chimica, scienza e tecnologia dei materiali per la

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chimica, scienza e tecnologia dei materiali per la
UNIVERSITÀ
DI NAPOLI
SUOR ORSOLA
BENINCASA
CHIMICA, SCIENZA E TECNOLOGIA DEI MATERIALI
PER
LA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI
EZIO MARTUSCELLI
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UNIVERSITÀ
DI NAPOLI
SUOR ORSOLA
BENINCASA
CHIMICA, SCIENZA E TECNOLOGIA DEI MATERIALI
PER
LA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI
EZIO MARTUSCELLI
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INTRODUZIONE
--- Il Concetto di Bene Culturale e di Conservazione
Dopo la seconda guerra mondiale, che aveva causato la distruzione di edifici e opere di grande
valore artistico, storico e culturale si avvertì l’esigenza di sviluppare politiche condivise affinché
questa parte del passato della civiltà, che rappresenta un patrimonio per l’umanità, fosse
salvaguardato per permettere anche alle prossime generazioni di fruirne.
Nell’ambito della
“Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato” (l’Aja-14, Maggio,
1954) si giunse alla seguente definizione di Bene Culturale:
<…i beni mobili o immobili di grande rilevanza per il patrimonio culturale dei popoli, come i
monumenti architettonici, di arte o di storia, religiosi o laici; le località archeologiche; i complessi
di costruzione che, nel loro insieme, offrano un interesse storico o artistico; le opere d’arte, i
manoscritti, i libri e altri oggetti d’interesse artistico, storico o archeologico, nonché le collezioni
scientifiche e le collezioni importanti di libri o di archivi o di riproduzione dei beni sopra
definiti…>.
La differenza tra un bene comune a funzione d’uso, privo di contenuto artistico e storico e un
prezioso manufatto in ceramica con valore di bene culturale è evidenziata attraverso la figura 1.
I beni culturali, a causa della loro specifica composizione e reattività chimica dei materiali che li
costituiscono, ineludibilmente subiscono processi di degradazione connessi a fattori intrinseci, di
natura ambientale e/o ad attività antropiche. Questi processi attraverso trasformazioni chimiche,
spesso molto complesse, ne pregiudicano le funzioni alterandone l’aspetto e le caratteristiche
meccaniche e strutturali.
Negli ultimi anni è stato possibile, mediante l’impiego di prodotti sviluppati dalla chimica moderna
e utilizzando innovative tecniche di diagnostica strumentale, mettere a punto dei metodi di
conservazione finalizzati da una parte a rimediare agli effetti delle trasformazioni chimiche indotte
dai vari fattori di degradazione dall’altra a proteggere i manufatti al fine di prevenire, contrastare e
limitare i processi chimici e fisici di deterioramento.
La “Conservazione” dei beni culturali è essenzialmente basata sulle seguenti azioni:
1) Pulitura, Restauro e Protezione: interventi effettuati direttamente sul manufatto per
stabilizzarlo, consolidarlo e proteggerlo;
2 ) Prevenzione e Manutenzione: procedure che tendono a realizzare condizioni ambientali idonee
a evitare i danni causati da eventuali fattori chimici, fisici, biologici e antropici.
In generale un trattamento di restauro conservativo deve soddisfare i seguenti requisiti (vedesi
figura 2):
Ÿ Efficienza: migliorare le proprietà fisiche del manufatto senza indurre variazioni chimiche,
fisiche o cromatiche (figura-2a).
1
FIGURA 1: La differenza tra un comune bene di consumo, un vaso in terracotta per
piante ornamentali (a sinistra) e un manufatto in ceramica (vaso ovale in ceramica di
Caltagirone del XV secolo), considerato per le sue caratteristiche
storiche e artistiche un bene culturale (a destra) [1-a)].
Ÿ Durabilità: conservare nel tempo l’efficacia del trattamento e quindi allungare i tempi di un
successivo intervento (figura 2-b).
Ÿ Reversibilità: la possibilità di rimuovere i prodotti usati al fine di poterli sostituire con altri più
idonei e innovativi (figura 2-c).
Un manufatto una volta restaurato, al fine di ridurre l’azione di ulteriori processi degradativi, dovrà
essere tenuto in ambienti che soddisfino le raccomandazioni di prevenzione e mantenimento
ottimale.
FIGURA 2-a): Conservazione di un bene culturale:
concetto di efficienza.
2
FIGURA 2-b): Conservazione dei beni culturali:
concetto di durabilità.
FIGURA 2-c): Conservazione dei beni culturali:
concetto di reversibilità.
--- I Materiali Costituenti i Beni Culturali
Le principali difficoltà che s’incontrano nella conservazione delle opere d’arte dipendono
essenzialmente dal fatto che:
I) In molti casi essi sono costituiti da componenti diversi e/o con una struttura globale composita,
interconnessa e quindi molto complessa (vedesi a titolo di esempio la figura 3).
II) I processi di degradazione possono essere indotti da diversi tipi di agenti ambientali [5].
III) I danni esibiti e i sintomi apparenti sono la risultante delle specifiche risposte ai fattori di
deterioramento da parte dei singoli costituenti.
IV) In alcune circostanze i prodotti della degradazione chimica di un costituente agiscono da agenti
interni di degrado per altri componenti.
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2
1
FIGURA 3: La strutturazione a strati sovrapposti di un dipinto
su tela (sezione normale al piano del dipinto).
Nello schema sono, dal basso verso l’alto, indicati i seguenti
elementi: La tela di supporto (1). Lo strato di preparazione (2).
Le pellicole pittoriche (3) e lo strato di protezione (4) [4].
Essenzialmente i materiali che costituiscono i beni culturali possono essere catalogati sulla base di
vari principi informatori.
Una prima classificazione li suddivide in: Ɣ Inorganici e Ɣ Organici.
Una seconda in: Ɣ Naturali, Ɣ Artificiali e Ɣ Sintetici.
Inoltre, nel caso di un’ampia gamma di manufatti d’interesse culturale, può essere utile catalogare i
materiali utilizzati a seconda che essi, riguardo allo stato di ottenimento primario:
a) Siano stati sottoposti solo a lavorazioni di tipo meccanico.
Vedesi il caso dei marmi e di lastre o blocchi di polimeri lavorati per asporto oppure per
intaglio per la realizzazione di sculture (figura 4) [6,7,8].
b) Abbiano subito trasformazioni meccaniche e chimiche.
E’ il caso delle ceramiche (vedesi figura 5) [9-18].
c) Siano stati ottenuti per colata del fuso oppure di soluzioni o prepolimeri liquidi a basso
peso molecolare in stampi e successiva solidificazione.
E’ il caso dei bronzi e di manufatti in plastica ottenuti attraverso un processo denominato
“Casting” [19-22].
4
FIGURA 4: Esempi di sculture ottenute solo per lavorazione
meccanica del materiale di origine.
Sinistra, ritratto di una donna, in calcare, roccia sedimentaria,
costituita in prevalenza da calcite (CaCO3), da Palmira (Siria).
150-200 d.C. (Parigi, Louvre) [6]. 201
Destra, opera di Teobaldo da Vinci in polimetilmetacrilato.
[www.delcampe.net].
FIGURA 5: Il Cratere miceneo rinvenuto a Salamina (XIII sec. a.C.).
Esempio di manufatto in ceramica ottenuto attraverso procedimenti
che prevedono trasformazioni chimiche del materiale di partenza che è
l’argilla [10].
5
La conoscenza della natura chimica (composizione, struttura, proprietà, reattività) e fisica dei
materiali costituenti i manufatti d’interesse artistico, storico e culturale, insieme alla loro genesi,
fonte e modalità di lavorazione e funzione, rappresenta il necessario e pregiudiziale elemento
informativo alla base di ogni progetto di conservazione, di prevenzione e manutenzione.
Infatti, la conoscenza di questi elementi permette di mettere in risalto da una parte i fattori che
portano al degrado dei manufatti e dall’altra alla scelta di appropriate procedure chimiche di
stabilizzazione e protezione.
--- Il Ruolo della Chimica nella Conservazione dei Beni Culturali (BB.CC.)
La chimica moderna attraverso l’applicazione d’innovative e sofisticate tecniche di analisi
strumentali, con particolare riguardo a quelle non distruttive e trasportabili, e la messa a punto di
nuovi materiali e metodiche d’impiego ha assunto un ruolo di grande rilevanza nel campo della
conservazione attiva e passiva dei BB. CC. contribuendo quindi in maniera sostanziale
all’allungamento della durata del ciclo di vita di un manufatto [23,24].
In particolare una serie di metodologie chimiche innovative è di grande utilità nei sotto elencati
campi operativi:
Ɣ Determinazione della composizione, struttura, fonte e funzione dei materiali costitutivi del
substrato da restaurare e delle tecnologie di lavorazione usate all’epoca della sua realizzazione.
Ɣ Conoscenza dei fattori che portano al degrado dei manufatti.
Ɣ Valutazione dello stato di conservazione e dei processi di degradazione in corso.
Ɣ Sviluppo di appropriate e affidabili procedure di pulitura, consolidamento e protezione.
Ɣ Stima e valutazione dell'efficacia degli interventi di conservazione e della loro durata nel tempo.
RIFERIMENTI
1) a)[www.verdicchiomacchine.it/verdicchio/vasi%20i;www.guidasicilia.it/foto/prodotti/prd_41632_0.,
(2008) ].
b) http://www.geologi.emilia-romagna.it/rivista/2006-23_DelMonte.pdf .
2) E. Martuscelli, F. Tolve, < Works on paper: prevention of degradation >, edited by CNRMediterranean and Middle East (PAPERTEH-PROJET-6FP-EU).
3) http://www.museum.qu.se/digitalAssets/809865_Jacob_Thomas_appendix_A1.pdf.
4) V. Massa, Scicolone, G. Scicolone, < Le vernici per il restauro >, Nardini Editore, Firenze (1998).
5) venus.unive.it/miche/cicli_ecosis/statua.gif
6) www.anthaus.it/files/products/664.
7) www.bovere.it/images/LEDA_fin.JP
8) J. Gordon Cook, < Your guide to plastics >, Merrow Publishing, England (1964).
9) E. Martuscelli, < La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei >,
a cura dell’Istituto per l’arte e per il restauro Palazzo Spinelli, PAIDEIA-Firenze (2007).
http://www.treccani.it/enciclopedia/polistirene/
http://members.xoom.it/alberto_chim/AROMATICI.htm
10) Archeo, Anno XVII numero 5 (195) Maggio (2001).
11) E. Martuscelli, < Degradation and preservation of artefacts in synthetic plastics >, Istituto per l’arte
e per il restauro Palazzo Spinelli, PAIDEIA-Firenze (2012).
12) www.sculptor-sculpture.com
6
13) http://www.istitutofermiverona.it/LEZIONI/Fillosilicati.htm
14) Antonio
Licciulli,
<
Scienza
e
tecnologia
dei
materiali
>,
http://www.antonio.licciulli.unisalento.it/didattica_2005/silice_e_silicati.pdf
15) Università degli studi di Modena e Reggio Emilia facoltà di scienze matematiche fisiche e naturali
corso di laurea in scienze geologiche v.o. dipartimento di scienze della terra.
< Comportamento dilatometrico e trasformazioni ad alta temperatura delle ceramiche >.
Tesi di laurea di Ilaria Zitano. Relatore: Alessandro Gualtieri, anno accademico 2003-2004.
G. Cruciani, < Corso di Mineralogia Sistematica: Fillosilicati >, pdf.
16) < Uomini e fornaci, le città della ceramica >, MedioEvo, n.8 (43), Agosto (2000).
17) B. Fabri, C. Ravanelli Guidotti, < Il restauro della ceramica >, Nardini Editore, Firenze (1998).
18) G.P. Emiliani, F. Corbara, Tecnologia Ceramica “Le Tipologie”, vol.3, Faenza, Gruppo Editoriale
Faenza Editrice S.p.A., Aprile (2001).
19) http://www.gipsoteca.net/statueinbronzo/seneca_busto_in_bronzo.htm
20) http://www.statueinbronzo.com/pieta_rondanini_statua_in_bronzo.htm
21) http://it.wikipedia.org/wiki/Cera_persa
22) http://www.liceomanara.it/sites/default/files/allegati1/fusione_a_cera_persa.pdf
23) http://www.geologi.emilia-romagna.it/rivista/2006-23_DelMonte.pdf
24) http://www.mirorestauro.it/gallery2.php?id=0&page=2&lang=it#user_image/dipinto_finito2.jpg
7
PARTE-PRIMA
I MATERIALI COSTITUENTI I BENI CULTURALI:
Origine, Composizione Chimica, Struttura, Funzione e Stabilita’
A) MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE ESEGUITE PER LAVORAZIONE
MECCANICA DI ROCCE NATURALI
Capitolo –A.1): Le rocce naturali: composizione, struttura e genesi
Da molte delle rocce presenti sulla crosta terrestre l’uomo, fin da tempi remoti, è stato capace di
estrarre materiali lavorabili e durevoli con i quali ha realizzato oggetti di grande valore artistico
[1,2,3].
I manufatti lapidei, esposti all’azione di agenti chimici, fisici e biologici presenti nell’ambiente
subiscono inevitabilmente dei processi di degradazione (vedonsi esempi in figura 1).
Pertanto, al fine di preservare testimonianze fondamentali per la conoscenza della storia artistica,
civile e culturale dell’umanità, è necessario procedere alla loro conservazione.
Per fare ciò è essenziale:
1)
Determinare la composizione chimica e mineralogica, le caratteristiche fisiche, la struttura e
morfologia delle rocce da cui i materiali costituenti sono stati estratti.
2)
Definire i principali fattori (piogge acide, contaminanti chimici di varia natura, fluttuazioni
termiche, cicli gelo/disgelo e secco/umido, ecc.) che hanno determinato il danno insieme ai relativi
processi e meccanismi.
Solo in base ai risultati e alle conoscenze derivanti dai punti 1) e 2) è possibile procedere alla scelta
dei materiali e delle procedure atte alla pulitura, consolidamento e alla protezione dei manufatti, con
l’obiettivo di prolungarne la vita.
FIGURA 1: Manufatti in pietra con chiare evidenze di degrado
indotto da fattori ambientali di natura chimica, fisica e biologica.
Sinistra, struttura scultoria in pietra, Amman, Giordania
(II. secolo a.C.). Destra, busto sulla facciata del Palazzo
dei Rettori, Belluno [4,5].
9
Formazione e classificazione delle rocce
Le rocce che si trovano sulla crosta terrestre sono la risultante di un complesso processo di
aggregazione di minerali (sostanze naturali, inorganiche, generalmente cristalline, caratterizzate da:
una ben definita composizione chimica; una distinta forma cristallografica e specifiche proprietà
fisiche).
Le rocce, sulla base della loro origine, sono opportunamente classificate nei seguenti tre gruppi:
Magmatiche o Ignee
Sedimentarie
Metamorfiche
--- Rocce Magmatiche
Le rocce di tipo magmatico, generatesi a seguito del raffreddamento, solidificazione e
cristallizzazione di magma (un materiale fuso ad alta temperatura che si trova sotto la crosta
terrestre), si suddividono in due categorie.
“Intrusive”- Si sono generate a seguito di un lento raffreddamento di sotto la crosta terrestre, dando
luogo alla formazione di strutture costituite da cristalli regolari e spesso di grosse dimensioni,
(vedesi figura 2) [6].
“Effusive”- Formatesi a seguito di un rapido raffreddamento in superficie. Si caratterizzano per la
presenza di cristalli piccoli e irregolari e di eventuali fasi amorfo vetrose [6].
FIGURA 2: micrografia ottica di una superficie levigata
di una roccia magmatica di tipo intrusiva con una tipica
struttura granulare. Vedesi testo [6].
10
FIGURA 3: Micrografie ottiche di superfici levigate di roccia granitica
(destra, nicols incrociati; sinistra, nicols paralleli) [7].
.
Fanno parte della famiglia delle rocce intrusive i Graniti (figura 3) [7].
I graniti e di si caratterizzano per:
--- Struttura granulare;
--- Buona resistenza agli agenti atmosferici e alla corrosione chimica ambientale;
--- Alta coesione (indice di porosità tra 0,4-1,5%), elevata durezza e alta resistenza alla
compressione;
--- Basso coefficiente d’imbibizione 2,75‰ e bassa gelività;
--- Lucidezza e alta resistenza all’abrasione;
--- Difficile lavorabilità.
I Porfidi, equivalenti effusivi dei graniti, si distinguono per la loro durezza, resistenza all'usura, alla
compressione e all'urto.
Il porfido presenta un’elevata resistenza all’azione degradativa dei vari fattori ambientali quali la
pioggia acida, i cicli gelo/disgelo e caldo/freddo.
--- Rocce Sedimentarie
Si formano a una certa profondità della crosta terrestre per compattazione e cementazione di
sedimenti originati da:
--- Frammenti o detriti di rocce preesistenti (sedimentazione meccanica) (Rocce-Sedimentarie
clastiche o detritiche). Fanno parte di questa famiglia le rocce arenarie, i tufi e le argille.
--- Sostanze insolubili sul fondo di bacini sedimentari marini o continentali (Rocce-Sedimentarie di
origine chimica);
--- Frammenti provenienti dai resti di organismi acquatici o dai prodotti delle loro attività
(precipitazione di materiali organici mineralizzati presenti in strutture viventi; gusci, scheletri o
altre sostanze biologiche) (Rocce-Sedimentarie di origine organica).
11
--- deposizione dei materiali lanciati dai vulcani nel corso di eruzioni (lapilli, ceneri, polveri)
(Rocce-Sedimentarie piroclastiche) [6,9].
Tra le rocce sedimentarie grande interesse rivestono le arenarie, i tufi, le argille e quelle di origine
calcarea (travertini, calcari, dolomiti, gesso e alabastri ).
Le pietre arenarie sono costituite da granuli di piccole dimensioni (granulometria compresa tra 0,06
e 2 mm) prodotti dalla disgregazione di rocce silicee.
I granuli sono trasformati in roccia attraverso l’azione di un collante che a sua volta può essere
costituito da silice, carbonato di calcio oppure ossido di ferro. Questo collante se è cristallino
prende il nome di cemento, mentre si chiama matrice se è amorfo.
Una tipica strutturazione di roccia sedimentaria è mostrata nella figura 4.
Le pietre arenarie, a seconda della natura chimica del cemento vengono classificate in:
arenarie a cemento silicico; arenarie a cemento carbonatico e arenarie a cemento ematitico [9].
FIGURA 4: La tipica struttura di una roccia sedimentaria,
di tipo conglomerato, con grani lenticolari ( § 2mm ) dispersi
in una matrice che può essere amorfa o cristallina.
Le proprietà delle pietre arenarie e i processi di degradazione, dipendono fortemente dalla
composizione chimica del cemento e dalla natura e dimensione dei granuli.
--- Rocce Metamorfiche
Il metamorfismo consiste nella riorganizzazione mineralogica e strutturale allo stato solido di rocce
pre-esistenti in una con caratteristiche diverse.
Attraverso un processo metamorfico una roccia caratterizzata da una specifica associazione di
12
minerali (ad esempio, A+B+C+D+E) si trasforma in un nuovo insieme di minerali (V+N+M+Z) che
vanno a costituire una roccia con una nuova composizione mineralogica.
Le rocce metamorfiche si formano a seguito di trasformazioni, che avvengono in profondità (fino a
20–25 km), connesse a cambiamenti delle condizioni ambientali in particolare la temperatura (200–
800 °C) e la pressione (fino a molte migliaia di atmosfere).
Un esempio di processo metamorfico è rappresentato dalla trasformazione delle rocce di quarzo e
calcaree in rocce di wollastonite (un silicato di calcio) con rilascio di anidride carbonica secondo la
seguente reazione chimica:
SiO2(quarzo) + CaCO3(calcare) = CaSiO3(wollastonite) + CO2(anidride carbonica)
Tra le rocce metamorfiche rientrano i marmi, materiali lapidei da sempre utilizzati nell’arte
statuaria.
I Marmi, il cui costituente principale è il carbonato di calcio (CaCO3), minerale che prende il nome
di calcite, derivano dal metamorfismo delle rocce calcaree.
In natura si trovano marmi monocromi; famoso è il marmo bianco, senza venature e costituito
essenzialmente da sola calcite, fino al 99,9%, che si estrae dalle cave Apuane (nell'Appennino
toscano, Italia) molto usato per la sua purezza, il colore abbagliante e la facilità di lavorazione
specialmente nell’arte scultoria.
FIGURA 5: Ragusa, Cattedrale, un altare di marmi policromi [12].
Il colore e la strutturazione dei marmi dipendono fortemente dalla loro
composizione chimica.
13
Marmi colorati e con caratteristici fenomeni di policromia sono anche molto comuni. Il tipo di
colorazione è indotto dalla presenza di altri minerali quali il quarzo, la grafite, la pirite, etc.
I marmi gialli contengono la limonite (Fe2O3.nH2O), quelli rossi l’ematite (Fe2O3), quelli grigioazzurri particelle carboniose.
Un esempio di marmo di varia colorazione e venatura è mostrato in figura 5 [12].
Esempi di Opere D’arte in Pietra Naturale
Molte rocce naturali sono la fonte di materiali con i quali l’uomo fin da tempi remoti ha realizzato
manufatti di grande interesse artistico storico e culturale (vedonsi figure 6 e 7) .
FIGURA 6, sinistra: Il sarcofago di Federico II nella Cattedrale
di Palermo in porfido rosso.
FIGURA 7, destra: Parte del fregio del Partenone ( Atene - Grecia ),
bassorilievo in marmo scolpito in situ da Fidia ( 442-438 a.C.).
Marmi costituiti da carbonato doppio di calcio e magnesio, CaMg(CO3)2, denominati “Dolomie”
sono stati anche utilizzati per realizzare sculture antiche (è il caso delle statue delle cinque matrone
romane della Loggia dei Lanzi, Firenze, Italia, figura 8).
Una sesta statua, raffigurante una schiava, è in marmo calcitico. La tecnica della diffrazione dei
raggi X permette di distinguere tra le due tipologie di marmo che a prima vista sembrano essere
indistinguibili. Infatti, come si evince dalla figura 8, i due materiali presentano picchi di diffrazione
in corrispondenza di differenti valori dell’angolo di diffrazione a dimostrazione del fatto che la loro
struttura cristallina è diversa.
14
FIGURA 8: Le statue di marmo della Loggia dei Lanzi, Firenze,
Italia.
Sopra, le statue delle matrone romane in marmo dolomitico
(a fianco lo spettro RX del carbonato doppio di calcio e magnesio,
CaMg(CO3)2).
Sotto, la statua della schiava Thusnelda di marmo calcitico con
relativo spettro di diffrazione dei raggi-X della calcite (CaCO3) [13].
15
RIFERIMENTI
1)
Cursi e la sua pietra, http://www.salentofoto.it/cursi-e-la-sua-pietra/419.php
2)
http://it.123rf.com/photo_14404210_vienna--statua-mitologia-del-fiume-drava-da-palm-casa.html
3)
http://it.123rf.com/photo_9390435_statua-romana-di-dio-fiume-nilo-roma-i-secolo-d-c.html
4)
http://www.bellunopress.it/2012/07/16/agostino-da-mula-perde-la-faccia-il-busto-del-podesta-ecapitano-di-belluno-nel500-sulla-facciata-della-prefettura-si-sbriciola/
Sunday, 17 March 2013 - 12:58, Bellunopress – news dalle Dolomiti.
5)
http://www.lamiaaria.it/tutto-su/gli-effetti-sui-materiali/gli-effetti-sui-materiali-lapidei.aspx
6)
R.
Bugini
L.
Folli,
<
Lezioni
di
petrografia
applicata
>,
2008
http://www.icvbc.cnr.it/didattica/petrografia/4.htm
7)
http://it.wikipedia.org/wiki/Granito
8)
http://www.scienzeascuola.it/joomla/le-lezioni/2-lezioni/31-le-rocce-ignee-o-magmatiche
9)
< Classificazione delle rocce >, www.superandyweb.it
10)
http://it.wikipedia.org/wiki/Arenaria_(roccia)
11)
http://www.istitutomaserati.it/Radar_2004/Geologia/Metamorfiche.htm
12)
http://fotoalbum.virgilio.it/lefotodibetta1/dalmazia2005/img1964.html
13)
www.isc.mlib.cnr.it/.../images/tasos.jpg
14)
www.yacht-volant.org/Cruises/Northwest2005/ph.
16
Capitolo –A.2): La struttura e la composizione chimica dei minerali, costituenti le rocce
I Minerali sono dei composti solidi, generalmente cristallini, con una composizione chimica
esprimibile attraverso un’univoca formula chimica. Gli atomi o ioni si dispongono nello spazio in
una struttura regolare chiamata reticolo cristallino [1,2,3,4].
Nella figura 1 è riportata, a titolo esemplificativo, la fotografia di alcuni cristalli di ametista (varietà
del quarzo) dalla quale si evince la loro geometrica regolarità e crescita [3].
FIGURA 1: Cristalli di Ametista (varietà del quarzo) [3].
Secondo la loro composizione chimica i minerali presenti nelle rocce naturali sono classificati nelle
seguenti famiglie.
--- Elementi nativi
Minerali che in natura si trovano allo stato puro (rame, oro, argento, carbone, grafite, diamante,
zinco, zolfo, mercurio, platino, arsenico).
--- Solfuri e Solfati
I principali solfuri sono: il cinabro (HgS), la calcopirite (CuFeS), la galena (PbS) e la pirite (FeS2)
I più comuni solfati sono: il gesso (CaSO42H2O), la barite (BaSO4), l’argentina (PbSO4) e la
celestina (SrSO4).
--- Alogenuri
I principali sono il salgemma (NaCl) e la fluorite (CaF2).
17
Nella figura 2 è mostrata la cella elementare del cloruro di sodio o del salgemma. Da questa figura
si evince la disposizione degli ioni Na+ e Cl-. Inoltre sono facilmente riconoscibili i punti nodali, i
filari e i piani reticolari che caratterizzano la struttura cristallina di questo minerale [5].
--- Ossidi
Gli ossidi sono sostanze che derivano dalla combinazione dell’ossigeno con elementi metallici
(ferro, alluminio, cromo, ecc.). I principali ossidi sono: la cuprite (Cu2O), il corindone, il rubino, lo
zaffiro (Al2O3), l’ematite (Fe2O3), lo spinello (MgAl2O4), e il Quarzo (SiO2).
--- Carbonati
I carbonati si caratterizzano per la presenza dello ione carbonato (CO3-2). I minerali più comuni di
questa classe sono la calcite (CaCO3), la dolomite (CaMg(CO3)2), la malachite (Cu2(OH)2CO3), ecc.
La disposizione dei vari atomi (ioni) nella cella elementare della calcite è mostrata nella figura 3.
FIGURA 2: Struttura del salgemma. La posizione nello spazio degli
ioni Na+ e Cl- è raffigurata da sfere che occupano i vertici di cubi ideali,
alternandosi regolarmente lungo i filari.
A sinistra, le sfere rappresentano le corrette dimensioni relative dei due
tipi di ioni (1 Å, Angström = 10-10 m).
(Il tratteggio rende evidente i filari ideali lungo i quali gli atomi si
allineano con regolarità) [5].
--- Fosfati
Sono minerali che contengono lo ione fosfato, il quale ultimo, si caratterizza per una struttura
tetraedrica con al centro un atomo di fosforo e ai vertici 4 atomi di ossigeno [4]. L’apatite, un
fosfato di calcio e il turchese, un fosfato contenente rame e alluminio, sono tipici minerali
appartenenti a questa classe di composti [4].
--- Silicati
Una particolare attenzione deve essere riservata ai Silicati (i minerali più diffusi sulla crosta
terrestre), che si diversificano per struttura e composizione chimica.
18
I silicati sono i costituenti essenziali delle rocce eruttive e in parte anche di quelle sedimentarie e
metamorfiche.
Da studi condotti mediante la diffrazione dei raggi X è stato possibile ricavare che nei reticoli
cristallini dei silicati ciascun atomo di silicio coordina sempre 4 atomi di ossigeno posti ai vertici di
un tetraedro regolare al cui centro si colloca l’atomo di silicio (figura 4).
Le varie famiglie di silicati naturali si differenziano in base ai modi secondo cui i tetraedri
elementari si collegano tra di loro per formare strutture cristalline ordinate, caratterizzate, spesso
anche dalla presenza di cationi di varia natura, aventi caratteristiche chimiche e fisiche molto
diverse tra loro [6].
FIGURA 3: Cella elementare della calcite (CaCO3). In bianco gli ioni Ca++,
in nero gli atomi di carbonio cui sono legati gli ossigeni del raggruppamento
planare degli ioni CO3-2.
[http://skywalker.cochise.edu/wellerr/mineral/calcite/molecule1.htm].
I silicati sono convenientemente suddivisi e classificati nelle seguenti famiglie.
Ɣ Silicati a tetraedri isolati (nesosilicati):
In questi minerali i tetraedri sono tenuti insieme da cationi che vanno a neutralizzare le cariche
negative degli ossigeni non condivisi [7].
Appartengono a questa famiglia di silicati l’olivina [(Mg, Fe)2 SiO4] e gli zirconi [Zr SiO4].
La struttura di questa famiglia di silicati è schematicamente illustrata nella figura 5, in alto a
sinistra.
19
FIGURA 4: L’unità fondamentale costitutiva dei silicati è
il tetraedro SiO4, dove il silicio è al centro e gli ossigeni ai vertici.
Ɣ Silicati a catena singola
Sono formati da catene di lunghezza indefinita caratterizzate dal fatto che ogni tetraedro condivide
due vertici con quelli adiacenti (vedesi struttura in figura 5, in alto al centro) [7].
Nei silicati a catena singola sono presenti ioni metallici che legano mediante legami ionici le catene
tra loro. Queste catene si aggregano in uno stato ordinato cristallino dando luogo a morfologie
fibrose. Un classico esempio di questo tipo di silicato è costituito dall’amianto [8].
Ɣ Silicati a catena doppia
In questi silicati, vedesi schema della struttura in figura 5, in alto a destra, alcuni tetraedri
condividono solo due vertici altri ne condividono tre. Si formano due catene parallele; la struttura si
caratterizza per la sequenza di ampi spazi esagonali nei quali trovano posto cationi (K+ e Na+) [7].
Ɣ Silicati a struttura lamellare-stratiforme
La struttura lamellare-stratiforme (figura 5, in basso a sinistra) si contraddistingue per il fatto che
ogni tetraedro condivide 3 atomi di ossigeno con i tetraedri contigui. Si formano strati, dove i
tetraedri si dispongono ai vertici di esagoni regolari che si estendono in maniera illimitata.
L’ossigeno non condiviso è sempre situato dalla stessa parte rispetto al piano degli ossigeni
condivisi. Gli ossigeni non di collegamento recano una carica negativa che deve essere neutralizzata
da cationi di varia natura.
Tra i silicati lamellari rientrano le argille (questi ultimi minerali saranno trattati in un capitolo a
parte essendo i componenti principali delle ceramiche) [7,8,9,10,11].
Ɣ Silicati a struttura a reticolo tridimensionale
Sono silicati dove tutti gli ossigeni dei tetraedri sono condivisi da tetraedri adiacenti. Ne consegue
che ogni ossigeno è legato a due atomi di silicio (figura 5, in basso a destra). Appartengono a questa
famiglia i feldspati, il quarzo e le zeoliti [8,9]. La silice pura cristallina (quarzo, tridimite, e
cristobalite) monominerale a formula bruta SiO2 rappresenta una forma limite di silicato a struttura
tridimensionale, dove nel reticolo cristallino tutti i silicio sono collegati tra loro attraverso ponti di
atomi di ossigeno [7,8,9,10,11].
20
INOSILICATI
NESOSILICATI
Silicati a struttura
foliata(fillosilicati)
(esempio:mica, argille)
Tectosilicati
(esempio:quarzo)
FIGURA 5: Possibili strutture dei silicati (vedesi testo).
[http://www.gpeano.org/oreggia/files/05_minerali.pdf]
[http://qauednrovruitlae.blogspot.it/]
21
RIFERIMENTI
1) S.
Dalla
Chiara,
G.
Scarpa,
<Dal
magma:
rocce
e
minerali>,
http://www.terranea.it/gsndarwin/attivita/mineralogia/minerali01.htm
2) R. Bugini, L. Folli <Lezioni di petrografia applicata, i minerali>, (2008).
http://www.icvbc.cnr.it/didattica/petrografia/2.htm
3) http://www.thais.it/mineralogia/Schede/Sch0001.htm
4) http://infomineralogia.jimdo.com/introduzione/classificazione/
5) http://ebook.scuola.zanichelli.it/lupiagloboblu/volume-minerali-e-rocce-vulcani-terremoti/la-crostaterrestre-minerali-e-rocce/i-minerali/la-struttura-cristallina-dei-minerali#21
6) Enciclopedia Europea, Garzanti, Italia (1979).
7) http://www.mfn.unipmn.it/~rinaudo/courses/CRISTALLOCHIMICA.pdf, (2008).
8) -b) L. H. Van Vlack, <Tecnologia dei Materiali>, EST, Mondatori, Milano (1976).
9) A. Licciulli, <Corso di scienza e tecnologia dei materiali ceramici>,
http://www.antonio.licciulli.unile.it/didattica_2005/silice_e_silicati.pdf, (2008).
10) Dosso
dei
Cristalli
–
Coll.
F.Grazioli
–
Foto
G.Scherini.
www.ivmminerals.org/.../scheda.asp?idproduct=308, (2008).
11) http://www.skuola.net/appunti/geologia/silicati.html
22
Capitolo –A.3): Le proprietà fisiche e strutturali delle rocce
Le possibilità di applicazione delle rocce nella realizzazione di manufatti d’interesse storico e
artistico sono da mettere in relazione ad alcune delle loro caratteristiche fisiche. In particolare di
grande rilevanza nel contesto di cui sopra sono le proprietà qui di seguito descritte.
a) Durezza
La durezza di un materiale solido, correlabile alla forza dei legami interatomici o intermolecolari, è
valutata determinando la resistenza che lo stesso materiale oppone alla penetrazione o scalfittura
[1]. Il mineralogista F. Mohs nel lontano 1924 individuò 10 minerali che ordinati per durezza
crescente costituirono la scala di durezza di Mohs (vedesi tabella 1). I dieci elementi si susseguono
in maniera tale che, a partire dal diamante, ciascuno dei termini è capace di scalfire quello che lo
segue ed essere scalfito da quello che lo precede. In tabella è riportata anche la composizione
chimica dei singoli minerali elencati.
La durezza è in generale una proprietà anisotropa che pertanto dipende dalla direzione secondo cui
agisce la forza.
TABELLA 1: Minerali ordinati secondo
la scala di Mohs [2].
DUREZZA
1)TALCO [Mg3Si4O10(OH)2]
2) GESSO [CaSO4 2H2O ]
3) CALCITE [CaCO3 ]
4) FLUORITE [CaF2 ]
5) APATITE [Ca5 (PO4)3]
6) ORTOCLASIO [KAlSi3O8]
7) QUARZO [SiO2]
8) TOPAZIO [Al2(OH,F)2 SiO4]
9) CORINDONE [Al2O3]
10) DIAMANTE [C]
b) Tenacità, Resistenza alla Compressione e alla Trazione
La tenacità è definita come l’energia necessaria a causare una rottura meccanica in un materiale.
Questa energia dipende dalla forma e dalle dimensioni del campione e dalla velocità di applicazione
del carico. Attraverso opportune procedure è possibile determinare la resistenza all’impatto delle
varie rocce utilizzando test standardizzati (Izod o Charpy) (vedesi ad esempio la prova Izod
illustrata nella figura 1). La resilienza delle rocce dipende dalla durezza, struttura e grado di
coesione dei minerali costituenti. Da prove di laboratorio è stato possibile organizzare le varie rocce
secondo una scala di tenacità (tabella 2).
23
FIGURA 1: Schema di prova di resilienza secondo
il metodo “Izod”. L’energia assorbita dal provino a
rottura è calcolata dall’altezza raggiunta dal pendolo
dopo avere urtato il provino in precedenza intagliato
a V [1].
La resistenza alla compressione fornisce una misura della resistenza che una roccia oppone a prove
di schiacciamento (hanno un’elevata resistenza alla compressione rocce che si caratterizzano per la
presenza di cristalli duri che s’impacchettano bene tra loro, ad es. i graniti).
La resistenza alla trazione rappresenta la capacità di una roccia di opporsi a sforzi di trazione uni
assiali, pertanto essa è rappresentata dal carico specifico necessario a produrre la rottura. Questa
grandezza è importante poiché fornisce indicazioni anche sulla resistenza alla flessione.
c) Peso Specifico Apparente, Grado di Compattezza e Porosità
Il peso specifico apparente (PV) di una roccia naturale (espresso in g/cm3 o in Kg/m3) è il rapporto
tra peso e volume.
Per peso specifico assoluto (PS) s’intende il peso dell’unità di volume della roccia finemente ridotta
in polvere al fine di eliminare il contributo dei pori.
Il rapporto PV/PS determina il grado di compattezza (C) di una roccia (questo rapporto è sempre
<1).
Le rocce sono caratterizzabili anche in base all’indice di porosità (Ip), che fornisce una misura della
% dei vuoti presenti. Ip(%) è misurato dal rapporto tra il volume totale dei pori (VTPori) e il volume
totale del campione di pietra (VTPietra) moltiplicato per 100:
Ip(%)=(VTPori)/ (VTPietra)x100
Rocce quali i graniti e i calcari compatti presentano valori di Ip tra l’1-2%. Nel caso di rocce porose
(a es. tufi e arenarie) Ip assume valori molto più elevati, > 20% [2].
24
<Ai fini applicativi è possibile distinguere tra due diversi tipi di porosità: la porosità totale o reale
(il rapporto tra il volume dei pori e il volume totale del campione) e la porosità apparente o aperta
(il rapporto percentuale tra il volume totale dei pori comunicanti tra loro e con l’esterno e il
volume del campione> [3].
TABELLA 2: Scala della tenacità
delle più comuni rocce [2].
Qui di seguito è descritta una delle metodiche utilizzata per la determinazione della porosità.
Ɣ Porosimetria a intrusione di mercurio
La procedura di analisi, con riferimento alla figura 2, è generalmente basata sulle seguenti fasi:
---Un frammento di roccia di appropriate dimensioni è posto in una cella dove, dopo avere fatto il
vuoto, è immesso del mercurio (figura 2, sinistra);
---Sul mercurio che circonda il campione, attraverso un capillare, è esercitata una pressione man
mano crescente affinché il metallo possa penetrare nei pori aperti di dimensione sempre minore (il
mercurio penetra prima, alle pressioni più basse, i pori di dimensioni maggiori, mentre solo a
pressioni elevate sarà possibile l’intrusione nei pori con dimensioni minori) (figura 2, centro e
destra) [4,5].
Per l’analisi dei dati sperimentali in prima approssimazione si assume che la forma dei pori sia
cilindrica e che pertanto sia valida la seguente equazione di Washburn:
P r = -2Ȗcosș
Dove r è il raggio dei pori nei quali penetra il mercurio alla pressione P. Ȗ e ș sono rispettivamente
la tensione superficiale (480dine/cm, 0,48g/cm) e l’angolo di contatto del mercurio (~ 140°) [3].
Con r in micron e P in atmosfere la relazione precedente diventa:
r = 7,36/P
La porosimetria a intrusione di mercurio, è una prova di tipo distruttiva perché il campione di pietra
è completamente intruso di mercurio e quindi non è più utilizzabile per altri scopi o per ripetere
l’analisi stessa. I valori della porosità reale di alcune rocce sono elencati nella tabella 3 [2,6,7]. La
pietra pomice, roccia magmatica effusiva; si caratterizza per la sua elevatissima porosità dovuta alla
formazione di bolle di gas che determinano una struttura simile a quella delle spugne. Per la sua
leggerezza, la pietra pomice galleggia sull'acqua.
25
FIGURA 2: Schema di un generico porosimetro a mercurio
(vedesi testo) [5].
La pressione applicata cresce andando da sinistra a destra [4].
d) Gelività, Permeabilità all’acqua, Efflorescenza
La Gelività misura la capacità di una pietra, che ha assorbito acqua, di resistere alle sollecitazioni
meccaniche causate dai cicli GeloļDisgelo. C’è da rilevare che l'acqua solidificando aumenta di
volume, pertanto se occlusa nei pori, può esercitare una pressione sulle pareti. Alla fine questo
processo può determinare la formazione di crepe e fratture più o meno gravi.
Le caratteristiche che influenzano e determinano la resistenza ai cicli di gelo e di disgelo di un
materiale lapideo sono essenzialmente:
--- la porosità apparente o aperta;
--- la grandezza e la distribuzione dei pori aperti;
--- la geometria dei capillari;
--- il modulo di elasticità lineare e la resistenza meccanica [3].
In generale per la determinazione della gelività si fa ricorso a metodi diretti che prevedono di
sottoporre campioni lapidei a una serie controllata di cicli di gelo disgelo e quindi analizzare le
variazioni di alcune caratteristiche fisiche indotte sul materiale in esame.
La permeabilità (k) all’acqua di una roccia misura la capacità di lasciarsi attraversare da parte di
questo fluido [8,9,10].
26
TABELLA 3: Valori della porosità reale di
vari tipi di rocce [2].
La permeabilità assoluta (k) è determinata applicando a un campione cilindrico di roccia la Legge di
Darcy, qui di seguito riportata [8]:
dove:
x
x
x
x
x
x
k è la permeabilità (in darcy);
l è la lunghezza del campione (in metri);
S è la superficie del flusso (in m2);
ȝ è la viscosità del fluido (in poise);
V la portata volumetrica (in m3/s);
ǻp è la differenza di pressione alle due estremità del campione (in Pascal).
La permeabilità di una roccia dipende fortemente dalla sua struttura e in particolare dalla porosità e
dalla tortuosità degli stessi pori.
La permeabilità e la porosità apparente di alcune rocce sono riportate nella tabella 4 [10].
Le Efflorescenze (depositi salini) sono dovute al fatto che soluzioni di sali in acqua prima
penetrano attraverso i pori e/o le fessure all’interno di una roccia e poi tentano di migrare verso la
superficie.
Nel caso che la velocità di diffusione del vapor d’acqua dall’interno dei pori verso gli strati
superficiali della roccia sia minore della velocità di migrazione della soluzione salina verso la
superficie (la quantità d’acqua che evapora è piccola rispetto alla quantità di soluzione che arriva
dalle parti più interne della pietra) allora si verifica che la soluzione salina è in condizione di
27
raggiungere continuamente la superficie dove per evaporazione del solvente all’aria essa diventa
sempre più concentrata in sali. A saturazione i sali si depositano sulla superficie della pietra dando
luogo al fenomeno dell’efflorescenza salina, vedesi figura 3 [12].
TABELLA 4:
Permeabilità e porosità apparente di alcune rocce [10].
FIGURA 3, destra: Esempio di efflorescenza salina riscontrata
sulla superficie di mattoni in cotto [12].
FIGURA 4, sinistra: Esfoliazioni e fenomeni di polverizzazione
indotti da processi di efflorescenza e da altri fattori ambientali
(cicli gelo-disgelo, freddo-caldo) sulle superfici di pietre.
28
Le Sub-Efflorescenze sono depositi salini che si formano dalle loro soluzioni acquose all’interno
della pietra. Avvengono quando la velocità di diffusione del vapore acqueo dall’interno dei pori,
verso la superficie, è maggiore della velocità con cui la soluzione salina migra verso la superficie e
verso l’esterno. In queste condizioni la soluzione non riesce a raggiungere la superficie. Pertanto, a
causa della veloce evaporazione dell’acqua dall’interno dei pori, la soluzione, ferma in profondità,
si concentra fino al punto che i sali in essa disciolti precipitano all’interno dei pori sotto forma di
cristalli. Le sub-efflorescenze causano distacchi di materiale nei casi di statue, basso-rilievi ecc.
Le efflorescenze saline, oltre a provocare danni estetici, possono alterare o disgregare le superfici
dei manufatti in pietra.
Esempi di danni che vanno sotto il nome di esfoliazioni, scagliature e polverizzazioni, causati anche
dai fattori sopra descritti, sono mostrati nella figura 4.
e ) Dilatazione Termica e Conducibilità Termica
Tutti i corpi si dilatano per effetto del riscaldamento. In prima approssimazione è valida la
relazione:
L (T1) –L (T2) /L (T1) = Ȝl (T2 – T1)
Dove L(T1) e L(T2) rappresentano la lunghezza del campione prima e dopo il riscaldamento dalla
temperature di T1 a T2 °C. Ȝl rappresenta il coefficiente di dilatazione lineare. Il coefficiente di
dilatazione di volume Ȝv è, nel caso di corpi isotropi, pari a 3 volte Ȝl.
La conducibilità termica di un materiale è una misura della velocità di trasmissione dell’energia
termica; essa è proporzionale al gradiente di temperatura che si determina agli estremi del provino.
Nel caso delle rocce il fenomeno della dilatazione e della conducibilità termica è molto contenuto
anche se significativo. E’ importante rilevare che nel caso di consolidamento dei manufatti lapidei i
materiali usati devono avere valori di Ȝ comunque compatibili con quelli del substrato da trattare.
RIFERIMENTI
1 ) L. H. Van Vlack, <Tecnologia dei Materiali>, EST, Mondatori, Milano (1976).
2)
A.
Cagnana,
<Archeologia
dei
materiali
da
costruzione>,
http://archeologiamedievale.unisi.it/NewPages/EDITORIA/SAP/Manuali/man-1.pdf,
3) C. Fiori, R. Barboni, L. Paragoni, < Marmi e altre pietre nel mosaico antico e moderno >, Quaderni
IRTEC-CNR, Faenza-Ravenna (1998).
4) A. Licciulli, <Corso di scienza e tecnologia dei materiali ceramici>,
http://www.antonio.licciulli.unile.it/didattica_2005/silice_e_silicati.pdf, (2008).
5) ( http://www.geo.unimib.it/labs/porosimetro.a.mercurio.htm, (2008).
6) Porosità-Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/porosità (2007).
7) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>,
PAIDEIA, Firenze (2007).
8) http://it.wikipedia.org/wiki/Permeabilit%C3%A0
9) www.unirc.it/documentazione/materiale.../599_2012_332_14660.ppt
10)
http://www.altaviamilano.it/altavia/index.php/altapedia/grandi-opere/23-infrastrutture-e-delle-grandiopere-vol-1/146-appendice-a--petrografia-applicata
11) http://www.sapere.it/enciclopedia/permeabilit%C3%A0.html
12) Archivio di E. Martuscelli.
29
Capitolo –A.4): La degradazione ambientale dei manufatti lapidei in relazione alla composizione
e struttura del substrato
I manufatti lapidei per effetto di vari fattori ambientali subiscono profondi e spesso irreversibili
processi di degradazione (figura 1) i cui meccanismi dipendono fortemente dalla natura chimica,
fisica e strutturazione dei materiali costitutivi.
I fattori di deterioramento dei manufatti lapidei possono essere di tipo fisico, chimico e biologico.
.
FIGURA 1: Manufatto lapideo, fotografato in tempi diversi.
Notasi come nel tempo come il grado di degrado, causato dai vari
fattori ambientali, aumenti fortemente causando danni irreversibili [1].
--1) Fattori di natura fisica
Il vento, che provoca:
-- processi di erosione a causa del trasporto di granuli di rocce dure, ad es. il quarzo;
-- l’evaporazione dell’acqua che favorisce la disgregazione di materia derivante essenzialmente
dalla cristallizzazione dei sali, trasportati dalla stessa acqua, all’interno dei pori.
30
I cicli caldo-freddo, che determinano fenomeni di dilatazione e contrazione che alla fine possono
provocare microfratture attraverso cui l’acqua veicola sostanze inquinanti e sali solubili.
-- I cicli gelo-disgelo, il cui danno è collegato, principalmente, al fatto che l’acqua assorbita dai
materiali lapidei gelando aumenta di volume, pertanto quanto la solidificazione avviene all’interno
di pori si determinano delle sollecitazioni che reiterate nel tempo, possono causare fratture e
fessurazioni.
--2) Fattori di natura chimica - Le Piogge Acide [2,3,4]
Gli scarichi delle industrie, delle centrali termo-elettriche, dei veicoli a motore e dei riscaldamenti
domestici liberano nell'atmosfera ossidi di carbonio (CO2), di zolfo (SO2) e di azoto (NO2).
IL meccanismo di formazione delle piogge acide è basato sulla trasformazione degli ossidi gassosi
in acidi, solubili in acqua, attraverso le seguenti reazioni chimiche:
1) H2O + CO2 ĺ H2CO3
2 1) 2SO2 + O2+ MeO + hȞ ĺ 2SO3+ MeO
(la reazione, 2 1 è favorita da particelle di ossidi metallici (MeO), che agiscono da catalizzatori, e
dalle radiazioni luminose, hȞ).
Alla presenza di acqua l’anidride solforica reagisce formando una soluzione di acido solforico.
2.2) SO3 + H2O ĺ H2SO4
Il biossido di azoto si trasforma in acido nitrico a seguito delle reazioni sotto
delineate.
3)
NO2+O3 ĺ O2+NO3
NO3+NO2 ĺ N2O5 (anidride nitrica)
N2O5+H2O ĺ 2HNO3
Sia l’acido solforico che l’acido nitrico sono acidi molto forti.
In alcune circostanze si osserva la presenza nell’atmosfera anche dell’acido cloridrico (HCl).
E’ importante rilevare che l’acqua è l’agente di degrado più importante non solo perché essa agisce
da solvente e da veicolante (ad esempio le piogge acide) ma anche perché partecipa attivamente a
molte delle reazioni di degrado dei manufatti lapidei.
Le piogge acide sono particolarmente nocive nel caso di manufatti in pietra calcarea ad esempio le
statue di marmo e in quelli in pietra silicea con un’elevata presenza di cementi di natura calcarea
(vedesi il caso delle pietre arenarie).
I materiali derivanti da rocce silicee, in generale più resistenti alle piogge acide, subiscono se ad
alto grado di porosità, ad esempio i tufi, l’azione degradativa e concomitante di fattori fisici e
biologici che ne determinano il deterioramento.
La presenza di particolato atmosferico (particelle carboniose, metalliche o silicee, vedesi figura 2),
contribuisce a implementare direttamente o indirettamente i processi di degradazione causati dai
vari fattori ambientali, facilitando tra l‘altro anche la formazione di croste nere [5,6,7].
--3) Fattori naturali di natura biologica
Questi agenti includono: batteri, funghi, alghe, licheni, muschi, muffe, piante erbacee e arboree.
Alcune specie di licheni sono dannose soprattutto per le pietre carbonatiche; l’azione di altre specie,
invece, si limitano alla formazione di patine superficiali (verdi, nere) che però non alterano
31
eccessivamente la materia. Le piante superiori invece provocano problemi meccanici con il loro
ancoramento dovuto alla penetrazione progressiva delle radici che poi ingrossandosi determinano
fratture.
FIGURA 2: (da sinistra a destra) particelle di natura carboniosa, silicea
e metallica contenute nel particolato ambientale e dannose per i manufatti
lapidei.
FIGURA 3: < L'azione combinata delle piogge acide, di particolati carboniosi
e di fattori fisici risulta particolarmente evidente su questa statua realizzata in
Westphalia (Ger); la foto a sinistra è stata scattata nel 1908, mentre la foto a
destra è del 1968: sono trascorsi solo 60 anni > [3].
Alcune delle più significative alterazioni derivanti dall’azione dei vari fattori ambientali e che
contribuiscono al deterioramento dei manufatti lapidei sono qui di seguito elencate:
32
a) Erosione con perdita di materiale lapideo e scomparsa graduale delle caratteristiche
strutturali ed estetiche.
b) Esfoliazione (lo strato superficiale si solleva e si stacca dagli strati sottostanti, formando
lamelle a placche).
c) Alveolizzazione (il distacco sabbioso di materiale determina la formazione di alveoli
allineati con rimozione di materia friabile).
d) Annerimento determinato dal deposito delle particelle carboniose sulla superficie del
monumento.
e) Decoesione e Dilavamento delle parti trasformate chimicamente in composti più solubili.
Un esempio di alterazione ambientale subita da un manufatto lapideo è mostrato nella figura 3.
I meccanismi che sono alla base dei fenomeni di degradazione di alcuni materiali lapidei
ampiamente utilizzati nella realizzazione d’importanti opere d’arte sono sotto descritti.
La degradazione ambientale del marmo
I manufatti in marmo, roccia calcarea a base di calcite (CaCO3), quando sono esposti alle
intemperie subiscono l’azione aggressiva delle piogge acide le quali possono contenere, come già
scritto, acido carbonico, acido nitrico e acido solforico.
Esempio di manufatto di marmo, degradato per effetto di agenti presenti nell’ambiente, è mostrato
nella figura 4. Le superfici di marmo, esposte alla pioggia, sviluppano un aspetto ruvido
comunemente detto tipo "zuccherino". I grani di calcite non aderiscono bene fra loro perché i loro
bordi sono disciolti dall'acqua piovana [8].
I più indicativi processi che conducono alla degradazione ambientale dei manufatti di marmo, sono
la carbonatazione, la solfatazione e la formazione di croste nere. Il chimismo di questi processi è qui
di seguito illustrato.
.
FIGURA 4: Statua in calcare compatto fortemente degradata.
Dresda, terrazzo dello Zwinger [9].
33
ŹCarbonatazione
La calcite, praticamente insolubile in acqua a temperatura ambiente, quando viene a contatto con
piogge contenenti anidride carbonica (pH di circa 6) reagisce secondo la seguente reazione chimica:
CO2 + H2O + CaCO3
Ca(HCO3)2
A seguito di questa reazione il carbonato di calcio è trasformato in bicarbonato di calcio
Ca(HCO3)2. Questa sostanza è solubile in acqua pertanto, in superficie, si forma una soluzione
acquosa di questo sale che può essere allontanata e/o asportata per dilavamento provocando perdita
di materiale e corrosione del marmo (figura 4) [10,11].
Ź Solfatazione
La solfatazione dei marmi avviene quando l’acido solforico (H2SO4), disciolto nella pioggia e nella
rugiada, venendo a contatto con la superficie di un manufatto, reagisce con il carbonato di calcio
trasformandolo in solfato di calcio bi-idrato (gesso), secondo la seguente reazione:
H2SO4 + CaCO3
CaSO42H2O + CO2
La formazione di gesso, più solubile del carbonato in H2O, determina il dilavamento della pietra
con asporto di materiale dalla superficie del manufatto. Inoltre la soluzione acquosa contenente
solfato di calcio, può penetrare all’interno della pietra dove all’interno dei pori si possono
depositare cristalli di gesso. Questo processo può essere causa di tensioni e degrado anche in
profondità [11,12].
Ź Formazione di croste
Le croste nere, sono delle incrostazioni compatte e solide (lo spessore varia da 0,5 a 3 mm) la cui
composizione chimica e la cui origine è da mettere in relazione con le caratteristiche chimiche e
fisiche dell’ambiente in cui vive il manufatto. Queste croste si formano principalmente in aree del
manufatto esposte all'inquinamento atmosferico ma protette dal dilavamento delle piogge (figura 5)
[13,14,15].
La degradazione ambientale delle pietre arenarie
Le pietre arenarie, come già scritto, sono rocce sedimentarie costituite da grani di piccole
dimensioni (da meno di un decimo di mm a 2 mm) che ne costituiscono “l’ossatura”. Questi grani,
derivanti dalla disgregazione di rocce silicee (composti di quarzo, silicati, argille ecc.) sono tenuti
insieme da un “collante” che se è un solido cristallino è detto “cemento”, se è amorfo vetroso è
denominato “matrice” (figura 6) [16,17,18].
< …Le sostanze da cui è composto (il cemento) possono essere varie, ma le più comuni sono i
carbonati, la silice, i minerali argillosi, ossidi di ferro, pirite, barite, ecc.
Per matrice si intendono finissime sostanze carbonatiche o silicatiche che…. si ritrovano segregate
negli interstizi > [16].
La resistenza alla degradazione dei manufatti in pietra arenaria, nei confronti dei vari fattori
ambientali di degrado, trae essenzialmente origine dalla composizione chimica del cemento e dalla
natura e dimensione dei grani. Le principali cause di degrado delle pietre arenarie sono connesse
alla dissoluzione del cemento e alla cristallizzazione di sali che producono fenomeni di erosione e
di scagliatura [19].
34
…
FIGURA 5: Croste nere formatesi sulla superficie
di un manufatto in marmo [14].
FIGURA 6: Strutturazione di una pietra arenaria (schematico),
vedesi testo [16].
35
La degradazione ambientale del travertino
Il Travertino, <Roccia sedimentaria di origine chimica la cui deposizione avviene presso sorgenti,
cascate o bacini lacustri per precipitazione di carbonato di calcio> [19], si caratterizza per una
<struttura amorfa con contenuto di carbonato di calcio (CaCO3) fino al 98,8% > [19]. Questa
roccia
<presenta pori e cavità dovuti alla decomposizione dei detriti vegetali dapprima inglobati nei
depositi> [19].
I processi di degrado sono essenzialmente dovuti a fenomeni di corrosione conseguente l’azione dei
fattori ambientali sulla componente calcarea.
RIFERIMENTI
1) http://keespopinga.blogspot.it/2013/03/matematica-e-conservazione-del.html
venerdì 29 marzo 2013, Matematica e conservazione del patrimonio artistico.
2) http://www.griffini.lo.it/laScuola/prodotti/respiro2/inquinamento.htm
3) http://www.nonsoloaria.com/piaceco.htm
4) http://www.ecoage.it/piogge-acide.htm
5) Antonio D’Alessio, Andrea D’Anna, Anna Ciajolo, Tiziano Faravelli, Eliseo Ranzi
<Emissioni da processi di combustione>, La Chimica e l’Industria - Gennaio-Febbraio ‘05 n. 1 ANNO 87.
6) http://www.divisionechimicafisica.unito.it/pdf/Caus%C3%A0.pdf
7) Tognotti e al. Tesi P.Bellino - “Caratterizzazione tramite tecniche termogravimetriche della
componente organica del particolato atmosferico” Università di Pisa 2004.
8) http://www.sciencemaster.com/jump/images/life/front.gif
9) http://www.geologi.emilia-romagna.it/rivista/2006-23_DelMonte.pdf
10) http://www.docchem.eu/prog/materiali_lapidei_il_degrado.pdf
11) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>,
a cura dell’Istituto per l’Arte e il Restauro Palazzo Spinelli, Edito da PAIDEIA, Firenze (2007).
12) http://www.veneziadoc.net/ourvenice/Venezia_gessificazione/docs/relazione_chimica.pdf
13) http://www.archinfo.it/degrado-tipico-delle-rocce-e-dei-marmi/0,1254,53_ART_129102,00.html
14) http://www.lamiaaria.it/tutto-su/gli-effetti-sui-materiali/gli-effetti-sui-materiali-lapidei.aspx
15) E. Pedemonte, G. Fornari, <Chimica e restauro>, Marsilio Editori (2003).
16) http://marmi-pietre.com/blog/le-arenarie-le-pietre-calde/18
17) R.
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(2008).
http://www.icvbc.cnr.it/didattica/petrografia/3.htm
18) http://www.architettura.unina2.it/docenti/areaprivata/76/documenti/Lez%20lapidei%201.pdf
19) D.
Chiesi,
<Materiali
Lapidei
Patologie
e
cause
di
degrado>,
http://www.studiocentauro.com/LAB%202012%20-%20Chiesi-dispense%20materiali_degrado.pdf
Università di Firenze‡ Facoltà di Architettura ‡ Laboratorio di Restauro (A.A. 2011/2012).
36
B) MATERIALI COSTITUTIVI DELLE CERAMICHE; BENI OTTENUTI
MEDIANTE PROCESSI CHE CONTEMPLANO TRASFORMAZIONI CHIMICHE
DELLE ARGILLE
Dalle argille (materiali naturali) alle ceramiche (prodotti artificiali, fatti dall’uomo)
Capitolo –B.1): Le argille: origine, struttura, proprietà e processi di lavorazione [1-24]
Le Argille sono rocce costituite essenzialmente da allumino-silicati stratiformi, molto diffusi in
natura, appartenenti alla famiglia dei fillosilicati.
In questi silicati, come già scritto, ogni gruppo SiO4 a struttura tetraedrica condivide 3 atomi di
ossigeno con i tetraedri contigui (figura 1). Si formano strati, dove i tetraedri si dispongono ai
vertici di esagoni regolari che si estendono in maniera indefinita in due dimensioni.
L'ossigeno non condiviso è sempre situato dalla stessa parte rispetto al piano degli ossigeni
condivisi. Gli ossigeni non di collegamento recano una carica negativa. Questa elettronegatività è
neutralizzata attraverso la sovrapposizione allo strato tetraedrico di
< strati che hanno come motivo strutturale degli ottaedri formati da cationi di alluminio al
centro, circondati da due atomi di ossigeno e quattro ioni idrossido (OH-). Anche gli ottaedri
sono collegati tra loro in anelli esagonali che uniti tra loro formano lo strato ottaedrico.
Dalla sovrapposizione di strati tetraedrici e ottaedrici, legati tra loro da un comune ione O, si
ottiene il motivo strutturale fondamentale dei fillosilicati, chiamato pacchetto.
[L. Cervelli, http://isismattei.altervista.org/downloads/materiali/disegno/argille.pdf] >.
Nel caso di silicati a strati ricchi di cationi un solo strato di silicato si lega a uno strato cationico di
ottaedri, formando una struttura lamellare a doppio strato: tetraedri-ottaedri.
Nei silicati a strati poveri di cationi due strati di silicato si legano ai due lati di uno strato di
ottaedri, con una sequenza tetraedri-ottaedri-tetraedri a sandwich (Figura 2).
I fillosilicati si caratterizzano pertanto per una struttura lamellare composita, dove ciascuna lamella
ha una faccia con un eccesso di cariche elettriche positive e la faccia opposta con eccesso di cariche
negative. Le argille hanno la capacità di inglobare in zone interlamellari molecole d’acqua le quali,
essendo polari, restano legate agli strati mediante forti legami (vedesi figura 3). L’acqua, agendo da
plastificante e lubrificante, favorisce lo scorrimento di uno strato rispetto all’altro rendendo il
materiale plasmabile e lavorabile.
La caolinite, di formula minima Al2Si2O5(OH)4, è il materiale più semplice del gruppo delle argille,
la sua struttura si caratterizza perché uno strato tetraedrico si accoppia con uno ottaedrico di ossido
di alluminio dove i gruppi -OH servono per bilanciare le cariche (figura 2-(e)).
Le Ceramiche: definizione, processi di lavorazione e classificazione
L’argilla rappresenta la materia prima per la produzione di oggetti in ceramica.
Le ceramiche, note fin dall'antichità, includono una vastissima tipologia di prodotti con funzioni
diverse, ottenute attraverso un processo di lavorazione che è fondamentalmente lo stesso di quello
che fin dalla preistoria fu usato da popolazioni primitive per la realizzazione di oggetti di uso
comune utili alla conservazione dell’acqua, liquidi, prodotti della terra, sementi, cibarie di varia
natura e unguenti.
Come già in precedenza scritto alcune argille hanno la capacità di assorbire acqua. In questo stato
esse diventano plastiche e malleabili e quindi possono essere modellate e formate. acquisendo le più
svariate forme.
37
Qualora questi materiali siano essiccati a temperature relativamente basse, perdono la caratteristica
di plasticità che riacquistano se ulteriormente impastate con acqua; pertanto possono essere
nuovamente modellate e lavorate.
Nel caso che un manufatto realizzato, lavorando le argille, contenenti acqua, è tenuto per tempi
relativamente lunghi a temperature elevate, all’interno del materiale s’innescano una serie di
reazioni chimiche che portano al suo indurimento con parziale perdita d’acqua.
Il materiale così ottenuto, caratterizzato da forti legami inter-lamellari, non è più lavorabile
(concetto di materiale termoindurente), il suo indurimento diviene permanente: dopo la cottura esso
mantiene la sua forma e non può più assorbire acqua, le lamelle aderiscono fortemente l'una
all'altra, e il materiale diventa rigido e fragile con una strutturazione a reticolo tridimensionale. Con
questo procedimento le argille si trasformano nei vari tipi di ceramica. Con il procedere delle
conoscenze i manufatti in ceramica furono abbelliti e impreziositi attraverso operazioni di rifinitura
e decorazione e resi impermeabili utilizzando appropriate tecniche di smaltatura e verniciatura.
Da quanto sopra è possibile concludere che le ceramiche sono “Materiali Artificiali”. Infatti,
esse derivano da materiali naturali, ma sono prodotte attraverso processi di lavorazione e
produzione inventate dall’uomo (Materiali Man Made) che prevedono trasformazioni chimiche.
FIGURA 1: Struttura stratiforme delle argille
(vedesi testo).
[http://www.istitutofermiverona.it/LEZIONI/Fillosilicati.htm].
38
FIGURA 2: La struttura lamellare nei fillosilicati generatesi
dalla sovrapposizione di strati tetraedrici di unità SiO4, figura (b),
e di strati ottaedrici (figura (a) ) formati da cationi di alluminio
atomi di ossigeno e ioni (OH-). Figura (d): lamelle con struttura,
tetraedri-ottaedri-tetraedri. Figura (e): lamelle con struttura,
tetraedri-ottaedri (vedesi testo).
[http://www.istitutofermiverona.it/LEZIONI/Fillosilicati.htm].
FIGURA 3: la struttura delle argille dopo assorbimento
di molecole d’acqua in spazi interlamellari (schematico).
39
a)
c)
b)
d)
e)
f)
FIGURA 4: Raffigurazione grafica delle fasi della lavorazione
della ceramica in una bottega di un vasaio del Medio Evo
(vedesi testo).
[Archeo, Anno XVII numero 5 (195) Maggio (2001)].
Le fasi operative in una tipica bottega di un vasaio del Medio Evo, raffigurate attraverso i disegni
del maestro G. Albertini, sono illustrate in figura 4. Le varie operazioni sono così descritte:
<---Nel laboratorio, l’argilla proveniente dalla cava era lasciata decantare con abbondante acqua
per diversi giorni, in modo da liberarla dalle impurità e dalla sabbia. Quindi veniva esposta al sole
perché l’acqua evaporasse, lavandola energicamente con i piedi per rendere l’impasto omogeneo
(figura 4-a).
---L’argilla veniva quindi foggiata in vaso al tornio (2), che è costituito da due piani circolari
fissati ad un asse centrale girevole: girando sotto la spinta impressa dal piede del vasaio, la ruota
inferiore (3), più ampia, trasmette un moto rotatorio al disco superiore (4) su cui è posta la palla
d’argilla da modellare ( figura 4-b ).
40
---Il vaso terminato, staccato dalla base del tornio per mezzo di una sottile corda, era posto a
essiccare sugli scaffali ( figura 4-c ).
---Una volta essiccati, i vasi erano cotti in forno una prima volta, ottenendo il cosiddetto
“biscotto”. Il forno (6), sotto cui ardeva il focolare (7), veniva caricato attraverso un’apertura poi
sigillata con mattoni e argilla; una feritoia aperta su un lato (8) consentiva il controllo della
cottura ( figura 4-d ).
---Ottenuto il biscotto, i singoli pezzi erano ricoperti o di semplice vetrina o di smalto (9) e quindi
decorati (10) con vernici ricche di minerali ( figura 4-e,f ).
---Infine, i vasi erano cotti nuovamente in forno ad altissima temperatura (superiore ai 1000 °C)
per fissare la vernice> [Archeo, Anno XVII numero 5 (195) Maggio (2001)].
Le ceramiche possono essere classificate sulla base del colore del corpo ceramico (colorato oppure
bianco) e della sua compattezza (poroso o compatto).
Le ceramiche a pasta compatta si distinguono per bassi valori della porosità, alta impermeabilità ai
gas e ai liquidi ed elevata resistenza alla scalfittura.
Le ceramiche con corpo poroso si caratterizzano per una pasta tenera, assorbente e scalfibile.
Una possibile classificazione delle ceramiche è tracciata attraverso lo schema della figura 5.
Le più indicative caratteristiche delle varie classi di ceramica sono qui di seguito illustrate.
FIGURA 5: La classificazione delle ceramiche
[L. Mandosso, G. V. Pallottino,
<libro dell’educazione tecnica, Le Monnier, (1990)].
41
---Terrecotte
Sono ceramiche impiegate con o senza rivestimento superficiale, costituite da un corpo poroso e
colorato. Dopo il processo di cottura (900 - 1000°C) le terrecotte, generalmente, per la presenza di
sali o ossidi di ferro, mostrano una colorazione che varia dal giallo al rosso mattone.
Antichi e artistici manufatti in terracotta sono mostrati in figura 6.
FIGURA 6: Sinistra; Testa in terracotta di Afrodite. 300 a.C. circa.
Destra: Testina in terracotta di un dinasta ellenistico, III-II sec. a.C.,
Museo Etnografico del Tagikistan.
[Archeo, Anno XVII – n. 4 (194) Aprile (2001); IRAN – Viaggio fra i tesori
dell’antica Persia (2001); Archeo, Le nuove monografie, Anno X numero 2 –
Maggio (2001)].
---Terrecotte rivestite (Faenze)
Questa classe ceramica include una serie di materiali costituiti da un corpo colorato e poroso
opportunamente rivestito. Si caratterizzano rispetto alle normali terrecotte per una più elevata
finezza del corpo ceramico dovuta alla presenza di grani di piccole dimensioni. La temperatura di
cottura si aggira intorno ai 900-950°C.
--- Maioliche
Sono prodotti formati da paste porose a base di argilla e di piccole quantità di carbonato di calcio
cotti al forno e ricoperti di uno smalto metallico generalmente a base di biossido di stagno. Le
maioliche si distinguono per la particolare natura del rivestimento che può essere:
<..bianco o colorato, costituito da smalto, cioè un vetro reso opaco dalla presenza di minori
quantità di opportuni opacizzanti (SnO2, TiO2, ZrSiO3, etc.)….Lo smalto viene fissato con una
seconda cottura successiva a quella del supporto (cottura del biscotto);..contemporaneamente, se
presenti, vengono fissate le decorazioni eventualmente ricoperte da vetrine> [B. Fabri, C.
Ravanelli Guidotti, < Il restauro della ceramica>, Nardini Editore, Firenze (1998)].Un esempio di
applicazione di piastrelle in maiolica è riportato nella figura 7.
42
FIGURA 7: Un particolare delle piastrelle in maiolica del famoso
Chiostro della Basilica di S. Chiara in Napoli.
[http://images.google.it/imgres?imgurl=http://jemolo.com., (2008)].
---GresL’impasto è costituito da una miscela di varie argille naturali. La temperatura di cottura è
relativamente alta § 1200-1350°C per favorire la compattezza del manufatto. La colorazione del
corpo ceramico dipende dalla natura chimica dei componenti. I gres, possono essere invetriati o
smaltati, si caratterizzano per l’elevata impermeabilità all’acqua e opacità ed elevata resistenza
meccanica. La riproduzione fotografica di un antico manufatto in gres è riportata nella figura 8.
--- Porcellane
Le porcellane, prodotte per la prima volta in Cina intorno all’ottavo secolo, sono materiali che si
ottengono da impasti costituiti da diversi tipi di minerali naturali (caolino, sabbia di silice e
feldspato)
<Il caolino conferisce le proprietà plastiche e il colore bianco della porcellana ma non sempre; il
quarzo è il componente inerte e svolge la funzione di sgrassante (inoltre consente la vetrificazione);
infine il feldspato, viene definito fondente, perché, fondendo a temperature più basse, abbassa
notevolmente la cottura dell'impasto ceramico (1280°C)> [ G.P. Emiliani, F. Corbara, Tecnologia
Ceramica “Le Tipologie”, vol.3, Faenza, Gruppo Editoriale Faenza Editrice S.p.A., Aprile (2001)].
Le porcellane si suddividono in dure e tenere.
Le porcellane dure, a più alto contenuto di caolino, vengono indurite ad alta temperatura (13001400°C) e si caratterizzano per una elevata resistenza meccanica, in particolare alla rottura, insieme
43
.
FIGURA 8, sinistra: Busto in gres del faraone Osorkon I,
(da Biblo. X sec. a.C., Parigi Museo del Louvre).
FIGURA 9, destra: Porcellana medicea (Torino, Palazzo Madama).
[www.metmuseum.org/.../h2/h2_17.190.2045.jpg, (2008)].
ad una elevata durezza superficiale, resistenza al calore, agli shock termici, alla scalfittura, ai graffi
e agli urti.
Le porcellane tenere, a elevato contenuto di feldspati, sono indurite a temperature più basse (12001250), pertanto le loro caratteristiche meccaniche sono inferiori rispetto alle dure.
Il rivestimento (Coperta) consiste in una vernice trasparente e lucida contenente gli stessi
componenti l’impasto anche se in proporzioni diverse in dipendenza della temperatura di cottura.
Le porcellane per le loro caratteristiche, rappresentano i prodotti ceramici più pregiati, caratterizzati
da un più elevato valore aggiunto (vedesi esemplare in figura 9).
L’indurimento del corpo ceramico
Il processo d’indurimento che fa seguito alla cottura di un manufatto è la risultante di un insieme di
trasformazioni chimiche e fisiche che avvengono durante il corso del(i) trattamento(i) termico(i).
Nel corso della cottura del corpo ceramico i materiali costituenti subiscono profonde trasformazioni
di natura chimica, fisica e strutturale che vanno a determinare le proprietà ultime dei manufatti.
La tipologia delle trasformazioni e il loro effetto sulle caratteristiche finali del materiale dipendono
essenzialmente:
---dalla natura dell’impasto (composizione chimica e mineralogica);
---dalla tecnica della formatura;
44
---dalla durata e modalità del trattamento termico;
---dall’atmosfera della camera di cottura (ossidante o riducente)
---dal grado di cottura.
Le principali modificazioni che avvengono nell’impasto durante il trattamento di cottura sono qui di
seguito descritte in funzione dell’intervallo termico considerato:
---RT - 200°C - L’acqua di plasticità nell'impasto del corpo ceramico è rimossa così come quella
eventualmente presente in alcuni sali (ad esempio il solfato di calcio bi-idrato o gesso). Non si
osservano trasformazioni chimiche, il materiale subisce un ritiro dimensionale.
---250 - 350°C – Sono eliminati i composti organici (per combustione) e le molecole di H2O,
chimicamente legate.
---450°C – Si allontana l’acqua di porosità e avviene la dissociazione degli idrosilicati d’allumina,
con formazione di ossidi liberi. La struttura cristallina dei minerali di natura argillosa collassa
determinando l’eliminazione dall’impasto dell’acqua presente nei reticoli cristallini. Il caolino si
trasforma, secondo la reazione qui di seguito portata, in metacaolinite.
Al2O3Ɣ2SiO2Ɣ2H2O ĺ Al2O3Ɣ2SiO2 +2H2O
caolino
metacaolinite
<Spariscono dal manufatto gli ossidrili che costituivano il punto di attacco per i dipoli dell’acqua,
perciò l’argilla non può più assorbire acqua e non è più plastica> [C. Quaglierini e L. Amorosi
< Chimica e tecnologia dei materiali per l’arte> Zanichelli (1991)].
--- 800°C – Avvengono le seguenti reazioni:
Ɣ La de-carbonatazione dei carbonati,
CaCO3 ĺ CO2 + CaO
Ɣ L’ossidazione dei solfuri,
2CuS + 3O2 ĺ 2CuO + 2SO2
ƔLa decomposizione di sali, ad es.,
K2CO3 ĺ K2O + CO2
Lo sviluppo di CO2 e di H2O determina la porosità dei prodotti induriti. Inoltre si osserva che gli
ossidi metallici prodotti reagiscono con silice e allumina dando luogo alla formazione di silicati
basso fondenti.
---940°C – L’allumina amorfa è trasformata in allumina cristallina.
---1000°-1200°C <Comincia la sinterizzazione dovuta alla fusione dei silicati basso fondenti che
saldano i grani di silice e allumina facendo diminuire la porosità. Si completa la fusione dei silicati
e contemporaneamente si ha la formazione della mullite a spese della meta caolinite:
3(Al2O3Ɣ2SiO2 +2H2O) ĺ 3Al2O3Ɣ2SiO2 + 4 SiO2
mullite
metacaolinite
Ha così origine una massa vetrosa che include i cristalli di mullite> [C. Quaglierini e L. Amorosi
< Chimica e tecnologia dei materiali per l’arte> Zanichelli (1991)].
45
---1400°C – Generalmente a queste temperature avviene la cottura dei prodotti ceramici a più
elevato valore aggiunto come le porcellane o le ceramiche dure.
Il degrado ambientale dei manufatti in ceramica
I principali fattori di degrado delle ceramiche sono qui di seguito elencati.
Ź Fattori di natura fisica:
- Mutamenti di stato dell’acqua;
- Migrazione/cristallizzazione di sali;
- Modificazioni del grado di umidità;
- Fluttuazioni termiche;
- Scorrimento di acqua sulla superficie;
- Esposizione al vento con particelle abrasive in sospensione;
- Esposizione all’azione delle radiazioni della luce solare.
Ź Fattori di natura chimica:
- Processo di ri-algillificazione determinato dall’assorbimento di acqua;
- Esposizione all’attacco di acidi e basi e altre tipologie d’inquinanti chimici disciolti
nell’acqua;
- Processo di ri-carbonatazione di ossido e idrossido di calcio;
- Esposizione all’azione delle piogge acide che può essere causa di alterazione e lisciviazione
del materiale ceramico.
I sintomi della degradazione
La penetrazione di soluzioni saline può avere l’effetto di determinare:
- La solubilizzazione di parte del materiale;
- L’aumento della dimensione dei pori e quindi della porosità totale;
La riduzione della dimensione dei pori per effetto della deposizione di sali disciolti.
Le modificazioni di natura chimica causano la:
- Reidratazione del materiale ceramico;
- Ri-carbonatazione;
- Solubilizzazione selettiva di componenti chimici presenti nel corpo ceramico e/o nel
rivestimento;
Inoltre i processi di degradazione possono dare luogo a:
- Incrostazioni e patine;
- Fessurazioni,
fratture,
distacco
delle
parti,
esfoliazioni
[https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id..].
e
disgregazioni.
Interventi conservativi dei manufatti in ceramica
Essenzialmente il restauro conservativo di un manufatto in ceramica prevede le seguenti operazioni:
Ƈ Consolidamento; Ƈ Pulitura; Ƈ Assemblaggio; Ƈ Integrazione.
46
Circa il processo di consolidamento in letteratura è riportato:
<Un consolidante comunemente utilizzato è il copolimero etilmetacrilato-metacrilato in soluzione
di acetone. La concentrazione del consolidante va regolata in funzione della porosità del
manufatto> [https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id..].
Mentre per quanto riguarda la pulitura sempre nel riferimento di sopra è scritto:
<Lo “sporco” da eliminare può essere di tre tipi:
- Sali solubili (lavaggi in acqua distillata);
- Incrostazioni superficiali (impiego di reattivi chimici o con mezzi meccanici);
- Macchie superficiali (acqua ossigenata per macchie dovute a ossidi di ferro o manganese)>
[https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id..].
RIFERIMENTI
1) http://it.wikipedia.org/wiki/Argilla#Minerali_argillosi_e_loro_classificazione, (2008).
-C. Cipriani, C. Garavelli, Carobbi - Mineralogia, II volume - Cristallografia chimica e Mineralogia
speciale, USES, (1987).
-A. Mottana, R. Crespi, G. Liborio, Minerali e rocce, Mondadori, (1977).
2 ) http://scienzegeologiche.unipr.it/cgi-bin/campusnet/corsi.pl/Show?_id=4ba6
3
)
A.
Licciulli,
<Scienza
e
tecnologia
dei
materiali
ceramici>,
http://www.antonio.licciulli.unile.it/didattica_2005/silice_e_silicati.pdf ( 2007).
4 ) http://scienzegeologiche.unipr.it/cgi-bin/campusnet/corsi.pl/Show?_id=4ba6
5 ) http://guide.dada.net/geologia/interventi/2007/01/284504.shtml
6 ) L. H. Van Vlack, <Tecnologia dei materiali>, EST-Mondadori (1976).
7 ) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>,
PAIDEIA-FIRENZE ( 2007).
8) L. Pauling <La natura del legame chimico>, Edizioni Italiane, (1961).
9 ) http://www.scuolaranucci.it/storiaceramica.html, (2008).
10 ) B. Fabri, C. Ravanelli Guidotti, <Il restauro della ceramica>, Nardini Editore, Firenze (1998).
11) <Uomini e fornaci, le città della ceramica>, MedioEvo, n.8 (43), Agosto (2000).
12 ) G.P. Emiliani, F. Corbara, Tecnologia Ceramica “Le Tipologie”, vol.3, Faenza, Gruppo Editoriale
Faenza Editrice S.p.A., Aprile (2001).
13 ) http://it.wikipedia.org/wiki/Ceramica#Lavorazione_dell.27argilla, (2008).
14 ) Archeo, Anno XVII – n. 4 (194) Aprile (2001).15 ) IRAN – Viaggio fra i tesori dell’antica Persia
(2001).16 ) Archeo, Le nuove monografie, Anno X numero 2 – Maggio (2001).
17 ) a)- M. Torcia, EXHIBITION/CONFERENCE On:
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artistic and archaeological value, Naples: December/03 (2007).
b)- P. L. Parrini et altri, <on black glazes of Greek and Etruscan potteries>, Proceeding of the Symposium
on Scientific Methodologies Applied to Works of Art, Florence, pp. 34-38, 2-5 May (1984).
18 ) http://images.google.it/imgres?imgurl=http://jemolo.com., (2008).
19 ) http://www.anticafornacederuta.com/Museo/museo.html, (2008).
20 ) http://www.giovannicimatti.it/pages/tecniche_grande.php?id=4&pageNum_tecniche=0, (2008).
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23 ) http://it.wikipedia.org/wiki/Vernici, (2008).
24 ) T. Peters, R. Iberg, Am. Ceram. Soc. Bull., 57/5, pp. 503-509, (1978).
47
C)
MATERIALI COSTITUTIVI DI BRONZI E OTTONI: PROCESSI DI LAVORAZIONE,
STRUTTURA, COMPOSIZIONE CHIMICA, DEGRADAZIONE E CONSERVAZIONE
Dai metalli (materiali naturali) alle leghe metalliche (prodotti artificiali, fatti dall’uomo)
Capitolo –C.1): I metalli e loro estrazione dai minerali presenti in natura. Il legame metallico
Gli atomi dei metalli hanno la proprietà di cedere facilmente gli elettroni periferici (di valenza).
Pertanto lo stato cristallino dei metalli si caratterizza perché nei reticoli si vanno a disporre
ordinatamente dei cationi metallici, mentre, come illustrato nella figura 1, gli elettroni di valenza
vanno a costituire una nuvola elettronica mobile che permeando l’insieme del reticolo cristallino,
costituito da ioni positivi, agisce da collante mantenendo la neutralità elettrica del sistema.
La presenza di elettroni liberi di muoversi rende conto dell’elevata conducibilità elettrica e termica
tipica dei solidi metallici.
Il legame metallico definisce la forza di attrazione che si stabilisce tra i cationi formatisi dagli atomi
metallici e la nuvola elettronica de-localizzata in cui questi sono immersi. Va posto l’accento che al
contrario dei legami ionici e covalenti il legame metallico non è direzionale.
<si tratta di un legame primario, forte, che nasce dalla condivisione degli elettroni più esterni, delocalizzati in forma di una nuvola di carica elettronica negativa intorno ad aggregati di ioni
metallici
positivi>
[http://www.larapedia.com/architettura_metalli_e_leghe_in_architettura/metalli_e_leghe_in_archit
ettura.html].
FIGURA 1: Rappresentazione schematica della struttura cristallina di
un generico metallo (vedesi testo).
<..nel reticolo cristallino gli elettroni (Ɣ) si muovono in modo caotico.
Il libero movimento degli elettroni spiega la buona conduttività dei metalli.
L'azione neutralizzante degli elettroni negativi mantiene uniti gli ioni di
metallo positivi>.
[http://it.wikiversity.org/wiki/Struttura_atomica_della_materia].
48
I metalli sono estratti dai rispettivi minerali (ossidi, idrossidi o sali) mediante una reazione di
riduzione in base alla quale essi sono trasformati allo stato elementare con numero di ossidazione
zero.
Alcune tipiche reazioni chimiche usate nella metallurgia sono qui di seguito delineate.
i)
A partire da ossidi, per via secca usando il carbone come riducente
CuO + C = Cu + CO
2Fe2O3 +3 C = 4Fe +3 CO2
Fe2O3 + 3CO = 2Fe +3 CO2
ii)
Per via elettrolitica in bagno di elettrolita fuso
Al+3 + 3e- = Al
iii)
Per calcinazione degli idrossidi o dei carbonati
2Fe(OH)3 + calore = Fe2O3+ 3H2O
ZnCO3 +calore = ZnO + CO2
a cui segue la riduzione degli ossidi con carbone (vedesi sopra)
iv)
Arrostimento dei solfuri in presenza di aria o di ossigeno
2FeS2 + 11/2 O2 = Fe2O3 + 4 SO2
a cui segue la riduzione dell’ ossido ferrico con carbone (vedesi sopra)
Le leghe metalliche: Bronzi e Ottoni
I metalli hanno la proprietà di includere nel loro reticolo cristallino atomi di elementi diversi,
metallici o non metallici dando luogo alla formazione di sistemi monofasici, omogenei, a più di un
componente. Questi materiali sono comunemente definiti “Leghe Metalliche”.
Le leghe metalliche possono essere di tipo “Interstiziale” oppure “Sostituzionale”.
Nelle leghe interstiziali (figura 2), <elementi di piccole dimensioni atomiche (tipicamente il
carbonio) possono stabilmente assumere posizioni interstiziali nel reticolo spaziale del metallo
base, fino a un grado massimo di distorsione del reticolo>.
Nel caso delle leghe sostituzionali (figura 3),
< elementi caratterizzati da raggio atomico maggiore sono normalmente solubilizzati nel metallo
base sostituendosi a esso in alcune posizioni del suo reticolo cristallino>
[http://www.larapedia.com/architettura_metalli_e_leghe_in_architettura/metalli_e_leghe_in_archi
tettura.html].
49
LEGHE INTERSTIZIALI
A
A
A
A
A
A A A
A
B
A
A A A A
B
A
A A A
A
A
A A A
A
FIGURA 2: Struttura delle leghe interstiziali, tipo acciai e ghisa (Fe+C).
Atomi dell’elemento B si dispongono negli interstizi del reticolo cristallino
del metallo A (vedesi testo).
I
LEGHE SOSTITUZIONALI
A A
A B
A A
A A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
B
A
A
A
A
A
FIGURA 3: Struttura delle leghe sostituzionali, tipo bronzi (Cu+Zn)
e ottoni (Cu+Sn). Atomi dell’elemento B sostituiscono nel reticolo
cristallino atomi del metallo A (vedesi testo).
50
I Bronzi
I bronzi sono leghe metalliche di tipo sostituzionale, costituite principalmente da Cu (rame) per il
70-90%, e da Sn (stagno) (leghe Cu-Sn). Come si evince dallo schema della figura 3 nel reticolo
cristallino alcuni atomi di rame (A in figura 3) sono sostituiti in maniera statistica da atomi di
stagno (B in figura 3).
Le proprietà chimiche e meccaniche, e la lavorabilità dei bronzi, dipendono fortemente dalla
percentuale di stagno e dalla presenza di altri elementi (piombo, zinco, argento, fosforo, alluminio,
silicio e nichel). Anche gli ottoni appartengono alla famiglia delle leghe sostituzionali. In questo
caso atomi di rame sono sostituiti da atomi di zinco (leghe Cu-Zn).
FIGURA 4: Sinistra, Seneca, busto in bronzo, fusione a cera persa [1].
Destra, Pietà Rondanini (Michelangelo), statua in bronzo, fusione a
cera persa [2].
I bronzi sono stati utilizzati fin da epoche remote, per la realizzazione di statue ed oggetti artistici
(vedesi esempi in figura 4) [1,2,3,4,5].
I bronzi si lavorano per colata dal fuso e solidificazione (essenzialmente fusione in forma),
La temperatura di fusione del bronzo diminuisce al crescere della percentuale di Sn. Il rame fonde a
temperatura molto alta (Tf = 1084,6 °C), lo stagno a temperatura più bassa (Tf = 231,93 °C). Questo
51
comporta che, una volta ottenuto il bronzo in lingotti, la successiva lavorazione per fusione e colata,
può essere effettuata a temperature inferiori e con un minore consumo di energia, rispetto al rame
puro.
Qui di seguito viene brevemente descritto uno dei più importanti processi di lavorazione dei bronzi
che va sotto il nome di fusione a cera persa diretta.
La “Fusione a Cera Persa Diretta”
La tecnica della fusione a cera persa diretta per la fusione di statue cave in bronzo di grandi
dimensioni (vedesi il caso dei Bronzi Riace) viene così’ descritta nel riferimento [3]:
< …si costruisce un’intelaiatura di sbarre di ferro disposte in modo da seguire le masse della
composizione e sostenere il peso della terra (usualmente argilla) che verrà ammassata intorno ad
esse (vedesi figura 5-alto a sinistra). Questa terra, ancora morbida, viene modellata secondo le
linee di direzione principali dell’opera e costituisce l’anima interna della statua……
La superficie della terra, che costruisce l’anima della statua, viene modellata con gli strumenti
usuali per la ceramica (stecche, spatole ecc.) fino ad ottenere una forma di dimensioni leggermente
minori rispetto alla futura statua di bronzo. L’anima deve essere poi asciugata perfettamente e
cotta, dopodiché viene ricoperta con uno strato di cera su cui si esegue il vero e proprio lavoro di
modellaggio e rifinitura (figura 5-alto a destra)……..
La successiva fase di lavoro consiste nel sistemare la rete di canali per l’entrata del metallo e
l’espulsione dei gas. Ciò avviene collocando bastoncelli di cera nelle zone più idonee in modo da
impedire il formarsi di bolle e sacche d’aria e in modo da facilitare la distribuzione del metallo
liquido anche nelle zone più rilevate e negli spazi di minore diametro (figura 5-in basso). Si
procede poi coprendo il modello ed i canaletti con un involucro esterno di terra. Questa è riportata
a strati, cominciando con terra molto fine adatta a riprodurre fedelmente tutti i particolari della
cera…..
Dopo aver lasciato ben asciugare il tutto all’aria, si riscalda e si cuoce tutta la massa per togliere
ogni residuo di umidità ed allo stesso tempo per eliminare la cera (fatta defluire da appositi
canali), mantenendo lo spazio vuoto che dovrà accogliere il bronzo fuso. Per impedire che l’anima
interna si sposti rispetto all’involucro esterno, una volta che tra di loro si è formato lo spazio
vuoto, vengono in precedenza sistemati dei chiodi distanziatori che, inglobati nelle due terre,
servono a impedire ogni movimento. La forma è ora pronta per il getto del bronzo fuso, fatto
defluire direttamente da un forno o da crogiuoli (figura 6)> [3].
La degradazione ambientale dei bronzi
I manufatti bronzei esposti all’aria, a seguito dell’azione dei vari fattori chimici ambientali,
subiscono dei processi ossidativi e corrosivi che possono dare luogo alla formazione di una
“Ossidazione Protettiva” (detta Patina) oppure a fenomeni distruttivi di corrosione molto gravi noti
come “Cancro del Bronzo” [6].
---Origine e composizione della Patina
La patina osservata sui manufatti di bronzo, vedesi ad esempio il caso dei bronzi di Riace (figura 7),
è la conseguenza di molteplici e spesso complessi processi di corrosione chimica determinati da
reazioni innescate da agenti inquinanti presenti nell’ambiente circostante il manufatto (ossigeno,
acidi, basi, prodotti solforati, cloruri, agenti ossidanti, materiale organico, ecc.). <Quando una
patina è nobile, uniforme e liscia, essa conserva magnificamente l'oggetto, lo impermeabilizza, e gli
conferisce quel fascino del tempo che ogni studioso impara ad apprezzare> [6].
52
FIGURA 5: Le varie fasi della fusione a cera persa, tecnica
diretta, per la realizzazione di statue cave in bronzo, anche
di grandi dimensioni (vedesi testo) [3,4,5].
FIGURA 6: E’ raffigurato il momento
in cui il bronzo fuso viene versato nello stampo.
53
FIGURA 7: La statua “A” dei Bronzi di Riace (rinvenuti il 16 agosto 1972
nel tratto di mar Ionio antistante il comune reggino di Riace Marina).
Si vedono chiaramente le zone su cui è presente la patina nera.
Le principali reazioni chimiche che contribuiscono alla formazione della patina sono qui di seguito
descritte.
---Reazione del rame coll’ossigeno (Ossidazione)
L’ossidazione può portare alla formazione della cuprite (Cu2O), ossido rameoso, di colore rosso
bruno:
4Cu + O2 = 2Cu2O
Oppure alla formazione di tenorite, ossido rameico, di colore grigio nero:
2Cu + O2 = 2CuO
<La cuprite non altera in modo significativo la superficie dell'oggetto e ne preserva pressoché
inalterati i rilievi ed i dettagli> [6].
54
---Reazioni che portano a carbonati e solfati rameici
Il rame alla presenza di ossigeno e anidride carbonica reagisce dando luogo alla formazione di varie
tipologie di carbonati rameici quali:
--La Malachite, CuCO3Cu(OH)2, un composto di colore verde intenso che forma una patina verde
oliva.
--L’Azzurrite, 2CuCO3Cu(OH)2, di colore blu.
--La Calconatronite, Na2(CuCO3)2 23H2O, verde/blu.
Il rame a temperatura ambiente reagisce con l’ossigeno per formare ossidi di rame. Alla presenza di
SO2 gli ossidi formano la brocantite, (CuSO4)3Cu(OH)2, la reazione è sotto riportata:
4CuO + 1/2O2 + SO2 + 3H2O = (CuSO4) 3Cu(OH)2
Contribuiscono alla formazione di patine i prodotti derivanti dalla corrosione di altri elementi
presenti quali componenti la lega. Lo stagno reagendo con l’ossigeno forma ossido di stagno:
Sn + O2 = SnO2
Mentre il piombo attiva una reazione con la CO2 per formare il carbonato di piombo:
2Pb + 3CO2 = 2PbCO3.
---Il Cancro del Bronzo
Questa patologia dei bronzi richiede la presenza nell’ambiente di cloruri e quindi di acido
cloridrico.
In ambiente marino quest’ acido viene a generarsi per effetto della reazione tra il cloruro di sodio
presente nelle nebbie saline e gas quale ad esempio il biossido di azoto secondo la reazione sotto
riportata:
2NaCl + 3NO2 + H2O = 2NaNO3 + NO + 2HCl
L’acido così formatosi, alla presenza di ossigeno atmosferico, reagisce con il rame dando luogo alla
formazione di cloruro rameoso (in soluzione lo ione rameoso (Cu+1 )):
4HCl + 4Cu +O2 = 2Cu2Cl2 + 2H2O
Il cloruro rameoso (Nantokite), poco stabile e poco solubile, secondo la reazione sotto decritta, in
ambiente acido si solubilizza trasformandosi in cuprite, ossido rameoso (Cu2O), generando acido
cloridrico:
2Cu2Cl2 + 2H2O = 2Cu2O + 4HCl
55
<L'acido cloridrico attacca il rame metallico alla presenza di ossigeno e umidità:
2Cu + HCl + H2O + O2 = Cu2 (OH)3Cl
Si formano degli idrossicloruri rameici basici, verde azzurri (Atakamite e Paratakamite) e acido
cloridrico, che corrode il metallo sano, formando altra nantokite.
La reazione continua fino a consumare completamente il rame presente> [7].
FIGURA 9: I segni della degradazione irreversibile causati dal cancro
del bronzo su oggetti antichi. Sinistra, cancro del bronzo su un manufatto
egiziano. Destra, cancro del bronzo su un sesterzio di Traiano [8].
---Trattamento del Cancro del Bronzo
Il cancro del bronzo, come evidenziato attraverso gli oggetti in figura 9, agisce sia sulla patina che
sul rame trasformandoli in una polvere inconsistente di colore verde azzurrognola. In un tempo
relativamente breve, attraverso una reazione a catena che porta alla mineralizzazione dei metalli
costituenti il manufatto viene completamente distrutto.
Per arrestare il procedere del cancro del bronzo è essenziale provvedere alla:
-
Inibizione dei cloruri;
Rimozione dei composti rameosi oppure alla loro conversione in cuprite (Cu2O, composto
dotato di grande stabilità) [6,7,8].
I trattamenti per la stabilizzazione del cancro del bronzo sono essenzialmente basati
sull’applicazione di inibitori, capaci di trasformare i prodotti della corrosione ciclica in sali che
hanno una maggiore resistenza agli agenti di degrado presenti nell’ambiente e quindi dotati di una
maggiore stabilità chimica.
Il trattamento più importante usato nella conservazione di manufatti in bronzi è basato sull’impiego
come agente inibitore del benzotriazolo (BTA), la cui struttura molecolare è sotto riportata, il quale
56
<non rimuove il cloruro rameoso, ma forma dei complessi insolubili che agiscono da barriera tra
questo composto e l’umidità atmosferica, ostacolando la corrosione ciclica> [7].
Struttura chimica del benzotriazolo (BTA)
La procedura di questo trattamento, descritta nel riferimento [7] prevede i seguenti passaggi:
<- pulizia e rimozione di polvere e patine incoerenti con la matita/bastoncini in fibra di vetro;
- pulizia con una miscela 1:1 di acetone e toluene per rimuovere eventuali strati oleosi e patine;
- l’oggetto sgrassato viene messo in una soluzione alcolica o idroalcolica di BTA;
- l’oggetto immerso nella soluzione viene posto sottovuoto finché non si forma più alcuna bolla.
Dopo il trattamento, l’oggetto viene risciacquato in etanolo puro per togliere ogni residuo di BTA,
fino a raggiungere pH neutro, e fatto asciugare velocemente. L’operazione si può ripetere fino a
totale scomparsa del fenomeno di deterioramento…….
L’applicazione dei protettivi (polimerici come Incral 44 e cere microcristalline come Reswax WH, o
meglio ancora la duplice applicazione) completa i passaggi garantendo la stabilità del manufatto
per parecchio tempo> [7].
L’ Incral 44 è < una Vernice protettiva a base di resine acriliche con additivi antiossidanti,
in soluzione di solventi organici, utilizzata per la protezione di manufatti in bronzo ed altre
leghe di rame>[9].
La Cera RESWAX WH è una <Miscela di cere naturali microcristalline e polietileniche, solubile
in acquaragia minerale (white spirit D40), particolarmente indicata per la protezione di opere in
bronzo esposte agli agenti atmosferici> [10].
RIFERIMENTI
1) http://www.gipsoteca.net/statueinbronzo/seneca_busto_in_bronzo.htm
2) http://www.statueinbronzo.com/pieta_rondanini_statua_in_bronzo.htm
3) http://www.portaleragazzi.it/files/storia/picchetto_archeologo/11_Fusione_a_cera_
persa.pdf
4) http://www.nonsolocittanova.it/museo_nazionale_rc_file/processo_di_fusione_a_cera_persa.htm
5) http://www.archeocalabria.beniculturali.it/archeovirtualtour/bronzi1.html
6) Ossidazione e patologie del Bronzo - Trattamenti di restauro,
7) http://www.campanologia.it/01-STS/G10-Proprieta-Bronzo/G10-07-Bronzo-cancro.htm
8) http://www.ctseurope.com/contentimages/news2010-21.3%20_cancro%20bronzo_.pdf
9) http://www.sesterzio.eu/patine/sesterzi.htm
10) http://www.restauro.cl/fichas/incral44.pdf
11) http://www.ctseurope.com/depliants/%7B8B0FB04E-791F-4A87-A4C0A7C00DFCA179%7D_Pagine%20da%202.2%20protettivi-59.pdf
57
D)
I POLIMERI DI SINTESI QUALI MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE D’ARTE
MODERNA E CONTEMPORANEA
Dai monomeri ai polimeri ad alto peso molecolare (prodotti fatti dall’uomo)
Capitolo –D.1): I polimeri di sintesi: struttura molecolare e proprietà
Il termine polimero deriva dal greco (poly+meros, molte parti). La moderna chimica
macromolecolare usa questo termine per definire le sostanze composte di molecole molto lunghe
(macromolecole) ognuna delle quali è costituita da unità strutturali, denominate unità ripetitive, che
si succedono lungo l‘asse della catena legate tra loro mediante legami primari, generalmente di tipo
covalente.
I materiali polimerici sono la risultante dell’aggregazione di macromolecole le quali nello stato
condensato sono tenute insieme tra loro, attraverso legami secondari (forze di van der Waals,
legami ionici, a idrogeno, ecc.).
I polimeri si ottengono attraverso reazioni chimiche di sintesi, dette di polimerizzazione, in base alle
quali molecole a basso peso molecolare, denominate “Monomeri”, sono fatte reagire in maniera tale
da dare luogo alla formazione di lunghe catene macromolecolari.
Le molecole idonee a essere polimerizzate, aventi caratteristiche di monomero, devono essere
almeno bi-funzionali.
Una generica reazione di polimerizzazione è schematicamente descritta attraverso la figura 1.
FIGURA 1: Rappresentazione schematica di una reazione di polimerizzazione.
Sopra: raffigurazione di una molecola bi funzionale, monomero.
Sotto: rappresentazione della macromolecola ottenuta per polimerizzazione
del monomero di cui sopra.
Il polimero organico, strutturalmente più semplice è il polietilene (figura 2) che si ottiene per
polimerizzazione del monomero insaturo: l’etilene (CH2 = CH2).
La caratteristica di monomero è assunta dall’etilene quando il legame ʌ, alla presenza di opportuni
iniziatori, si apre lasciando i due atomi di carbonio con elettroni spaiati con caratteristiche di
radicali fortemente reattivi (figura 2).
58
Questi radicali si accoppiano tra loro dando luogo alla formazione di lunghe macromolecole la cui
unità ripetitiva ha la seguente struttura: –[CH2-CH2]–.
Nello spazio le macromolecole di polietilene, a causa della rotazione intorno ai legami carboniocarbonio possono assumere diverse forme geometriche (conformazioni) tra queste la più probabile è
quella in cui tutti gli atomi di carbonio in catena giacciono in un piano. Infatti, a questa
conformazione (comunemente detta, zig-zag planare) corrisponde una minima energia interna
(figura 3).
Tutti i polimeri che derivano da monomeri olefinici, derivati dell’etilene (ad esempio propilene,
butilene e l’acido acrilico) prendono il nome di poliolefine. La struttura di alcuni polimeri olefinici
è illustrata nella figura 4.
FIGURA 2: Schema della reazione che porta
all’ottenimento del polietilene dall’etilene
(vedesi testo).
FIGURA 3: Struttura del polietilene nella sua conformazione
più stabile. Tutti gli atomi di carbonio in catena (in nero in figura)
giacciono in un piano [1].
Lo schema di reazioni che portano all’ottenimento di due polimeri olefinici di grande interesse
applicativo, il polivinilcloruro (PVC) e il polivinilacetato (PVAc) e illustrato in figura 5 [2].
59
FIGURA 4: Struttura chimica di alcuni polimeri “vinilici”
ottenuti per poliaddizione radicalica [1,14].
Come si evince dai meccanismi delineati nelle figure 2-5 le reazioni che portano alla produzione di
polimeri a partire da monomeri vinilici si caratterizzano per il fatto che le macromolecole si
formano senza che ci sia eliminazione di alcun raggruppamento di atomi o formazione di nuove
molecole a basso peso molecolare. In questi materiali la costituzione chimica delle unità ripetitive è
analoga a quella dei monomeri di partenza. Polimeri del tipo sopra descritti sono comunemente
definiti come “Polimeri di Addizione” [1.2].
In figura 6 sono mostrate le strutture molecolari di una serie di monomeri e corrispondenti polimeri
che appartengono alla famiglia dei polimeri di addizione [2].
La sintesi di un polimero può avvenire anche attraverso la condensazione di monomeri
polifunzionali con formazione di prodotti secondari a basso peso molecolare (a. es., H2O o HCl).
Come riportato nella figura 7 questo tipo di reazione, avviene quando i monomeri sono dei di-alcoli,
delle di-ammine, dei di-acidi, dei di-cloruri, degli amminoacidi, ecc.. [1].
I polimeri che rientrano nella categoria di cui sopra sono definiti “Polimeri di Condensazione”,
alcuni di questi sono elencati in figura 7 [2]. Lo schema di sintesi delle poliammidi e dei poliesteri è
illustrato nella figura 8.
Le poliammidi, derivanti dalla condensazione di gruppi carbossilici e amminici, si caratterizzano
per la presenza lungo le macromolecole del gruppo ammidico, íN-(H)C(=O)í. Le poliammidi
possono essere sintetizzate da di-ammine e di-acidi (a. es. il nylon 66, che si ottiene per
condensazione dell’esametilenediamina e dell’acido adipico o acido esandioico, figura 8). Questa
poliammide è denominata nylon 6,6, perché ogni unità ripetitiva della catena polimerica, come sotto
mostrato, ha due sequenze di sei atomi di carbonio [3].
60
Altre famiglie di poliammidi sono sintetizzate da ammino-acidi. E’ questo il caso del Nylon 6 che
in linea di principio può essere fatto derivare dalla condensazione di molecole di
Acido-ࣅ-ammino caproico [NH2- CH2-CH2-CH2-CH2-CH2-C(=O)-OH]. In questo caso nell’unità
ripetitiva è presente una sequenza di sei atomi di carbonio, da cui il nome Nylon 6 [3].
La struttura molecolare delle due poliammidi, Nylon 66 e Nylon 6 sono messe a confronto nella
figura 9 [3,4,5,6].
polivinilcloruro (PVC)
polivinilacetato (PVAc)
FIGURA 5: Lo schema di reazioni che a partire dall’acetilene
portano alla sintesi del polivinilcloruro e del polivinilacetato [2].
61
FIGURA 6: Polimeri di addizione. In figura sono indicati,
da sinistra: il nome del polimero; la struttura molecolare del
monomero e la struttura dell’unità ripetitiva del polimero [2].
62
FIGURA 7: Tipici polimeri di condensazione. In figura sono indicati,
da sinistra: il nome del polimero; la struttura molecolare del monomero
e la struttura dell’unità ripetitiva del polimero [2].
63
FIGURA 8: Reazioni che portano alla formazione di polimeri di
condensazione.
Sopra, un di-alcole reagisce con un di-acido formando un poliestere [1,14].
Sotto, una di-amina reagisce con un di-acido formando una poliammide.
FIGURA 9: Struttura delle unità ripetitive
del Nylon 6 e del Nylon 66, vedesi testo.
64
Nello stato condensato e in massa le macromolecole di poliammidi sono tenute insieme da forti
legami a idrogeno intermolecolari che vedono coinvolti, gli ossigeni dei carbonili e gli idrogeni
legati all’azoto (figura 10).
FIGURA 10: Il sistema di legami a idrogeno nel nylon 66 (schematico).
Le proteine naturali, composti a elevata massa molecolare a struttura polimerica, possono, in linea
di principio, essere fatte derivare dalla policondensazione di Į-amminoacidi (composti in cui sia il
gruppo amminico che quello carbossilico sono legati allo stesso atomo di carbonio) aventi diversa
costituzione chimica, ma tutti una configurazione o chiralità, di tipo, L, secondo lo schema qui sotto
riportato [7].
65
Da questo schema si evince come gli Į-amminoacidi a seguito delle reazione di condensazione
formano lunghe catene che si caratterizzano per la presenza di un legame peptidico tra l'azoto del
gruppo amminico di una molecola e il carbonio del gruppo carbossilico di un'altra.
Ogni proteina presenta una struttura primaria che è definita dalla sequenza di residui di Įamminoacidi che caratterizza le sue singole macromolecole. L’elevato numero di proteine che si
trova in natura è da mettere in relazione con il fatto che esse sono la risultante del grande numero di
possibili combinazioni tra i circa venti diversi L- Į amminoacidi che la natura utilizza nella sintesi
delle proteine biologiche.
Tra i Poliesteri particolare rilevanza applicativa riveste il polietilene tereftalato che può essere fatto
derivare da una reazione di condensazione tra l’acido tereftalico e il glicole etilenico secondo lo
schema riportato in figura 8, in alto.
Secondo la sua struttura una catena macromolecolare può essere, con riferimento alla figura11:
a ) lineare;
b ) leggermente ramificata;
c ) ad alto grado di ramificazioni;
d ) reticolata, attraverso l’impiego di monomeri trifunzionali;
e ) reticolata, utilizzando monomeri tetra funzionali.
FIGURA 11: Rappresentazione schematizzata della struttura
di una macromolecola: a) lineare; b) leggermente ramificata; c) ad alto
grado di ramificazioni; d) ed e) reticolata [11].
66
FIGURA 12: Gli stadi che portano all’ottenimento della bakelite,
il primo polimero di sintesi, termoindurente, con una struttura a reticolo
tridimensionale [12]. [https://www2.chemistry.msu.edu/faculty/reusch/
virttxtjml/polymers.htm, Encyclopædia Britannica, Inc].
Un importante esempio di polimero reticolato, con caratteristiche di termoindurente, è
rappresentato dalla Bakelite, resina fenolo formaldeide (il primo polimero sintetizzato dall’uomo) il
cui schema di sintesi è illustrato in figura 12. Da questo schema si evince che la struttura a reticolo
tridimensionale si forma perché ogni molecola di fenolo presenta tre siti reattivi che sono gli
idrogeni in posizione orto e para (monomero trifunzionale). Nel corso della reazione le molecole di
aldeide formica (H2C=O) reagiscono con gli idrogeni reattivi del fenolo; si realizza un legame, C-C,
tra il carbonio benzenico e il carbonio formaldeidico con formazione di un raggruppamento alcolico
del tipo –CH2OH legato all’anello benzenico nelle due posizioni orto, e in quella para. Controllando
la concentrazione di aldeide formica è possibile in un primo stadio produrre un pre-polimero
termoplastico stabile, con una struttura prevalentemente lineare, che può essere, portato ad alta
temperatura, formato e lavorato, sfruttando le sue caratteristiche visco elastiche allo stato fluido
[12]. In seguito, alla presenza di un idoneo catalizzatore e appropriate condizioni è fatta partire la
reazione di reticolazione che porta all’indurimento permanente della massa che da fluida diviene
solida con una struttura reticolata (figura 12) [12,13].
Polimeri quali il polistirene, il polietilene, il polipropilene e molti poliesteri e poliammidi fanno
parte della famiglia delle termoplastiche. Questi polimeri portati ad alte temperature, allo stato
fluido, possono essere formati. Riportati a temperatura ambiente, si consolidano, se cristallini
solidificano (in parte), mantengono la forma e quindi possono essere commercializzati come
manufatti e oggetti a funzione d’uso. Al contrario dei termoindurenti questi manufatti possono
essere rilavorati alle alte temperature, purché stabilizzati nei confronti della degradazione termica
mediante appropriati additivi [1,12].
67
Il concetto di polimero termoplastico e termoindurente viene così espresso nel riferimento [14]:
<Polimeri Termoplastici: rispondono ad un aumento di temperatura
con una diminuzione di viscosità e quindi con una maggiore
fluidità, il che permette di riformarli un numero teoricamente
infinito di volte.
Polimeri Termoindurenti: una volta sagomati mantengono la
loro forma; la loro viscosità non diminuisce all’aumentare
della temperatura> [14].
In opportune condizioni è possibile sintetizzare macromolecole ottenute da monomeri con
costituzione chimica diversa (comonomeri). Questi tipi di polimeri sono detti “Copolimeri”
La chimica macromolecolare permette di sintetizzare le seguenti famiglie di copolimeri:
---Statistici; Alternati; a Blocchi e Aggraffati.
La struttura molecolare di queste macromolecole è schematicamente raffigurata nella figura 13 [5].
FIGURA 13: Raffigurazione schematica dei possibili copolimeri
derivati da due unità comonomeriche, in figura rappresentati da cerchi
di colore nero e grigio. Da sinistra a destra:
Copolimeri Statistici, Alternati; a Blocchi e Aggraffati o ad Innesto [5].
I polimeri, oltre che per la loro particolare costituzione chimica, si caratterizzano per le seguenti
specificità.
1) Alto peso molecolare con distribuzione delle masse molecolari.
I processi di polimerizzazione portano alla formazione di macromolecole con diversa lunghezza o
grado di polimerizzazione; un materiale polimerico è costituito da una miscela di catene contenenti
un numero diverso di unità strutturali e quindi differente massa molecolare e grado di
polimerizzazione. Pertanto un polimero è più opportunamente caratterizzato da una distribuzione di
pesi molecolari (vedesi generica curva in figura 14) e di media dei pesi molecolari (P.J. Flory, 1953;
D.J. Pollock e R.F. Kratz, 1980).
68
Le medie basate sulla determinazione del peso molecolare medio numerico Mn, del peso
molecolare medio ponderale Mw (con Mw >Mn) e del peso molecolare medio viscosimetrico Mv,
sono comunemente utilizzate nella chimica macromolecolare [1].
< Il peso molecolare medio numerale Mn è definito come il peso medio di una macromolecola
riferito all'unità di massa atomica. Espressioni di uso frequente sono Mn=¦niMi/¦ni
=¦wi/¦(wi/Mi)=wT/N, con ni numero di molecole dell'i-ma frazione di molecole tutte di peso
molecolare Mi e wi peso della i-ma frazione.
Il peso molecolare del peso medio ……è la media pesata Mw=6wiMi/6wi=6Xwi; Mw è sempre
maggiore di Mn per un materiale polidisperso, solo nel caso di un materiale monodisperso
Mw=Mn. Il valore del rapporto Mw/Mn, detto indice di eterogeneità (grado di dispersione), è un
parametro impiegato frequentemente per descrivere la relativa polidispersità di un polimero> [ L.
Andreozzi, Tesi di laurea, Dipartimento di Fisica, Universita' di Pisa, 1991,< Note sui materiali
polimerici> ].
2) Cristallizzazione e concetto di grado di cristallinità e di amorficità
Un polimero può cristallizzare solo se le singole macromolecole hanno una struttura “regolare”
cioè presentano lunghi segmenti con un elevato grado di ordine costituzionale e configurazionale.
Al contrario di quanto succede nel caso di composti a basso peso molecolare nel caso dei polimeri,
per ragioni cinetiche e termodinamiche, le macromolecole, anche se regolari, cristallizzano solo in
parte.
FIGURA 14: Curva, idealizzata, di distribuzione o funzione di distribuzione
dei pesi molecolari di polimeri. In ordinata è riportata la frazione numerica di
macromolecole con un peso molecolare definito oppure la frazione
in peso di macromolecole aventi una massa molecolare definita. In ascissa è
riportato il valore del corrispondente peso molecolare [1,14].
69
Nel caso di polimeri allo stato condensato ha senso quindi, di parlare di grado di cristallinità (Xc) e
di amorficità (Xa).
Le grandezze di cui sopra possono essere definite in base alle equazioni sotto riportate:
Xc= Wc/(Wc+Wa);
Xa= Wa/(Wc+Wa);
Xa+ Xc = 1
Dove Wc e Wa sono rispettivamente la frazione in peso del polimero allo stato cristallino e amorfo.
La struttura, in una visione planare, di un materiale polimerico semicristallino può essere
schematicamente raffigurata mediante il modello “Fringed Micelle” (vedesi figura 15) [1].
Nel caso di polimeri amorfi, Xc=0, le macromolecole assumono una strutturazione, disordinata, a
gomitolo statistico “Coiled-structure” o, “Spaghetti-like structure”, vedesi figura 16 [1,14].
La diffrazione dei raggi-X all’alto angolo è la tecnica che permette di evidenziare, nei polimeri
semicristallini, la presenza di una fase amorfa e di una fase cristallina. Infatti, come si evince dal
diffrattogramma mostrato nella figura 17, la fase amorfa determina una diffusione continua dei
raggi-X (alone diffuso) mentre la fase cristallina interagendo con le radiazioni genera dei picchi
discreti di diffrazione.
Questi picchi di diffrazione si generano quando l’angolo (ș), secondo cui i raggi X incidono sulla
superficie di un fascio di piani cristallografici paralleli, la relativa distanza interplanare, d, e la
lunghezza d’onda Ȝ verificano le condizioni definite dall’equazione di Bragg:
nȜ= 2d sen ș
dove n è un numero intero.
Di fatto la legge di Bragg definisce le condizioni necessarie affinché un’onda elettromagnetica
piana sia diffratta da una famiglia di piani reticolari, paralleli [15,16,17].
la dimensione media dei cristalliti (t, in angstrom), presenti in un campione policristallino, in una
direzione normale ai piani che provocano la diffrazione, può essere derivata applicando la seguente
equazione di Sherrer:
t = Ȝk/ ȕ cosș
Dove: ȕ = larghezza a metà altezza di un picco di diffrazione espresso in radianti di 2ș;
K una costante (generalmente assunta essere =0,87) [18].
3) Capacità dei polimeri di formare fibre. Stato fibroso
Alcuni polimeri attraverso opportune metodiche di lavorazione e trasformazione hanno la capacità
di formare fibre con caratteristiche simili a quelle naturali (cotone, lino, canapa, lana e seta) e
quindi con possibilità di essere anche usate quali filati per uso tessile [19].
Lo stato fibroso si caratterizza per i seguenti elementi:
1) Rapporto di forma (lunghezza (L)/diametro (D)) molto elevato ( L> > > D);
2) Orientamento delle macromolecole lungo l’asse di fibra;
3) Cristallinità generalmente alta;
4) Elevate prestazioni meccaniche [1,11,12,19,20].
70
FIGURA 15-destra: Il modello strutturale, “fringed micelle”, di un polimero
semicristallino al disotto della temperatura di fusione dei cristalliti.
Le regioni cristalline, vedesi frecce in figura, hanno una lunghezza di circa
10-6 cm. Le regioni cristalline e amorfe sono interconnesse tra loro. Tratti della
stessa macromolecola possono fare parte di regioni amorfe e cristalline [1].
FIGURA 16-sinistra: Nei polimeri amorfi le macromolecole assumono una
strutturazione a gomitolo statistico “Coiled-o Spaghetti-like structure” [1,14].
FIGURA 17: Spettro di diffrazione dei raggi X all’alto angolo del polietilene.
La regione ombreggiata ha origine dalla diffusione continua dei raggi X da
parte della fase amorfa; i picchi discreti derivano dalla diffrazione discontinua
della fase cristallina [1,14].
71
Le fibre hanno una struttura molto complessa; esse sono costituite dall’associazione di micro fibrille
elementari, ciascuna originatesi dall’aggregazione di un numero più o meno elevato di macromole
le cui catene sono prevalentemente orientate parallelamente all’asse di fibra (vedesi modello in
figura 18) [19].
Le microfibrille a loro volta si associano formando fibrille e quindi attraverso un processo di
aggregazione successivo si ottiene la fibra con dimensioni visibili.
Come si evince dalla rappresentazione schematica e semplificata riportata nelle figure 18 e 19, nelle
fibrille elementari, lungo l’asse di fibra, si succedono, alternandosi tra loro, domini a elevato grado
di ordine (cristallini) e regioni disordinate (amorfe).
Attraverso l’uso della tecnica della diffrazione dei raggi X al basso angolo è possibile determinare
la grandezza (L) che misura la distanza che intercorre tra il baricentro di due cristalliti separati tra
loro da una regione amorfa e due zone con caratteristiche intermedie (L § Lc+La), figura 19
[19,20].
Nel mondo vegetale e animale sono presenti, rispettivamente, fibre cellulosiche (cotone, lino,
canapa e molte altre) e proteiche (lana e seta) [19,20,21].
La struttura chimica di una macromolecola di cellulosa, componente principale delle fibre vegetali,
è mostrata nella figura 20.
FIGURA 18: Modelli schematici che illustrano la struttura dello
stato fibroso nei polimeri (vedesi testo) [19,20]. Nel modello a
sinistra i domini amorfi e cristallini sono indicati rispettivamente
come (A) e (C ).
72
FIGURA 19: Modello strutturale (schematico) di una fibra di polimero dove
regioni cristalline, con densità ȡc, si succedono a regioni amorfe, con densità
ȡa, con l’interposizione di tratti aventi un grado di ordine intermedio (ȡc< ȡa),
vedesi testo[19,20].
FIGURA 20: Struttura molecolare di una singola macromolecola
di Cellulosa nella forma di 1,4-ȕ-D-glucopiranosio.
Le unità di glucosio assumono una conformazione a sedia [21].
Nelle fibre cellulosiche le macromolecole, come evidenziato nella figura 21, sinistra, si associano
dando luogo alla formazione di piani che a loro volta s’impacchettano formando le fibrille e quindi
per un processo di successive aggregazioni le fibre macroscopiche, vedesi figura 21, destra
[19,20,21].
Una capsula di cotone maturo con fuoriuscita delle fibre, insieme alla micrografia elettronica di una
fibra di cotone disidratata, è mostrata nella figura 22 [19,20, 21].
Esempi di fibre naturali di origine animale sono la lana e la seta, entrambe costituite da proteine
fibrose. La proteina, principale costituente strutturale della lana, è l’Į cheratina, mentre la seta è
caratterizzata dalla co-presenza di due proteine diverse: la sericina (amorfa) e la fibroina
(cristallina). Sia le fibre di lana che di seta hanno la capacità di essere filate e quindi tessute
[19,20,21].
73
FIGURA 21: Sinistra, è illustrato come le macromolecole della cellulosa si
associano e si orientano lungo l’asse di fibra. La struttura è stabilizzata da legami
a idrogeno intermolecolare (rappresentati in figura mediante linee punteggiate).
Destra, micrografia elettronica delle lamelle costituenti le pareti interne della
cellula dell’alga, Chaetomorpha, attraverso la quale viene evidenziata la presenza
di fibrille cellulosiche [19,20,21].
FIGURA 22: Sinistra, capsula di cotone maturo con fuoriuscita
delle fibre. Ogni fibra ha un’estremità legata ai semi, l’altra è libera.
Destra, micrografia elettronica di una fibra di cotone disidratata,
attraverso la quale è possibile evidenziare il fenomeno di torsione e
le tipiche rugosità superficiali [19,20,21].
74
FIGURA 23: Le due conformazioni a minima energia che
possono assumere le proteine fibrose. Sinistra, conformazione
a Į-elica destrorsa (cheratina della lana).
Destra, una lamella a foglietto ripiegato costituita da macromolecole
proteiche, come la fibroina della seta, in una conformazione di tipo ȕ
[20,21].
FIGURA 24: Micrografia elettronica di una fibra di lana
75
FIGURA 25: Sopra-sinistra, Il baco estrude i filamenti serici da
un orifizio posto sotto la bocca. La bava serica è utilizzata per costruire
il bozzolo. Sopra-destra, micrografia elettronica a scansione attraverso
la quale è evidenziata la natura composita della bava serica. Sono visibili
le bavelle di fibroina (cristallina) e la guaina esterna di sericina (amorfa)
[19,20,21]. Sotto, micrografia elettronica di fibre di fibroina sgommate,
vale a dire depurate della sericina.
Le proteine fibrose costituenti le fibre di lana e seta si diversificano non solo per quanto riguarda la
loro composizione e costituzione chimica ma anche per la conformazione e forma geometrica che le
singole macromolecole assumono nei rispettivi reticoli cristallini.
In particolare, come si evince dalla figura 23, sinistra, le macromolecole della cheratina, costituente
delle fibre di lana, assumono una conformazione a Į-elica destrorsa. Questa struttura è stabilizzata
da forti legami a idrogeno, intramolecolari, tra gli idrogeni dei gruppi N-H e gli ossigeni dei gruppi
C=O (vedonsi tratti punteggiati in figura 23).
Le macromolecole della fibroina si caratterizzano per una conformazione di tipo ȕ, a catena
all'incirca estesa, dove gli atomi dello scheletro macromolecolare giacciono quasi in un piano.
La peculiarità di questa strutturazione è che le macromolecole associandosi tra loro formano
dei piani di lamelle ondulate, a foglietto ripiegato o plissettato (figura 23, destra).
76
Nella strutturazione di tipo ȕ, tipica della fibroina della seta, i segmenti molecolari s’impacchettano
tra loro secondo una disposizione che si caratterizza perché molecole adiacenti hanno opposte
orientazioni (struttura ȕ-antiparallela).
I legami a idrogeno, fra gruppi NH e CO, stabilizzano la struttura. I sostituenti laterali di una stessa
catena assumono tutti, o una disposizione di tipo Up, oppure Down; nelle due molecole adiacenti i
gruppi laterali si disporranno in maniera opposta [19,20,21].
La fotografia di una fibra di lana con la sua tipica struttura a scaglie è mostrata nella figura 24 [21].
In figura 25, sinistra, è riportata la fotografia del baco da seta mentre secerne una bava di seta.
In figura 25, destra, è illustrata la struttura bi-componente delle singole bave[21].
La morfologia di fibre di fibroina sgommate cioè, depurate della sericina è evidenziata nella
micrografia elettronica di figura 25, sotto.
Tra le fibre di polimeri di sintesi rientra il Kevlar, una fibra che appartiene alla famiglia delle
poliammidi (Nylons) aromatiche (Aramidi) e la cui struttura dell’unità ripetitiva è illustrata nella
figura 26 [22]. Da questa figura si evince come nel Kevlar < tutti i gruppi ammidici sono separati
da gruppi parafenilenici ossia i gruppi ammidici si attaccano agli anelli fenilici opposti uno
all'altro, negli atomi di carbonio 1 e 4 > [22].
FIGURA 26: Struttura molecolare dell’unità ripetitiva
del Kevlar, una fibra sintetica ad elevate prestazioni [22].
Come illustrato attraverso la figura 27, le macromolecole di kevlar attraverso la formazione di forti
legami a idrogeno formano delle lamelle le quali associandosi tra loro danno luogo alla formazione
della fibra a livello macroscopico. Le fibre di Kevlar hanno un carico di rottura elevato e una bassa
densità (1,44 g/cm3).
E’ interessante osservare come la presenza di zone amorfe che si alternano a regioni cristalline
lungo l’asse delle fibre determina la capacità da parte delle stesse di assorbire e interagire con
sostanze coloranti e quindi essere colorate, sia prima sia dopo essere state tessute.
Le fibre naturali e sintetiche trovano applicazione anche come tele per substrati di dipinti e come
supporti di papiri e documenti cartacei (vedesi figura 28).
<Per tela, si intende qualsiasi tipo di tessuto, teso fissato a un telaio di legno. Di solito le tele sono
di lino, cotone, canapa o acriliche. Il telaio è fornito di quattro cunei che servono a tendere la tela
per evitare che si formino pieghe. La trama della tela può essere più o meno grossolana, a seconda
di come si vuole dipingere> [http://angoloarte.altervista.org/TELE.htm].
77
Le micrografie elettroniche in scansione, mostrate in figure 29 e 30, evidenziano le peculiarità che
caratterizzano la struttura e la morfologia di fibre di lino e di canapa, prelevate da antichi tessuti.
FIGURA 27: La strutturazione delle fibre (sintetiche) di kevlar.
FIGURA 28: Sinistra, tela di canapa per supporto pittorico con campione di
corda.
Destra, frammento di un antico tessuto in cotone utilizzato come supporto di
Papiri (Museo Egizio del Cairo) [L. D’orazio, C. Mancarella, E. Martuscelli, C. Polcaro,
«Papirologia Lupiensa», 10, 92 (2001)].
78
FIGURA 29: Destra, micrografia elettronica in scansione di fibre di lino prelevate
da un manufatto rinvenuto a Bakchias (antico Egitto), notasi la particolare morfologia
a nodi delle fibre. Sinistra, fotografia del manufatto.
[E. Martuscelli e al., in «Bakchias VI» Monografie di SEAP, Ist. Edit. e Polig. Int. Pisa (1998)].
FIGURA 30: Sinistra, frammento di un antico tessuto in canapa.
Destra, la tipica morfologia delle fibre di canapa.
[E. Martuscelli, L. D’Orazio, Euro-Mediterranean Advanced School on:
New materials and technology…..>, CNR Napoli, (1999).
79
4) La transizione vetrosa nei polimeri amorfi e semicristallini e la fusione
La transizione vetrosa è una trasformazione reversibile del secondo ordine, tipica dei polimeri
amorfi e delle regioni disordinate presenti nei polimeri semicristallini, che avviene a una ben
determinata temperatura, detta di transizione vetrosa (Tg). Per temperature inferiori il materiale ha
caratteristiche tipiche dello stato vetroso (alta rigidità e fragilità). Sopra la tg, il polimero assume un
comportamento gommoso (maggiore flessibilità e minore rigidità).
Dal punto di vista molecolare la Tg rappresenta la transizione da uno stato in cui i segmenti
macromolecolari sono incapaci di eseguire movimenti, essendo in sostanza congelati in un rigido
impacchettamento, a uno caratterizzato da un più elevato volume libero. In queste condizioni i
segmenti molecolari sono relativamente liberi di compiere movimenti di torsione e di traslazione
[1,12].
La temperatura di fusione (Tm) di un polimero semicristallino rappresenta la temperatura alla quale
i cristalliti fondono passando dallo stato solido cristallino a uno stato liquido disordinato. La
fusione, dal punto di vista termodinamico, è una transizione del primo ordine [1,12].
Riportando in grafico grandezze quali, il volume specifico oppure il modulo di elasticità, in
funzione della temperatura è possibile evidenziare le transizioni sopra delineate e quindi
determinare i valori di Tg e Tm.
FIGURA 31: E’ mostrata, schematicamente, la dipendenza
dalla temperatura del volume specifico di un polimero amorfo e
di un polimero semicristallino.
In grafico sono evidenziate la transizione vetrosa (Tg) e la fusione
(Tm) [23].
80
L’andamento delle curve volume specifico - temperatura (figura 31) può essere interpretato, nel
caso di polimeri amorfi e semicristallini, sulla base delle seguenti considerazioni:
--- A T<Tg, i moti molecolari sono molto limitati, i sistemi sono rigidi e vetrosi.
--- A T=Tg, il coefficiente di espansione volumetrico subisce un’improvvisa variazione evidenziata
dal fatto che la pendenza delle curve, in figura 31, aumenta. Contemporaneamente i valori del
modulo subiscono un brusco abbassamento.
--- A T>Tg, sono permessi movimenti molecolari a lungo raggio. Un polimero amorfo diventa
gommoso (tratti di macromolecole costituiti da 20-40 atomi possono muoversi in maniera
coordinata). Un polimero semicristallino assume un comportamento plastico e quindi può essere
deformato sotto l’azione di opportune sollecitazioni meccaniche [23].
Alla temperatura di fusione i cristalliti, presenti nei polimeri semicristallini, fondono pertanto il
polimero si comporta, a causa degli “entanglements” (grovigli) intra e inter macromolecolari come
un liquido con caratteristiche visco-elastiche [23].
Come messo in evidenza dall’andamento delle curve, sforzo-deformazione, mostrato in figura 32, le
proprietà dei polimeri dipendono fortemente dalla loro struttura molecolare e dallo stato di
aggregazione delle macromolecole allo stato condensato.
In particolare dal confronto degli andamenti delineato in figura 32, si ricava che a parità dello
sforzo applicato l’entità della deformazione varia da materiale a materiale. I polimeri reticolati e le
fibre si caratterizzano per bassi valori della deformazione, anche in corrispondenza di sforzi elevati.
Al contrario gli elastomeri mostrano alti gradi di deformazione per valori bassi degli sforzi insieme
con un’elevata reversibilità. I polimeri termoplastici presentano un comportamento intermedio con
la peculiarità del fenomeno dello snervamento come si evince dal plateau che si osserva nella curva
corrispondente.
Nella tabella 1 sono indicati per una serie di polimeri i valori della Tg e della Tm [23].
TABELLA 1, sinistra: Valori della Tg e della Tf (Tm) per alcuni polimeri [23].
FIGURA 32, destra: Diagrammi sforzo-deformazione (schematico) per le diverse
classi di polimeri (elastomeri, plastomeri, reticolati e fibre), vedesi testo.
81
5) La Regioselettività e la Stereoisomerizzazione nelle macromolecole
Monomeri asimmetrici quali il propilene (CH2=CH (CH3)), il vinil cloruro (CH2=CH (Cl)), lo
stirene (CH2=CH(C6H5), l’acrilonitrile CH2=CH(C‫) ؠ‬, gli esteri dell’acido acrilico [il polimetil
metacrilato (CH2=C (CH3)(CO2CH3), il vinilacetato (CH2=C (CH3)(OOCCH3)] e altri presentano il
fenomeno della “Regioselettività”, potendo susseguirsi lungo la macromolecola con una
disposizione di tipo testa-testa, coda-coda oppure testa-coda (vedesi schema in figura 33). La
moderna chimica macromolecolare è capace di indirizzare la reazione di sintesi in maniera regio
selettiva. In queste condizioni tutte le macromolecole sono regolarmente costituite, essenzialmente,
da una successione delle unità ripetitive di tipo testa-coda.
FIGURA 33: Il fenomeno della regioselettività in monomeri
asimmetrici.
Sopra, polimerizzazione del tipo testa(head)-coda(tail).
Sotto, polimerizzazione con successione irregolare
di tipo testa-testa o coda-coda [24].
Nel caso di monomeri asimmetrici del tipo sopra indicati è possibile riscontrare un altro fenomeno
detto di “Steroisomeria”.
Il concetto d’isomeria configurazionale o stereoisomeria può essere delucidato prendendo ad
esempio il caso del polipropilene. Partendo dal propilene monomero (CH2=CH(CH3)), secondo le
condizioni di sintesi è possibile produrre un polimero dove, in un’ipotetica conformazione con gli
atomi di carbonio in catena giacenti in un piano, i metili si dispongono casualmente sopra o sotto il
piano (caso della macromolecola in alto in figura 34).
Alternativamente la reazione di polimerizzazione può condurre alla formazione di macromolecole,
dove si succedono unità con la configurazione dell’atomo di carbonio terziario alternativamente
opposta (caso della macromolecola al centro nella figura 34). Macromolecole come quelle descritte
in alto nella figura sono irregolari, pertanto non potranno mai cristallizzare. Il polipropilene
costituito da simili catene è definito atattico e per definizione è un materiale amorfo.
Le macromolecole al centro e in basso nella figura 34, denominate rispettivamente sindiotattiche e
isotattiche, sono regolari e quindi cristallizzabili. I materiali corrispondenti prendono il nome di
polipropilene sindiotattico e isotattico [1,24]. Ragionamento analogo vale per tutta la serie di
monomeri asimmetrici citati.
82
FIGURA 34: Stereoisomeria nel caso del polipropilene (vedesi testo) [1,24].
In figura in nero sono i metili in grigio i carboni e in bianco gli idrogeni.
Sopra, catena irregolare, atattica. Centro, catena regolare, sindiotattica.
In basso, catena regolare, Isotattica.
Con l’ausilio di catalizzatori stereospecifici è possibile sintetizzare polimeri isotattici e sindiotattici.
Come si evince dalla tabella sotto riportata, le caratteristiche chimiche, fisiche e applicative
dipendono fortemente dal tipo di stereoisomeria delle macromolecole costituenti i corrispondenti
materiali polimerici [1,24].
Polymer Tg atactic Tg isotactic Tg syndiotactic
PP
–20 ºC
0 ºC
–8 ºC
PMMA
100 ºC
130 ºC
120 ºC
In tabella: PP=polipropilene; PMMA=polimetilmetacrilato
83
In particolare nel caso del polipropilene (PP) si osserva che il conformero atattico per le sue
caratteristiche è un materiale gommoso a RT che può essere usato solo come adesivo. Mentre i
conformeri, isotattico e sindiotattico, entrambi cristallini (Tm=170 e 120°C), hanno caratteristiche
di termoplastici e quindi possono essere formati con le normali tecniche di lavorazione tipiche di
questa tipologia di materiali polimerici.
RIFERIMENTI
1) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>,
a cura dell’Istituto per l’Arte e il Restauro, Palazzo Spinelli, PAIDEIA, Firenze (2007).
2) David A. Katz, pdf, Polymers, 1998,
http://www2.units.it/liut/ORGANICA_3/organica3.htm
3) http://www.pslc.ws/italian/nylon.htm
4) http://www.treccani.it/enciclopedia/poliammide/
5) http://matse1.matse.illinois.edu/polymers/prin.html
6) http://chem-guide.blogspot.it/2010/04/polymer.html
7) http://scienzaemusica.blogspot.it/2013/03/una-straordinaria-proteina-lemoglobina.html
8) http://editimage.org/
9) http://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/chimica/La-chimica-del-carbonio/Compostiorganici-di-interesse-biologico/Proteine.html
10) http://www.pslc.ws/italian/pet.htm
11) C.Hall, < Polymer materials >, The Macmillan Press, London (1981).
12) E. Martuscelli < Degradation and preservation of artefacts in synthetic plastics >,
Palazzo Spinelli Restauro, PAIDEIA Firenze (2012).
13) Plastic Engineering Company < Phenolic Novolac and Resol Resins >, www.plenco.com/resin.htm
14) A. Passaro,
Centro di Progettazione, Design & Tecnologie dei Materiali CETMA, pdf
15) http://ww2.unime.it/weblab/ita/bragg/bragg2.htm
S.
Quartieri,
Dipartimento
di
Scienze
della
Terra,
Università
di
Messina,
http://www.terra.unimo.it/appunti/958.pdf
16) P. P. Ewald, 1962, IUCr, 50 Years of X-ray Diffraction, Section 5, page 64.
17) http://reference.iucr.org/dictionary/File:BraggLaw-1.gif
18) http://studium.unict.it/dokeos/2012/courses/1003109C1/document/XRD_new.pdf
19) E. Martuscelli, < Degradazione delle fibre naturali e dei tessuti antichi >, Palazzo Spinelli
Restauro, PAIDEIA Firenze (2006).
20) E. Martuscelli, < Nature and structure of natural fibres >, in Book of Lectures of EuroMediterranean Advanced School, edited by E. Martuscelli and L. D’Orazio, CNR, Italy (2002).
21) E. Martuscelli, <Le fibre di polimeri naturali nell’evoluzione della civiltà: le fibre di seta>,
Monografie Scientifiche, Serie Scienze Chimiche, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma
(1999).
22) http://www.pslc.ws/italian/aramid.htm
23) V. Venditto, modulo: chimica dei polimeri,
http://www.polymertechnology.it/bacheca/NanocompositeForm/page0/files/4-stato_amorfo.pdf
24) https://www2.chemistry.msu.edu/faculty/reusch/virttxtjml/polymers.htm
84
D)
I POLIMERI DI SINTESI QUALI MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE D’ARTE
MODERNA E CONTEMPORANEA
Dai monomeri ai polimeri ad alto peso molecolare (prodotti fatti dall’uomo)
Capitolo –D.2): Materiali polimerici di sintesi utilizzati nella realizzazione di manufati di arte
moderna e contemporanea
I polimeri sintetici, a causa delle loro intrinseche caratteristiche di base, sono lavorati e formati,
previa addizione di una serie di additivi atti a migliorarne lavorabilità, la stabilità chimica, le
prestazioni e la colorazione.
Generalmente a questo materiale composito (polimero+additivi+riempitivi+pigmenti) si da il nome
di plastica. Le plastiche, sin dalla nascita dell’industria dei polimeri di sintesi furono preferite, in
molte applicazioni, a materiali più tradizionali (legno, ceramiche, ferro, avorio, ecc.).
Le ragioni di questo processo d’imitazione e sostituzione sono da ascriversi al fatto che le plastiche,
pur alla presenza di alcuni punti di criticità, presentano i seguenti vantaggi:
---Facilità di lavorazione;
---Bassi costi di produzione;
---Leggerezza;
---Colorabilità;
---Ampia gamma di prestazioni [1,2, 3 4].
A seguito della crescita dell’industria dei polimeri di sintesi, particolarmente notevole dalla fine
della seconda guerra mondiale, molti artisti, architetti e designer, si convertirono all’impiego delle
plastiche quale materiale di base per la realizzazione dei loro manufatti. Formulazioni a base di
polimeri sono state quindi ampiamente utilizzate per la realizzazione di opere di arte contemporanea
e moderna pertanto nei giorni nostri oggetti di plastica, con valore artistico, sono in misura sempre
maggiore, presenti nelle collezioni private e in pubblici musei.
Qui di seguito è riportata una casistica di oggetti d’arte di plastica ottenuti utilizzando varie
tipologie di polimeri di base e anche differenti processi di lavorazione.
1) Manufatti realizzati per lavorazione meccanica (scultura, intaglio, modellazione e
per asporto) di una massa di plastica ottenuta per presso fusione, estrusione, colata
o casting.
a) Manufatti in resina epossidica
Le Resine Epossidiche sono dei materiali polimerici termoindurenti, ottenute per polimerizzazione
e reticolazione dai monomeri di partenza secondo lo schema riportato in figura 1 [3,4,5].
Generalmente il processo che porta all’ottenimento di pezzi pre-finiti in resina epossidica consiste
nel preparare il prepolimero (un polimero a basso peso molecolare con gruppi epossidici a ogni
estremità) che ha caratteristiche termoplastiche, e quindi formarlo insieme al catalizzatore a
temperature inferiori a quella di attivazione dello stesso. Solo a fine lavorazione il pezzo è portato a
temperature più alte, dove la massa si consolida assumendo una struttura a elevato grado di
reticolazione (figura1) [3,4].
85
< Le resine epossidiche induriscono per dare materiali solidi con l’aiuto di agenti di reticolazione o
catalizzatori, che includono: ammine, anidridi e aldeidi > [6].
1)
Prepolimero termoplastico
2)
FIGURA 1: Schema della reazione di polimerizzazione delle resine epossidiche.
1)-Sintesi del pre-polimero dai due monomeri (bisfenolo-A ed epicloridrina)
in presenza di NaOH.
2)-Reticolazione o indurimento mediante aggiunta di una diammina (sotto in figura)
[3,4].
86
La scultura Awakening beauty di Frank Gallo (USA), mostrata in figura 2, è stata realizzata
scolpendo una massa preformata di resina epossidica già indurita [5].
FIGURA 2: Scultura in resina epossidica, un materiale
termoindurente, Awakening beauty di Frank Gallo USA [5].
b) Sculture in polimetilmetacrilato
Il polimetilmetacrilato (PMMA, comunemente noto in commercio come Plexiglas o Perspex) è un
polimero vinilico, termoplastico, che si ottiene, come mostrato schematicamente in figura 3, per
polimerizzazione (radicalica vinilica) del monomero, il metilmetacrilato (estere metilico dell’acido
metacrilico, MMA) [3,4].
FIGURA 3: Schema di sintesi del polimetilmetacrilato (PMMA)
dal monomero, il metilmetacrilato (MMA) [7].
87
Esempi di sculture ottenute per lavorazione meccanica di lastre o masse preformate di PMMA sono
documentate nelle figure 4 e 5.
FIGURA 4: Sinistra, scultura, “Lot’s Wife”, ricavata da un blocco di
polimetilmetacrilato (PMMA) da A. Fleischmann, (I.C.I., Plastics Division).
Destra, scultura, Adamo e Eva, scolpita in una lamina spessa di PMMA da
Marcel Ronay, ( I. C. I. Plastics Division ) [8].
FIGURA 5: Sculture in bianco e nero, in PMMA, realizzate
da Marcello Morandini [9,10,11].
88
FIGURA 6: La grande scultura trasparente in PMMA (Apolymon),
ottenuta per colata o casting da Bruce Beasley (USA), 1968-70 [14].
Manufatti artistici, pieni, in PMMA possono essere anche essere realizzati attraverso la tecnica
della colata in uno stampo (casting) [12,13]. Questo processo di lavorazione ricorda quello dei
bronzi.
Nel processo di casting un material liquido è versato in uno stampo, dove solidifica per effetto della
temperatura oppure per effetto di un processo di polimerizzazione. Si forma un oggetto
tridimensionale che riproduce fedelmente il disegno dello stampo [13,14].
Nel caso del PMMA il processo di casting è basato sulle seguenti fasi:
---- Il monomero liquido o/e un suo prepolimero a basso peso molecolare contenenti il catalizzatore
è colato nello stampo;
---La temperatura è innalzata al fine di innescare/completare il processo di polimerizzazione;
---La temperatura è riportata a RT, lo stampo aperto e quindi il manufatto rimosso e sottoposto a
pulitura e rifinitura.
89
Nella figura 6 è mostrata la grande scultura in PMMA (Apolymon) realizzata da Bruce Beasley
(USA) impiegando su larga scala la tecnica del casting [14]. Questa scultura è stata istallata nella
città di Sacramento, California (USA).
c) Sculture in Polistirene
Il polistirene (PS) comunemente in commercio (general purpose o compatto o cristallino) è un
polimero aromatico a struttura lineare (amorfo) con caratteristiche di termoplastico che è ottenuto
attraverso una polimerizzazione per addizione, radicalica, che prevede l’apertura del doppio legame
dello stirene monomero. La sintesi del PS necessita la presenza di opportuni iniziatori che
decomponendosi generano radicali (a. es. i perossidi) e catalizzatori (figura 7).
Il PS ha una Tg di § 100°C, pertanto a temperatura ambiente è un solido vetroso. Al disopra della
Tg diviene plastico e quindi, a temperature relativamente più alte può essere trasformato e formato
con le normali tecniche di lavorazione per i polimeri termoplastici [3,4,15].
FIGURA 7: Il polistirene è un polimero di sintesi che si ottiene attraverso
una reazione di polimerizzazione, a partire dal monomero stirene (sinistra
in figura) [3,4,15].
FIGURA 8: Micrografia elettronica di una sezione di EPS
attraverso cui è messa in evidenza la tipica struttura cellulare [16].
90
Il polistirene può essere anche ottenuto in una struttura espansa (EPS). Per realizzare questo
prodotto le piccole perle trasparenti di PS (0,3-2,8 mm), derivanti dalla reazione di sintesi, sono
messe a contatto con un agente espandente, generalmente il pentano (un idrocarburo gassoso), che
penetra nelle sfere di PS e quindi
<si espande facendo rigonfiare le perle fino a 20-50 volte il loro volume iniziale. Si forma così al
loro interno una struttura a celle chiuse che trattiene l'aria e conferisce al polistirene le sue
eccellenti caratteristiche d’isolante termico e ammortizzatore di urti> (figura 9) [16].
Il polistirene sia in forma compatta che espansa è stato impiegato da molti artisti contemporanei
nella realizzazione, attraverso lavorazione meccanica di masse o blocchi preformati, di sculture a
elevato contenuto artistico [19]. Alcuni esempi sono mostrati nella figura 9.
FIGURA 9: Sinistra, scultura in polistirene, Leda e il Cigno di
Gabrielli Luciano [17].
Destra, Jean Dubuffet, “Pantalon d’Equinox”, polistirene espanso
dipinto.
d) Sculture in Polivinilcloruro
Il polivinilcloruro (PVC), un polimero di massa con caratteristiche termoplastiche, stabilizzato da
una serie di additivi, si ottiene per polimerizzazione di addizione, radicalica, del cloruro di vinile
(figura 10) [3,4,20, 21]. Moderne sculture in PVC sono mostrate in figura 11.
91
FIGURA 10: Dal cloruro di vinile, monomero (a sinistra),
al polivinilcloruro (a destra) [20].
FIGURA 11: Moderne sculture in PVC di Peeta, pseudonimo
di Manuel di Rita.
[http://www.peeta.net/peeta_it/sculptures/venus_page.html]
e) Sculture in Poliuretano
I poliuretani (PU) sono una famiglia molto vasta di polimeri i quali si caratterizzano per la presenza
lungo le macromolecole di legami uretanici del tipo sotto riportati.
92
FIGURA 12: Schema della reazione tra un diisocianato e un diolo
che porta alla sintesi di un generico poliuretano prepolimero, lineare.
FIGURA 13: Struttura molecolare di poliuretani segmentati.
Sopra, di tipo poliestere. Sotto, di tipo polietere.
[Thea van Oosten, PUR Facts, Amsterdam Uiversity Press (1009)].
93
I PU sono sintetizzati facendo reagire, alla presenza di catalizzatori ed estensori di catena, un diisocianato con un poliolo (figura 12).
< I polioli sono prodotti poliossidrilici con peso molecolare compreso tra 400 e 6000 e con
funzionalità (numero dei gruppi ossidrilici reattivi per molecola) comprese tra 2 e 8. Possono
essere di natura polietere (polioli polietere) o poliestere (polioli poliestere) > [24].
In fig.13 sono riportate le strutture molecolari di PU-segmentati a base polietere e poliestere; in
fig.14 è mostrato lo schema per la produzione di schiume poliuretaniche.
<Le schiume poliuretaniche sono prodotte attraverso la formazione del polimero poliuretanico e lo
sviluppo concomitante del gas espandente. Quando questi due processi sono ben bilanciati, le bolle
di gas sono intrappolate all’interno della matrice polimerica durante la sua formazione. La
schiuma rigida poliuretanica è un materiale bifase con struttura cellulare a celle chiuse costituito
da una matrice polimerica termoindurente altamente reticolata e da una fase gassosa che
rappresenta in genere più del 95% del volume totale del prodotto> [25].
FIGURA 14: Schema della sintesi che porta all’ottenimento di poliuretani espansi.
Sopra, la struttura molecolare dei monomeri di partenza. Centro, la struttura della
macromolecola lineare del PU. La presenza in catena di gruppi ossidrili appartenenti
al glicerolo, liberi di reagire, determina la struttura a reticolo tridimensionale del PU.
Sotto, la reazione tra un isocianato e l’acqua, presente in tracce, che da origine alla
formazione di anidride carbonica, la quale ultima facilita la formazione di una
struttura cellulare [26] (vedesi testo).
Gli EPU possono essere, flessibili (struttura cellulare aperta) oppure rigidi (struttura a celle chiuse).
La sintesi di schiume rigide poliuretaniche prevede la preparazione di due soluzioni costituite: una
da una miscela di un poliolo (il glicerolo), un agente schiumogeno, un silicone che agisce da
tensioattivo e un catalizzatore; un’altra da un poliisocianato (il difenil metano diisocianato),
guardasi schema in figura 14 [26].
94
Mescolando in opportune condizioni le due soluzioni s’innesca la reazione di polimerizzazione del
PU che da origine a un sistema con una struttura molecolare tridimensionale [26].
Contemporaneamente l’acqua presente in piccole quantità causa la decomposizione dei composti
isocianici con produzione di anidride carbonica che determina la formazione della struttura cellulare
(vedesi figura 14, sotto). L’anidride carbonica e l’agente schiumogeno originano bolle gassose nel
sistema reagente che vanno a strutturarsi nella massa che si consolida in un rigido blocco
termoindurente.
Modificando in maniera controllata la natura chimica dei reagenti e degli agenti schiumogeni è
possibile realizzare EPU con caratteristiche morfologiche, fisiche e applicative molto diverse [27].
Lastre e blocchi di poliuretano espanso, rigido o flessibile (la tipica struttura delle celle è mostrata
in figura 15), sono stati ampiamente utilizzati per la realizzazione di manufatti d’arte. Alcuni
esemplari sono riportati nelle figure 16, 17, e 18.
FIGURA 15: Micrografia elettronica di un campione di
poliuretano espanso, flessibile, a base polietere, dalla quale
si evince la tipica struttura a celle aperte.
[Tesi di Laurea di D. Favero, Anno Academico 2012-2013, Relatore
Ezio Martuscelli, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli].
95
FIGURA 16-sinistra: Scultura in EPU, Cactus, <ideato da Guido Drocco e Franco
Mello nel 1972 per Gufram, è un appendiabiti….. É realizzato in poliuretano espanso
la cui superficie, verniciata in gluflac (una vernice lavabile), è modellata creando
una texture che richiama la superficie dell’omonimo vegetale..> [28, 29,30].
FIGURA 17-destra: Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso, “Pratone”,
Scultura in poliuretano espanso verniciato con Guflac, 95x140x140cm. 1971 [33].
FIGURA 18: Sculture di Piero Gilardi in poliuretano espanso.
Sinistra, “Spiaggia con papuina”, cm 30x30, 2004 [31].
Destra, “Pere Cadute”, anno 2000.
96
f) (Manufatti polimaterici).
Numerose opere d’arte moderna sono basate sull’impiego di più materiali caratterizzati da
caratteristiche chimiche, fisiche e comportamentali molto diverse.
Esempi di questa tipologia di manufatti sono mostrati in figura 19.
E’ importante rilevare come, in generale, la conservazione di manufatti polimaterici deve prendere
in considerazione il fatto che i meccanismi alla base dei processi di degrado sono diversi secondo la
natura chimica del materiale costituente. Inoltre nel progettare interventi di restauro e
protezione, siano essi diretti o indiretti, massima attenzione deve essere riservata a possibili effetti
sinergici e interazioni tra i prodotti derivanti dalla degradazione e la compatibilità dei materiali usati
con tutti i tipi di componenti.
Particolarmente degni di cura sono quei manufatti polimaterici che vedono la presenza di plastiche,
definite “maligne”, le quali hanno la caratteristica di degradarsi producendo sostanze molto reattive
(ad esempio di natura acida) capaci di causare profondi e irreversibili processi di degrado in altri
materiali componenti l’oggetto in esame [36].
Tra le plastiche maligne rientra la celluloide, una plastica contenente nella sua formulazione il
nitrato di cellulosa (un polimero che si ottiene per nitrazione della cellulosa, un polimero naturale) il
quale ultimo a seguito di degradazione termica da origine alla formazione di acido nitrico, un acido
molto aggressivo verso una vasta gamma di materiali organici e inorganici (vedonsi reazioni in
figure 20 e 21) [36].
FIGURA 19: Manufatti artistici, polimaterici, dove uno dei componente
è il PMMA.
Sinistra, “Construction in Space with Crystalline Centre” di Naum Gabo,
in polymethylmethacrylate e celluloide (1938-40 ) [35].
Destra, “Tavolo con cigno”, polimetilmetacrilato, poliestere e legno.
Opera di Vannetta Cavallotti.
97
FIGURA 20: Reazione di nitrazione della cellulosa che porta
all’ottenimento del nitrato di cellulosa, componente principale,
insieme alla canfora, della celluloide (schematico).
+3H2O
FIGURA 21: Schema della reazione che per effetto della degradazione
Termica porta alla denitrazione del nitrato di cellulosa con produzione, in
presenza di acqua, di acido nitrico [36].
98
RIFERIMENTI
1) E. martuscelli <le plastiche nel terzo millennio>, Ricerca e Futuro, 23, 46 (2002)
2) E. martuscelli <Dalla scoperta di Natta lo sviluppo dell’industria e della ricerca sulle
macromolecole in Italia>, Consiglio Nazionale dele Ricerche, (2001).
3) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>, a
cura dell’Istituto per l’Arte e il Restauro, Palazzo Spinelli, PAIDEIA, Firenze (2007).
4) E. Martuscelli <Degradation and preservation of artefacts in synthetic plastics>,
Palazzo Spinelli Restauro, PAIDEIA Firenze (2012).
5) G. Martinez, Revista de Plasticos Modernos, 89,73 (2005).
6) http://w3.uniroma1.it/pasquali/page2/page9/page10/files/04-02.pdf
7) http://www.pslc.ws/italian/pmma.htm
8) J. Gordon Cook, <Your guide to Plastics>, Merrows Publishing CO LTD, England ( 1964)
9) http://www.teknemedia.net/archivi/2008/02/23/mostra/28477.html
10) www.exibart.com/.../rev/723/rev50723(1)-ori.jpg, (2008).
http://www.sapere.it/tca/minisite/arte/nonsolomostre/2004map/map06.html, (2008).
11) http://www.ebay.it/itm/FURSTENBERG-Marcello-Morandini-Empire-Platzteller-groser-TellerNEU-/161105370702?pt=DE_M%C3%B6bel_Wohnen_Sonstige&hash=item2582a0de4e
12) R. O. Ebewele, <Polymer Science and technology>,CRC Press (2000).
13) http://www.imouldsourcing.com/index.php/what-is-green-die-casting/
14) http://www.brucebeasley.com/%20Acrylic%20/page/Apolymon.sun.htm
15) http://it.wikipedia.org/wiki/Polistirene
16) http://www.abmespansi.it/?p=4&n=eps
17) http://www.bovere.it/notizie.php?idNews=7
18) http://fighillearte.blogspot.it/2011/03/enzo-maneglia-nel-museo-di-fighille.html
19) http://artlistening.umpf.it/archives/327
20) http://it.wikipedia.org/wiki/Cloruro_di_polivinile
21) http://www.galleryteo.com/artists/15_e.html
22) M. G. Kamath, Atul Dahiya, Raghavendra R. Hegde, Monika Kannadaguli & Ramaiah Kotra, <
Chemical
Bonding
>
Updated:
April,
2004
http://www.engr.utk.edu/mse/Textiles/Chemical%20Bonding.htm
23) Leo
Amino:
Sculpture
1945-1974,
Gilbert,
ppg.
26,
27
http://www.wright20.com/auctions/view/DLPX/F5XM/332/LA/none/0/0/
24) http://www.ironguide.it/Compiti_di_chimica/piste_atletica_leggera/poliuretani.pdf
25) http://lschimica.unipr.it/Poliuretani.pdf
26) D. A. Katz.<Polymers>, Chemist, Educator, Science Communicator, and Consultant
1621 Briar Hill Road, Gladwyne, PA 19035, USA, 1998, pdf
27) http://www.hotfrog.it/Societa/DUNA-Corradini
28) http://www.eyeondesign.it/appendiabiti-cactus-di-guido-drocco-e-franco-mello-per-gufram/
29) http://www.owo.biz/products/cactus-gufram-red
30) G. Pettena <arte/ architettura/ambiente 26, radical design: ricerca e progetto dagli anni ’60 ad
oggi>,http://www.ca.archiworld.it/riviste/rivista_arch/anno_2004/luglio/pag%2026-28.pdf
31) http://www.ilcastelloarte.it/mostra.php?id=130
32) http://artecontemporaneatemporanea.wordpress.com/2012/05/30/380/
33) http://www.artelabonline.com/articoli/view_article.php?id=3551
34) http://milanoartexpo.com/2011/11/23/dennis-oppenheim-electric
35) http://fusionanomaly.net/naumgabo.html, (2008)
36) E. Martuscelli, <The chemistry of degradation and conservation of plastic artefacts of pre-synthetic
era based on natural or artificial polymers>, Palazzo Spinelli Restauro, PAIDEIA, Firenze (2010).
99
D)
I POLIMERI DI SINTESI QUALI MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE D’ARTE
MODERNA E CONTEMPORANEA
Dai monomeri ai polimeri ad alto peso molecolare (prodotti fatti dall’uomo)
Capitolo –D.3): La degradazione delle plastiche in relazione alla composizione e struttura
molecolare dei polimeri componenti [1-23]
Nel caso dei polimeri il termine degradazione è usato per indicare un insieme di processi che
comportano non solo la demolizione delle catene macromolecolari ma anche modificazioni
chimiche di varia natura ed entità che determinano comunque rilevanti effetti sulle proprietà fisicomeccaniche del materiale [1].
La degradazione delle plastiche ha inizio già nel corso dei processi di trasformazione e lavorazione
durante i quali sono sottoposti, alla presenza dell’ossigeno atmosferico e a temperature
generalmente elevate, a forti sollecitazioni meccaniche. Inoltre c’è da osservare come i manufatti di
plastica nel corso del loro ciclo di vita, riguardo alla loro funzione e tipologia d’impiego, sono
esposti solitamente all’azione combinata della luce, dell’ossigeno e di vari agenti chimici inquinanti
che determinano inevitabilmente fenomeni degradativi [1,2,3,4].
Fondamentalmente il deterioramento delle macromolecole in massa, secondo il fattore di degrado, è
riconducibile alle seguenti tipologie:
1) Degradazione Termica e Termo-ossidazione (per azione combinata di calore e
ossigeno);
2) Fotodegradazione e Foto-ossidazione (per effetto della luce naturale alla presenza di
ossigeno);
3) Degradazione Chimica (indotta dall’azione aggressiva di acidi, basi, ozono, acqua,
inquinanti ambientali, piogge acide, ecc.,)
4) Degradazione Meccanica (derivante dalle sollecitazioni meccaniche subite nel corso
della lavorazione);
5) Biodegradazione (indotta da microrganismi).
I processi di degradazione dei polimeri allo stato condensato, oltre che dal tipo di agente, dipendono
dalla struttura del polimero (natura chimica delle unità ripetitive, peso molecolare, cristallinità,
morfologia) e da grandezze quali: temperatura di transizione vetrosa, e temperatura di fusione.
I fenomeni degenerativi determinano nella massa del polimero alcuni effetti (sintomi) la cui
percezione permette di evidenziarne i segni. I più importanti sintomi della degradazione sono i
seguenti:
<--- Infragilimento dovuto alla diminuzione del peso molecolare e/o reticolazioni del polimero.
--- Cambiamenti in superficie, come decolorazione, formazione di cricche e screpolature.
--- Ingiallimento che potrebbe accadere con e senza cambiamenti delle proprietà meccaniche del
polimero. L’ingiallimento dovuto alla formazione di gruppi carbonilici nella struttura polimerica>
[1].
La complessità dei processi di degradazione delle plastiche è da mettere in relazione con il fatto che
i vari e molteplici meccanismi sono molto spesso indotti dall’azione concomitante e sinergica
100
di più agenti di degradazione e che oltre a ciò le reazioni chimiche avvengono allo stato condensato
e in sistemi eterogenei [1]. Inoltre c’è da tenere presente che le plastiche sono dei sistemi compositi
a più di un componente, vista la presenza di additivi e riempitivi di varia natura e funzione
(stabilizzanti, antiossidanti, plastificanti, lubrificanti, ritardanti di fiamma e molti altri) e che questi
agenti possono interferire con i meccanismi di degrado.
La degradazione dei polimeri avviene inevitabilmente attraverso una serie di reazioni il cui
chimismo e i cui meccanismi sono molto spesso molto complessi e di non facile interpretazione a
livello molecolare.
FIGURA 1: Schema delle possibili modificazioni chimiche che interessano
le macromolecole di un materiale polimerico sottoposto all’azione di uno o
più fattori di degrado:
Dall’alto verso il basso: ʊ rottura statistica delle catene (depolimerizzazione);
ʊ reticolazione; ʊ modificazione dei gruppi laterali; ʊ eliminazione dei gruppi
laterali; ʊ ciclizzazione dei gruppi laterali [6].
101
Le principali modificazioni chimiche indotte sulle macromolecole di un polimero da un generico
fattore di degrado sono sotto elencate:
1) Rottura dei legami della catena con diminuzione della lunghezza media delle catene
(processo di depolimerizzazione che in alcuni casi porta alla formazione di sole unità
monomeriche) e conseguente progressivo scadimento delle proprietà meccaniche (in
particolare l’allungamento e la resistenza a rottura) [5].
2) Reticolazione;
3) Modificazione dei gruppi laterali;
4) Eliminazione dei gruppi laterali;
5) Ciclizzazione dei gruppi laterali (vedesi figura 1) [6].
La degradazione si manifesta nei polimeri attraverso un decadimento progressivo e irreversibile
delle proprietà (termiche, meccaniche, ottiche, elettriche, ecc.).
Il grafico della figura 2 mostra, infatti, come una riduzione del peso molecolare, nel caso di un
generico polimero, determina il decadimento della tenacità [6].
FIGURA 2: La tenacità di un polimero (G1c) diminuisce
al diminuire della massa molecolare Mw[6].
Qui di seguito relativamente, ai processi degradativi illustrati nella figura 1, sono riportati alcuni
casi di degradazione osservati e studiati in polimeri impiegati, sia nella fabbricazione, sia come
consolidanti e protettivi di opere d’interesse artistico e culturale.
102
REAZIONI DI DEPOLIMERIZZAZIONE
---La depolimerizzazione termica di polimeri poliolefinici a struttura molecolare ņCH2ņCHXņ
I polimeri vinilici, a forma generale ņCH2ņCHXņ (dove con X s’intende un sostituente laterale, ad
esempio un atomo di cloro, un radicale alchilico o arilico, un gruppo -C-OOCH3 e altri), per effetto
della temperatura possono subire un processo di depolimerizzazione che come mostrato in figura 3
determina la demolizione progressiva della macromolecola attraverso la rottura sistematica dei
legami intra catena, CņC, e che quindi porta alla formazione dei corrispondenti monomeri olefinici
CH2őCHX [12].
FIGURA 3: Schema della reazione omolitica di depolimerizzazione termica
di polimeri poliolefinici a struttura molecolare ņCH2ņCHXņ, che porta alla
formazione di monomeri CH2őCHX.
Sopra, la fase d’iniziazione che comporta la formazione di specie radicaliche.
Sotto, la fase di propagazione che conduce alla formazione di monomeri,
secondo un meccanismo detto di “unzipping” (tipo apertura di una chiusura
lampo) o depropagazione [12].
FIGURA 4: Reazioni di terminazione di un processo di
depolimerizzazione termica di polimeri vinilici del tipo ņCH2ņCHXņ.
Sopra, terminazione per accoppiamento di due specie radicaliche.
Sotto, terminazione per disproporzione di radicali [12].
103
In alcuni polimeri la depolimerizzazione si completa con la produzione di monomero al 100%. In
altri la depolimerizzazione s’interrompe a causa delle reazioni di terminazione descritte in figura 4
[12]. In questi casi la percentuale di monomero prodotto, secondo i meccanismi di degradazione che
prevalgono, è inferiore al 100%.
Alcuni esempi di depolimerizzazione di polimeri a seguito di fenomeni degradativi sono qui di
seguito illustrati.
---La depolimerizzazione del Polimetilmetacrilato (PMMA)
La degradazione termica, in assenza di ossigeno (termodegradazione) del PMMA avviene
prevalentemente attraverso il meccanismo di depolimerizzazione, detto di “unzipping” o depropagazione. Il processo globale di degradazione termica del PMMA, schematicamente illustrato
nella figura 5, determina la formazione di sole unità monomeriche; la reazione ha una resa in
metilmetacrilato (MMA) del 100% [10,13].
a) Prima del riscaldamento
b) fase iniziale, omolisi
c) fase di propagazione con
produzione del monomero
FIGURA 5: Degradazione termica del polimetilmetacrilato, PMMA.
a)
La struttura del PMMA prima dell’inizio della reazione di
depolimerizzazione.
b) Reazione di omolisi con rottura di un legame C-C e formazione
di due specie radicali.
c)
Reazione di depropagazione che porta alla formazione di unità
monomeriche [10].
104
Il PMMA, per effetto dell’azione della luce solare e alla presenza di ossigeno (foto-ossidazione),
insieme con altri percorsi degradativi, si caratterizza, anche, per reazioni che portano alla
depolimerizzazione delle macromolecole causata dalla rottura omolitica dei legami C-C intra-catena
(vedesi schema in figura 6) [18].
FIGURA 6: Schema della reazione di depolimerizzazione
Foto-ossidativa del PMMA che porta alla scissione, casuale.
omolitica, dei legami C-C intra-catena [18].
--- La depolimerizzazione termica del Polistirene (PS), Polipropilene (PP) e Polietilene (PE)
In questi polimeri la reazione di depolimerizzazione termica della catena avviene prevalentemente
secondo un meccanismo di “chain transfer” in base al quale un atomo d’idrogeno è estratto e quindi
trasferito (vedesi meccanismo, semplificato, in figura 7) [12].
Nel caso del polistirene la degradazione termica porta a una resa in monomero del 42%;
contemporaneamente si forma una miscela di prodotti saturi e insaturi, tra i quali dimeri e trimeri
[14,15].
FIGURA 7: La depolimerizzazione del polietilene mediante un
meccanismo di trasferimento di catena di un atomo d’idrogeno
(schematico). Simile meccanismo vale anche per il polipropilene
e il polistirene[12].
FIGURA 8: Reazione di depolimerizzazione termica dei poliuretani.
Si formano molecole dei monomeri di partenza, isocianati e glicoli [12].
105
--- La depolimerizzazione termica dei Poliuretani, Poliammidi, Poliesteri e Polisilossani
Nel caso dei poliuretani (PU) i gruppi funzionali sono intra-catena. Pertanto il meccanismo di
degradazione termica e termo ossidativa dipende dalla natura chimica di questi gruppi.
In generale il calore produce una depolimerizzazione con formazione dei monomeri di
partenza (glicoli e isocianati) (figura 8) [12].
FIGURA 9: Reazione di depolimerizzazione termica delle poliammidi, sopra,
e dei poliesteri, sotto. Si assiste alla rottura dei legami ammidici ed esteri
mediante un meccanismo di trasferimento d’idrogeni [16].
Nelle poliammidi e nei poliesteri la degradazione termica accade attraverso il meccanismo di
trasferimento d’idrogeni che, come schematicamente illustrato in figura 9, provoca la rottura dei
legami ammidici ed esteri e conduce a frammenti di macromolecole a minore peso molecolare [12].
Nel caso dei polisilossani la depolimerizzazione causata dal calore determina la formazione di
monomeri ciclici e frammenti oligomerici (figura 10) [12].
FIGURA 10: Il meccanismo di depolimerizzazione termica dei polisilossani [9]
106
--- La depolimerizzazione foto-ossidativa dei Poliuretani (PU)
La foto-ossidazione causa nei PU ingiallimento, la formazione di reticolazioni e una notevole
riduzione nelle proprietà meccaniche. I materiali diventano sempre più fragili al crescere del tempo
di esposizione alle radiazioni solari alla presenza di ossigeno.
Il comportamento alla foto-ossidazione dei PU dipende dalla loro struttura chimica.
In particolare è stato possibile dimostrare che la stabilità, a parità di ogni altra condizione, è
maggiore nei PU a base di esametilene diisocianato. Al contrario è minore quando come
d’isocianato è usata la difenilammina diisocianato. Un comportamento intermedio è osservato nel
caso di PU a base di toluene diisocianato [3].
Inoltre si osserva che i PU a base poliestere sono più stabili di quelli a base polietere e ancora più
stabili rispetto a quelli a base politioetere (vedesi scala di stabilità qui di seguito mostrata).
PU-esametilene diisocianato > PU-toluene diisocianato > difenilammina diisocianato
PU-poliestere> PU-polietere > PU-politioetere
Stabilità crescente
Nel caso di PU con una componente aromatica (Ar) la scissione delle catene avviene
preferenzialmente nei legami N-C e C-O dei gruppi uretanici con formazione di catene aventi un
terminale radicalico (vedesi schema sotto riportato).
--- La depolimerizzazione chimica indotta dall’esposizione all’ozono in polimeri con doppi legami
in catena
L’ozono (O3) ha la capacità di legarsi ai doppi legami C=C presenti lungo la macromolecola di un
polimero determinandone la rottura secondo il seguente meccanismo:
107
--- La depolimerizzazione per idrolisi della cellulosa
La cellulosa, il componente principale di tutte le fibre di origine vegetali (lana, cotone, juta, canapa,
ecc.), è un polisaccaride naturale costituito da unità glucosidiche unite tra loro attraverso un legame
ȕ(1ĺ4) glicosidico. Nella rappresentazione della figura 11 tutti gli atomi giacciono in un piano.
Nella realtà le unità di glucosio assumono una conformazione a sedia. Le unità adiacenti di glucosio
si succedono in catena eseguendo una rotazione di 180° intorno al legame C-O. Da questo
scaturisce che l’unità ripetitiva è costituita da due unità glucosidiche a struttura cellobiosica (figura
11, sotto).
Soluzioni diluite di acidi hanno la capacità di diffondere nelle regioni amorfe delle fibre
cellulosiche causando una reazione d’idrolisi che porta alla rottura dei legami ȕ glucosidici di
natura etere. Attraverso questa reazione si formano residui cellulosici a più basso peso molecolare.
Con il procedere della reazione si osserva una progressiva riduzione del grado di polimerizzazione.
Lo schema della reazione d’idrolisi della cellulosa è illustrato nella figura 12.
FIGURA 11: Struttura molecolare della cellulosa (sopra in figura)
e della corrispondente unità ripetitiva (sotto in figura), vedesi testo.
108
FIGURA 12: Schema delle reazioni attive nell’idrolisi acida
della cellulosa. Lo ione H+ rompe il legame etere-glucosidico
(I in figura); si forma un residuo cellulosico ione carbonio
terminato e un residuo con un OH terminale ( II in figura).
Il residuo ione-terminato reagisce con acqua formando un
frammento molecolare, OH-terminato (III in figura).
REAZIONI CHE COINVOLGONO I SOSTITUENTI LATERALI
A seguito di queste reazioni le macromolecole conservano la loro lunghezza ma la costituzione
chimica subisce una variazione. I gruppi laterali in alcuni casi sono eliminati dando luogo alla
formazione di derivati a basso peso molecolare in altri danno luogo alla formazione di cicli legati
alle macromolecole di partenza (vedesi schema in figura 1).
ŹEsempi di reazioni di eliminazione dei grupi laterali
--- De-idroclorurazione del Polivinilcloruro (PVC) e deacetilazione del Polivinilacetato (PVAc)
Reazioni di eliminazione dei gruppi laterali, causate dal calore, sono state certificate nel caso del
polivinil cloruro (PVC) e del polivinil acetato (PVAC, vedesi struttura in figura 13). Infatti, questi
due polimeri a temperature relativamente elevate danno luogo a reazioni che portano
all’eliminazione, rispettivamente, di una molecola di acido cloridrico, HCl, (reazione di deidroclorurazione) e una di acido acetico CH3-COOH (reazione di de-acetilazione) ( figura 14).
H
C
CH
H
O
O
C
CH
H
C
H
O
O
CH3
C
CH3
FIGURA 13: Struttura molecolare del PVAC
109
FIGURA 14: Schemi dei processi di degradazione termica
del PVC e del PVAC che portano alla eliminazione dei sostituenti laterali
con formazione, rispettivamente, di acido cloridrico e acido acetico [10].
Come si evince dagli schemi in figura 14 l’eliminazione di HCl e di CH3-COOH determina la
formazione di un doppio legame che rende instabile l’unita ripetitiva limitrofa permettendo così alla
reazione di proseguire. La fine della reazione vede la formazione di macromolecole di natura
polienica, caratterizzate dal fatto che doppi legami in catena (C=C) s’intervallano con legami
semplici C–C (vedesi figura 14, sotto) [7,8]. La presenza di questo tipo di macromolecole coniugate
rende conto dell’effetto di scolorimento che si osserva nei materiali a base di PVC e PVCA esposti
alle alte temperature. Quando il PVC è esposto all’azione della luce solare, subisce un appariscente
processo d’ingiallimento divenendo fragile. In letteratura è riportato che questi fenomeni sono
dovuti alla formazione di lunghe sequenze, in catena, di polieni coniugati. Queste sequenze
derivano dal fatto che anche la foto-ossidazione determina una reazione di deidroclorinazione
secondo lo schema semplificato riportato nella figura 14 [19].
Per contrastare questo processo sono impiegati appropriati additivi stabilizzanti al calore e alla luce
[9].
ŹEsempi di reazioni di ciclizzazione dei gruppi laterali
--- Acido poliacrilico e Poliacrilonitrile
In polimeri con gruppi carbossilici, –COOH, pendenti lungo la catena macromolecolare, la
permanenza a elevate temperature può determinare una reazione che porta alla ciclizzazione dei
gruppi laterali. In figura 15 il fenomeno è evidenziato nel caso dell’acido poliacrilico e del
poliacrilonitrile [9].
110
FIGURA 15: Esempi di reazioni, indotte dalla permanenza ad
elevate temperature, che portano alla ciclizzazione dei gruppi laterali.
Sopra, ciclizzazione dei gruppi carbossilici nell’acido poliacrilico.
Sotto, caso del poliacrilonitrile dove si osserva la ciclizzazione dei
gruppi nitrili [12].
REAZIONI CHE PORTANO A PROCESSI DI RETICOLAZIONE NEI POLIMERI
--- Polistirene (PS)
Lo schema che illustra il chimismo del processo di foto-degradazione chimica del polistirene, che
conduce allo sviluppo d’idrogeno e alla formazione di reticolazioni, è schematicamente descritto in
figura 16 [12,4]. Alla presenza di ossigeno e di radiazioni UV il polistirene ingiallisce e quindi
diviene fragile perdendo molte delle sue caratteristiche chimiche, fisiche, ottiche e meccaniche.
Nella tabella 1, di seguito mostrata, sono indicate, per una serie di polimeri, le principali
cause di degradazione [5].
111
FIGURA 16: Lo schema che illustra il chimismo del processo
di degradazione fotochimica del polistirene che porta allo sviluppo
di idrogeno e alla formazione di reticolazioni [12].
TABELLA 1: Le principali cause di degradazione di alcuni polimeri.
112
DEGRADAZIONE AD OPERA DI ORGANISMI BIOLOGICI
In alcuni manufatti di plastica è stata osservata la presenza di funghi, muffe e batteri che
determinano, in maniera diretta o indiretta, dei significativi processi degradativi. Nelle foto riportate
nella figura 17 è documentata la presenza di attacco biologico nel caso di un manufatto, realizzato
in poliuretano espanso da Piero Gilardi, denominato: Orto.
FIGURA 17: Sopra-sinistra, Orto di Piero Girardi, opera in poliuretano
espanso (PLART, Napoli). Sopra-destra, particolare con evidenza di attacco
biologico. Sotto, micrografia elettronica in scansione da cui traspare la presenza,
in superficie, di ife fungine.
[Tesi di laurea di Deborah Favero, Piero Girardi, I Polimeri nell’Arte, Relatore,
Ezio Martuscelli, Univ. Suor Orsola Benincasa, Napoli, Anno Accad. 2012-2013].
113
RIFERIMENTI
1) N. Dintcheva <Degradazione e Stabilizzazione dei Polimeri> pdf
2) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>,
a cura dell’Istituto per l’Arte e il Restauro, Palazzo Spinelli, PAIDEIA, Firenze (2007).
3) E. Martuscelli <Degradation and preservation of artefacts in synthetic plastics>,
Palazzo Spinelli Restauro, PAIDEIA Firenze (2012).
4) E. Martuscelli <The chemistry of degradation and conservation of plastic artefacts of pre-synthetic
era based on natural or artificial polymers>, Palazzo Spinelli Restauro, PAIDEIA Firenze (2010).
5) https://www.ing.unimo.it/CampusOne/MaterialeDidattico/Matdidattico5291/Lezione%206Durabilit%C3%A0.pdf
6) N. Guarrotxena, J. Millan, Revista de Plasticos Modernos, 78,45, (1999).
7) http://www.carlosantulli.net/degradazione_polimeri.pdf
8) M.
Messori,
appunti
di:
additivi
per
materie
plastiche,
https://www.ing.unimore.it/CampusOne/MaterialeDidattico/Matdidattico5099/Additivi.pdf
9) http://www.chim.unipr.it/analitica2004/abstract04/096.pdf
10) I. C. McNeil, <Fundamental Aspects of Polymer Degradation>, in “Polymers in
Conservation”, Edt. by N. S. Allen, M. Edge, C. V. Horie, Royal Society of Chemistry, pp. 15-32,
(1992).
11) <Stabilization of Polymer Matrix>, ADDCOMP, Polymer Additive Solutions,
http://www.speautomotive.com/SPEA_CD/SPEA2006/pdf/f/f2.pdf, (2009).
12) <Fondamenti di Scienza dei Polimeri>, a cura di M. Guaita et Al., pp. 849-912, Pacini Editore, Pisa
(1998).
13) 10 ) W. L. Hawkins, <Polymer Stabilization>, Wiley-Interscience, London (1972).
14) J. D. Peterson, S. Vyazovkin, C. A. Wight, Macromol. Chem. Phys., 6, 202, (2001).
15) G. Geuskens, e altri, Polymer Degradation and Stability, 3, 295, (1980-81)16) Degradazione dei materiali polimerici,pdf
17) F. Parres et al., J. Anal. Appl. Pyrolysis, 78, 250 (2007).
18) Z. Osawa, et al., Polymer Degradation and stability, 32, 285 (1991).
19) H. J. Bowley et al., Polymer Degradation and stability, 20, 257 (1988).
20) N. Dubè et al., <Additives in biomedical polyurethanes>, EUREKAH COM (2001)
21) A. Faucitano et al., Trends in Polymer Science, 4, N° 3, March (1996).
22) http://dipcia.unica.it/superf/Degrado/Polimeri_Capitolo2.pdf
23) E. Martuscelli, <Degradazione delle Fibre Naturali e dei Tessuti Antichi>, a cura dell’Istituto per
l’Arte e il Restauro, Palazzo Spinelli, PAIDEIA, Firenze (2006).
114
E)
MATERIALI COSTITUTIVI DELLA CARTA
Materiale composito artificiale con substrato strutturale di natura organica e
additivi di origine inorganica e organica
Capitolo –E.-1): Lavorazione, struttura e composizione chimica della carta
La carta è un sistema a più di un componente, molto complesso, basato fondamentalmente su una
struttura portante di fibre vegetali, di natura cellulosica, disposte secondo una disposizione del tipo
“tessuto/non tessuto” (figura 1).
.
FIGURA 1: Micrografie elettroniche in scansione di varie tipologie di fogli
di carta. Sopra-sinistra: Carta da filtro costituita da sole fibre di cellulosa.
Sopra-destra: Carta di giornale composta di fibre cellulosiche e cariche
inorganiche inerti usate come riempitivi. Sotto: Carta di libro a stampa, fatta
di fibre cellulosiche, cariche inerti, colle e inchiostri [1].
115
I principali componenti della carta sono:
- Le Fibre Cellulosiche (includono anche le sostanze a esse associate: lignine, emicellulose e
pectine)
- Le Cariche (minerali in polvere: talco, marmo e caolino)
- I Collanti (naturali, di origine animale o vegetale, oppure di natura sintetica)
- I Pigmenti, i Coloranti e gli Inchiostri.
Le proprietà della carta dipendono dalla purezza delle fibre cellulosiche, dal processo di
lavorazione, dalle caratteristiche chimiche e fisiche dei molteplici additivi che devono essere
aggiunti alla pasta cellulosica affinché il prodotto finale possa soddisfare i requisiti richiesti.
Le caratteristiche, l’origine e la funzione dei vari componenti della carta sono qui di seguito messe
in evidenza.
Ɣ Le Fibre Cellulosiche,
La componente cellulosica è ottenuta attraverso un processo di disgregazione (meccanica o
chimica) di stracci di tessuti, di fibre vegetali (canapa, lino, cotone, ecc.) e di polpa di legno. La
strutturazione delle fibre cellulosiche, a livello molecolare e supermolecolare è stata già prima
decritta. Le fibre vegetali sono delle cellule assottigliate alle estremità le cui pareti sono costituite
da strati con diverso orientamento di fibrille elementari di natura cellulosica. Queste cellule una
volta mature muoiono e seccano. La morfologia di fibre mature di cotone e lino è mostrata in figura
2 [2,3,4]. Sono in questo stato che le fibre vegetali sono filate, colorate e tessute.
FIGURA 2: Micrografie elettroniche in scansione di fibre cellulosiche mature.
Sopra, sinistra: Vista longitudinale di una fibra di cotone con il tipico fenomeno
di convoluzione. Sopra, destra: Visione trasversale con il lumen centrale [2].
Sotto: Fibre di lino con la loro particolare morfologia a nodi e con le estremità
a becco di flauto (foto a destra) [3,4].
116
Le fibre cellulosiche oltre che nelle piante di cotone, lino, canapa, juta, ecc., sono presenti anche
nelle cellule del legno la cui struttura è rappresentata in figura 3 [5]:
FIGURA 3: Rappresentazione schematica della struttura di una tipica
cellula del legno. La lamella di mezzo (middle), essenzialmente
costituita da lignina, forma lo strato esterno intorno alla parte
primaria.
La parete secondaria è fatta di tre strati, esterno (S1), centrale (S2),
interno (S3). Ognuno di questi strati è costituito di singole lamelle di
fibre cellulosiche orientate secondo un’orientazione parallela. La
direzione varia da strato a strato [5].
Material
Cotone
Ramie
Canapa
Juta
Legno da piante
caduche
Legno conifero
Steli di granturco
Paglia di frumento
Cellulose( % )
98
86
65
58
41-42
41-44
43
42
TABELLA-1: Percentuale di cellulosa presente
in materiali usati nella fabbricazione della carta
[6].
117
Dai dati riportati nella tabella 1, si evince come il contenuto di cellulosa, da cui traggono origine le
caratteristiche applicative della carta, dipende fortemente dal tipo di materiale di partenza usato
nella preparazione della polpa cellulosica (ad es. le fibre di cotone hanno un’elevatissima % di
cellulosa, mentre il legno ha un contenuto in cellulosa minore, § 40%) [6].
In generale le carte a più alto pregio, sono quelle a maggiore contenuto di cellulosa.
Ɣ Le Cariche
Sin dal XII secolo i fabbricanti di carta usavano aggiungere alle paste cellulosiche cariche minerali
allo scopo di migliorare le caratteristiche della carta e rendere i fogli più idonei a essere scritti e
colorati (evitando ai solventi degli inchiostri di migrare verso l’interno) e più leggibili i caratteri e le
immagini. In particolare la presenza di cariche permette di ottenere fogli più:
---bianchi,
---pesanti,
---compatti e meno porosi.
Tra le sostanze comunemente usate come cariche rientrano: il caolino, il carbonato di calcio, il
solfato di bario, il solfato di piombo, la silice e gli ossidi di titanio [7,8].
ƔColle e Adesivi
Le colle hanno la funzione di ridurre la capacità di assorbire acqua e altri liquidi evitando anche agli
inchiostri di espandersi sulla superficie dei fogli di carta. Inizialmente erano usati prodotti naturali
di origine vegetale o animale (ad es., derivati dell’amido oppure gelatine ricavate dal “carniccio”
della pelle di animali). Nel diciottesimo secolo la gelatina fu sostituita, come collante, dalla
colofonia, una resina di origine vegetale.
Al fine di migliorare l’idrorepellenza e aumentare l’adesione interfibrillare, alla gelatina era
aggiunta anche una certa % di allume (solfato idrato di potassio e alluminio,
[Al2(SO4)3·K2SO4·24H2O]).
Sostanze adesive (amido di mais, destrine e gomme naturali) sono usate per migliorare la
dispersione omogenea delle cariche nel materiale di base. In seguito adesivi sintetici
(poliacrilammide, carbossimetilcellulosa, e altri) hanno progressivamente sostituito quelli naturali.
ƔInchiostri
Gli inchiostri sono costituiti da pigmenti, coloranti, leganti e resine, dispersi in un liquido di
trasporto (spesso acqua). Altri additivi comprendono: agenti tamponi, per controllare il pH; resine
per implementare la resilienza; umettanti, per prevenire l’evaporazione; fungicidi, surfactanti e
biocidi [9].
Tra gli inchiostri neri grande diffusione hanno avuto, in un passato relativamente recente, quelli a
base di carbone e quelli comunemente denominati “galli tannici”. Questi ultimi sono anche noti per
la loro capacità, negativa, di indurre fenomeni di degradazione chimica al supporto cartaceo, e
questo a causa della loro particolare composizione e reattività dei componenti.
I principali ingredienti su cui si basava la preparazione di un tradizionale inchiostro ferro-gallo
tannico, erano i seguenti:
„ Noce di galla;
„ Sali solubili (FeSO4 e CuSO4);
„ Sostanze acide (acido acetico);
„ Gomma arabica;
„ Acqua.
118
Le noci di galla sono escrescenze lignee che si vanno a formare sui rami giovani di alberi, quali la
quercia (figura 4).
FIGURA 4: Noci di galla della quercia.
FIGURA 5: Struttura molecolare del gallotannino (sinistra) e
schema d’idrolisi che porta all’ottenimento di acido gallico [10 ].
Le noci di galla sono ricche in gallotannini, sostanze che per idrolisi producono acido gallico
(figura 5) [10].
Nella molecola dell’acido gallico (acido 3,4,5-triidrossibenzoico, C6H2(OH)3COOH), sono presenti
gruppi funzionali idrossilici e carbossilici (figura 5, a destra).
La gomma arabica (una complessa miscela di carboidrati e glicoproteine) è una sostanza resinosa
che si ricava da alberi di origine sub-sahariana, appartenenti alla specie delle acacie (Acacia senegal
e Acacia seyal). La resina è raccolta facendo delle incisioni nella corteccia degli alberi (figura 6)
[11]. La gomma arabica ha la funzione di addensante e stabilizzante della miscela.
119
I principali processi chimici che avvengono nel corso della preparazione di un inchiostro ferrogallico (Kretel,1999) sono i seguenti:
1 ) L’acido gallico reagendo con FeSO4 forma il gallato ferroso, un sale, incolore, solubile in acqua.
2 ) Questo sale alla presenza di ossigeno atmosferico si trasforma nel pirogallato ferrico, un
composto complesso, di colore nero-violetto, insolubile in acqua.
3) Le interazioni tra sali di ferro, e acidi gallici e tannici libera ioni H+ che con ioni solfati in
eccesso danno luogo alla formazione di molecole di acido solforico (H2SO4).
FIGURA 6: La gomma arabica trasuda spontaneamente
dal tronco e dai rami delle acacie. Il flusso della resina
viene stimolato attraverso appropriate incisioni nella
corteccia [11].
Lo schema di alcune delle più significative reazioni che avvengono nella preparazione
dell’inchiostro ferro-gallico sono mostrate nella figura 7 [11].
E’ stato ampiamente documentato che gli inchiostri ferro-gallici sono corrosivi e determinano
profondi processi di degradazione nei documenti cartacei. Questi processi sembrano essere dovuti al
fatto che i componenti gli inchiostri attivino due processi degradativi:
---L’idrolisi acida della cellulosa;
---L’ossidazione della cellulosa catalizzata dalla presenza di ioni Ferro++.
A seguito di questi fenomeni documenti e pagine di libri diventano fragili; inoltre si osserva
l’evanescenza dello scritto specialmente se il manufatto è esposto all’azione della luce solare e
all’ossigeno ambientale [12].
120
FIGURA 7: Alcune delle reazioni che secondo Kretel sono alla
base della preparazione di inchiostri ferro-gallici, vedesi testo [11].
Inchiostri neri a base di carbone erano preparati mescolando opportunamente i seguenti ingredienti:
-Acqua;
-Nerofumo o fuliggine;
-Gomma arabica [12,13].
Gli inchiostri al carbone sono chimicamente molto più stabili di quelli ferrogallici. Pertanto non
danno luogo a fenomeni di degradazione interna nei confronti del supporto cartaceo. Inoltre essi
sono resistenti all’azione dell’ossigeno atmosferico e alla luce. Questi inchiostri presentano, però
l’inconveniente di essere poco resistenti all’acqua che, formando una miscela ne determina il
dilavamento. Pertanto documenti scritti con questi inchiostri devono essere conservati in atmosfera
a basso contenuto di umidità [1].
Ɣ I processi di produzione della carta
Si parte dalla preparazione della pasta o impasto (una miscela acquosa che contiene tutti gli
ingredienti, fibre cellulosiche e additivi vari).
Secondo la loro origine e composizione le paste si dividono in:
---Pasta meccanica o pasta di legno
Si ottiene direttamente, attraverso procedure meccaniche, dal legno e da scarti della sua lavorazione
(trucioli, segatura, ecc.). Pertanto le fibre cellulosiche non sono separate dalla lignina e dalle altre
sostanze presenti nel legno (emicellulose, ecc.).
Le carte preparate con questa pasta sono caratterizzate da fibre corte che per la loro impurezza
tendono a ingiallire se esposte all’aria.
---Pasta chimica o pasta di cellulosa
È ricavata da legno, paglia, canne e altri vegetali i quali dopo disgregazione sono trattati
chimicamente, in ebollizione in acqua, con sostanze tipo soda o bisolfito di calcio. Attraverso
questa procedura chimica le fibre di cellulosa sono separate dalla lignina e altre sostanze
indesiderate.
121
---Pasta di stracci
I prodotti di partenza (stracci di cotone, lino e canapa) derivano dal recupero e riciclo di scarti della
lavorazione dei tessuti.
---Pasta di cartaccia
Si ottiene da riciclo della carta straccia, in particolare quella dei giornali che per essere utilizzata
deve essere sbiancata al fine di eliminare gli inchiostri. Generalmente a questa pasta si aggiunge una
certa quantità di pasta di legno.
FIGURA 8: Schema del processo in continuo usato nelle
cartiere moderne per la produzione della carta in rotoli [14].
Tra tutte le paste la più pura e pregiata è quella chimica che è utilizzata nella produzione di libri e
documenti di valore [14].
Alle paste sono aggiunti i vari additivi, la cui natura e % varia in relazione alla funzione d’uso
finale cui la carta è destinata.
La pasta cellulosica, opportunamente formulata, è, attualmente, trasformata in rotoli attraverso un
processo in continuo schematicamente descritto nella figura 8 [14].
122
Nella stampa, riprodotta in figura 9, sono evidenziate le tecnologie di produzione della carta seguite
fin dall’XI secolo a Fabriano. Questa città divenne celebre nel mondo proprio per la qualità della
carta che vi si produceva.
FIGURA 9: Stampa dove viene raffigurata l’organizzazione
del lavoro in un’antica cartiera di Fabriano [15].
Capitolo –E.-2): Stabilità e degradazione dei manufatti cartacei
I fattori di degrado della carta possono essere di natura esogena (temperatura, umidità, ossigeno,
luce, inquinanti chimici ambientali, insetti, funghi e batteri) oppure endogena, dovuti, questi ultimi
alla presenza nel substrato cartaceo di: -ioni metallici, -sostanze acide, -lignina, -prodotti vari
connessi ai processi di lavorazione, -materiali usati per la scrittura, stampa e colorazione (inchiostri,
coloranti o pigmenti, colle, ecc.) [1].
Molto spesso è stato riscontrato come la degradazione della carta è la conseguenza dell’azione
combinata e sinergica di più fattori di natura diversa.
123
I fattori endogeni sono essenzialmente collegati ai processi di fabbricazione della carta e sono da
ascrivere:
- All’impiego di stracci colorati sbiancati con cloro;
- All’uso di polpa di legno ad alto contenuto di lignina;
- Alla frammentazione delle fibre a seguito di disgregazione meccanica;
- A procedure che utilizzano un ambiente acido;
- Alla sostituzione della gelatina, come agente d’ispessimento, con la colofonia e allume;
- All’utilizzo d’inchiostri ferro-gallici [16,17,18].
La presenza di acidità all’interno del substrato cartaceo causa l’idrolisi acida della cellulosa che
porta alla rottura dei legami 1ĺ4 ȕ tra unità di glucosidiche (vedesi figura 10) [18].
FIGURE 8: Reazione d’idrolisi della cellulosa che causa
la rottura del legame 1ĺ4 ȕ tra unità glucosidiche [18].
E’ stato ampiamente documentato che la presenza di un’alta % di lignina nelle paste cellulosiche
rappresenta la maggiore fonte di degradazione della carta. Le ragioni di ciò sono da attribuire al
fatto che la lignina è una sostanza con una complessa struttura molecolare (figura 9) caratterizzata
dalla presenza di gruppi funzionali, reattivi, che interagiscono con gli altri componenti del legno,
inclusa la cellulosa. La lignina in pratica esplica la funzione di una matrice amorfa idrofoba.
Nella molecola della lignina sono presenti due gruppi cromofori (A e B in figura 9) che hanno la
capacità di assorbire radiazioni UV.
Questo processo porta alla formazione di radicali molto reattivi che facilitano il determinarsi di
fenomeni di foto-ossidazione anche nei confronti della cellulosa [19,20].
Inoltre a seguito di degradazione la lignina produce residui acidi che possono indurre l’idrolisi acida
della cellulosa. Quanto sopra spiega il perché la presenza di lignina nelle paste cellulosiche sia fonte
di fenomeni di degrado che si manifestano attraverso scolorimento della carta e riduzione della
resistenza agli stress meccanici.
La corrosione interna della carta dovuta agli inchiostri ferro-gallici è da mettere in relazione con il
fatto che attraverso complicati meccanismi questi inchiostri generano l’idrolisi acida della cellulosa
e l’ossidazione delle sue catene, quest’ultima a causa della presenza di ioni Fe++.
Come già scritto l’idrolisi acida della cellulosa, deriva, anche, dall’eccesso di acido solforico
prodotto nel corso della preparazione degli inchiostri ferro-gallici [11].
Esempi di manufatti cartacei gravemente deteriorati a causa dell’azione di inchiostri ferro gallici
sono mostrati nella figura 10 [11,8].
124
FIGURE 9: Struttura molecolare della lignina, vedesi testo.
FIGURA 10: Sinistra, antico codice musicale deteriorato per la presenza d’inchiostro
ferro-gallico ad alta acidità. Destra, micrografia elettronica in scansione che evidenzia
gli effetti degradativi causati da inchiostri ferro-gallici sulle fibre di cellulosa [11].
125
Da quanto sopra è possibile concludere che gli inchiostri ferro-gallo-tannici sono l’origine di
fenomeni di degradazione del supporto cartaceo connessi all’azione sinergica di meccanismi
d’idrolisi acida e di ossidazione della cellulosa.
I documenti cartacei scritti con inchiostro acido, ferro-gallico, devono essere, per le ragioni di cui
sopra, stabilizzati.
Una delle procedure prevede una prima fase che consiste nell’eliminazione degli ioni Fe+2 attraverso
l’uso di una soluzione acquosa di acido fitico (figura 11) il quale è capace di disattivare questi ioni
mediante una reazione chelante che porta alla formazione di un composto complesso [11]. In
seguito si provvede alla de-acidificazione usando tamponi imbevuti di CaCO3 [11]. Va rilevato che
queste operazioni non alterano il colore dell’inchiostro sul substrato cartaceo.
I manufatti cartacei sono molto sensibili all’azione di fattori esogeni ambientali che in maniera
cooperativa possono essere causa di danni molto rilevanti e spesso irreversibili. I fenomeni di
degrado indotti da alcuni di questi fattori sono qui di seguito brevemente riportati.
FIGURA 11: Struttura molecolare dell’acido fitico [11].
---Umidità
L’assorbimento di acqua, specialmente in ambienti con valori dell’umidità relativa (rh) > del 68%,
determina nei documenti cartacei i seguenti fenomeni:
--- rigonfiamento e distorsione delle fibre cellulosiche;
---aumento della velocità della degradazione indotta da acidità;
---produzione di macchie di ruggine in presenza di rilegature e fermagli metallici;
I fenomeni sopra indicati subiscono un’accelerazione alla presenza di temperature ambientali
elevate. Pertanto le opere in carta dovrebbero essere conservate in ambienti con una temperatura
che non dovrebbe superare i 20°C.
---Ossigeno e luce; foto-ossidazione
L’azione combinata della luce (in particolare le radiazioni ultraviolette) e l’ossigeno ambientale,
induce una serie di reazioni di foto-ossidazione che secondo le condizioni possono determinare:
1) La modificazione chimica dei gruppi funzionali che si succedono lungo le catene
cellulosiche;
126
2) La scissione dei legami intra-catena con formazione di residui di macromolecole a più basso
peso molecolare e quindi a minore grado di polimerizzazione.
Lo schema di una possibile reazione di foto-ossidazione che porta alla rottura delle catene
cellulosiche è mostrato nella figura 12 [21].
FIGURA 12: Esempio di reazione di ossidazione che porta alla rottura
delle catene cellulosiche con riduzione del grado di polimerizzazione (DP)
La reazione causa la rottura del legame glucosidico tra due unità adiacenti
[21].
Le reazioni di foto ossidazione causano la formazione di gruppi cromofori (aldeidi, carbossili,
ketoni) che originano fenomeni d’ingiallimento nel substrato cartaceo con l’evanescenza dello
scritto.
Esempi di degrado indotto da fenomeni di foto-ossidazione in manufatti cartacei sono mostrati nella
figura 13 [3,8].
I manufatti cartacei, specialmente se esposti o conservati in ambienti umidi, sporchi e polverosi, e a
temperature relativamente elevate, sono molto sensibili agli attacchi degradativi da parte di agenti
biologici.
Le muffe, funghi e batteri, attraverso complessi meccanismi, hanno la capacità di degradare e
assimilare la cellulosa delle fibre.
La resistenza alla biodegradazione dipende dalla natura e struttura delle fibre vegetali e dalla
presenza di sostanze quali la lignina.
In particolare i seguenti fattori strutturali influenzano fortemente la velocità della reazione di
biodegradabilità delle fibre cellulosiche:
---grado di polimerizzazione;
---grado di cristallinità;
---grado di orientazione delle macromolecole;
---presenza di legami inter/intra molecolari.
Micrografie elettroniche in scansione che documentano l’attacco fungino su antiche fibre di lino,
sono mostrate in figura 14 [22].
127
FIGURA 13: Copertine di libri con chiari sintomi di danni causati da
foto-ossidazione (evanescenza dei colori, scoloramento e ingiallimento)
[3,8].
FIGURA 14: Micrografie elettroniche in scansione che documentano
l’attacco fungino su antiche fibre di lino. Sinistra, fibre con vuoti
causati dalla penetrazione delle ife in corrispondenza dei nodi.
Destra, evidenza di crescita di spore fungine [22].
I sintomi della biodegradazione (danni strutturali e cromatici) osservati sulla pagina di un libro sono
documentati attraverso la foto in figura 15 [23].
Insetti e roditori sono attratti non solo dalla cellulosa ma anche dalle proteine, carboidrati e altre
sostanze organiche contenute nelle colle, gelatina e altri additivi della carta e anche dal cuoio di
libri rilegati (vedesi figura 16).
128
FIGURA 15: Pagina di un libro con evidenze di danni
strutturali e cromatici derivanti da attacchi di muffe e
funghi [23].
FIGURE 16: Sinistra, il Nicobium castaneum, insetto infestante,
noto come il verme delle biblioteche.
Destra, tipologie di danni causati dall’insetto di cui sopra [24].
129
RIFERIMENTI
1) E. Martuscelli, F. Tolve, <Works on Paper: Prevention of Degradation>, Edited by CNRMediterranean and Middle East (Papertech-Project-6FP-EU), (2007).
2) http://msa.ars.usda.gov./la/srrc/cotton/cotupc.html (2003).
3) E. Martuscelli, personal archive.
4) E. Martuscelli et Al., <Natura, origine e tecnologie di lavorazione delle fibre naturali tessili
rinvenuti a Bakchias nel 1997>, in Bakchias VI, monografie di SEAP (1998).
5) A J. Clarke, <Biodegradation of Cellulose >, Technomic-Publishing Co.Inc.,Lancaster-Basel (1997).
6) Plant Fibers, http://waynesword.palomar.edu/traug99.htm ( 2007).
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Editore-Roma ( 1996).
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www.cflr.beniculturali.it/eventi/Dobbiaco/Poster/Testi/Fitato_it.pdf, (2007).
12) http://en.wikipedia.org/wiki/Inks, (2007).
13) http://en.wikipedia.org/wiki/Gum_arabic, (2007).
14) L. Mandosso, G. V. Pallottino, <Il libro dell’Educazione Tecnica>, Le Monnier,(1990).
15) <L'Arte della Carta a Fabriano>, a cura di G.Castagnari e U.Mannucci, Fabriano (1996).
16) G. Botto-Micca et Al., Carta, in < Enciclopedia della stampa >, SEDI (1969).
17) ) Plant Fibers, Fibers For Paper, Cordage & Textiles, http://waynesword.palomar.edu/traug99.htm,
(2007).
18) D. J. Priest, Paper Conservation: some Polymeric Aspects, in < Polymers in Conservation >, Edited
by N. S. Allen, M. Edge, C. V. Horie, Royal Society of Chemistry G.B.-Bath (1992).
19) B. George et Al., Photo-degradation and Photo-stabilization of Wood, COST E18 Final Seminar
(2004).
20) E. Martuscelli, <Degradazione delle Fibre Naturali e dei Tessuti Antichi>, PAIDEIA-Firenze (
2006).
21) A. Timar-Balazsy, D. Eastop, <Chemical Principle of Textile Conservation>, Butterworth,
Heinemann, Oxford (1999).
22) V. Richter, Indagine condotta con Microscopia Elettronica a Scansione su Materiali Fibrosi
Cellulosici, in <Dipinti su Tela>, AA.VV., Nardini Editore (1993).
23) G. Caneva, M. N. Nugari, O, Salvatori, <La biologia del restauro>, Cardini Editore, Firenze (1994).
24) G. Liotta, <Gli Insetti e i Danni del Legno>, Nardini Editore, (2003).
130
PARTE-SECONDA
I POLIMERI DI SINTESI PER LA CONSERVAZIONE
DEI BENI CULTURALI
Relazione tra Caratteristiche Chimiche e Fisiche dei Polimeri,
Compatibilità con i Substrati ed Efficacia dei Trattamenti
PROCEDURE DI CONSOLIDAMENTO E PROTEZIONE DI MANUFATTI DI INTERESSE
STORICO E CULTURALE BASATI SULL’IMPIEGO DI POLIMERI DI SINTESI
I materiali polimerici, specialmente dagli anni 1950s, hanno acquisito un ruolo decisivo nelle procedure
di consolidamento e protezione di beni culturali di varia natura, origine, struttura e composizione
(lapidei, ceramiche, cartacei, legno, dipinti su tela, affreschi, plastiche, ecc.) capaci di contribuire ad
allungare il ciclo di vita dei manufatti riducendone la velocità di decadimento.
Il consolidamento è un trattamento diretto (prevede interventi sulle parti dell’oggetto) finalizzato alla
stabilizzazione del manufatto degradato ristabilendo un grado sufficiente di coesione in parti con una
struttura portante compromessa.
Generalmente i consolidanti manifestano la loro funzione attraverso un processo di penetrazione e
impregnazione dei materiali da trattare [1].
Le tre diverse procedure di consolidamento, basate sull’impiego di formulazioni a base di polimeri
sintetici, sono qui di seguito descritte.
ƔProcedura da soluzione
Questo metodo prevede le seguenti fasi:
a) il polimero, preformato, è disciolto in un idoneo solvente;
b) l’oggetto da trattare è messo a contatto con la soluzione contenente il polimero che lo impregna in
profondità;
d) il solvente è fatto evaporare permettendo al polimero di consolidarsi all’interno del manufatto.
ƔProcedura da monomeri o prepolimeri liquidi, polimerizzabili
Questa metodica è basata sulle seguenti operazioni:
a) il manufatto è impregnato con monomeri o prepolimeri a basso peso molecolare, liquidi;
b) mediante l’aggiunta di opportuni catalizzatori è fatta avvenire la polimerizzazione in situ;
c) il polimero così formato solidifica all’interno del substrato da consolidare [1].
ƔProcedura dal fuso
Prevede l’uso di polimeri termoplastici a bassa temperatura di fusione, massa molecolare viscosità.
Un agente consolidante deve essere caratterizzato da:
---Compatibilità chimica e fisica con i materiali che costituiscono il manufatto da trattare.
---Fluidità sufficientemente alta (bassa viscosità), al momento dell’impiego, per penetrare in profondità
all’interno del substrato e quindi impregnare le parti da stabilizzare.
---Capacità di solidificare rapidamente in situ aderendo alle superfici del materiale de-coeso.
132
La protezione è un trattamento diretto fondato sull’impiego di materiali, capaci di formare sulla
superficie dei manufatti, già opportunamente consolidati, film sottili, trasparenti e semipermeabili, che
in conformità a specifiche caratteristiche chimiche e fisiche abbiano la funzione di impedire successivi
processi di degradazione mitigando l’azione dei fattori di deterioramento ambientali.
In particolare a un agente di protezione si richiede:
--- Stabilità chimica nei confronti degli agenti atmosferici e della luce (in particolare la luce UV);
---trasparenza e assenza di colore (non deve influenzare le caratteristiche cromatiche del manufatto);
---Permeabilità all’aria e al vapore d’acqua;
---Impermeabilità all’acqua allo stato liquido;
---Aderenza e compatibilità con il substrato consolidato;
---Insolubilità nell’acqua;
---Bassa volatilità.
In linea di principio i trattamenti protettivi devono essere reversibili. Questo significa che l’agente
protettivo impiegato deve essere solubile in solventi organici [1,2,3].
Un esempio d’intervento di consolidamento e protezione effettuato su un oggetto lapideo è mostrato
nella figura 1 [4].
FIGURA 1: Consolidamento e protezione di un manufatto lapideo, una pietra
tombale in marmo, Old Chapell Hill Cemetery, North Carolina USA. Sinistra,
prima dell’intervento. Destra, dopo [4].
La validità di un trattamento di consolidamento e di protezione è generalmente stabilita, a priori,
attraverso specifici test effettuati su campioni, in laboratorio.
133
Alcuni di questi test, messi in essere, nel caso di substrati lapidei, sono sotto descritti.
a) profondità di penetrazione dei consolidanti
Un buon consolidante deve penetrare all’interno della pietra da trattare. La profondità di penetrazione
dipende dalle caratteristiche della pietra e dalle proprietà del consolidante. Il test consiste nel sezionare
campioni cubici della pietra dopo il trattamento di consolidamento per evidenziare il livello di
penetrazione dell’agente consolidante all’interno del campione (vedesi figura 2).
FIGURA 2: Prove per valutare la profondità di penetrazione di un
consolidante. Sinistra, pietra calcarea con bassa penetrazione. Destra pietra
calcarea con alto grado di penetrazione dell’agente consolidante, vedonsi
frecce [5].
b) Resistenza all’abrasione
Con questo test l’effetto consolidante è misurato confrontando la perdita in peso, riscontrata, a seguito di
abrasione superficiale indotta da una punta ruotante, in pietre trattate e tal quali (figura 3) [5].
c) Resistenza ai cicli gelo/disgelo
Un altro importante test è quello attraverso cui è valutata la resistenza di campioni di pietra sottoposti a
cicli gelo/disgelo. Dalla figura 4 emerge che le pietre trattate con opportuni agenti consolidanti resistono
meglio ai cicli gelo/disgelo [5].
134
FIGURA 3: Test di microabrasione; mette a confronto la perdita di
peso per abrasione di pietre consolidate (sinistra) e non (destra) [5].
FIGURA 4: Campioni di pietre sottoposti a cicli gelo-disgelo.
Effetto del trattamento consolidante: Le pietre trattate non si
frantumano al contrario di quelle non trattate (vedesi frecce) [5].
135
d) Idrorepellenza dei trattamenti protettivi
Un trattamento protettivo deve creare una barriera nei confronti dell’acqua (specificatamente quella
piovana) ma nello stesso tempo deve permettere la fuoriuscita dell’umidità interna, sotto forma di
vapore, attraverso i pori che pertanto non devono essere ermeticamente occlusi.
L’idrorepellenza è valutata mediante misure di angolo di contatto il cui valore come riportato in figura 5
permette di quantificare la bagnabilità di un liquido nei confronti di una superficie solida.
Esempi di prove di bagnabilità sono illustrati nelle figure 6 e 7.
FIGURA 5: L’angolo di contatto permette di valutare l’adesione
(bagnabilità) di un liquido nei confronti di una superficie solida.
Esso è definito come l’angolo (ࣄ) formato dall’interfaccia
solido/liquido e dall’interfaccia liquido/vapore.
Sinistra (a): ࣄ <90°, buona adesione tra il liquido e il solido;
Destra: (b): ࣄ >90° il liquido non aderisce alla superficie solida.
FIGURA 6, sinistra: Prova d’idrorepellenza effettuata su di un mattone trattato con un agente
protettivo. Una goccia d’acqua depositata sulla superficie del mattone a destra, trattato con un
agente protettivo, non bagna il manufatto. Al contrario il mattone non trattato è bagnato
dall’acqua, assorbendola [5].
FIGURA 7, destra: L’acqua spruzzata su di una superficie trattata con un protettivo, non è
assorbita (sinistra), mentre la parete non trattata (destra) assorbe totalmente l’acqua.
136
e) Resistenza all’azione di acidi (acid drop test)
Questo test si esegue confrontando la capacità di resistenza all’azione di una goccia di una soluzione
acquosa acido cloridrico di campioni di pietra trattati e non (vedesi figura 8).
FIGURA 8: Test per valutare la resistenza all’azione di acidi di
trattamenti protettivi di manufatti lapidei. Sinistra, pietra trattata, l’acido
in sostanza non ha effetto corrosivo.
Destra, pietra non trattata con chiare evidenze di corrosione [5].
CONSOLIDANTI E PROTETTIVI IMPOSTATI SU POLIMERI DI SINTESI
Un esame della letteratura scientifica e tecnica porta alla conclusione che molti dei polimeri sintetici che
trovano applicazione come consolidanti e/o protettivi nel campo della conservazione diretta dei beni
culturali appartengono alle seguenti famiglie:
Ź Poliesteri insaturi
Ź Polimeri vinilici
Ź Polimeri acrilici
Ź Resine epossidiche
Ź Resine siliconiche, poli-alchilalcossisilani
Ź Poliuretani
Ź Fluoropolimeri
Ź Parilene
Esempi d’impiego come adesivi, consolidanti o protettivi di sistemi polimerici appartenenti ad alcune
delle famiglie sopra indicate, su substrati di varia natura e composizione chimica, sono qui di seguito
riportati.
137
1) I POLIESTERI INSATURI
La sintesi dei poliesteri insaturi prevede una prima fase, nel corso della quale è sintetizzato un precopolimero lineare a struttura poliestere.
Lo schema della reazione di copolimerizzazione che porta a questo tipo di pre-polimero, da monomeri
quali, un diolo alifatico (glicole etilenico o glicole propilenico), l’anidride maleica e l’anidride ftalica, è
delineato in figura 9 [6].
FIGURA 9: La fase iniziale della sintesi dei poliesteri insaturi.
Ottenimento di un pre-polimero lineare per copolimerizzazione
dei tre monomeri:
propilene glicole; anidride maleica e anidride ftalica.
La struttura del pre-polimero è indicata in basso in figura [6].
Nella seconda fase il pre-polimero è disciolto in un solvente molto reattivo (con caratteristiche di
monomero), generalmente lo stirene, alla presenza di un iniziatore, il perossido di butanone (la cui
struttura molecolare è sotto mostrata).
La struttura molecolare del 2-Butanone perossido.
138
L’iniziatore in opportune condizioni si decompone formando radicali liberi che innescano la reazione di
reticolazione e di omopolimerizzazione dello stirene. Queste reazioni avvengono alla presenza di
appropriati catalizzatori (ad es. il naftanato di cobalto) e di composti metallici che agiscono da
acceleratori.
Come si evince dallo schema riportato in figura 10, a seguito delle reazioni di cui sopra si viene a
formare una struttura solida, tridimensionale, altamente reticolata con caratteristiche termoindurenti [6].
FIGURA 10: Rappresentazione schematica della struttura a reticolo
tridimensionale di una resina poliestere insatura dopo la reazione di
indurimento e di cura (vedesi testo) [6].
---Applicazione dei poliesteri insaturi nella conservazione dei beni culturali
ƔDipinti murali e mosaici
Pannelli rigidi ottenuti attraverso l’impregnazione di fibre di vetro con resine insature prima
dell’indurimento (sistemi compositi, comunemente noti come vetro-resine) sono usati nel risupporto di
dipinti staccati dalla base originale.
139
<I dipinti murali, strappati, vengono oggi per lo più ricollocati con idonei adesivi su questo tipo di
supporti…….Oltre alle pitture murali essi tornano utili alla risupportazione di mosaici staccati o anche
per il trasporto di dipinti su tavola di grandi dimensioni> [7].
ƔMarmo, ceramiche e pietre
Le resine poliestere, commercializzate come Sintolit (mastice bi componente, resina non indurita +
induritore (Perossido di Benzoile al 3% in volume)), sono utilizzate per l'incollaggio e la stuccatura di
marmo, ceramica e pietra in genere [8].
Una volta mescolato l’induritore con la resina il prodotto deve essere applicato entro 3 minuti sulla
superficie, asciutta e pulita, del substrato. Il tempo d’indurimento varia dai 30 ai 60 minuti secondo la
temperatura di esercizio [8].
Alcune resine poliesteri insature, opportunamente caricate con polveri di marmo colorate, pigmenti
minerali o altri inerti, imitano alla perfezione qualunque tipo di marmo o superficie lapidea.
2) RESINE EPOSSIDICHE
La sintesi e le proprietà delle resine epossidiche sono state già descritte in un capitolo precedente del
presente volume. Le resine epossidiche di più ampio utilizzo sono quelle che si ottengono dalla
condensazione di epicloridina e difenil propano (bisfenolo A).
FIGURA 11-sinistra: Le resine epossidiche sono dei sistemi a due componenti;
uno di natura oligomerica e il secondo capace di provocare la reazione di cura,
denominato induritore.
FIGURA 11-destra: Al momento dell’impiego i due componenti sono mescolati
e reagendo danno luogo alla formazione di un materiale con caratteristiche
termoindurenti. [http://pslc.ws/macrog/kidsmac/epoxy.htm].
Queste resine sono note con la sigla DGEBA (diglicidiletere di bisfenolo A). Dalla condensazione si
ottiene un pre-polimero lineare liquido la cui viscosità aumenta con il peso molecolare.
Quando a questo pre-polimero è aggiunto un agente di reticolazione o di cura, s’innesca una
140
reazione che porta alla formazione di un polimero reticolato a struttura tridimensionale,
termoindurente, insolubile e resistente all’azione di basi, acidi e altri agenti chimici. Per la loro struttura
chimica le resine epossidiche presentano un’elevata adesività nei confronti di substrati solidi polari quali
metalli, vetri, ceramiche e lapidei [9].
Le resine epossidiche sono commercializzate nella forma di due componenti separati. Un componente
contiene la resina di base, il pre-polimero oligomerico lineare, l’altro l'agente reticolante e induritore.
Queste due sostanze sono mescolate in rapporto stechiometrico all’atto dell’impiego. La miscelazione
attiva la reazione di reticolazioni che trasforma il pre-polimero liquido in un materiale solido
termoindurente, vedesi figura 11.
---Applicazione delle resine epossidiche nella conservazione dei beni culturali
ƔManufatti lapidei
Un esempio di applicazione di resine epossidiche nel campo della conservazione di opere in pietra è
illustrato attraverso la figura 12 che documenta il trattamento di pre-consolidamento, eseguito
utilizzando la tecnica per iniezione, nel restauro del campanile della Chiesa romanica di S. Antonio a
Pomarolo (TN) [10]. Quest’operazione, che permette il fissaggio e l’ancoraggio di frammenti in via di
distacco o già staccati, è finalizzata al ristabilimento della coesione delle superfici maggiormente
degradate [10,1].
FIGURA 12: Restauro del campanile della Chiesa romanica
di S. Antonio a Pomarolo (TN) con iniezioni di resina epossidica
[10].
141
Resine epossidiche sono state anche impiegate con la tecnica della stuccatura nel restauro del portale
della Chiesa dei Carmini a Venezia (2010, figura 13). Questo trattamento è così descritto nel riferimento
[11]:
<Siamo intervenuti, poi, con una serie di microstuccature in resina epossidica caricata con quarzite
superventilata, in seguito coperte con una maltina intonata per colore alla pietra d’Istria, che
andassero a chiudere le fessurazioni createsi perché luoghi di origine di possibili e pericolosi degradi>
[11].
FIGURA 13: Il portale della Chiesa dei Carmini a Venezia per il cui
restauro (2010) sono state utilizzate resine epossidiche, vedesi testo
[11].
ƔManufatti di legno
Nell’ambito del restauro di manufatti di legno le resine epossidiche, che hanno un’elevata capacità di
penetrare nelle fibre, sono utilizzate nelle seguenti applicazioni:
-- Incollaggi;
-- recupero di travature;
-- incollaggi strutturali [12].
Nella figura 14 è messo in evidenza una procedura finalizzata al rinforzo di travature mediante
l’inserzione di barre in vetroresina in apposite scanalature. In seguito queste barre sono bloccate in
questi alloggiamenti mediante l’impiego di resine epossidiche [12].
Questa tecnica è anche usata nel restauro conservativo dei mobili <per migliorare incollaggi….o per
rinforzare massellature esigue sottoposte a sforzi, o per rinforzare legno amallorato per marcescenze o
tarlature> [12].
142
Resine epossidiche (Rutapox I-93/2 e I-93/1) sono state impiegate nel consolidamento di manufatti
lignei. Per questa particolare applicazione sono state impiegate resine epossidiche il cui pre-polimero ha
una bassa viscosità e basso peso molecolare al fine di permettere una profonda penetrazione all’interno
delle parti deteriorate e indebolite [6].
FIGURA 14: Sinistra, scavo dell’alloggiamento delle barre.
Destra, annegamento delle barre nella resina epossidica [12].
3) RESINE ACRILICHE
Le resine acriliche sono una famiglia di polimeri e copolimeri che si ottengono mediante
polimerizzazione di monomeri acrilici o metacrilici (ad es. esteri etilici e metilici dell'acido acrilico e
dell'acido metacrilico).
Le resine acriliche che interessano dal punto di vista della conservazione di manufatti artistici fanno
capo essenzialmente alla famiglia dei polialchilacrilati e a quella dei polialchilmetacrilati vedesi
struttura molecolare in figura 15, dove R è un generico radicale organico.
Una vasta gamma di resine acriliche, con caratteristiche chimiche fisiche e campi di applicazione diversi
sono sintetizzate variando la natura chimica del sostituente R e sfruttando che monomeri acrilici con
differente struttura chimica possono facilmente copolimerizzare tra loro.
La struttura molecolare di alcune resine acriliche che si differenziano per la natura del radicale R è
riportata nella figura 16-sopra. Dalla figura traspare come all'aumentare della lunghezza dell'alchile
(gruppo pendente R) la temperatura di transizione vetrosa si abbassa sostanzialmente.
La struttura di due resine acriliche ottenute per copolimerizzazione di monomeri acrilici diversi è
rappresentata nella figura 16-sotto.
143
FIGURA 15: Struttura molecolare delle unità ripetitive dei
poli(alchil acrilati) (sinistra), e dei poli(alchil metacrilati)
(destra). R rappresenta un generico radicale organico [6,1].
FIGURA 16: Struttura molecolare di alcune resine acriliche. Sopra, resine
che si differenziano per la natura del radicale R. Sotto, resine ottenute per
copolimerizzazione di monomeri acrilici diversi. Sotto-sinistra, il
copolimero metilmetacrilato/n-butilmetacrilato. Sotto-destra, il copolimero
metilmetacrilato/etilmetacrilato.
144
Da quanto sopra riportato, si ricava come la chimica delle resine acriliche per la sua versatilità permette
di sintetizzare una vastissima gamma di prodotti finali con caratteristiche mirate all’utilizzo (tailor made
products) [1].
Le resine acriliche, per le loro intrinseche specificità sono ampiamente impiegate nella conservazione di
opere d’arte di varia tipologia. Alcuni esempi sono sotto descritti.
--- Applicazione delle resine acriliche nella conservazione dei beni culturali
ƔManufatti lapidei
Decoro floreale della fontana “Putriduzza” di Petralia Soprana (figura 17)
Come riportato nel riferimento [13], il preconsolidamento, necessario < al ristabilimento della coesione
della superficie maggiormente degradata>, è stato eseguito < mediante impregnazione di resina
consolidante acril-siliconica, per mezzo di pennelli, e iniezioni all’interno delle fessure con siringhe e
pipette> [13].
Colori basati su leganti acrilici, “Polycolor acrilic”, <capaci di formare, una volta asciutti, una pellicola
estremamente forte, resistente ed elastica> [13] sono stati utilizzati, dopo le fasi di consolidamento,
pulitura e stuccatura, per l’integrazione pittorica.
Il restauro è stato finito (vedesi figura 17) applicando sulla superficie <uno strato di vernice protettiva,
“Acrilmat”che è una resina acrilica in soluzione idroalcolica trasparente e opaca che fissa e protegge
le decorazioni su pietra senza alterarne le cromie originali> [13].
FIGURA 17: Sinistra, prima del restauro.
Destra, a restauro completato, vedesi testo
[13].
145
Statua all’esterno della Chiesa di S. Michele a Lucca
E’ un manufatto realizzato in calcare [roccia carbonatica a bassa porosità (3-4%) con un alto contenuto
di minerali argillosi]. Il manufatto è stato trattato (metodo a spruzzo e non a pennello) con un prodotto
consolidante/protettivo, reversibile e resistente ai raggi UV, basato su di una miscela fra una resina
acrilica e un fluoro elastomero, in acetone Questo prodotto è commercializzato come Fluormet CP,
vedesi figura 18 [14,1].
FIGURA 18: La statua in pietra calcarea, all’esterno della Chiesa
di S. Michele a Lucca, per il cui restauro stata impiegata una miscela
fra una resina acrilica e un fluoro elastomero, il Fluormet.
Sinistra, prima del trattamento. Destra, dopo il trattamento [14].
La facciata principale della Basilica di San Petronio in Bologna (figura 19)
Nel consolidamento di questo manufatto è stata impiegata una particolare formulazione, detta Cocktail
di Bologna, tra i cui componenti principali figura una resina acrilica, il Paraloid B72 [copolimero
metilacrilato (MA)/etilmetacrilato (EMA) con MA/EMA=30/70; Tg= 40°C] [15,16,18,1].
Resine acriliche sono usate anche nel consolidamento di manufatti ceramici.
<Un consolidante comunemente utilizzato è il copolimero etilmetacrilato-metacrilato in soluzione di
acetone. La concentrazione del consolidante va regolata in funzione della porosità del manufatto>
[https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id..].
146
FIGURA 19: Una resina acrilica, il Paraloid B72 è stata utilizzata, insieme
ad altri componenti, nel restauro della facciata principale della Basilica di
San Petronio, Bologna [15,16,1].
ƔAffreschi murali
Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, Dermulo (figura 20)
Resine acriliche sono state impiegate nelle seguenti fasi operative del restauro dell’affresco:
<-Protezione precauzionale delle zone in pericolo di caduta mediante velatura con carta giapponese e
resina acrilica in solvente organico.
-Consolidamento delle zone pericolanti (già protette dalle velature precauzionali) e dei distacchi fra i
vari strati, mediante iniezioni di un’emulsione acrilica (Primal AC33, un copolimero etilacrilato
(EA)/metilmetacrilato (MMA) con il rapporto MMA/EA= 33/67; Tg=16°C) in varie diluizioni in acqua
demineralizzata. Nei vuoti più consistenti, con l'immissione di malta idraulica composta di calce
Lafarge, inerti e Primal al 5%.
-Fissaggio della pellicola pittorica sollevata e/o priva di coesione con impregnazione inorganica
mediante idrossido di calcio, in alternativa con resina acrilica (Paraloid B72) in appropriata diluizione
con solvente organico, nei casi d’incompatibilità (es. alla presenza di tempere, pigmenti non resistenti a
un PH acido).
147
- Analisi dettagliata della tecnica esecutiva con individuazione di presenze di pittura a secco e/o
tempera e loro protezione mediante resina acrilica in soluzione (Paraloid B72).
- Rimozione del fissativo dalle zone dipinte a secco e fissaggio definitivo delle stesse con resina acrilica
al 2%> [17].
FIGURA 20: Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, Dermulo, affresco per il
cui restauro conservativo sono state usate, in alcune fasi, resine acriliche [17].
ƔDipinti ad olio su tela
Il Plexisol P500, la struttura chimica del cui monomero, il n-butilmetacrilato, è qui di seguito illustrata,
è un omopolimero acrilico, termoplastico, con elevata resistenza all'invecchiamento.
148
FIGURA 21: Dipinto a olio su tela del 1859, veduta di Napoli,
di F. Sorrentino (scuola napoletana), dopo il restauro per il quale
è stata usata anche una resina acrilica, vedesi testo [21].
FIGURA 22: Dipinto, la Crocifissione, di Ignazio Enrico
Hugford, per il cui consolidamento è stato impiegato il Plexisol.
Foto generale dopo il restauro vedesi testo [22,21].
149
Il Plexisol P550 è utilizzato per la conservazione dei dipinti su tela.
In particolare questo polimero si è rilevato < Particolarmente adatto all’utilizzo come consolidante
dello strato pittorico grazie alla capacità di penetrazione del solvente, il suo basso peso molecolare e
l’efficacia anche a ridotte concentrazioni (5%-10% - da 1:4 a 1:9 di Plexisol in White Spirit (acqua
ragia minerale o spirito di trementina; distillato di resine di pino)), che permettono di non introdurre
nuove tensioni nella pellicola pittorica> [19].
Il Plexisol, diluito in acetone al 10%, è stato usato nelle operazioni di restauro del dipinto mostrato in
figura 21 [20,21].
In particolare questo prodotto è stato scelto per le operazioni di consolidamento finalizzate a migliorare
l’adesione degli strati del dipinto. <I risultati ottenuti (fig. 21) sono stati buoni: la coesione dei vari
strati del dipinto è stata ristabilita e la tela ha mantenuto una certa elasticità> [21].
Il Plexisol è stato anche impiegato nelle operazioni di consolidamento del dipinto, la Crocifissione, di
Ignazio Enrico Hugford (figura 22) [22].
<Il dipinto è stato consolidato prima a pennello e poi sulla tavola fredda usando il Plexisol P550 in una
concentrazione 1/26 in benzina. Poi è stato messo in sottovuoto e la resina iniettata è stata riattivata
con una temperatura di 55°C. E’ stato scelto questo prodotto sintetico per impermeabilizzare la tela per
ridurne l’igroscopicità> [22].
ƔManufatti lignei
Le resine acriliche sono ampiamente impiegate nel pre-consolidamento e consolidamento di manufatti
lignei. Le operazioni di consolidamento, nel caso di oggetti di legno, si rendono necessarie quando il
degrado < interessa soprattutto la struttura interna del legno a opera degli insetti xilofagi. Questi insetti
indeboliscono a tal punto la struttura del legno da renderla quasi spugnosa e debole alle sollecitazioni
meccaniche. Il consolidamento in genere è effettuato con resine acriliche tra le quali una delle più
efficaci è il Paraloid B72> [23].
Il Paraloid B72 è commercializzato sotto forma di granuli. Pertanto al momento dell’impiego deve
essere disciolto in appropriati solventi.
< La soluzione penetra all’interno della struttura, nelle gallerie scavate dai tarli, asciugandosi si
espande e indurisce rinforzando il tutto. Il consolidamento può essere eseguito per immersione, per
spennellatura o siringatura> [23].
FIGURA 23: Cristo deposto (1717), cappella del SS. Crocefisso,
Chiesa dell’Immacolata Concezione, in legno scolpito e dipinto.
L’opera è stata restaurata presso il laboratorio di opere lignee
dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli [24].
150
FIGURA 24: Particolare della scultura lignea
policroma raffigurante il Crocefisso (Chiesa di
S. Giorgio in Cassolnovo (PV)), per il cui restauro
è stata utilizzato, come fissativo, il Paraloid B72
[24-b].
Un esempio di applicazione del Paraloid B72 nel consolidamento di un’opera lignea è descritto nel
riferimento [24] e fa riferimento al caso di un Cristo deposto, in legno scolpito e dipinto (figura 23).
Il Paraloid B72, sciolto in acetone in percentuale del 5%, è stato usato come fissativo nelle operazioni di
restauro di una scultura lignea policroma del primo seicento, raffigurante il Crocefisso, sita nella Chiesa
di S. Giorgio in Cassolnovo (PV) (figura 24) [24-b].
ƔManufatti cartacei
Miscele di resine acriliche di natura diversa quali ad esempio quelle ottenute mescolando una
dispersione acquosa di Acrylic E-411 con un’emulsione acquosa di Plextol B 500 (copolimero di
etilacrilato e metilmetacrilato) sono state ampiamente utilizzate come collanti nella preparazione di velo
pre-collato per il restauro della carta [25].
La velatura è un intervento diretto che è necessario <per rinforzare carte indebolite e fragili o per
arrestare i danni causati dagli inchiostri, ferro gallici> [26] (vedesi figura 25).
La miscela, Primal E-411/Plextol B500 (prima essiccata) al 2-3% in alcool etilico è stata impiegata nelle
operazioni di fissaggio a spray, riguardo alle sole zone solubili, per le tavole cartacee in bianco e nero
(nerofumo) [27].
La miscela di Acrilic DP59 038, Plextol B500 e Acrilico E411, in soluzione acquosa, eventualmente con
aggiunta di Tylose (un adesivo derivato della cellulosa, metilidrossietilcelluosa),
<è stata sperimentata sia come adesivo a pennello, in questo caso usato direttamente per incollaggi di
superfici da ricomporre, sia per trattare veline giapponesi da poter utilizzare per realizzare foderature,
falsi margini e tiranti attivando l’adesione con l’acetone> [26].
151
Veli pretrattati con resine acriliche Plextol B500 e Acrilico E411, in soluzione acquosa, fatti aderire
mediante colla d’amido unita a Tylose MH 300, sono stati utilizzati nel trattamento di strappi e tagli nel
restauro di un volume pergamenaceo di graduale decorato del XVI secolo, ora di proprietà della
parrocchia di San Giacomo Maggiore di Lauria [28].
FIGURA 25: Esempi di restauro conservativo di pagine cartacee di
manoscritti e di libro a stampa. Sinistra, velatura di un manoscritto cartaceo
con acidità perforante [29]. Destra, pagina velinata in fase di restauro [30].
ƔManufatti di bronzo
Vernici acriliche, impiegate come protettivi superficiali, sono applicate alla fine dei trattamenti di
pulitura e di consolidamento e d’inibizione del cancro del bronzo (di questo fenomeno si è già scritto in
precedenza). In letteratura è riportato un trattamento efficace nella protezione dei bronzi basato
sull’impiego di una vernice acrilica, contenente additivi antiossidanti (Incral 44).
L’effetto di protezione è potenziato usando, insieme alla resina vinilica, una miscela di cere naturali
microcristalline
e
polietileniche,
solubile
in
acquaragia
minerale
[http://www.ctseurope.com/contentimages/news2010-21.3%20_cancro%20bronzo_.pdf].
Questo tipo di trattamento si è dimostrato efficace nel proteggere opere di bronzo esposte all’azione
degli agenti atmosferici.
4) RESINE SILICONICHE, POLIALCOSSISILANI E
POLIALCHILALCOSSISILANI
La chimica del silicio non prevede, lungo le macromolecole di polimeri siliconici, la presenza di
sequenze del tipo, -Si-Si-Si-Si-. I polimeri siliconici o silanici (intesi quali derivati del silano, (SiH4) si
caratterizzano pertanto per la presenza di sequenze del tipo ~Si-O-Si-O-Si-O-, dove atomi di silicio si
alternano in catena con atomi di ossigeno. La saturazione delle altre due valenze del silicio, tetravalente,
avviene attraverso legami con radicali alchilici o arilici (vedesi figura 26) [1].
I polimeri di origine organo-siliconica che hanno trovato largo impiego, per le loro particolari
caratteristiche molecolari, chimiche e fisiche, nel campo della conservazione dei manufatti di
152
interesse culturale, storico e artistico, appartengono essenzialmente alle famiglie dei polialcossisilani e poli-alchilalcossisilani i cui precursori monomerici sono rispettivamente gli alcossisilani e
gli alchilalcosisilani, di seguito brevemente descritti [1].
FIGURA 26: Strutture molecolari di macromolecole
polisilossaniche lineari. Sopra, il polidimetilsilossano, tra
parentesi è indicata l’unità ripetitiva.
Sotto-sinistra, l’unità ripetitiva del polimetilfenilsilossano.
Sotto-destra, l’unità ripetitiva del polidifenilsilossano.
-Alcossisilani
In queste sostanze gli idrogeni del silano (SiH4) sono sostituiti da radicali alcossilici (OR, ad esempio
–O-CH3 oppure O-CH2-CH3). Gli alcossisilani si caratterizzano per la presenza del raggruppamento
SiOC, vedesi il caso del tetraetossisilano o silicato di etile Si[OC2H5]4 la cui struttura molecolare,
caratterizzata dal silicio al centro di un tetraedro, è sotto illustrata (il silicio è in grigio, gli atomi di
ossigeno e di carbonio in nero, gli idrogeni in grigio chiaro) [1,2].
tetraetossisilano
Si[OC2H5]4
153
-Alchilalcossisilani
Si contraddistinguono poiché nelle loro molecole gli idrogeni del silano sono sostituiti, in parte da
radicali alchilici (R) e in parte da radicali alcossilici (OR). Questi composti presentano nella loro
molecola il raggruppamento CSiOC. La struttura molecolare del metiltrietossisilano, tipico
esempio di alchilalcossisilano, è la seguente:
OC2H5
~
CH3SiOC2H5
~
OC2H5
Negli alchilalcossisilani e alcossisilani i gruppi -Si-OR, alla presenza di acqua e di appropriati
catalizzatori subiscono una reazione d’idrolisi trasformandosi nei gruppi –Si-OH.
Questi ultimi per successiva condensazione intermolecolare danno luogo prima a oligomeri e quindi
attraverso una reazione di policondensazione alla formazione di polimeri ad alto peso molecolare, lineari
o ramificati.
Lo schema delle reazioni che da alcossisilani o alchilalcossisilani monomeri portano alla formazione di
polimeri lineari e ramificati è descritto nella figura 27 [1,31].
FIGURA 27: Reazioni di polimerizzazione di alcossisilani (a)
e di alchilalcossisilani (b).
Nella pratica industriale molti polisilossani lineari sono sintetizzati, mediante una reazione di ring
opening, dai corrispondenti oligomeri ciclici organosilossanici, vedesi schema in figura 28 [1].
154
FIGURA 28: Lo schema della reazione di apertura
dell’anello dell’octametilciclotetrasilossano che porta
all’ottenimento del polidimetilsilossano [1]
---L’impiego degli alcossisilani e degli alchilalcossisilani nella conservazione dei beni culturali
ƔManufatti lapidei
Miscele di monomeri alcossisilanici con differente struttura chimica, diluiti in solventi per ridurne la
viscosità, sono adoperati nei trattamenti di consolidamento/protezione di opere in pietra. La
formulazione prevede la presenza di un catalizzatore/iniziatore idoneo a innestare in situ la reazione
d’idrolisi e di policondensazione.
La velocità di penetrazione all’interno delle pietre e il grado di riempimento dei pori del manufatto
degradato, che rappresentano le principali caratteristiche del sistema consolidante, dipendono dai
seguenti fattori:
a) la viscosità della formulazione, la natura del solvente e sua velocità di evaporazione dall’interno
delle pietre, durante il corso della polimerizzazione;
b) la concentrazione, la composizione della miscela e la struttura chimica degli alcossisilani;
c) la velocità di polimerizzazione e d’indurimento e la struttura del polimero che si forma nei pori;
d) l’adesione e il tipo di legami che si vanno a manifestare tra i gruppi funzionali del polimero e del
substrato lapideo [1].
Attraverso la scelta di adeguati iniziatori e catalizzatori è possibile indirizzare la polimerizzazione degli
alcossisilani in maniera tale che essa abbia inizio solo dopo la penetrazione della formulazione liquida
all’interno del manufatto da consolidare e che dia luogo alla formazione di un polimero altamente
reticolato capace di riempire i pori e le crepe agendo da collante tra grani tra loro sconnessi.
155
Case history concernenti l’applicazione delle resine polialcossilaniche o poliachilalcossisilaniche nella
conservazione di opere in pietra sono di seguito descritti.
Chiese barocche di Lecce
Formulazioni commerciali, a base di prodotti silanici, del tipo sotto riportate:
--ESTEL 1000 (o CTS 1000) e Wacker OH, RC 70 (prodotti a base di silicato di etile);
--ESTEL 1100 (o CTS 111, SILO 111) e RC80 (miscele di silicato di etile e alchil-alcossi-silani);
--RC90 (miscela tra etilsilicato e metil-fenilpolisilossano);
--Wacker 290L, TRECON WR e Silirain 50 (genericamente descritti come alchil-alcossi-silani
oligomerici);
sono state sperimentate nel trattamento sostenibile delle chiese barocche di Lecce (figura 29), per la cui
costruzione è stata ampiamente usata la pietra leccese, una <calcarenite, molto tenera e caratterizzata
da una porosità molto elevata, pori piuttosto fini e notevole capacità di assorbire l’acqua….. L’insieme
di queste caratteristiche conferisce a questa pietra un’ottima lavorabilità,….. ma anche una resistenza
agli agenti atmosferici e una durabilità molto modesta> [32].
FIGURA 29, sinistra: La facciata della chiesa di Santa Croce a Lecce [32].
FIGURA 30, destra: l'arco di Traiano in Benevento. Nel restauro di queste
strutture sono state impiegate resine siliconiche di varia tipologia (vedesi testo).
156
FIGURA 31: La “Tintern Abbey”, Wye Valley (Galles) UK,
per il cui restauro sono stati impiegati prodotti alcossisilanici.
Arco di Traiano in Benevento
Nel restauro conservativo dell'arco di Traiano in Benevento (114 d.C.) (figura 30), il consolidamento dei
marmi è stato eseguito con silicato di etile dato a pennello [33].
“Tintern Abbey”, Wye Valley (Galles), UK
Nel consolidamento della “Tintern Abbey”, monumento in pietra arenaria (figura 31) è stato utilizzato
un gel (noto in commercio con il nome di “Brethane”) basato sui seguenti componenti:
--- Metiltrimetossisilano, monomero;
--- Acqua e Spirito metilato;
--- Soluzione di naftenato di piombo che agisce da catalizzatore.
Arco di Trionfo (Parigi) e le Statue del Prato della Valle (Padova)
Derivati silanici idrorepellenti (protettivi) e consolidanti, commercializzati con il marchio di fabbrica
RHODORSIL® (silicati di etile associati a un catalizzatore neutro che rende più rapida e completa la
loro polimerizzazione anche alla presenza di scarsa umidità) sono stati impiegati nelle operazioni di
restauro di numerosi monumenti tra cui vanno citati: l’Arco di Trionfo (Parigi) e le statue del Prato della
Valle (Padova) [34].
Edicola d’angolo di Palazzo Chigi (19th sec.)
Protettivi di natura polisilossanica sono stati utilizzati nel restauro dell’edicola d’angolo di Palazzo
Chigi (19th sec.), in maiolica dipinta con la cornice in stucco dorato, raffigurante la Madonna con
Bambino. Formulazioni a base di derivati silanici sono servite per eseguire la protezione finale degli
stucchi dopo le operazioni di restauro conservativo [35].
157
Mosaici dell’arco d’ingresso al Presbiterio (San Vitale- Ravenna)
Le tessere in pasta vitrea, fratturate, dei mosaici dell’arco d’ingresso al Presbiterio (San VitaleRavenna) sono state consolidate e protette mediante infiltrazione a goccia di una resina siliconica
idrorepellente a base di polifenilmetilsilossano, commercializzata come Wacker BS 44 [36].
La resina allo stato di polvere, prima dell’impiego è disciolta in un opportuno solvente organico. Alla
presenza di un idoneo catalizzatore il prodotto, dopo il trattamento, subisce un processo d’indurimento
formando sulla superficie un reticolo tridimensionale chimicamente legato al substrato del manufatto
lapideo mediante forti legami primari, figura 32 [36].
FIGURA 32: Tessere in pasta vitrea deteriorate e trattate con una resina
siliconica protettiva, idrorepellente nell’ambito dell’intervento
di restauro sui mosaici dell’arco d’ingresso al Presbiterio di S. Vitale
(Ravenna) [36].
5) DERIVATI VINILICI: POLIVINILACETATO (PVAc),
POLIVINILALCOL (PVA), COPOLIMERI
ETILENE-VINILACETATO (E-co-VAc)
Le strutture molecolari del PVAc, PVA, e dei copolimeri E-co-VAc sono descritte nella figura 33.
La sintesi del polivinilacetato (PVAc), di certo il più importante vinil derivato, è descritta in figura 34,
dalla quale si evidenzia come questo polimero termoplastico è sintetizzato dall’acetilene che è
trasformata nel monomero, l’acetato di etile (un estere dell’alcole etilico e dell’acido acetico).
Quest’ultimo è quindi polimerizzato attraverso una polimerizzazione di tipo radicalica [37].
158
PVAc
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
PVA
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
E-co-VAc
FIGURA 33: Strutture molecolari del PVAc (sopra),
PVA (centro), e dei copolimeri E-co-VAc (sotto).
159
FIGURA 34: Schema della sintesi del PVAc (vedesi testo) [37].
FIGURA 35: Lo schema della sintesi del polivinilbutirrale
a partire dal PVA e butirraldeide [38].
Il polivinilalcol è ottenuto attraverso un’idrolisi controllata (detta alcolisi) del PVAc, già prima descritta.
Questa de-acetilazione può essere completa o parziale, portando, di fatto, a dei copolimeri tra il VAc e il
VA [38].
I copolimeri etlene-vinilacetato sono sintetizzati copolimerizzando in condizioni opportune i due
monomeri. I copolimeri in commercio, di natura random, si caratterizzano per una composizione che
vede la presenza di etilene tra il 60-80%.
160
I polivinil acetali, un’altra interessante famiglia di derivati vinilici, si ottengono attraverso una reazione
tra il PVA e aldeidi. Lo schema di sintesi del polivinilbutirrale, è mostrato in figura 35 [38].
I polimeri appartenenti alle famiglie dei derivati vinilici sono generalmente dei termoplastici che sono
impiegati, nel campo della conservazione, sia allo stato condensato sia in emulsione acquosa o in
soluzione di solventi organici.
Il PVAc, i copolimeri (E-co-VAc) e i PVAc modificati per inserzione in catena di altre unità
comonomeriche, allo stato solido, tal quali, oppure in dispersione acquosa o in soluzione di solventi
organici sono impiegati come adesivi e collanti in varie tipologie di applicazioni nel campo della
conservazione. Alcuni prodotti sono utilizzati nella rifoderatura di dipinti e nel campo della
conservazione di tessuti con particolare riguardo al caso dell’incollaggio di manufatti tessili fragili su
substrati stabili. Una serie di resine viniliche sono componenti di molti collanti, in dispersione acquosa,
di largo impiego nel campo del consolidamento di manufatti lignei.
I copolimeri (E-co-VAc) sono usati come additivi in adesivi del tipo “hot melt”e come componenti di
adesivi impiegati come opacizzanti di vernici.
In letteratura è citato il caso di dispersioni di PVAc, plastificati con dibutilftalato, usati nella rifoderatura
di dipinti [6,38].
Una formulazione ottenuta mescolando una soluzione di PVAC in toluene con una soluzione di
detergente è stata usata per trattamenti di consolidamento di materiali archeologici imbevuti d’acqua.
Resine viniliche a base di PVAc sono state impiegate nei trattamenti di consolidamento di reperti di ossa
recuperati nel corso di scavi archeologici [6].
Il polivinilbutirrale trova applicazione nel consolidamento di tessuti, di materiali fossili e nel caso di
manufatti lignei [6].
Nel campo della rifoderatura dei dipinti grande successo ha trovato una formulazione a più componenti,
Il Beva 371, messa a punto negli anni 1970 da Gustav Berger [39].
Il Beva 371 <è un termocollante sintetico che offre molteplici possibilità di applicazione negli
incollaggi e nelle foderature particolari, solitamente non consentite dalle tradizionali colle> [40].
I componenti del Beva 371 sono sotto elencati:
La composizione dei copolimeri etilene vinilacetato, EVA, presenti nel Beva 371 è:
Elvax 150 (VAc=33%); AC 400 (VAc=15%).
Il Laropal, altro componente del Beva, è una resina chetonica, policicloesanone, a basso peso
molecolare che si ottiene per policondensazione del cicloesanone e di suoi derivati metil sostituiti. La
sua struttura è qui di seguito mostrata.
161
Nel riferimento [41], l’utilizzo del Beva nell’intervento di restauro di un dipinto a olio su tela della
Chiesa di San Vittore di Caiolo (Sondrio) è così riportato:
<…Consolidamento del supporto cellulosico con applicazione dal verso di consolidante termoplastico
(Beva 371 in diluizione al 20/30%) dato a pennello e successiva veicolazione forzata dopo
l'evaporazione del solvente con l'applicazione del sottovuoto e l'apporto di calore per l'attivazione del
consolidante. Reintegrazione delle lacune del supporto realizzando inserti in tela di lino (pattina)
apprettata con adesivo termoplastico (Beva 371- Beva film) applicati mediante giunzione di testa con
resina poliammidica per restauro tessile (Lascaux 5060) da utilizzarsi anche per la giunzione dei tagli
presenti…> [41].
Il complicato ma efficace, sistema utilizzato nella rifoderatura del dipinto di Enzo Cucchi, la fioritura
dei galli neri, riportato nel riferimento [39], è schematicamente illustrato nella figura 36.
Da tale figura si evince come nella rifoderatura si è fatto uso di Beva sia allo stato di gel sia di film
preformato.
E’ interessante rilevare che nel sistema di laminato di cui sopra sono stati impiegati anche film a base di
poliesteri (poliestere Scapa e Tergal).
FIGURA 36: sezione trasversale del sistema complesso
del laminato usato nella rifoderatura del dipinto di Cucchi,
guardasi testo [39].
Film di Beva per le loro caratteristiche di adesivo sintetico termoplastico si sono dimostrati utili <per
ottenere una foderatura trasparente nei dipinti su tela (quando è necessario consolidare il tessuto e allo
stesso tempo mantenere sul verso una visione perfetta di scritte, firme, date e sigle) > [42].
La complessa procedura, basata sull’impiego di film trasparenti di Beva e altri polimeri, seguita per
realizzare l’obiettivo di cui sopra (vedesi figura 37), nel caso del restauro del dipinto di Vincenzo
Milione, S. Romualdo che incontra Ottone III, del Sec. XVII, è così descritta nel riferimento [42]:
<è stata progettata e costruita una nuova apparecchiatura per il controllo della pressione del
sottovuoto. Quest’attrezzatura ha permesso di raggiungere progressivamente una distribuzione della
depressione omogenea sull’intera superficie del dipinto... Inoltre, per l’apporto di calore
nella foderatura, è stata usata una nuova strumentazione computerizzata completamente
automatica, con un controllo molto preciso della temperatura, pratica da usare e molto più
162
economica della tavola calda. Queste attrezzature hanno consentito una perfetta applicazione della
resina termoplastica e di tessuti sintetici trasparenti a una coppia di pitture del Sec. XVIII, lasciando
perfettamente visibili le scritte autografe sul verso delle tele> [42].
FIGURA 37: Il sistema ideato per applicare sul verso di un dipinto
su tela una foderatura trasparente al fine di potere leggere quanto
scritto sulla tela, vedesi testo [42].
FIGURA 38: Vincenzo Milione, S. Romualdo che incontra Ottone III.
Le scritte sul verso del dipinto a confronto: prima della foderatura
(in alto), dopo la foderatura (in basso), vedesi testo [42].
163
Il raggiungimento dell’obiettivo prefissato è documentato attraverso la figura 38, dove le scritte sul
verso del dipinto di cui sopra, sono messe a confronto: prima della foderatura (in alto), dopo la
foderatura (in basso) [42].
Film di Beva sono stati usati, con successo, anche nella rifoderatura del dipinto di Emilio Notte,
realizzato nel 1940 con tecnica mista su tela, “Saltimbanchi” (figura 39) [43].
FIGURA 39: Dipinto su tela “Saltimbanchi”, di Emilio Notte
(1940), per il cui restauro sono stati usati film di Beva [43].
Da quanto sopra traspare come materiali polimerici di varia natura e stato fisico sono ampiamente
utilizzate nelle operazioni di restauro conservativo dei dipinti su tela e in particolare nelle operazioni di
rifoderatura, di consolidamento dello strato pittorico e quindi nella protezione dello stesso.
6) POLIMERI APPARTENENTI ALLA FAMIGLIA DEI “PARILENE”
Parilene è il nome commerciale di una famiglia di polimeri afferenti ai poli-para xilileni. Questi
polimeri hanno la peculiarità di formarsi a seguito di deposizione, su di un substrato solido, dei
monomeri allo stato di vapore. A seguito di ciò il substrato è ricoperto uniformemente da una sottile
pellicola o film costituito da un polimero lineare a elevata cristallinità.
Le fasi del processo di “vapor deposition polymerization” del Parilene C (il polimero mono cloro
sostituito), con riferimento alla figura 40, possono così essere descritte [44]:
Fase-a)- Il dimero del monomero, il di-p-xililene, è fatto sublimare a 150°C (sinistra in fig. 40).
Fase-b)- Il vapore del dimero è sottoposto a pirolisi a ~ 650°C. A seguito di ciò si viene a formare il
monomero in fase vapore (centro in fig. 40).
164
Fase-c)- Il monomero in fase vapore è trasferito nella camera di deposizione, dove a temperatura
ambiente polimerizza spontaneamente sul substrato da trattare. Si forma un sottile strato o film
policristallino (flessibile e con buone proprietà meccaniche) capace di resistere, agli attacchi di varie
specie chimiche, alle alte temperature e all’umidità ambientale (idrorepellente) [44,45].
FASE-a)
FASE-b)
FASE-c)
FIGURA 40: Le fasi del processo di “vapor
polymerization” del Parilene C (vedesi testo) [44].
deposition
Il processo di “vapor deposition polymerization” del Parilene è stato sfruttato, viste anche le
caratteristiche intrinseche del film polimerico, per il consolidamento di documenti cartacei e di
manufatti tessili.
Alcuni casi di consolidamento, eseguiti attraverso il processo di polimerizzazione in situ del Parilene, di
varie tipologie di manufatti cartacei, sono sotto certificati.
Nella figura 41 è mostrata la capacità d’idrorepellenza indotta dal trattamento di consolidamento con
Parilene su superfici di campioni di carta diversi per composizione e lavorazione [46].
Come documentato in figura 42, un libro esposto all’azione consolidante del Parilene resiste, molto
meglio di quanto non lo faccia un libro tal quale, a un trattamento estremo d’immersione in acqua per
quattro mesi e successiva conservazione allo stato umido per tre mesi [45].
I trattamenti di consolidamento determinano in manufatti di carta un aumento generalizzato della
resistenza alle sollecitazioni meccaniche dovute al fatto che, come documentato dalle micrografie
elettroniche della figura 43, le molecole di monomero in fase vapore penetrano all’interno della struttura
della carta, dove polimerizzano in situ dando luogo alla formazione di uno strato sottile di polimero che
aderisce fortemente alle fibre di natura cellulosica [46].
Come traspare dalle fotografie mostrate in figura 44, la perdita di lucentezza a seguito di trattamento con
Parilene è minima e accettabile nella pratica della conservazione [46].
In letteratura è stato osservato che fogli di carta trattati con Parilene sviluppano una maggiore resistenza
agli attacchi di muffe e funghi (ad esempio, Aspergillus niger, A. flavus, Penicillium sp., Rhizopus sp.,
and Trichoderma virid) [46].
165
FIGURA 41: Test della goccia d’acqua su superfici di fogli di carta.
Sinistra: I campioni non trattati denotano una più o meno accentuata
idrofilicità; alcuni assorbono del tutto l’acqua. Destra, I campioni trattati
con Parilene sono tutti idrorepellenti [46].
Da tutto quanto sopra si ricava l’indicazione che il trattamento con Parilene, basato sul processo di “gas
phase in site polymerization”, è capace, in appropriate circostanze, di indurre in manufatti cartacei o in
documenti di archivio, fragili e degradati, un effetto di consolidamento utile a prolungarne la vita
[45,46]. Ovviamente le caratteristiche del substrato cartaceo e la struttura chimica del Parilene
impiegato influenzano fortemente gli esiti del trattamento.
FIGURA 42: Fotografie di libri dopo quattro mesi d’immersione
in acqua e tre mesi di conservazione allo stato umido.
Destra: Libro in precedenza sottoposto a trattamento con Parilene.
Sinistra: Libro non trattato (vedesi testo) [45].
166
FIGURA 43: Micrografie al microscopio elettronico a scansione della superficie
di fogli di carta di giornale. Sinistra, campione non trattato. Destra, campione
consolidato con Parilene. Dalla micrografia si evince che il polimero aderisce alle
fibre cellulosiche (vedesi testo) [46].
FIGURA 44: Tavole di carta del “Taiwan Plant Atlas” (1911)
ricoperti da film di Parilene messe a confronto con una pagina
non trattata (blank in figura), vedesi testo [46].
167
Il processo al Parilene è stato anche usato con successo nel consolidamento di tessuti particolarmente
delicati e fragili. Un esempio di questo tipo di applicazione è illustrato attraverso la figura 45.
FIGURA 45: Frammento di un tessuto serico-aureo (XIII-XIV secolo d.C.)
rinvenuto a S. Fruttuoso di Camogli (Liguria, Italia). Il reperto, un tessuto
misto costituito da filamenti di seta e da sottili fili d’oro è stato consolidato
con il processo al Parylene.
7) LA FAMIGLIA DEI POLIURETANI
I poliuretani costituiscono una vasta famiglia di polimeri che secondo le loro caratteristiche molecolari e
strutturali possono essere termoplastici ed elastomeri. Inoltre questi materiali hanno la capacità di
formare schiume o sistemi espansi a celle chiuse o aperte [1 ]. Le modalità di sintesi, le caratteristiche
chimiche e fisiche dei poliuretani (PU) sono state già in parte descritte nel presente volume. In questo
capitolo saranno esposte alcune delle più significative applicazioni dei PU nel campo della
conservazione dei BB.CC.
168
---Applicazioni dei poliuretani nella conservazione dei beni culturali
ƔManufatti in pietra
---Monumento alla Libertà’ (Riga, Lettonia) (figura 46)
Nel corso del restauro del Monumento alla Libertà, un adesivo di natura poliuretanica a due componenti
(epoxy bounded polyurethane) è stato impiegato come sigillante, sostitutivo del piombo, dei rivestimenti
in granito [47].
FIGURA 46: Riga, monumento alla Libertà, per il cui
restauro sono stati impiegati anche resine poliuretaniche
[47,48].
---Pietre in travertino
Un poliuretano perfluorurato anionico in emulsione idroalcolica (12-13%), commercializzato come
Akeogard P è stato sperimentato con successo come protettivo superficiale per materiali lapidei e anche
come consolidante di manufatti quali ad esempio quelli in travertino (figura 47) [49].
169
FIGURA 47: Parete rivestita di lastre di travertino
http://it.dreamstime.com/fotografia-stock-parete-della-roccia-del-travertino
---Pietre di tufo
E’ stato sperimentato l’effetto consolidante di vari tipi di poliuretani, polimerizzati in situ, su rocce
tufacee. I trattamenti sono stati eseguiti su campioni di tufo giallo napoletano, una roccia vulcanica di
colore giallo paglierino con una porosità compresa tra 55 e 70% [50,51,51,53,54]. Sono state testate,
formulazioni liquide diverse per tipologia dei componenti (monomeri), per la concentrazione relativa
degli stessi e per la natura chimica dei catalizzatori [1]. L’acqua, presente nei pori delle pietre tufacee,
partecipa alla reazione di polimerizzazione favorendo la formazione di copolimeri Uretano/Urea
[1,50,51]. Infatti, come evidenziato nello schema in figura 48, l’acqua reagisce con l’isocianato
producendo acido carbammico, che perdendo CO2 si trasforma in un’ammina la quale reagendo con
altro isocianato forma un’urea sostituita. Se i gruppi R in figura sono degli OH, allora questo diolo può
partecipare alla sintesi del PU sostituendosi ai dioli normalmente impiegati.
FIGURA 48: Reazione tra l’acqua, presente nei pori di rocce tufacee, e
l’isocianato. I prodotti sono sostanze con legami ureici che partecipano
all’insieme delle reazioni che avvengono in situ dando luogo alla formazione
di copolimeri Uretano/Urea, guardasi testo [1,50,51].
170
Dalle ricerche eseguite da Martuscelli e altri è stato possibile dimostrare l’efficacia dei processi di
consolidamento sopra descritti sulla base, tra l’altro, dei seguenti risultati [50,51,51,53,54]:
1) I trattamenti conferiscono ai campioni di pietra una consistente riduzione dell’assorbimento di
acqua per capillarità pur permettendo una buona capacità di traspirazione.
2) Da test di abrasione si ricava che i campioni trattati presentano una minore perdita in peso
rispetto a quelli tal quali.
3) Il tufo consolidato mostra una maggiore capacità di recupero della resistenza alla compressione
determinato da una migliorata aggregazione dei grani.
La validità della metodica di consolidamento impiegata è da mettere in relazione anche con il fatto che
essa permette al monomero, e agli altri componenti la formulazione liquida, di penetrare in profondità,
all’interno del campione dove polimerizzando forma un film protettivo che, come documentato
attraverso studi di microscopia elettronica a scansione (figura 49), ricopre omogeneamente la superficie
dei grani e dei cristalli pseudo-cubici di cabasite e quelli prismatici di fillipsite, principali costituenti dei
tufi napoletani [50,51]. Questa caratteristica del trattamento in situ è vanificata quando il trattamento di
consolidamento è condotto con una soluzione/sospensione di polimero preformato. Infatti, come
documentato in figura 50, il film che si ottiene dalla deposizione del polimero a seguito
dell’evaporazione del solvente ricopre essenzialmente solo la superficie del campione di pietra [50,51].
FIGURA 49: Micrografie elettroniche al microscopio elettronico
a scansione di superfici di frattura di campioni di tufo: A) non
trattato; B), C) e D) dopo polimerizzazione in situ con
formulazioni reattive aventi diversa composizione di partenza
(vedesi testo) [50].
171
FIGURA 50: Micrografia elettronica in scansione della superficie
di un campione di pietra arenaria trattata con una dispersione di
poliuretano in acqua (guardasi testo) [50,51].
---Manufatti in Poliuretano espanso e manufatti tessili
Una dispersione acquosa di un poliuretano alifatico, policarbonato-polietere (caratterizzato dalla
presenza in catena di unità derivanti da policarbonati ossidrili terminati, vedesi ad esempio la struttura
sotto mostrata), commercializzata dalla Bayer, come “Impranil DLV” è stata utilizzata nel
consolidamento e protezione di manufatti in poliuretano espanso [55].
Struttura molecolare di un generico policarbonato alifatico ossidrile terminato
Questo prodotto è anche usato come vernice protettiva e stabilizzante di manufatti tessili di varia origine
e funzione [56].
I poliuretani alifatici, policarbonato-polietere, si caratterizzano, rispetto a quelli in base etere o estere,
per una più maggiore stabilità all’idrolisi e resistenza all’ossidazione [56].
172
Nel consolidamento e stabilizzazione di due opere di un’artista contemporaneo, Piero Gilardi, la
“Zuccaia” e “Sassi” (figure 51 e 52), entrambe ottenute per lavorazione di poliuretani espansi di tipo
polietere, è stata impiegata una speciale formulazione che sfrutta le sinergie dei seguenti componenti:
1)
Impranil DLV, della Bayer (emulsione acquosa al 40%), agente consolidante;
2)
Tinuvin B75, della Ciba-Geigy [una miscela di tre componenti, uno stabilizzante al calore
(Irganox 1135, 20%), un assorbitore di raggi UV, (Tinuvin 571, 40%) e uno stabilizzante alla luce
(Tinuvin 765, 40%), vedonsi strutture molecolari sotto riportate] [55].
La miscela è stata applicata sulla superficie dei manufatti mediante nebulizzazione.
FIGURA 51: La “Zuccaia”, opera di Piero Gilardi (1991) eseguita utilizzando un
poliuretano espanso in base polietere, per il cui consolidamento è stata usata una
sospensione acquosa di un poliuretano, polietere-policarbonato (Impranil),
vedesi testo [55].
173
FIGURA 52: Particolari dell’opera “Sassi” di Piero Girardi, in poliuretano espanso,
con chiare evidenze di processi di degradazione, prima del trattamento di
consolidamento e stabilizzazione (vedesi Testo) [55].
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176
CONCLUSIONI
Dall’insieme degli argomenti trattati nel presente volume, emerge chiaramente come la
Chimica e la Scienza e Tecnologia dei Materiali
sono decisivi nella conservazione di tutte le tipologie di beni culturali.
Lo sviluppo sinergico di queste due discipline ha permesso di mettere a punto strumenti idonei a:
---identificare la natura dei materiali costitutivi dei manufatti e a delucidare i legami e/o le interazioni
che agiscono tra gli stessi;
---definire lo stato di conservazione degli oggetti diagnosticando le cause del degrado e la gravità degli
attacchi dei fenomeni degradativi;
---sviluppare nuovi materiali, con elevata stabilità chimica, efficaci a svolgere specifiche e innovative
funzioni come agenti di consolidamento e di protezione di opere d’interesse culturale e storico.
---individuare procedure durevoli, sostenibili e reversibili di conservazione, atte a prolungare la durata
del ciclo di vita dei manufatti;
---valutare l’efficacia dell’intervento di conservazione e diagnosticare lo stato di conservazione post
restauro.
Inoltre va messo in risalto che attraverso l’implementazione di studi e ricerche nel campo della chimica
macromolecolare e della scienza e tecnologia dei materiali polimerici è stato possibile preparare nuove
formulazioni basate su polimeri di sintesi che si sono dimostrate essere essenziali nelle moderne
procedure finalizzate al consolidamento e alla protezione dei BB. CC.
Al presente i polimeri rappresentano una classe di materiali fondamentali per la conservazione dell’arte
in tutte le sue manifestazioni espressive incluse quelle realizzate in materiali costituiti da polimeri:
I Polimeri per l’arte.
E’ interessante evidenziare che le plastiche, complesse formulazioni basate su polimeri, sono anch’esse
impiegate come materiali costitutivi delle più svariate tipologie di manufatti d’interesse nel campo
dell’arte e del design: I Polimeri nell’arte.
177
INDICE
PAGINA-1
INTRODUZIONE
PAGINA-8
PARTE-PRIMA: I MATERIALI COSTITUENTI I BENI CULTURALI
PAGINA-9
MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE ESEGUITE PER LAVORAZIONE
MECCANICA DI ROCCE NATURALI
Capitolo –A.1): Le rocce naturali: composizione, struttura e genesi
PAGINA-17
Capitolo –A.2): La struttura e la composizione chimica dei minerali, costituenti
le rocce
PAGINA-23
Capitolo –A.3): Le proprietà fisiche e strutturali delle rocce
PAGINA-30
Capitolo –A.4): La degradazione ambientale dei manufatti lapidei in relazione
alla composizione e struttura del substrato
PAGINA-37
B) MATERIALI COSTITUTIVI DELLE CERAMICHE
Capitolo –B.1): Le argille: origine, struttura, proprietà e processi di lavorazione
PAGINA-48
C)
MATERIALI COSTITUTIVI DI BRONZI E OTTONI
Capitolo –C.1): I metalli e loro estrazione dai minerali presenti in natura. Il
legame metallico
PAGINA-58
D)
I POLIMERI DI SINTESI QUALI MATERIALI COSTITUTIVI DI
OPERE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
Capitolo –D.1): I polimeri di sintesi: struttura molecolare e proprietà
PAGINA-85
Capitolo –D.2): Materiali polimerici di sintesi utilizzati nella realizzazione di
manufati di arte moderna e contemporanea
PAGINA-100
Capitolo –D.3): La degradazione delle plastiche in relazione alla composizione e
struttura molecolare dei polimeri componenti
PAGINA-115
E)
MATERIALI COSTITUTIVI DELLA CARTA
Capitolo –E.-1): Lavorazione, struttura e composizione chimica della carta
PAGINA-123
Capitolo –E.-2): Stabilità e degradazione dei manufatti cartacei
PAGINA-131
PARTE-SECONDA: I POLIMERI DI SINTESI PER LA CONSERVAZIONE
DEI BENI CULTURALI
178
PAGINA-132
PROCEDURE DI CONSOLIDAMENTO E PROTEZIONE DI MANUFATTI DI
INTERESSE STORICO E CULTURALE BASATI SULL’IMPIEGO DI
POLIMERI DI SINTESI
PAGINA-137
CONSOLIDANTI E PROTETTIVI IMPOSTATI SU POLIMERI DI SINTESI
PAGINA-177
CONCLUSIONI
179
FINITO DI STAMPARE
MARZ O 2014
DA ENZ O ALBANO S.R.L .
ENRICO F ERMI , 17 - N APOLI
NEL MESE DI
V IA
(]LR0DUWXVFHOOL, laureato in chimica, Dirigente di Ricerca del CNR, è stato, dal:
---1972 al 2002, 'LUHWWRUH GHOO¶,VWLWXWR GL 5LFHUFD H 7HFQRORJLD GHOOH 0DWHULH 3ODVWLFKH GHO &RQVLJOLR 1D]LRQDOH
delle Ricerche;
---1987 al 2004, Presidente del Consorzio sulle Applicazioni delle Materie Plastiche.
PUHVVROD)DFROWjGL6FLHQ]HGHOO¶8QLYHUVLWj´)HGHULFR6HFRQGR´GL1DSROL, ha insegnato:
---Esercitazioni di Chimica Fisica;
---Scienza dei Materiali.
(¶ DXWRUH GL %UHYHWWL H GL ROWUH SXEEOLFD]LRQL VFLHntifiche nel settore della scienza e della tecnologia dei
nuovi materiali. (¶VWDWRUHODWRUHDROWUH&RQJUHVVLH&RQYHJQL
Nel campo dei Beni Culturali ha coordinato i seguenti progetti internazionali finanziati GDOO¶UE e dal MIUR:
New Materials and Eco-Sustainable Technology for the Conservation and Restoration of Textiles (INCO-MED VFP-UE);
Nuovi Materiali Polimerici e Tecnologie Ecosostenibili per Preservare, Conservare e Restaurare Pietra e Tessili
(CNR-MIUR);
Innovative Materials and Technology for the Conservation of Paper of Historical Artistic and Archaeological
Interest (INCO-CT-2004-509095 VI-FP-UE).
Ha pubblicato i seguenti libri:
-Le Fibre di Polimeri Naturali nell’Evoluzione della Civiltà: le Fibre di Seta (Monografie Scientifiche, CNR, Serie
Scienze Chimiche, Roma, 1999);
-Dalla Scoperta di Natta lo Sviluppo dell’Industria e della Ricerca sulle Plastiche in Italia (Monografie
Scientifiche, CNR, Serie Scienze Chimiche, Roma, 2001);
-La Ricerca sui Polimeri in Italia - Storia Attualità e Prospettive in un Contestuale Sviluppo Industriale (IRTEMP;
CNR, Napoli 2001);
-Relazioni Proprietà-Struttura nelle Fibre di Lana (CAMPEC, Collana di Trasferimento-PNR-MIUR, Volume
Primo, Napoli 2003);
-I Coloranti Naturali nella Tintura della Lana (CAMPEC, Collana di Trasferimento-PNR-MIUR, Volume
Secondo, Napoli 2003);
-La Fibra Naturale che ha segnato la Storia di Popoli e Nazioni (Monografie Scientifiche, CNR, Serie Scienze
Chimiche, Roma, 2003).
-Degradazione delle Fibre Naturali e dei Tessuti Antichi, PAIDEIA Firenze (2006).
-La Chimica Macromolecolare Applicata alla Conservazione dei Manufatti Lapidei, PAIDEIA, Firenze (2007).
-Works on Paper: Prevention of Degradation, With F. Tolve, CNR, Papertech-project-6FP-EU, Naples (2007).
-Innovative Materials and Technologies for the Conservation of Paper of Historical, Artistic and Archaeological
Value, Editor with D. Acierno, E. Pedemonte, E. Princi, CAMPEC- Papertech-project-6FP-EU, Naples (2007).
-The chemistry of degradation and conservation of plastic artefacts of pre-synthetic “era” based on natural or
artificial polymers, Palazzo Spinelli Restauro-PAIDEIA Firenze (2010).
-Degradation and preservation of artefacts in synthetic plastics, Palazzo Spinelli Restauro-PAIDEIA Firenze
(2012).
Dal 2004 è Docente GL³&KLPLFDper i %HQL&XOWXUDOL³SUHVVRO¶8QLYHUVLWjGHJOL6WXGL6XRU2UVROD%HQLQFDVD ±
Napoli.
Attualmente è Direttore dei Corsi Interdisciplinari di Alta Formazione ³la Plastica nell’Arte e per L’Arte´
organizzati dalla Fondazione Plart (Napoli).
E-mail: [email protected]
Telefono: 081/7612817
Cellulare: 389/5813347
Sito web: http://www.eziomartuscelli.net
Euro 23,00