l`imposta sul reddito delle persone fisiche: principi generali

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l`imposta sul reddito delle persone fisiche: principi generali
Adriano Di Pietro*
L’imposta sul reddito delle persone fisiche:
principi generali
Sommario: 1. Attualità dei principi dell’Irpef. – 2. Personalità dell’imposta. 2.1 Il contributo
del reddito come categoria unitaria. 2.2. Tradizione ed innovazione nella soluzione adottata con la riforma. 2.3. Supporto all’evoluzione normativa. 2.4. La sfiducia nella categoria
unitaria e generale di reddito. 2.4.1. L’affermazione delle categorie di reddito e delle fattispecie di equiparazione. 2.4.2. Il regime dei proventi da illecito – 3. Sfiducia nel reddito
unitario e crisi della personalità. 3.1.Personalità e reddito complessivo. 3.2. Personalità,
reddito complessivo e criteri di determinazione delle categorie di reddito – 4. Personalità
e territorialità dell’imposizione – 5. Personalità e progressività – 6. Conclusioni.
1. Attualità dei principi dell’Irpef
Il ruolo dei principi anche per l’Irpef, come per altre imposte dell’ordinamento
tributario, è andato scemando, dopo il 1974, data di entrata in vigore dell’imposta. Ha subito l’affermazione progressiva di una disciplina positiva sempre
attenta più alle soluzioni specifiche che alla visione sistematica che pur aveva
ispirato l’Irpef fin dalla sua introduzione. Anche per l’Irpef i principi sono stati utili per giustificare scelte di politica fiscale che avevano trovato nella legge
delega 9 ottobre 1971, n.825, un formale riconoscimento. In tal senso avevano
ispirato addirittura l’innovativo modello d’imposizione sui redditi che la riforma
aveva introdotto. Questa aveva previsto, infatti, all’art.2 che l’Irpef avesse carattere personale e progressivo, che fosse applicata al reddito complessivo netto delle
persone fisiche, comunque conseguito, comprendendo tutti i redditi propri del
soggetto, compresi quelli altrui dei quali avesse la libera disponibilità.
Tali principi dunque avrebbero dovuto presidiare il quadro sistematico definito dalla riforma, assicurandone anche la coerenza negli anni futuri. Avrebbero
dovuto ispirare, di conseguenza, anche quella normazione successiva che, dopo
la riforma, sarebbe stata prevedibilmente necessaria per adeguare il modello
riformatore originario alle mutazioni del quadro economico giuridico e sociale.
Con il rispetto dei principi si sarebbe così preservata, anche con un’evoluta successione normativa, la stessa coerenza sistematica cui il quadro riformatore si
era ispirato nel momento in cui aveva riconosciuto che un’imposta personale e
progressiva avrebbe dovuto essere la soluzione per realizzare il miglior riparto
del sacrificio impositivo nella ricchezza reddituale, senza nemmeno doversi arrestare ai confini nazionali per i soggetti residenti in Italia.
Tale trasformazione normativa, prevedibile dopo la riforma, ha provocato invece un’instabilità normativa che dura tuttora. Con il passare degli anni, la disciplina dell’Irpef ha cercato di realizzare obiettivi, finalità ed interessi contingenti,
specifici, settoriali ed anche minuti. Tali rimangono, anche se le ispirazioni di
tale instabilità sono state varie e, qualche volta, specificatamente condivisibili.
(*) Università di Bologna Alma Mater Studiorum.
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In coerenza, sono state adottate soluzioni o per evitare possibilità od occasioni
di sottrazione d’imponibile, temute o manifestate, o per agevolare o semplificare
l’attività di controllo e quindi di accertamento dell’amministrazione finanziaria,
o per risolvere confronti interpretativi irrisolti, anche se spesso facendo prevalere gli interessi finanziari erariali. Un’instabilità alimentata nel tempo da sempre
più frequenti ed anche contraddittori interventi; caratterizzata da un’insistenza
ed una continuità quasi periodica, anche per la forza delle leggi finanziarie che
solo esigenze di finanza avrebbero potuto imporre. Troppo forti le sollecitazioni
finanziarie e ripetute le modifiche perché lo stesso testo unico del 1986, possa,
ancora, svolgere la propria funzione: quella di dare alla disciplina dell’Irpef un
assetto normativo unitario, coerente ed organico.
L’occasione più recente, per valutare l’attualità degli stessi principi di personalità, progressività, unità del reddito complessivo, una volta che il quadro
riformatore fosse stato così compromesso dall’instabilità normativa successiva, è
stata offerta dalla riforma del 2003. È rimasta, invece, notoriamente incompiuta.
Ha investito le società di capitali con una nuova imposta, l’Ires, ma non è riuscita ad adeguare l’imposta personale al quadro riformatore. Così l’Irpef si trova
oggi a dover conciliare principi originari, sempre meno efficaci, quali personalità,
progressività e territorialità, senza aver più quel collegamento coerente con le
categorie reddituali, con i regimi persone fisiche e società; dopo aver perduto
la propria centralità sul reddito d’impresa, attribuito ora all’Ires, che il disegno
riformatore nel 1971 le aveva consegnato.
2. Personalità dell’imposta
2.1 Il contributo del reddito come categoria unitaria
La personalità che si era posta nel 1971 come uno dei principi ispiratori
dell’Irpef avrebbe dovuto, in termini giuridici, conciliare reddito complessivo e
relativo possesso.
Il primo, avrebbe dovuto essere la naturale misura della ricchezza imponibile
ed il secondo il criterio della sua attribuzione ad uno stesso soggetto. Entrambi, si sarebbero dovuti riferire a quel reddito sulla cui definizione e sulla cui
qualificazione, come ricchezza, il dato giuridico aveva scontato le incertezze e le
ambiguità, anche nell’ordinamento prima della riforma del 1971. Una ricchezza,
già con il testo unico delle imposte sui redditi del 1958, contesa tra un carattere
economico ed un altro giuridico. Entrambi, operanti nella contrapposizione tra
ricerca di una fonte produttiva e misura dell’arricchimento della persona fisica. La
differenza rispetto all’assetto che il testo unico del 1958 aveva dato per le imposte
reali, su cui la scelta riformatrice del 1971 aveva dovuto misurarsi, non era tanto
sui modelli d’imposizione, una volta che fosse stata decisa la centralità dell’Irpef
come imposta personale. Si era concentrata, invece, sui caratteri del reddito, privilegiandone fonte, ancora incerta se giuridica od economica ed individuandone
modalità e definitività dell’acquisizione. Così definito, il reddito avrebbe dovuto
esprimere, come misura di partecipazione alle spese pubbliche con imposta personale, quello che era stato ritenuto il miglior riparto fiscale. Ciò in riferimento
ad una ricchezza che avrebbe poi trovato nella portata o nell’ampiezza dell’ambito
di applicazione e nell’imputabilità ad una persona fisica, i relativi corollari.
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2.2. Tradizione ed innovazione nella soluzione adottata con la riforma
Una soluzione, quella della riforma, che avrebbe dovuto apparire ordinata,
perché cercava di conciliare tradizione ed innovazione. Aveva confermato fiducia
in un reddito collegato alla fonte, quale veniva dall’esperienza dell’imposizione
reale precedente la riforma del 1971. Aveva utilizzato però un modello impositivo, personale, del tutto nuovo, come quello dell’Irpef, rispetto alle previgenti
imposte di ricchezza mobile e complementare sul reddito complessivo. Dall’esito di tale combinazione sarebbe dipesa, infatti, l’imposizione o meno di alcune tipologie di ricchezza, l’ampiezza della base imponibile, l’attribuzione ad un
soggetto, persona fisica. La quantificazione del reddito e, di conseguenza, il calcolo di quello complessivo, era rimessa invece alle diverse categorie di reddito.
Queste avrebbero dovuto svolgere così un ruolo ancillare rispetto alla categoria
unitaria. La disciplina di ciascuna avrebbe dovuto mettere in evidenza caratteri
originali e differenziati che non avrebbero potuto essere in contraddizione con
quelli generali della categoria unitaria di reddito che manteneva il proprio ruolo
centrale. Per questo quindi una loro eventuale inadeguatezza a rendere coerente
la singola categoria con quella generale, non avrebbe potuto incidere sull’applicabilità dell’Irpef. A questo avrebbe potuto ben sopperire la categoria unitaria
e generale del reddito.
Le definizioni delle singole categorie non avrebbero potuto, infatti, essere
sempre, come sarebbe successo per il reddito di lavoro dipendente, per quello di
lavoro autonomo e quello d’impresa, adeguate ad impreviste situazioni giuridiche
o a mutamenti del mercato o dei traffici giuridici. Le stesse soluzioni normative adottate per integrare o arricchire le categorie reddituali avrebbero dovuto
essere funzionali ad evitare occasioni di elusione o di evasione o a semplificare
l’attività di accertamento. Non potevano quindi che essere riferite a fattispecie
specifiche che la sola definizione delle categorie di reddito non avrebbe saputo
o potuto prevedere. Un ruolo, questo della categoria generale, che si sarebbe dovuto dimostrare tanto più efficace quanto più sarebbe potuto ricorrere a quella
clausola contenuta nell’art. 100 dell’originario decreto istitutivo dell’Irpef. Questo
permetteva di ricondurre a tassazione nella categoria residuale dei redditi diversi
quelle ricchezze che, pur qualificabili come redditi nel rispetto della categoria
generale, non fossero stati però compresi nelle altre categorie reddituali proprio
per valorizzare la logica dell’imposizione personale.
2.3. Supporto all’evoluzione normativa
Una soluzione, questa della centralità della categoria unitaria di reddito, presentata come coerente. Avrebbe dovuto permettere di adeguare continuamente
l’imposizione sul reddito all’evoluzione delle attività economiche e dei traffici
giuridici senza correre il rischio di alterare il criterio di riparto del sacrificio
economico che la riforma aveva voluto adottare con un’imposta personale e sul
reddito complessivo come l’irpef. Bisognava pur sempre evitare che le trasformazioni economiche e giuridiche potessero produrre ricchezze che non rientrassero
nell’ambito di applicazione dell’Irpef, indebolendone non adeguandone la personalità così come definita in origine. Bisognava nello stesso tempo mantenere
il ruolo d’integrazione delle categorie di reddito che, nel rispetto del modello
riformatore, le scelte positive di equiparazione avrebbero dovuto svolgere.
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Tale capacità di adattamento del reddito e delle relative categorie ha pagato
però con l’incertezza la propria progettata efficacia. Ha dovuto affidare alla prassi
o alla giurisprudenza il compito d’interpretare le singole categorie di reddito e,
soprattutto, il loro collegamento con la categoria generale di reddito. Un impegno indispensabile quando le stesse categorie si fossero dimostrate inadeguate
ad offrire uno specifico regime alle nuove fattispecie che la realtà economica o
l’evoluzione giuridica a mano a mano avessero offerto.
La soluzione alternativa, nella ricerca della certezza, non avrebbe potuto essere che quella di ricorrere al diritto positivo. Questo ha portato ad arricchire
con fattispecie specifiche le definizioni generali delle categorie reddituali. Ha
intensificato il ricorso allo strumento normativo dell’equiparazione, attribuendo
lo stesso regime fiscale anche a fattispecie che non avrebbero potuto essere considerate come una specificazione della singola categoria di reddito. Il fenomeno
ha investito e continua ad investire non solo singole categorie come lavoro dipendente, lavoro autonomo, impresa, ma anche loro componenti com’è avvenuto
per il reddito d’impresa.
2.4. La sfiducia nella categoria unitaria e generale di reddito
2.4.1. L’affermazione delle categorie di reddito e delle fattispecie di equiparazione
Il sacrificio della coerenza in nome della certezza non avrebbe dovuto mettere
in discussione l’originario quadro sistematico dell’Irpef come imposta personale.
Il sacrificio invece si è consumato già con il testo unico del 1986, con la resa
al diritto positivo, con la sfiducia per una categoria generale di reddito, con
la centralità delle categorie reddituali, nonostante l’Irpef continuasse ad essere
considerata come imposta personale.
D’altra parte la sempre più diffusa affermazione delle soluzioni positive di
equiparazione per singole fattispecie ha accentuato il carattere non sistemico
dell’Irpef. Ha aggravato l’eterogeneità della valutazione delle categorie di reddito, con diretta conseguenza sulla composizione del reddito complessivo. Ha, in
ultima analisi, indebolito progressivamente la personalità dell’Irpef che il solo
limite interpretativo, dato dallo stesso sistema delle norme, non avrebbe potuto
risolvere. Una certezza, quindi, quella affidata alla moltiplicazione delle fattispecie imponibili, che si è rivelata più apparente che reale. Infatti, esaurisce
l’efficacia dell’interpretazione nello stesso dato testuale di riferimento. Impedisce
così, giuridicamente, di accedere a quell’interpretazione sistematica e funzionale
che avrebbe consentito di seguire più e meglio l’evoluzione applicativa di categorie di reddito qualificate per caratteri generali e non per fattispecie specifiche
e tipizzate.
I limiti interpretativi che il dato normativo pone per queste ragioni ha costretto quindi il legislatore a ricorrere ad altre ed ulteriori integrazioni normative, attivando di conseguenza un vero e proprio corto circuito normativo, con
ulteriore crisi dell’originaria qualificazione della personalità dell’Irpef.
2.4.2. Il regime dei proventi da illecito
Dalle scelte delle categorie di reddito avrebbe dovuto dipendere poi anche
l’esito della tassazione dei redditi da illecito. Questi avrebbero dovuto rappresentare, almeno negli intendimenti del legislatore, che era intervenuto fuori dal
testo unico (art. 14, comma 4 della legge 24 dicembre 1993, n.537), un regime
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a chiusura del sistema, anche a conferma della piena attuazione del principio
di personalità dell’Irpef. Una volta rimessa la loro tassabilità alla loro corrispondenza ad una delle categorie di reddito, il legislatore aveva inscindibilmente
legato il loro destino a quello della certezza e della stabilità delle categorie di
riferimento. In definitiva, aveva condizionato la piena efficacia della tassazione
dei proventi da illecito alla completa personalizzazione dell’Irpef. Quando questo obiettivo rischia di essere messo in discussione per l’incertezza sulle categorie reddituali, lo stesso legislatore non esita, molti anni dopo (art.16 del DL 4
luglio 2006, n. 223) a perseguire la personalizzazione dell’Irpef d’imperio, con
una formula, addirittura, d’interpretazione. Fa annoverare i proventi non classificabili in una delle categorie in quella residuale dei redditi diversi. Il risultato
acquisito è quella della personalizzazione. Il prezzo però è quello di una perdita
definitiva o del sacrificio di ogni sistematica in cui collocare la tassazione dei
proventi da illecito.
3. Sfiducia nel reddito unitario e crisi della personalità
Aver dato completa fiducia al dato positivo per l’Irpef, come ormai ha dimostrato di voler fare il testo unico, ha messo in crisi la funzione unificante del
reddito e, forse, anche cancellato la speranza in una sua utilità. Ha valorizzato
il reddito complessivo come somma dei redditi delle diverse categorie. Queste
attualmente non sono più quindi una specificazione un’attuazione, in ragione di
fonti diverse, di una categoria unitaria: quella reddituale. Corrispondono, invece,
a scelte di diritto positive che hanno voluto o soddisfare esigenze di completezza
della disciplina Irpef e di relativa certezza o contribuire a semplificare l’attività
di controllo e di accertamento, quando fosse resa difficile dall’interpretazione
delle categorie reddituali
3.1. Personalità e reddito complessivo
Il risultato è che, con l’instabilità normativa che ha investito il testo unico,
la personalità dell’Irpef ha finito con il corrispondere al reddito complessivo.
Avrebbe dovuto rappresentare solo l’esito della valutazione, della determinazione
e non l’applicazione di uno dei principi qualificanti l’Irpef. Se non riesce più ad
esprimere la misura del reddito imponibile come previsto nella riforma, fatica
anche ad essere considerato come corollario della personalità dell’Irpef.
La sfiducia nella categoria unitaria del reddito a tutto favore delle singole
categorie reddituali, a loro volta ormai affidate alle scelte di diritto positivo,
non può quindi non influire sullo stesso assetto del reddito complessivo. Questo
non può evidentemente rimanere estraneo agli esiti del diritto positivo che hanno inciso sulle categorie reddituali, regolandole minutamente, differenziandole,
giungendo a riconoscere in via esclusiva il ruolo di definire l’ambito di applicazione dell’Irpef. Anche il reddito complessivo mostra un’eterogeneità che non gli
consente di confermare la dimensione quantitiva della personalità. Trova, infatti,
solo nel semplice calcolo, dato dalla somma algebrica di categorie reddituali,
divenute eterogenee, l’elemento unificante. In questa logica si può anche accettare il cambio delle regole di calcolo senza temere di attentare alla personalità,
com’è avvenuto quando le perdite del reddito d’impresa o di lavoro autonomo
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che, in nome della personalità dell’Irpef, erano state previste come componenti
del reddito complessivo che avrebbero contribuito a realizzare, sono state ridotte
a componenti interne dei redditi di riferimento di cui così seguono le vicende.
3.2. Personalità, reddito complessivo e criteri di determinazione delle categorie di
reddito
Sul confronto personalità-reddito complessivo incidono anche i criteri di determinazione dei redditi delle diverse categorie. Le differenze appaiono particolarmente evidenti per i redditi da attività. La distinzione tra quelli d’impresa
agricola, commerciale e di lavoro autonomo era molto netta con l’entrata in
vigore della riforma e tale si era mantenuta anche con il testo unico del 1986.
Accentuava così le già rilevate differenze tra i criteri di determinazione delle
varie categorie reddituali. Questi, infatti, erano affidati ad un reddito ora medio,
ora contabile, ora limitato ad alcune componenti essenziali. Più però si accentuavano le differenze, più la composizione del reddito complessivo veniva differenziata e più, in ultima analisi, ne soffriva la personalità dell’Irpef. Ricondotta,
così, non più, come in precedenza, a tipologie di reddito, ma a misure diverse
delle categorie di reddito. Può così apprezzarsi lo sforzo compiuto sullo stesso
testo unico con modifiche ed integrazioni successive al modello che emergeva
dalla riforma del 1971. Si è cercato se non di unificare, almeno di avvicinare i
criteri e la determinazione del reddito delle menzionate categorie, riducendo le
differenze che erano state, in origine, introdotte. Così, la determinazione, secondo criteri contabili e non catastali del reddito proveniente dall’attività agricola
riguarda oggi tutti gli organismi societari, società sia di capitali sia di persone,
indipendentemente quindi dal loro regime d’imposizione. Per le imprese individuali il tentativo è sicuramente più timido, anche se pur sempre significativo
nella direzione di abbandonare la rigidità del criterio catastale. In tal senso va
interpretata la possibilità, offerta all’art.56bis del testo unico alle imprese individuali, di avvalersi di un regime di determinazione certamente semplificato, ma
pur sempre collegato ai ricavi e non più alle rendite catastali.
Il reddito di lavoro autonomo si è arricchito di componenti positivi e negativi, sconosciuti in precedenza ed importati direttamente dalla determinazione
del reddito d’impresa. Tali, infatti, plusvalenze e minusvalenze, beni immateriali, quote di ammortamento che concorrono oggi, dopo le integrazioni apportate
all’art.54 del testo unico, a formare il reddito di lavoro autonomo. Sono inoltre
sottoposti al controllo con lo stesso metodo degli studi di settore applicabile alle
imprese, anche se evidentemente con parametri diversi.
Il reddito d’impresa, a sua volta, ha perduto quell’unità che ne aveva fatto un
punto di riferimento per le altre categorie di reddito collegate ad attività. Non
ha più nemmeno la centralità sulle imprese individuali rispetto alle società di
capitali che il testo unico, fino alla riforma del 2003, gli aveva riconosciuto e
che gli è stato sottratto a tutto favore delle società di capitali, una volta introdotta l’Ires dal 2004. Il reddito d’impresa inoltre non può più contare nemmeno
sull’applicazione generalizzata del principio di derivazione dai risultati del conto
economico che era apparso come un elemento tanto innovativo quanto unificante
nel modello riformatore del 1971. Da un lato si fa prevalere la dimensione delle
imprese individuali che, come minori, siano tenute alla contabilità semplificata.
Senza obbligo della contabilità ordinaria, infatti, è giustificato che tali imprese
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possano determinare il loro reddito con la semplice contrapposizione di componenti positive e negative, prescindendo dalla contabilità ordinaria oppure, se
appartengono ad alcuni settori produttivi, possano beneficiare di criteri di forfetizzazione delle spese. Dall’altro si definisce il rapporto con i principi contabili
internazionali, vincendo l’originaria diffidenza ad applicare integralmente in questi casi il principio di derivazione. Si è, infatti, ben consapevoli che i principi
contabili internazionali sono ispirati ad obiettivi di valutazione dell’investimento
produttivo ben diversi da quelli della tutela dei terzi che avevano giustificato
l’originaria scelta di derivazione nel modello riformatore del 1971. La diffidenza
era tanto più giustificata in Italia, ove, con una scelta legislativa originale rispetto
agli altri Paesi dell’Unione, si era esteso anche ai bilanci di esercizio l’adozione,
pur per opzione, dei principi contabili che erano obbligatori solo per gruppi
società operanti nei settori bancario ed assicurativo e per le società quotate.
Una volta accettato però che tali principi fossero efficaci anche ai fini fiscali,
art.83, ultimo comma del testo unico, con la conseguenza che le relative risultanze concorressero a formare il reddito d’impresa, si è però anche contribuito a
disarticolare ulteriormente la determinazione del reddito d’impresa e ad indebolire l’effetto generalizzato del principio di derivazione. Questo, infatti, può, oggi,
fare origine a redditi in misura diversa, pur con riferimento alla stessa attività,
a seconda che l’impresa o la società rediga il bilancio adottando o meno i principi contabili. Ciò come effetto dell’abbandono, per molte componenti del conto
economico, del costo storico che la derivazione dal conto economico tradizionale
aveva certo, per tanti anni, esaltato e che i principi contabili internazionali negano come principio generalizzato di valutazione delle componenti negative.
4. Personalità e territorialità dell’imposizione
Concorre anche a definire la personalità dell’Irpef un rapporto tra imposta
e territorio che privilegi la residenza della persona fisica rispetto alla fonte del
reddito. Tale coerenza però ha richiesto soluzioni normative che ben consentano
di individuare la residenza ai fini fiscali. La scelta italiana di ricorrere ad una
pluralità di soluzioni, ciascuna autonomamente applicabile, come si può desumere dall’art.2 del testo unico, avrebbe potuto essere considerata coerente con
la preoccupazione di esaurire tutte le possibili combinazioni di relazioni della
persona fisica con il territorio: da quella collegata al dato formale dell’iscrizione
nell’anagrafe, a quella della residenza, fino a quella del domicilio, considerato
come centro di affari ed interessi. Moltiplicare quindi i criteri per definire il
rapporto tra contribuente e territorio è servito ad utilizzare il maggior numero
di ipotesi che concorressero alla definizione della residenza ai fini fiscali.
Tale moltiplicazione ha permesso così alla residenza di svolgere, al meglio ed
in maniera esauriente, una precisa funzione impositiva ed anche di dare piena
efficacia al principio di personalità dell’Irpef. In nome di questa quindi si deve
ricondurre nel reddito complessivo tutto quanto prodotto dalla persona fisica, anche all’estero. Non si può consentire dall’altra parte che la stessa personalità sia
messa in discussione, adottando una residenza estera che sottragga all’Italia ed
all’Irpef i redditi prodotti all’estero e le lasci, secondo la logica dell’imposizione
secondo la fonte, solo quelli prodotti in Italia ma come non residenti.
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Questa logica nazionale è coerente con la personalità dell’imposizione nel
territorio. Trascura però tutte le conseguenze di tale scelta italiana, di moltiplicare i criteri di collegamento territoriale del residente, nei confronti degli ordinamenti di altri Stati. Anch’essi possono, com’è nella loro sovranità, adottare
criteri d’imposizione nazionale legati ad una residenza così variamente individuata come nel testo unico italiano. Questo quindi può provocare un conflitto
tra l’ordinamento italiano e quello di altri Stati a causa appunto dei sempre più
numerosi casi di doppia residenza come conseguenza della moltiplicazione dei
criteri nazionali per stabilire la residenza e rendere più efficace la personalità
dell’imposta sui redditi.
Il conflitto, pur risolvibile con il ricorso alle convenzioni, è, comunque, diventato sempre più acuto a mano a mano che, soprattutto nell’ambito della Unione
Europea il venir meno delle frontiere fiscali e le libertà di circolazione hanno
sottratto ad una visione solo nazionale la ricerca della residenza. Più si sono
affermate le libertà comunitarie più però è aumentata la difficoltà dell’Italia,
come di altri Stati membri dell’Unione, a perseguire, con la residenza, la sola
logica virtuosa e coerente dell’affermazione della personalità. In nome di questa
l’Italia non avrebbe potuto accettare che sempre e comunque le si opponessero
gli esiti di una residenza estera con relativa sottrazione d’imponibile solo per
le difficoltà a verificare la corrispondenza di fatto e di diritto con il territorio
della residenza formalmente dichiarata. Si comprende, così, l’adozione di strumenti normativi di reazione a quelle pratiche elusive della residenza funzionali
proprio a beneficiare dell’applicazione più conveniente dell’imposizione personale
mondiale che tradizionalmente la caratterizza. La presunzione di residenza in
Italia per le persone fisiche residenti in paradisi fiscali fa prevalere sulla logica
di coerenza con la personalità, l’efficacia di soluzioni anti elusive, affidata proprio
all’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. Una tale presunzione marca in tal modo la differenza con il ruolo e l’applicazione dei criteri
generali di residenza per i quali permane la responsabilità dell’amministrazione
finanziaria di verifica e quindi di prova.
Non basta però la residenza a garantire da sola la dimensione territoriale
della personalità. La piena efficacia dell’Irpef a redditi prodotti all’estero da parte dei residenti dipende, anche in questo caso, così come per i redditi prodotti
nel territorio nazionale, sempre dall’assetto delle categorie di reddito che ormai
stabilmente definiscono l’ambito di applicazione dell’Irpef, una volta che sia stata
abbandonata la categoria unitaria di reddito. In questo caso però viene accentuata l’incertezza che s’incontra sul piano interno per qualificare i proventi, più
ricorrendo a fattispecie specifiche che utilizzando categorie di reddito, emergono le difficoltà di conciliare ricchezze che, prodotte all’estero possono derivare
o da situazioni di fatto di difficile ricostruzione o da situazioni di diritto che,
proprio perché riferite ad un ordinamento giuridico diverso da quello italiano,
non possono essere facilmente riconducibili o alle qualificazioni delle categorie di
reddito italiane o, soprattutto a quelle specifiche fattispecie che le arricchiscono
o, per i redditi d’impresa, alle singole componenti. Il ruolo del diritto positivo
in questo caso non risulta proporzionato alle aspettative che la piena efficacia
della personalità, anche sul piano territoriale, aveva alimentato.
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5. Personalità e progressività
Difficile, invece, accettare che si rispetti il principio di personalità dell’Irpef
quando solo alcune di categorie partecipino al reddito complessivo. Il principio
di personalità entra in conflitto in questi casi non con interessi costituzionalmente protetti, tali da giustificare esenzioni o riduzioni d’imponibile dell’Irpef,
ma con obiettivi riconosciuti funzionali non alla struttura dell’Irpef ma alla sua
applicazione. Tali, la certezza del prelievo, la speditezza e la tempestività della riscossione che hanno ispirato ed ispirano la diffusione di ritenute a titolo
d’imposta su singole categorie di reddito. Comprensibile quindi che il maggior
interesse si manifesti nei confronti di redditi di capitale corrisposti a persone
fisiche. L’incidenza è ampia anche se non sicuramente generalizzata. Investe interessi da obbligazioni, da depositi e conti correnti bancari e postali, anche se
con specifica attenzione per le persone fisiche non imprenditori, dividendi di
partecipazioni non qualificate, esiti delle gestioni patrimoniali, premi e vincite.
Tale incidenza è destinata poi a dilatarsi a mano a mano che si arricchisce la
categoria dei redditi di capitale con nuove fattispecie, come accade per gl’innovativi strumenti finanziari in cui non si distingue, con precisione, il rapporto di
scambio, da quello d’investimento da quello di partecipazione.
Per verificare il rispetto della personalità dell’Irpef rispetto al modello originario e la relativa efficacia, data dalla progressività che ha accompagnata l’Irpef fin
dal modello riformatore, bisogna affidarsi alla disciplina specifica e minuta che
la normativa sull’accertamento prevede. Consapevoli che questa non si presenta
certo sempre coerente con una visione di sistema che lo stesso testo unico non
è più in grado di offrire. È necessario inseguire il susseguirsi, mutarsi, integrarsi, definirsi di regimi fiscali che caratterizzano le singole fattispecie beneficiarie
della ritenuta d’imposta. Si finisce così con il piegare ad esse l’interpretazione.
Questa non potrà che essere testuale. Non potrà quindi beneficiare, per una necessaria certezza e stabilità interpretativa, anche degli altri criteri ermeneutici,
sopratutto di quello sistematico e di quello funzionale. Questi, infatti, valorizzano
o dovrebbero valorizzare l’applicazione di norme sistematiche in quanto coerenti
con i principi ispiratori dell’Irpef.
Anche la diffusione delle imposte sostitutive ha concorso ad indebolire la
personalità e la progressività dell’Irpef. In questi casi sono sottratte al reddito
complessivo fattispecie di reddito perchè sottoposte non, come per le ritenute, ad
un regime applicativo dell’Irpef, ma ad un tipo impositivo autonomo e diverso
dall’Irpef. Ne divergono per soggetti, oggetto e modalità applicative ma mantengono pur sempre un effetto solutorio ai fini dell’Irpef. Il ricorso ad imposte sostitutive e la loro diffusione risponde, al pari delle ritenute, a condivisibili esigenze
di certezza, sicurezza e speditezza nella riscossione. Queste si sono manifestate
nei settori più diversi da quello del reddito d’impresa, con riferimento a varie
ipotesi di rivalutazione, a quello dei redditi di capitale, con riferimento a plusvalenze di borsa o ai proventi della gestione dei fondi d’investimento. Ispirate
quindi da esigenze ora contingenti ora settoriali, ma, comunque, circoscritte
nelle fattispecie e, qualche volta, anche nel tempo. Si pongono sempre al di
fuori di ogni coerente valutazione degli effetti sul sistema applicativo dell’Irpef
e sulla personalità che ne era sempre stato uno dei principi ispiratori. Naturale
che gli effetti di tali scelte siano altrettanto gravi per la progressività posta fin
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dall’istituzione dell’Irpef come un corollario della personalità. La progressività
dell’Irpef non risente però solo della misura della ritenuta o dell’aliquota applicata dall’imposta sostitutiva che pur rappresentano l’aspetto più evidente di questa
deroga ad un principio dell’Irpef. È sensibile anche e soprattutto alla diffusione
di tali regimi o di tali imposte e al loro carattere contingente o settoriale. Più
si accentuano, infatti, tali caratteri più evidentemente s’indebolisce l’Irpef come
imposta unitaria dell’Irpef a tutto favore di un’imposta unica su di una somma
di redditi differenziati che trovano nel reddito complessivo il semplice esito di
un calcolo algebrico.
6. Conclusioni
Più di trent’anni sono stati troppi anche per l’Irpef perchè potesse sperare di
mantenere indenni i principi che avevano ispirato, con il 1973 l’entrata in vigore
del suo originale modello d’imposizione basato su personalità, progressività e
territorialità estesa oltre i confini nazionali.
La personalità coincide oggi con il reddito complessivo come frutto di una
incontrollabile e non razionalizzabile instabilità normativa. Questa da una parte
ha sottratto al reddito un ruolo centrale ed unico e dall’altro ha dato esclusiva
fiducia alle diverse categorie. Ha segnato il passaggio da una visione di sistema
a quello di fattispecie. Gli effetti di questa scelta coinvolgono indirettamente anche l’efficacia dell’estensione territoriale, secondo il principio di residenza, vista
la difficoltà di conciliare fenomeni di altri ordinamenti e fattispecie tributarie
specifiche della disciplina Irpef.
Tali effetti, d’altra parte, rendono più accettabile, anche se non più giustificabile in una logica d’imposizione personale, la moltiplicazione di regimi di
tassazione con ritenute e con regimi sostitutivi. Per loro stessa definizione non
possono che riguardare i redditi e non il reddito ma la loro efficacia collegata
alle categorie ha finito con incidere sulla stessa personalità e sulla progressività.
La prima, privata di redditi di categorie, la seconda, superata dall’applicazione
di aliquote proporzionali corrispondenti alla misura delle ritenute o all’aliquota
delle imposte sostitutive.
La territorialità dell’Irpef non riesce a risolvere la contraddizione tra ricerca
normativa della certezza della residenza, indispensabile per giustificare che la
personalità si estenda oltre i confini nazionali, e difficoltà di adeguarne l’efficacia sul piano applicativo. È difficile ottenere un risultato soddisfacente quando
da un lato di moltiplicano i casi di doppia residenza e dall’altro non si riesce
ad offrire un’interpretazione convincente del collegamento tra redditi esteri e
categorie reddituali nazionali.
In tutti i casi, per l’Irpef, la crisi dei principi e del quadro sistematico di
riferimento a tutto favore delle singole fattispecie, esprime una ricorrente e sempre più intensa, ricerca di certezza più che di razionalità impositiva. Una della
certezza che l’Irpef rischia di pagare un prezzo alto: quello dell’inadeguatezza
dell’interpretazione testuale delle fattispecie che arricchiscono le categorie reddituali. È rimasto il solo criterio interpretativo, una volta che l’instabilità normativa
abbia messo in crisi il quadro sistematico della riforma ed i principi che l’avevano ispirata. Senza altre possibilità interpretative, infatti, quali quelle sistematiche
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Adriano Di Pietro
e funzionali, l’interpretazione testuale non è in grado di adeguare le fattispecie
specifiche all’evoluzione economica e giuridica cui deve continuare a riferirsi
un’imposta come l’Irpef. Un adeguamento che non può che essere affidato di
nuovo al legislatore che è sollecitato così, alla continua ricerca della certezza, ad
integrare e ad innovare continuamente ed incessantemente la già frequenti e non
sempre coerenti fattispecie impositive che arricchiscono le categorie di reddito,
rimaste le uniche a definire l’ambito di applicazione dell’Irpef.
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