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Fare la metropoli
Cesare De Michelis*
Marsilio Editori, Venezia
In Italy, and in the Veneto area in particular, the discussion
about a urban-metropolitan area that can involve several
towns in order to organize similar facilities as transportation,
directional functions or universities, conducted to an unclear
regulation. Instead of enforcing PATREVE (Padova, TREviso and Venezia), local organizations continued to behave
like administrative reforms had never taken off. If the local
system cannot drive this change, it would be hard for production activities to meet the global challenge.
[JEL Classification: Y4].
Keywords: metropolis, Venice.
* <[email protected]>.
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Dopo un confronto estenuante e dopo reiterate decisioni politiche che hanno
comportato una modifica della stessa carta costituzionale l’arrivo, ogni volta rinviato, della “città metropolitana” ha consumato ogni sapore di novità e ogni speranza di cambiamento, anzi i caratteri più propriamente amministrativi della
nuova istituzione si sono progressivamente alterati e confusi, cosicché, piuttosto
che una semplificazione degli strumenti di governo del territorio, quest’ultimo si
presenta di fatto come un’ulteriore complicazione, fino a confondersi, quanto
meno nel caso veneziano, con l’appena cancellata provincia, riducendosi, dunque,
a un insignificante gioco di parole che poco cambia ed elude, invece, le grandi
questioni urbane che ne avevano sostenuto la costituzione e sollecitato l’urgenza.
Proviamo, quindi, a ripartire da capo per vedere se la città metropolitana ha ancora un senso nel contesto attuale: soprattutto nel Veneto, alla fine degli anni Settanta appariva chiaro e per qualche aspetto inquietante il mancato sviluppo dei
processi di urbanizzazione che avevano altrove caratterizzato le trasformazioni sociali
prodotte dalla modernizzazione. Resisteva, e tuttora resiste, una diffusa pluralità di
centri urbani di piccole o medie dimensioni fortemente competitiva che aveva prodotto e continuerà a produrre la moltiplicazione di istituzioni e di servizi, tutti progettati su una scala municipale troppo ridotta per poter ambire a livelli qualitativi
di eccellenza, anzi, persino alcune istituzioni secolari, come l’università, sotto la
spinta di una scolarizzazione più diffusa, moltiplicarono sedi, facoltà e corsi di laurea
senza nessun coordinamento e senza l’ombra di un disegno programmatorio.
Il risultato inevitabilmente fu l’appiattimento al ribasso della qualità dei servizi
offerti e la crescita esponenziale dei loro costi di gestione con l’aggiunta di una
conflittualità locale nella quale si esaurivano le risorse materiali e immateriali a
disposizione: in questo stato di fatto la città metropolitana avrebbe dovuto intervenire allargando significativamente la scala territoriale del governo urbanistico e
ridisegnando la distribuzione delle funzioni per evitare sprechi e inutili doppioni.
In questa prospettiva veniva archiviata la velleitaria stagione del “decentramento”,
che durante gli anni Settanta, in nome di un egualitarismo radicale, aveva cercato
di azzerare qualsiasi gerarchia, e si tendeva a ridisegnare il territorio secondo logiche
finalmente “moderne”, nel senso che andavano oltre la centuriazione romana, la
parcellizzazione feudale, e persino le province napoleoniche, e si declinavano in funzione di una industrializzazione diffusa e di una terziarizzazione in crescita.
Per Venezia la scelta metropolitana azzerava qualsiasi pretesa di autosufficienza
avesse resistito al suo interagire con la terraferma, come d’altronde era avvenuto
già da molti secoli, non appena l’egemonia mercantile e portuale nell’Adriatico e
nel Mediterraneo aveva mostrato le prime crepe, e richiedeva pertanto un sistema
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di trasporti che consentisse un interscambio veloce tra le diverse aree territoriali
superando la separatezza dell’insularità e, per altro verso, accelerasse i processi di
integrazione europea. La scala metropolitana sembrava la strada maestra per accelerare i processi di innovazione e razionalizzazione in un contesto nel quale resistevano specificità e identità che non si potevano cancellare senza impoverire le
tradizioni e ferire le sensibilità della popolazione residente.
La presenza diffusa di segnali unificanti nel territorio regionale, e anche al di
là di esso – e bastino i leoni di San Marco presenti dalla Dalmazia sino a Bergamo
almeno, o le migliaia di ville che presidiavano le campagne e ne organizzavano il
sistema produttivo –, sembrava anticipare l’unificazione amministrativa e suggerire i nuovi confini territoriali che cominciarono a essere indicati con la sigla interprovinciale PATREVE, che aggregava più o meno un milione di abitanti e un
sistema industriale ben caratterizzato in senso manifatturiero e molto integrato
nella società familistica veneta.
Da quando l’idea di dare attuazione alla nuova istituzione amministrativa è
tornata all’ordine del giorno sulla scena politica, tuttavia, su ogni disegno di governo urbano (urbanistico) del territorio è prevalsa l’urgenza riformatrice di innovare il sistema, con il risultato che hanno assunto crescente importanza gli
aspetti normativi, anche a costo di sacrificare ulteriormente i temi più concreti
che avrebbero inciso nella vita quotidiana dei residenti, nell’organizzazione della
loro giornata lavorativa, imponendo conseguentemente l’adozione di regole più
incisive ed efficaci.
Così siamo ancora in mezzo al guado e quando, il prossimo anno, si andrà a
votare per il rinnovo degli Enti Locali – Regioni e Comuni – non sarà ancora definita la ripartizione delle competenze e ancor meno la definizione delle priorità,
con il rischio che le questioni si ingarbuglino piuttosto che semplificarsi e che di
nuovo tutto si areni nel “dibattito”, mentre sarebbe auspicabile che i processi di
integrazione venissero avviati concretamente persino in assenza delle definizioni
normative, come in qualche caso sta accadendo secondo logiche difficilmente
condivisibili: per un verso i tram di Padova e di Venezia, nei fatti eguali, hanno
adottato diversi sistemi di bigliettamento mentre non riescono a condividere
l’esperienza tecnica e gestionale, per l’altro, in barba alla PATREVE, la Camera
di Commercio veneziana cerca la sopravvivenza unendosi con Rovigo, mentre associazioni e sindacati sono saldamente ancorati ai moduli territoriali che stanno
per finire in soffitta.
Forse una società e un’economia in perenne trasformazione avrebbero bisogno
di articolazioni territoriali niente affatto statiche, anzi capaci di adeguarsi, se non
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di anticipare, il cambiamento e, quindi, duttili, elastiche, efficienti, mentre la tradizione giuridica e legislativa del Paese tende a definizioni perentorie e resistenti,
le quali spesso invecchiano prima di essere adottate.
Da tempo si va diffondendo, soprattutto nei ceti produttivi, l’idea che siano
decisivi per rimettere in moto lo sviluppo la cultura (o acculturazione) e l’innovazione (o ricerca), le quali dovranno misurare i propri risultati, piuttosto che
nell’astratto universo dello spirito, nella concreta esperienza del manifatturiero,
dove questo territorio ha saputo vincere sfide importanti anche in questi decenni.
Ebbene non ci saranno culture e innovazioni vincenti senza un uso diverso delle
risorse umane ed economiche, senza una piattaforma organizzativa pronta a recepire tempestivamente le domande del mondo produttivo o – che è lo stesso –
senza lo spreco di una burocrazia autoreferenziale che misura i risultati sulla propria soddisfazione come accade puntualmente oggi.
Nel Veneto straordinarie opportunità vengono dallo sviluppo di un turismo
differenziato e globale che constatiamo ogni giorno non cresce da solo, anzi abbandonato a se stesso produce disordine, insofferenza e ingorghi continui, con il
risultato che i maggiori sforzi sono concentrati nel contenere, se non ridurre, la
pressione della domanda, mentre, invece, la concorrenza immagina servizi ed
esperienze sempre più accattivanti.
Che la competizione vada a finir male non è difficile prevederlo: finiremo per
contenderci tra di noi quel poco di turismo povero e disordinato che ci toccherà,
avendo lasciato passare i flussi più ricchi e pregiati.
Le crociere sono già in parte finite a Trieste e la portualità veneziana viene letteralmente aggredita dalla competitività dei porti vicini infastiditi dalla visionaria
progettualità del terminal off shore; poco diversa è la sorte del sistema aeroportuale
o ferroviario perennemente sottoposto a nuovi interminabili esami e a sempre
più stringenti vincoli: lo slogan “No Grandi Opere” annuncia un minimalismo
sempre più invadente e tradisce un’orgogliosa autosufficienza fondata sulle ricchezze e le glorie accumulate dalla storia, le quali tuttavia non resisteranno a lungo
alla “decrescita” che immaginata “felice” si rivelerà in fretta disperante.
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