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Invito alle Towers
Estratto da
Angela Thirkell, Pomfret Towers
Titolo originale dell’opera
Pomfret Towers
Traduzione dall’inglese
di Marina Morpurgo
Copyright © The Estate of Angela Thirkell 1938
© 2015 astoria srl
corso C. Colombo 11 – 20144 Milano
Prima edizione: settembre 2015
ISBN 978-88-98713-17-2
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Nutfield è la cittadina più incantevole di quella zona dell’Inghilterra. La maggior parte delle terre di laggiù è posseduta da
famiglie ancora sufficientemente ricche da non essere costrette
a vendere le proprie tenute, e quindi gli speculatori immobiliari
sono rimasti alla larga, e la cittadina è appena un po’ più grande
di quanto non lo fosse nel diciottesimo secolo. Nel 1847 fu fatta
arrivare fino a Nutfield, nonostante una fierissima resistenza, una
linea secondaria delle ferrovie, ma la stazione è collocata in una
posizione talmente scomoda, sul margine settentrionale dell’altura su cui sorge la città, ed è talmente mal servita dai treni, che
gli abitanti la utilizzano assai di rado, e preferiscono recarsi in
macchina fino allo snodo.
Nutfield è costruita sulle terre del settimo conte di Pomfret,
che si rifiuta di autorizzare la costruzione di catene di negozi o
di cinema, ed esercita una supervisione personale e terrificante
sull’estetica delle botteghe e dei garage. I cittadini più eminenti
di Nutfield di tanto in tanto sono invitati a cena alle Pomfret Towers, ma senza le mogli, perché lady Pomfret, che è un’invalida,
vive per la maggior parte del tempo all’estero. Queste serate sono
rinomate per la loro noia spaventosa, ma non è mai giunta notizia che qualcuno abbia rifiutato. Rispettabili padri di famiglia
sono stati uditi scambiarsi osservazioni sulla pesantezza e la sgarberia di sua signoria, e perfino vantarsi se per caso lord Pomfret
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li aveva omaggiati con un comportamento particolarmente altezzoso o con qualche scortesia deliberata. Ognuno tiene in gran
pregio ciò che possiede. La gente è capace di inorgoglirsi, e perfino di pavoneggiarsi, per una dentiera, o una gamba artificiale,
mentre un occhio di vetro può arrivare a rendere quasi insopportabile una persona. E così gli abitanti di Nutfield si vantano
della scortesia di lord Pomfret e guardano con condiscendenza e
compatimento i vicini meno fortunati.
La strada principale di Nutfield è un viale ampio, che scende
dolcemente verso sud, in direzione del fiume, fiancheggiato da
due bei filari di olmi. Le case georgiane in mattoni rossi sono
arretrate rispetto al marciapiede, al riparo di muri o di graziose
inferriate. Ai piedi della collina la strada compie una larga curva
a destra e attraversa il fiume su un bel ponte di pietra che risale al
quindicesimo secolo. La curva e la strettoia del ponte fortemente
arcuato sono assai pericolose, però lord Pomfret, causando ai fedeli inquilini un grave disagio ma suscitando in loro un orgoglio
ancora maggiore, finora ha resistito con successo a tutti i tentativi
di raddrizzare la curva o di allargare il ponte.
Nell’appezzamento ampio e irregolare di terra delimitato
dalla curva della strada e dal fiume sorge Mellings, un tempo
residenza delle vedove di casa Pomfret, e ora affittata a un architetto locale di successo, il signor Barton, socio principale della Barton & Wicklow, studio che vanta legami eccellenti nella
contea e una solida reputazione, perché si sa che tratta i vecchi
edifici con cura e discrezione. L’unico difetto che un criticone
potrebbe trovare in Mellings è la vicinanza all’acqua, però le
fondamenta e le cantine sono in condizioni eccellenti, e l’argine
meridionale del fiume è talmente ben rinforzato e terrazzato che
nessuno si è mai lamentato per l’umidità, e la casa è riscaldata
alla perfezione.
Il signor Barton prima di installare il riscaldamento centralizzato aveva dovuto lottare a lungo con lord Pomfret, perché sua
signoria nutriva la ferrea convinzione che le case riscaldate piacessero solo agli stranieri. E dopo che il signor Barton finalmente
era riuscito a respingere queste obiezioni patriottiche, sua signoria tirò fuori la questione, alla quale non era possibile rispondere, che suo nonno quelle cose non le aveva fatte mai. Il signor
Barton possedeva sufficiente autocontrollo da non far notare a
sua signoria che la morte precoce del quinto conte di Pomfret,
sopraggiunta all’età di ventuno anni a causa della dannazione
alcolica provocata da una settimana di bevute ininterrotte con i
suoi amministratori fiduciari in occasione della maggiore età a
lungo attesa, non gli aveva concesso molto tempo per manifestare i propri sentimenti in materia di riscaldamento centralizzato,
scienza che all’epoca muoveva i primi passi. Il signor Barton rimase in attesa degli eventi. Un mese dopo, ribollendo di rabbia,
lord Pomfret fu costretto a partire per l’estero per curarsi i reumatismi. Il suo agente, il signor Hoare, aveva l’autorità di agire
per suo conto, in caso di assenza; Roddy Wicklow, figlio del socio
del signor Barton, non dovette far altro che recarsi nell’ufficio di
Hoare, e Barton l’ebbe vinta.
Una volta installato il riscaldamento centralizzato, in effetti,
il signor Barton non riuscì a trovare altri difetti in quella casa.
Il bell’edificio a nord risalente al periodo di Giacomo i, dove
ora erano alloggiate le cucine e la servitù, la grande e nobile
facciata meridionale aggiunta attorno al 1760, erano descritte in
tutte le guide turistiche, anche se non tutte riportavano quella che
all’occhio del padrone rappresentava forse la somma bellezza. Si
trattava di una villetta del giardiniere, a due piani, che il genio
di Repton aveva modificato, nel 1803 o giù di lì, trasformando
l’austera ma confortevole casa in mattoni in una riproduzione in
scala ridotta del Partenone, con colonne e un portico che privava
di aria e luce l’interno. Il signor Barton amava con passione quel
posto e lo custodiva fedelmente, trovandovi un conforto immenso
quando sua moglie sembrava più lontana del solito.
La signora Barton era rinomata autrice di svariati romanzi
storici eruditi che parlavano dei più oscuri figli illegittimi di papi
e cardinali, con una dovizia di documentazione che lasciava sbalorditi i recensori. Poiché viveva così immersa nel quindicesimo
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e sedicesimo secolo, a volte alla signora Barton riusciva difficile
ricordarsi dov’era. Era un’ottima donna di casa, che non mancava mai di prendersi cura della famiglia e di nutrirla a dovere,
e tutti i servitori l’adoravano, e sebbene non imponesse mai il
proprio lavoro, né mai ne parlasse come di una cosa importante,
le bastava entrare nel suo salottino e tirare fuori un documento
o un libro per essere risucchiata all’istante nell’oceano del passato, e rivivere con intensità le vite di persone di cui si sapeva
ben poco, e la cui stessa esistenza era dubbia. Quando la marea
si ritirava, lasciandola spiaggiata sui lidi della vita quotidiana,
la signora Barton riemergeva un po’ annebbiata e riprendeva il
proprio posto di comando al tavolo da pranzo, o si interessava
in modo saltuario ai vicini. Trattava il figlio e la figlia come gradevoli ospiti che casualmente stessero prolungando il soggiorno,
per quanto le apprensioni suscitate da Alice, fanciulla delicata e
minore di parecchi anni rispetto al fratello, inseguissero la madre
perfino tra i libri e le ricerche.
Il marito della signora Barton aveva da tempo rinunciato
alla speranza di poter competere con la prole illegittima di avvelenatori e cospiratori. Era un uomo di successo, un uomo impegnato e la sua era una vita piena. Nei rari momenti in cui si
concedeva di avvertire la mancanza di qualcosa, il signor Barton
trovava rifugio nella bellezza della propria casa. Se la ricerca
del materiale tratteneva la signora Barton all’estero per troppo tempo, a ore strane capitava di trovare il marito in salotto
intento a riempirsi gli occhi con il fascino dei pannelli bianchi
squisitamente proporzionati, oppure sulle scale, ad accarezzare
con affetto la ringhiera intagliata, e da questa quieta bellezza assorbiva un qualcosa che gli consentiva di recuperare la consueta
calma esteriore.
In un freddo mattino di gennaio, il signor Barton stava facendo colazione nella sala da pranzo ben riscaldata, congratulandosi
per la centesima volta con se stesso per aver avuto la meglio su
lord Pomfret sulla questione del riscaldamento centralizzato. La
sera prima aveva cenato alle Towers e senza scomporsi aveva
ascoltato le profezie cupe ma al contempo speranzose del padrone di casa, che sosteneva che una trave avrebbe preso fuoco e
l’intera famiglia Barton sarebbe perita tra le fiamme.
Il signor Barton fu raggiunto quasi subito da suo figlio Guy,
socio giovane dell’impresa, che aveva schivato di un soffio il pericolo di essere chiamato Ippolito. Guy, che aveva ereditato la
bellezza della madre e il carattere placido del padre, vedeva la
vita come una faccenda semplice e piacevole.
“Buongiorno, papà,” disse, servendosi una scodella abbondante di porridge e mangiandolo in piedi, camminando attorno
al tavolo con perizia professionale. “Che freddo barbino. Mamma sta arrivando. Ha detto qualcosa riguardo Pirandello o Piranesi o roba simile e che sarebbe scesa tra un attimo,” disse Guy,
che come molti figli si burlava del lavoro materno e restava genuinamente stupito quando si accorgeva che a Londra persone in
carne e ossa parlavano con rispetto dei libri della signora Barton.
E che sua madre ci guadagnasse una quantità ragguardevole di
denaro pareva a Guy davvero incredibile e financo ingiusto, però
lui non gliene serbava rancore.
“Se proprio devi camminare attorno al tavolo, almeno parlami quando ti vedo in faccia,” disse bonariamente suo padre.
“Non riesco a mangiare con la testa girata e non riesco a fare
uscire le parole dalla nuca.”
“Scusa, papà. La mia è un po’ una posa, non riesco a farne a
meno. Ho preso l’abitudine in Scozia e non sono ancora riuscito
a liberarmene del tutto. Ma lo farò presto. Hai passato la solita
spassosa serata alle Towers?” disse Guy, sedendosi finalmente con
un piatto di uova e bacon.
“La solita,” disse suo padre. “Hoare e io eravamo gli unici
ospiti. Pomfret è stato appena un po’ meno villano delle altre
volte, perché ieri sera era presente anche lady Pomfret. Non mi
stupisco che quella donna preferisca vivere a Firenze. Mi pare
più invalida che mai, e alle Towers si muore di freddo. Ho notizie
per te e Alice. Vi vogliono invitare per un fine settimana prima
che si chiuda la caccia.”
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“Bene, bene, bene,” disse Guy. “Quando pensi che noi, e con
questo noi intendo dire tu, negli ultimi sette anni abbiamo pagato puntualmente l’affitto, e questa è la prima volta che il nostro
padrone di casa invita me e Alice al suo desco ospitale, il fatto è
un poco scioccante. Alice,” disse alla sorella quando questa entrò
in sala da pranzo, “che ne pensi di andare a stare alle Towers?”
“Alle Towers,” ripeté Alice. “Perché?”
“Perché lord Pomfret vi ha invitati,” rispose suo padre. “Lady
Pomfret è a casa, daranno una grande festa e vogliono avere un
po’ di gente giovane.”
“Oh, non mi sentirei molto al sicuro,” disse Alice, arretrando
nervosamente contro la credenza.
“Ma sicura rispetto a cosa, stupidona?” le chiese l’amorevole
fratello. “Hai paura che il vecchio Pomfret ti dia un buffetto sotto
il mento in corridoio? Dai, fai colazione e ti sentirai meglio.”
“No, non lord Pomfret,” disse Alice. “Non credo che lui mi
conosca. Intendevo le camicie da notte e le cameriere e le mance
e tutto quel genere di cose. Mi terrorizzano.”
Il signor Barton osservò la figlia con un misto di preoccupazione e affettuosa irritazione. Alice era stata una bambina cagionevole, non era mai riuscita a frequentare la scuola con regolarità, e così la sua innata timidezza era stata alimentata da una
vita da mezza invalida. Negli ultimi tempi la salute della ragazza
era migliorata al punto da non costituire più fonte di ansia, e il
padre sperava che a Nutfield avrebbe fatto amicizia con i suoi
coetanei, ma Alice si teneva in disparte, dolorosamente consapevole di non poter condividere i loro sport e i loro interessi. Il suo
grande desiderio sarebbe stato quello di studiare architettura e
di entrare nello studio del padre. Non essendoci riuscita, aveva
trovato conforto nella pittura. La vecchia nursery, poi divenuta
il salottino privato di Alice, si era trasformata gradualmente in
studio. Lì Alice lavorava tutta sola e contenta, ma se qualcuno
le chiedeva di poter dare un’occhiata ai suoi quadri la timidezza
la tormentava al punto da impedirle di dipingere per giorni e
giorni. Il padre e la madre, comprendendo in parte le sue diffi-
coltà, non entravano mai nello studio della figlia se non dietro
invito. Alice non si lasciava turbare dal commento abituale di
Guy: “Roba di prima classe ma un po’ stranetta, direi”. Gli unici
altri visitatori ammessi di buon grado nello studio erano Roddy
Wicklow e sua sorella Sally, che provavano quel miscuglio di benevolo disprezzo e rispetto quasi superstizioso che l’artista suscita
nello sportivo. Alice era perfettamente consapevole di non essere
bella, e accettava il fatto con un’umiltà che in lei era quasi un
vizio. Era una ragazza esile e dal colorito itterico, i capelli erano
scuri e flosci, e un estraneo non l’avrebbe degnata di un secondo
sguardo, per quanto l’occhio del padre vedesse in lei una certa grazia nei movimenti e un’eleganza nella struttura ossea che
sembravano promettere bene per il futuro. Al momento, gli unici
punti di forza di Alice erano le mani lunghe e delicate, i grandi
occhi scuri e ansiosi, e un sorriso che si illuminava di colpo per
la gratitudine di fronte a qualunque gentilezza. E in quel momento la semplice prospettiva di passare due notti fuori casa, in
compagnia di sconosciuti, le stava già provocando fitte preventive
di nostalgia, e quanto queste fossero forti la sua famiglia non lo
poteva neppure immaginare.
“Le mance sono terrificanti, lo ammetto,” disse il signor Barton, “ma perché le camicie da notte?”
“Oh, per il disprezzo,” disse Alice. “Insomma, le cameriere
disprezzano le camicie da notte che una possiede, e poi ti nascondono le cose. Oh, papà, ma devo proprio andarci?”
“Senti, chiedi a tua madre,” disse vigliaccamente il signor
Barton. “Eccola qui. Susan, Pomfret ha invitato Guy e Alice alle
Towers. Alice non ha molta voglia di andarci. Che ne pensi?”
La signora Barton posò un mucchio di lettere sul tavolo e si
sedette.
“Non vedo lady Pomfret da anni,” disse. “Anni,” aggiunse
pensierosa.
“Sì, mamma cara, nessuno di noi l’ha vista,” disse Guy, baciandola sulla testa, “perché non era qui. Credi di poterti concentrare per un momento, se ti porto del caffè e qualcosa da
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mangiare? Lord Pomfret ci ha invitati per il fine settimana. Lady
Pomfret non lo ha fatto, ma non penso che abbia importanza. Io
ci voglio andare. Alice no. Papà dice di chiedere a te.”
“Ma lady Pomfret vi ha invitati,” disse la signora Barton. “Non
darmi uova, perché ho ordinato anche le crocchette di pesce, e
voglio far vedere che le mangiamo. Ho portato la lettera di lady
Pomfret per farvela leggere. È da qualche parte in mezzo alla mia
posta. Oh, eccola. Non vedo lady Pomfret da prima della guerra,
a Firenze. Aveva un dottore tedesco che infastidiva moltissimo
gli italiani. Oggi immagino che non si scoccerebbero così tanto,
però non sono proprio sicura, perché è gente di mentalità davvero ristretta, anche se in realtà non voglio dire esattamente questo.
Lady Pomfret mi scrive di aver incontrato gli Skinner a Firenze,
che ci mandano un mondo di saluti, Walter, e dice che vorrebbe
avere ospiti i miei ragazzi. Detesto l’espressione ‘i ragazzi’.”
“E allora chiamala giovinezza,* mamma cara,” disse Guy, “ed
eccoti le crocchette di pesce, e sono felice che tu abbia richiamato
la mia attenzione su di esse, perché sentivo di aver bisogno di
qualcosina per riempire gli spazi liberi, e le crocchette sono quello
che ci vuole. Chi sono gli Skinner?”
“Gente che conoscevamo,” disse il signor Barton, vago. “Gente di cui non avrai mai sentito parlare, è troppo noioso spiegarlo.
È un fatto degno di nota che quando si fa conoscenza con qualcuno a Firenze si tratta sempre di inglesi. Io non ci sono mai
stato, ma non ho mai incontrato nessuno che conoscesse un solo
italiano laggiù, e io mi immagino la città popolata esclusivamente
da Skinner.”
“Hai perfettamente ragione, Walter,” disse la signora Barton,
volgendo al marito i begli occhi. “Perfettamente. Ecco perché la
gente ama Firenze. In Inghilterra non sarebbe mai possibile trovare tanti Skinner concentrati in un unico luogo. Alice dovrebbe
farsi un vestito nuovo e andare.”
“Il problema non sono i vestiti, mamma cara, sono le camicie
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In italiano del testo. (N.d.T.)
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da notte,” disse Guy. “Alice pensa che le cameriere la disprezzeranno.”
“Oh, lo so che lo faranno,” disse Alice, il volto incupito dall’infelicità. “Per favore, per favore, devo proprio?”
Il signor Barton e Guy salutarono vigliaccamente e andarono
al lavoro, lasciando la signora Barton a negoziare con la figlia.
La signora Barton non aveva alcuna intenzione di trattare rudemente Alice, però sentiva che era giunta e stragiunta l’ora che
la fanciulla cominciasse a uscire e ad avere rapporti sociali. La
proposta di una piccola festa da ballo di debutto era stata accolta con una rassegnazione atterrita che aveva mandato a gambe
all’aria i piani della signora Barton. Era impossibile invitare ospiti per un ricevimento quando l’eroina della serata deperiva al
solo pensiero, e ogni giorno mostrava occhiaie sempre più scure.
La signora Barton a quel punto aveva suggerito di trasformare
il ballo in una festicciola serale, e il sollievo di Alice era stato
tale da farla scoppiare a piangere. Ma poiché sembrava sull’orlo delle lacrime ogni volta che la festicciola veniva menzionata,
sua madre ancora una volta aveva rinunciato ai propri piani e
aveva detto che una cenetta sarebbe stata una cosa simpatica.
Alice aveva farfugliato che sì, sarebbe stata una cosa simpatica,
però immaginava che le sarebbe toccato parlare con le persone
sedute alla propria destra e alla propria sinistra, e aveva un’aria
così miserabile che la madre aveva deciso di lasciar perdere del
tutto. Alice, quasi incredula di fronte a tanta fortuna, per parecchi giorni aveva continuato ad andare in giro con sguardo atterrito, evitando tutti, ma a quel punto ormai si era ripresa ed era
tornata a rifugiarsi nelle abitudini quotidiane, dipingeva nel suo
studio, di tanto in tanto prendeva il tè con Sally Wicklow, oppure
visitava timidamente il canile in compagnia di Roddy Wicklow.
Non che amasse molto i cani, che la sopraffacevano con la loro
accoglienza chiassosa e indiscriminata, però Roddy era un tale
marcantonio che quando c’era lui nessun cane notava la presenza di Alice, e questo la faceva sentire al sicuro.
Alice rimase seduta in tetro silenzio, avvinghiandosi con
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le gambe a quelle della sedia e giocherellando con la tazza e
il piattino, mentre sua madre rifletteva sul modo migliore per
convincere l’infelice figlia che due giorni alle Pomfret Towers
non sarebbero durati in eterno, e che il rischio di avere puntati
addosso gli sguardi critici di tutti era assai basso, essendo casomai
più probabile che nessuno si accorgesse di lei. Era un atto di vero
amore da parte della signora Barton, che ardeva dalla voglia di
tornare da Ganimede, un gobbetto malvagio ma artistico, di cui
era ancora da definire la posizione esatta all’interno di un ramo
illegittimo della famiglia Borgia.
“Alice,” disse sua madre.
Alice fece cadere la tazza sul piattino, con fracasso, e si guardò freneticamente attorno alla ricerca di aiuto. Dato che nessuno
si fece avanti, la fanciulla si torse disperatamente le mani e disse:
“Sì, mamma”.
“Non credo che le Towers sarebbero poi così male,” disse la
madre, con una noncuranza che non ingannò né lei stessa, né
tantomeno la figlia. “Lord Pomfret non è un perfetto sconosciuto, e si tratta solo di un paio di giorni, e poi con te ci sarà Guy.
Potrebbe essere abbastanza divertente.”
Con la forza della disperazione, Alice finalmente diede voce
all’atroce timore che la perseguitava dal momento in cui aveva
saputo la notizia.
“Pensi che ci saranno anche altre ragazze?” chiese, scorata.
“Oh, ma credo di sì, certo,” disse la signora Barton, lieta che
Alice per una volta stesse manifestando un briciolo di interesse
nei confronti dei coetanei. “E mi sa tanto che la sera si ballerà, o
ci saranno dei giochi.”
Questo era più di quanto Alice potesse sopportare. Sua madre, perfino sua madre l’aveva fraintesa in pieno, e con tutte le
sue forze stava spingendo la creatura indifesa nella tana del leone. Un fine settimana alle Towers avrebbe potuto essere appena
appena tollerabile se non ci fossero stati altri ospiti, o se lei avesse potuto, riparandosi dietro una folla di adulti, rimanere in un
cantuccio, tranquillamente ignorata. Ma se devono esserci altre
ragazze, pensò Alice, preferisco morire. Avrebbero avuto vestiti
fantastici e scarpe elegantissime, e i capelli con la permanente e
un trucco impeccabile, e sarebbero state orribilmente intelligenti
e avrebbero saputo tutto di tutto sulle persone famose e sul teatro
e sul cinema, e avrebbero disprezzato Alice, e com’era possibile
che la mamma non capisse che le coetanee erano la cosa più spaventosa che una ragazza potesse essere costretta ad affrontare?
“Capisco,” disse, con voce di cui sua madre decise di ignorare
l’assenza di entusiasmo.
“Quindi dopotutto non sarà male,” proseguì la signora Barton con una mancanza di tatto mostruosa, “e andandoci insieme
tu e Guy vi divertirete. Adesso devo parlare con la cuoca. Stamattina non uscire, d’accordo, tesoro? Tira un ventaccio da est,
e non ti gioverebbe affatto.”
La signora Barton prese la corrispondenza, baciò Alice e lasciò la stanza. Alice, che aveva accarezzato l’idea di camminare
molto lentamente lungo il fiume fino a morire assiderata, si alzò e
andò docilmente nel suo studio. Stava disegnando una copertina
e i risguardi per il nuovo libro di sua madre. Si trattava di una
sorpresa, e per quanto Alice pensasse umilmente che la sua intelligente e bella madre li avrebbe forse giudicati inadeguati, il lavoro l’appassionava assai. Di tanto in tanto smetteva di dipingere e
andava alla finestra per contemplare il mondo freddo e indurito
dal ghiaccio e pensò che perfino le Pomfret Towers potevano
essere più attraenti del camminare nel vento gelido fino a morire,
per quanto se Alice avesse avuto a portata di mano una qualunque morte calda e indolore l’avrebbe preferita di gran lunga alle
Pomfret Towers. Aveva ereditato dalla madre la caratteristica di
farsi assorbire completamente da quel che faceva, e all’ora di
pranzo Alice era quasi dimentica dell’incombere della sventura.
Il signor Barton e Guy, che tornarono a casa per pranzo, erano
presi da un castello del quindicesimo secolo che il nuovo proprietario voleva ristrutturare, e non parlavano d’altro. La signora
Barton, persa nei labirinti della famiglia di Ganimede, che vedeva il matrimonio in modo molto disinvolto, sedeva in una sorta di
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trance, e mangiava con aria assente, per quanto di buon appetito,
non sentendo una sola parola di quel che la sua famiglia stava
dicendo. Quindi non si parlò della visita alle Towers e Alice andò
a fare il riposino pomeridiano, che faceva tuttora parte del suo
regime quotidiano, essendo abbastanza di buonumore.
Quando ridiscese all’ora del tè, il freddo mondo esterno era
saldamente chiuso fuori. In salotto un grosso fuoco di ceppi proiettava una luce dorata sui pannelli di legno, le pesanti tende erano tirate, e la signora Barton, che aveva l’aria un po’ stanca però
trionfante, era semidistesa su una poltrona davanti al camino.
“Sii gentile, servimi tu il tè, tesoro,” disse a Alice. “Io sono
mezza distrutta.”
“Per il tuo libro?” chiese Alice, che nutriva una venerazione
attonita nei confronti della madre, la quale riusciva a essere così
graziosa pur essendo così intelligente.
“Sì. È abbastanza stupido da parte mia prenderlo seriamente,
dunque parleremo d’altro.”
Alice, temendo che quell’altro potessero essere le Pomfret Towers, decise di indurre sua madre a parlare del proprio lavoro,
ma si trattava sempre di un’impresa difficile, e le due sprofondarono in un silenzio caldo e piacevole. E questo fu bruscamente
interrotto da assordanti latrati provenienti dall’atrio.
“Sally con i suoi orribili cani, immagino,” disse la signora
Barton, raddrizzandosi sulla poltrona e tirando indietro i capelli.
“Vorrei tanto…”
Ma quel che la signora Barton avrebbe voluto e l’annuncio
dell’arrivo della signorina Wicklow da parte del maggiordomo
vennero annegati dal baccano prodotto da tre cani che irruppero nella stanza nella presunzione errata di essere ospiti graditi e
onorati, senza prestare orecchio ai comandi della padroncina,
che urlava loro di tacere.
“Mi dispiace,” disse Sally Wicklow, sollevando da terra un fox
terrier, mezzo strangolando un grosso pastore irlandese e tirando
un’amichevole pedata a un airedale nervosetto. “Devono aver
annusato la presenza di Penny. Di regola sono dei veri angeli.
Buongiorno, signora Barton. Ha scritto qualche altro libro? Io lo
dico sempre a Roddy, non so proprio come faccia, lei. Ciao Alice,
non ti avevo vista. Come va l’arte?”
Senza attendere risposte, la signorina Wicklow si lasciò cadere
su una poltrona e distese davanti al fuoco le lunghe gambe fasciate da calzoni alla cavallerizza. Da sotto la poltrona si levò un
ringhio rauco e sotterraneo e tutti i cani ripresero ad abbaiare.
“Ma guarda qui, ecco Penny,” disse la signorina Wicklow, tastando sotto la poltrona e trascinando fuori un vecchio scottish
terrier con il muso grosso come quello di un elefante. “Non è un
cane intelligente, a capire che c’è qui la zia Sally? E non sono
dei patatini in gamba i cani della zia Sally che hanno annusato
il nostro Penny?”
“No, non lo sono, Sally,” ribatté piuttosto seccamente la signora Barton. “L’odore di Penny lo sentirebbe chiunque. Ho fatto presente migliaia di volte a Walter che questo cane dovrebbe
essere abbattuto, e Penny lo sa che non gli sarebbe consentito
stare in salotto. Suona il campanello, Alice.”
Il maggiordomo arrivò quasi subito e la signora Barton gli
rifilò il cane.
“E porta i cani della signora Wicklow nell’atrio, Horton,” disse. “No, Sally, non permetto ai cani di stare in salotto, dovresti
saperlo. Ci baderà Horton.”
La signorina Wicklow accettò di buon grado la situazione e cominciò a mangiare a quattro palmenti, spiegando di essere andata
a cavallo con suo fratello, e di essersi dimenticata di pranzare.
“Roddy sarà qui tra un momento,” disse. “Ha dovuto fare un
salto alle Towers per parlare con il signor Hoare di non so cosa.
Signora Barton, spero che Horton non stia dando da mangiare ai
cani. Non sarebbe meglio se andassi a prenderli e li riportassi qui,
non trova? Non fiateranno, adesso, e se lo faranno darò a Wuffy
una bella battuta: è sempre lui a dare il la agli altri.”
“Sono sicura che Horton non gli darà da mangiare,” disse
Alice, che sapeva che Sally, un cerbero nel campo o nel canile,
dentro casa era incapace di controllare i suoi cani.
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“D’accordo, faccio entrare solo Wuffy,” disse Sally.
“No, non farlo,” disse Alice, temendo un’altra esplosione di
latrati. “Vado io a controllare. Sono certa che stanno bene.”
Sgusciò fuori dalla stanza. All’inizio l’atrio fiocamente illuminato le parve vuoto e Alice pensò che Horton avesse portato via
insieme a Penny anche i cani di Sally. Poi vide i tre cani sdraiati
composti come fossero cani di pietra su una tomba, in silenzio
perfetto, tutti con le orecchie piegate e gli occhi amorosamente
girati nella stessa direzione. Alice, seguendo i loro sguardi, vide
nell’angolo più buio dell’atrio sotto la scala una sorta di montagna ondeggiante che riconobbe all’istante come Roddy Wicklow
nell’atto di levarsi la giacca.
“Ciao,” disse Roddy, avanzando verso la luce. “Quando sono
arrivato le bestie di Sally stavano facendo i diavoli a quattro con
Horton dentro la dispensa. Vi hanno dato fastidio?”
“Solo in salotto,” disse Alice, tendendo la mano.
“Non dovrei stringere mani, in realtà,” disse Roddy. “Fuori
fa un freddo dell’accidente ed ero senza guanti. Per Giove, la tua
mano è ghiacciata quanto la mia. Sei uscita in una giornata del
genere?”
Torreggiava su Alice e quasi l’avvolgeva con il suo corpo
grande e grosso e con i suoi abiti di tweed larghi e consunti, ma
a Alice la cosa pareva di conforto e rassicurante.
“Ho sempre freddo,” disse.
“Mi sembri un po’ sciupacchiata, devo ammettere,” disse
Roddy. “C’è qualcosa che non va?”
“Oh, una cosa orribilissima,” disse Alice, ricordandosi all’improvviso del fine settimana. “Una cosa che mia madre vuole che
io faccia, e io non voglio farla, e lo so che è sciocco da parte mia,
però penso che se la faccio morirò, e non avrei dovuto parlartene,
ma non ho potuto fare a meno di farlo.”
Per sua grande umiliazione le si spezzò la voce e fu costretta
a tirare su con il naso.
“Ma dai, che problema c’è?” disse Roddy con il suo solito
pragmatismo. “Non si è mai sentito di nessuno che sia morto per
aver fatto qualcosa che non voleva. Su con il morale e soffiati il
naso. Gli occhi te li asciugherei io se solo il mio fazzoletto non
fosse troppo sporco. Lo avevo usato per fasciarci la zampa di un
cane e mi sono dimenticato di sostituirlo con uno pulito. Pensi
che Horton potrebbe procurarmi un uovo, se a tua madre non
dispiace? Non ho pranzato. E quanto a voi, cagnacci, fate silenzio fino al mio ritorno, o mi sentirete.”
“Oh,” esalò Alice inorridita, e dimenticando ancora una volta
i propri guai trascinò Roddy in salotto. “Roddy potrebbe avere
un uovo?” chiese.
La signora Barton suonò il campanello e diede l’ordine.
“Grazie mille. E ora,” disse Roddy, che non menava mai il
can per l’aia, “che cos’è questa storia di Alice? Sostiene di trovarsi
costretta a fare una cosa orribile, e che morirà dopo averla fatta.”
“A me non l’ha raccontato,” disse Sally, offesa. “E quel che è
peggio a nessuno è venuto in mente di offrire a me un uovo.”
“Allora, di che si tratta?” disse Roddy, senza prestare la minima attenzione all’intromissione della sorella, e arrostendosi la
schiena davanti al camino, in modo che alla padrona di casa non
arrivò più nemmeno un briciolo di calore.
“Sei come il San Filippone, quello da qualche migliaia di tonnellate,” disse la signora Barton con grande sconcerto di Roddy,
però poi lo rimise a suo agio chiedendogli di non ostruire il fuoco
a danno di tutti.
“Chiedo scusa,” disse Roddy. “Oh, brav’uomo,” aggiunse
quando Horton fece il suo ingresso portando tre uova su un vassoio. “Tre uova! Proprio quello che mi ci voleva.”
“Mi scusi, signore, ma uno è per la signorina Sally,” disse
Horton. “Se non ho inteso male neppure lei aveva pranzato.”
Sally arraffò un uovo, e dopo un’amichevole lotta con il fratello, entrambi aggredirono il rispettivo pasto. La signora Barton li
osservò benevola e con la vaga sensazione che i Medici avrebbero
nutrito così i propri servitori rientrati tardi da una spedizione.
Alice si rattrappì il più possibile in un cantuccio accanto al camino e sperò che Roddy non ripetesse la domanda. Sapeva che sua
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madre desiderava che lei andasse, e lei desiderava ardentemente
compiacere sua madre, e forse Roddy non aveva tutti i torti quando diceva che nessuno muore per aver fatto qualcosa che non gli
piace, e oh, se solo non ne avesse parlato con Roddy nell’atrio,
però, ecco, magari lui se ne sarebbe comunque dimenticato.
La conversazione fu condotta a due voci dai Wicklow, che
raccontarono come fossero stati a Thatcher’s End per i cottage,
e poi a Pomfret Madrigal per parlare degli scoli, e infine a Little
Misfit per la questione degli agnelli, e Alice si sentì di nuovo abbastanza al sicuro.
Erano appena arrivati alla triste storia della pecora femmina
che, avendo a differenza dei suoi simili un barlume di intelligenza, aveva intuito che l’agnello che le avevano dato avvolto in una
pelliccia ricavata dal vello del suo figliolino defunto non era uno
della famiglia, e lo aveva calpestato fino a farlo morire, quando si
udirono dei suoni provenienti dall’atrio, e Horton, con voce che
sarebbe tornata a onore di un maestro di cerimonie e avrebbe meritato un pubblico migliore, annunciò: “Lord Pomfret, madam”.
Sua signoria si fermò sulla soglia e si guardò sospettosamente
attorno, contrariato nel constatare che la signora Barton non era
sola. Era un uomo anziano e alto, dal portamento militare. Il
cranio era quasi pelato e le sopracciglia cespugliose. Aveva un
paio di baffoni alla vecchia maniera, di un biondastro smorto. Gli
occhi erano piccoli e spesso pieni di rabbia. Era passato ormai
tanto tempo dal giorno in cui il suo unico figlio, lord Mellings,
era rimasto ucciso in una scaramuccia di frontiera e sua moglie
aveva deciso di essere un’invalida, che ben poca gente ricordava
che tipo fosse stato lord Pomfret prima di quella tragedia. Nelle
pochissime occasioni in cui sceglieva di comportarsi bene, nessuno riusciva a essere più adorabile di lui, ma quelle occasioni si
facevano di anno in anno sempre più rare. L’erede al titolo era
un cugino che aveva visto pochissime volte e che aveva espresso
la speranza di non dover più posare gli occhi su lord Pomfret,
finché questi non fosse stato saldamente chiuso dentro una bara.
I giovani Wicklow, come dipendente e sorella di dipendente,
si alzarono in piedi all’ingresso di sua signoria. Alice guardò disperata Roddy e rimase inchiodata alla sedia.
“Sedetevi, sedetevi,” disse con impazienza lord Pomfret. “Salve, signora Barton. Chi abbiamo qui? La figliola, eh? Ma è tisica,
o cosa?”
Strinse la mano della padrona di casa, non si curò minimamente del resto della compagnia, e andò ad accomodarsi accanto
alla signora Barton, di cui in segreto era un ammiratore. La sua
figura armoniosa, quella piacevole espressione attenta che celava
il vagare dei pensieri, e i suoi modi talora imperiosi, ricordavano
a lord Pomfret alcune gran dame che aveva conosciuto prima
dell’avvento delle automobili. Da parte sua la signora Barton non
era né intimorita né colpita dal lord Pomfret, di cui mandava
all’aria i piani ignorando qualunque sgarberia. Il ramo cattolico
della famiglia di sua signoria viveva in Italia dal 1689, e si doveva
alle conoscenze di lord Pomfret se la signora Barton aveva avuto
accesso a documenti storici su cui altrimenti non avrebbe potuto
mettere le mani. Era sempre contenta di vederlo, ed è probabile
che lord Pomfret si trovasse più a suo agio con lei che non in
qualunque altro luogo al di fuori delle Pomfret Towers.
“Non potreste mandare via questa gente?” disse alla padrona
di casa, con voce che sarebbe stata udibile e infatti fu udita da
Horton, il quale tornò con il whisky e soda che rappresentava la
bevanda abituale di sua signoria all’ora del tè.
“No di certo,” rispose la signora Barton. “Non posso. Roddy
e Sally sono stati in giro tutto il giorno a cavallo per occuparsi
dei suoi affari, lord Pomfret. Lo sapeva che a Pomfret Madrigal
dovevano rendere più profondo il canale di scolo?”
“Ovviamente non lo sapevo,” disse lord Pomfret. “Quegli imbecilli non mi dicono mai nulla. Se approfondiscono il canale di
scolo allagheranno Starveacres, punto e basta.”
“Non credo, sir,” disse Roddy. “Se ricorda, l’anno scorso abbiamo cambiato quelle chiuse a Starveacres Hatches, e l’acqua
fuoriesce al di sopra della fine dello scolo.”
“Quello è il giovane Pickford dell’ufficio del mio agente Ho-
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are, vero?” disse lord Pomfret alla sua ospite, dopo aver scoccato
un’occhiata malevola all’impassibile Roddy.
“È il signor Wicklow, se è questo che intendeva dire,” ribatté
severamente la signora Barton.
Lord Pomfret emise un suono odioso, quello che d’abitudine
usava per imporre una pausa alla conversazione finché non era
pronto a rituffarcisi.
“Allora, Wickford?” attaccò.
“Signor Wicklow,” disse la signora Barton.
“Oh d’accordo, Wicklow, se ci tiene tanto,” disse lord Pomfret.
“C’è un tizio di nome Wickfield in Dickens, uno un po’ scemo
che non è in grado di badare ai propri affari. Si vede che avevo
in mente quello. Allora, Wicklow, o come si chiama lei, cosa stava
dicendo a proposito delle chiuse?”
Roddy, con pazienza e benevolenza assolute, ripeté quel che
aveva detto. Lord Pomfret, che conosceva ogni centimetro della
propria tenuta perfino meglio del signor Hoare, il suo vecchio
agente, ascoltò con attenzione.
“Voi giovanotti sapete tutto,” fu il suo commento. “Sarò in
ufficio alle nove, domattina, e andremo a dare un’occhiata. Le
toccherà alzarsi presto, una volta tanto. Quella è sua moglie,
eh?” aggiunse, scrutando ferocemente Sally, che stava faticando
assai a reprimere i propri sentimenti mentre suo fratello veniva
messo in croce.
“No, sir, è mia sorella,” disse Roddy.
“È lo stesso,” disse sua signoria.
“No, lord Pomfret, non è la stessa cosa,” si intromise la signora
Barton. “Qui non siamo nell’antico Egitto.”
A quella osservazione sua signoria esplose in una risata sconcertante. Poi si alzò e Alice, che per tutto il tempo aveva trattenuto
il respiro, vide la salvezza e si rilassò un poco, quando con suo
orrore lord Pomfret si rivolse a sua madre e disse: “I vostri ragazzi
verranno da noi il 23, signora Barton? Mia moglie è qui di rado,
e vorrei che avesse il piacere di fare la conoscenza dei suoi figli”.
La signora Barton, sempre commossa quando lord Pomfret la-
sciava che la propria cortesia innata avesse la meglio sulle brutte
maniere diventate ormai la sua seconda natura, gli prese la mano.
“Saranno felicissimi di venire,” disse. “E io spero di riuscire a
vedere sua moglie, fintanto che è qui. A Firenze anni fa era stata
così gentile nei miei confronti.”
Alice non riuscì a sopportare oltre. Per mezz’ora aveva vissuto
nel terrore di lord Pomfret e adesso sua madre la stava gettando
viva nelle fauci di quell’uomo. La disperazione le diede coraggio.
Si alzò e disse timidamente: “Oh, mamma…”.
Lord Pomfret guardò nella direzione da cui proveniva il suono
e vide quella che mentalmente descrisse come un mucchietto di
ossa che lo osservavano come se lui fosse stato un assassino pronto a torcerle il collo. Però non era uno stupido.
“La sua figliola non vuole venire, eh?” disse alla signora Barton. “È timida, o una roba del genere? Le dica di fare quello che
vuole. Quanto a lei,” aggiunse, rivolgendosi a Roddy, “farebbe
bene a venire e a portare con sé sua sorella. Dirò a mia moglie di
mandarvi un invito come si deve.”
Roddy ringraziò il datore di lavoro e disse che sarebbero andati volentierissimo. La signora Barton, che con vera gentilezza
d’animo non aveva rivolto un’occhiata di rimprovero, e in realtà
neppure un pensiero di rimprovero in direzione della figlia, chiese se la festa sarebbe stata un ricevimento con tanta gente.
“Venti o trenta persone. Non so esattamente,” disse lord
Pomfret. “Spero che mia moglie si divertirà. Io no di certo. Ha
invitato quella donna che ha sposato il mio povero cugino.”
“Sta parlando della signora Rivers?” disse la signora Barton,
che spesso aveva avuto l’onore di sentirsi elencare i parenti di
sangue o acquisiti per cui sua signoria nutriva una particolare
avversione.
“Sì, di quella parlo,” disse il conte, “e vorrei tanto non doverlo
fare. Con tutte le arie che si dà, quella donna ha rincitrullito quasi del tutto il povero George. Non si può parlare d’altro che dei
suoi libri. Non andrei mai a stare da George nell’Herefordshire.
Non fa che insistere su quanto lei sia una letterata. Suppongo che
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George sarà grato per questa occasione di sbarazzarsene. Pagherebbe qualunque cifra per avere un po’ di pace. Io quelle donne
letterate non le digerisco. Lei non è letteraria, ecco, per questo
mi piace, signora Barton. Non tormenta un uomo blaterando di
libri come fa Hermione Rivers. Sono contento di averla vista.
Wicklow, non si dimentichi, lei e sua sorella, da venerdì a lunedì.”
Mentre era in corso questa conversazione, Alice aveva avuto
il tempo di maturare una decisione. Si vergognava del suo sbotto
infantile, sapeva che sua madre sarebbe rimasta delusa, ricordava
che a Guy avrebbe fatto piacere averla accanto. Quando lord
Pomfret aveva invitato i Wicklow, tutto era apparso più facile.
Sally, che non aveva paura di nulla, le avrebbe dato man forte
contro le cameriere, e la presenza di Roddy avrebbe fatto sì che
andasse tutto bene. Nel caso si fossero presentate evenienze orribili come danze o giochi, Roddy certamente l’avrebbe protetta.
Senza dar tempo alla propria risolutezza di raffreddarsi, Alice
si fece coraggiosamente avanti e, porgendo la mano, disse: “La
ringrazio molto, lord Pomfret, e sarò assai lieta di partecipare”.
“Prego?” disse sua signoria, che stava tornando rapidamente
all’umore solito. “Oh, sì, venite pure, tu e tuo fratello. Ma non
prendertela con me se non ti diverti.”
Poi concedette a Horton di aiutarlo a rimettersi la giacca,
chiese se quel lurido cane fosse già stato abbattuto, ripeté la sua
profezia che un incendio notturno prima o poi avrebbe raso al
suolo l’intera casa, e se ne andò.
Presero congedo anche i Wicklow, e poco dopo rientrarono a
casa il signor Barton e Guy. Poiché il padre e il fratello di Alice
avevano dato per scontato che lei si sarebbe dimostrata ragionevole e alle Towers ci sarebbe andata, della faccenda non si parlò
praticamente più. La signora Barton si astenne da ogni ulteriore commento sul comportamento della figlia e si ritirò nel suo
mondo privato, mentre Alice passò una serata lacerata, a tratti
pentendosi di aver accettato l’invito e a tratti ripetendosi che con
Roddy e Sally presenti sarebbe andato tutto bene.
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