucchina, sbraita sempre contro il cielo e lo picchia senza ragione. Zucchina allora pensa che il cielo e le botte vanno insieme. Medita quindi di sparare al cielo, in quel modo forse la mamma si sarebbe calmata e avrebbero potuto così guardare la tele senza che lui le prendesse di santa ragione. Un giorno quindi entra nella camera di sua madre, trova un revolver in un cassetto ed esce in giardino. Punta l’arma verso il cielo. Un colpo, due colpi, sua madre esce, grida “cos’è questo casino?”, lui risponde “è per te, non voglio più che mi sgridi”, lei sbraita “schifoso”, un calcio, una spinta, parte un colpo, la mamma barcolla all’indietro e va giù. Da questo punto in poi la vita di Zucchina cambia radicalmente, questo involontario rito d’iniziazione lo porta a lasciare il mondo materno per entrare in modo prepotente nel mondo degli adulti e, nello specifico, alle Fontane una struttura che accoglie bambini allontanati dalle loro famiglie. Un passaggio netto da quello che era a quello che sarà, dall’amore superficiale di sua madre a quello travolgente di Rosy, dalla solitudine di due amicizie insignificanti alla scoperta dell’affetto travolgente dei coetanei, insomma una vera e propria rivoluzione che coinvolge anche la costruzione dell’identità stessa di Zucchina. Considerato “piccolo stupido” da sua madre prima e “minore incapace” dai giudici poi, Zucchina, come molti bambini e giovani di oggi, viene etichettato in modo assolutamente semplicistico, in categorie che permettono agli adulti 90 Il magico Alvermann di non assumersi il disagio del minore, di relegarlo nella sfera del personale e non del sociale. È lo stesso atteggiamento di chi pensa di risolvere i problemi negandoli o, ancora peggio, coprendoli magari con un bel grembiule. A Zucchina, per fortuna, la vita riserva invece incontri molto interessanti: Raymond, Camille, Victor, Simon, Rosy... Incontri che gli consentono di intraprendere un viaggio per mezzo del quale dimenticherà la parola incapace imparando di nuovo ad alzare lo sguardo verso l’alto. Qui sta infatti il segreto per liberarsi delle etichette, soprattutto quelle che affondano l’autostima. Alzare lo sguardo simboleggia il desiderio e la volontà di guardare avanti, confrontandosi con coloro che possiamo incontrare nel nostro percorso di vita, accettando la severità e accogliendo l’amore; significa lanciarsi verso il futuro, radicati ma non più schiavi del passato; significa ritrovare il coraggio di voler essere se stessi, liberi di lottare per diventare ciò che desideriamo. E come dice Zucchina, dopo un po’ si può riuscire di nuovo a guardare il cielo senza aver voglia di sparargli, semplicemente perché ne avremmo trovato uno più grande in terra. Grande come quello di Zucchina, non solo perché popolato da tanti nuovi amici che gli vogliono bene ma perché ha, di fronte a sé, un orizzonte molto ampio, senza ostacoli, foriero di molti sogni e probabilmente colorato di un bel rosso caldo che fa pensare, proprio come dice il proverbio che “rosso di sera, bel tempo si spera”. Il magico Alvermann 91