(Maria Assunta Mauro) XIX CONGRESSO NAZIONALE SICP

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(Maria Assunta Mauro) XIX CONGRESSO NAZIONALE SICP
XIX CONGRESSO NAZIONALE SICP
TORINO 9-12 OTTOBRE 2012
S.A.M.O.T.
ONLUS
Sono trascorsi sedici mesi da quando ha preso avvio il gruppo AMA (AutoMutuoAiuto) per l’elaborazione del lutto presso la SAMOT Onlus di
Palermo.
Io che scrivo questa lettera sono il facilitatore del gruppo nonché uno dei suoi componenti alla pari, visto che anch’io ho vissuto un lutto terribile
nei miei primi anni di vita.
Elaborarlo ha comportato un lungo processo volto a definire un’identità abbozzata come una costruzione abbandonata in corso d’opera.
Attorno a me era il deserto. Io non ero capace di stare con me, di accettare il mio dolore e di accettare il dolore di chi mi viveva accanto. Di mio
padre mi mancavano le sue braccia avvolgenti, la sua voce quieta, il suo passo sicuro, il suo sorriso affascinante, il suo darmi amore incondizionatamente. Non c’era più niente e più nessuno. Nessuno che potesse capire, nessuno a cui voler raccontare.
Sono passati tanti anni da quella morte che ha trasformato la mia vita. Ciò che la relazione con lui era nel tempo della sua presenza si è mantenuto silente in sua assenza, dando, in tal modo, una specifica impronta alla mia visione del mondo: nessuno posava lo sguardo su di me se
non per commiserarmi, nessuno abbracciava il mio corpo per contenere il dolore o la gioia, nessuno si prendeva cura di me gratificandomi per
il mio aspetto di bimba in crescita. Sparito tutto: il suo corpo che mi dava sicurezza, il mio corpo non più visto e non più toccato, la nostra relazione affettiva che garantiva la mia spensieratezza di bambina. Da quando ho cercato e ottenuto aiuto tutto questo è lentamente diventato una
storia. Una storia ricca di sfumature; dettagli che recuperati mi hanno restituito l’affetto perduto. Nel raccontare questa storia, lentamente, la mia
esistenza si è trasformata. Ho potuto rintracciare il senso e la forza propositiva insita nella violenza della morte. Ho potuto accettare la necessità
del cambiamento forzato, che esige un impiego di risorse che per lungo tempo restano non disponibili. Se il corpo non riceve nutrimento affettivo
muore. Se il corpo viene privato della dinamica del dare e del ricevere vegeta, mosso da un istinto di sopravvivenza. Perché è attraverso il corpo,
visto come possibilità di conoscere, di agire, di incontro con l’altro, che queste risorse possono ritornare ad esprimersi creativamente.
Quando il gruppo AMA ha preso avvio, le persone che lo componevano parlavano insistentemente di questa intollerabile assenza del “corpo affettivo” del congiunto scomparso. Condividevano la dolorosa assenza del corpo in “carne ed ossa” nel vivere quotidiano. Era per tutti loro impossibile aggirasi per casa senza percepire questa assenza come lacerante e privativa rispetto alla loro modalità di esserci. Si percepivano assenti,
non più desiderosi di nulla, non più partecipi. Qualcosa dentro di loro si era spento e in coro sostenevano che per sempre sarebbe rimasto così!
Prima del decesso, quando il congiunto non è più in grado di assolvere autonomamente ai propri bisogni primari, si instaura un’intimità straziante ed esclusiva che non può essere dimenticata: la mano tenuta stretta, la richiesta di una vicinanza continua, gli sguardi caratterizzati da una
intensità travolgente, rimangono come la testimonianza di un amore condiviso e forzatamente interrotto. La paura di dimenticare i tratti del viso,
di non ritrovare l’odore tra i vestiti rimasti sigillati dentro l’armadio, di non potere più sfiorare la pelle, si coniuga in parallelo al disinteresse per la
cura di sé. Emerge l’insorgere di disturbi corporei sempre più perniciosi a cui a volte seguono stagioni di analisi cliniche e cure farmacologiche
quasi mai efficaci e risolutive. Lo sfinimento, che il più delle volte si accompagna alla iperattività per la gestione della quotidianità in assenza del
congiunto, si alimenta fino ad alterarsi in una rabbia profonda che non può né deve salire in superficie: è la percezione di una solitudine assoluta
che, a loro dire, non potrà mai colmarsi né potrà trovare un interlocutore familiare e/o amicale in grado di capire. Ciò che vive la persona che
si è presa cura del congiunto fino alla morte, è lo strazio di non poter fare altro che chiudersi a riccio al mondo. Un mondo non accettante che
commisera e/o aggredisce e che causa e mantiene a lungo un sentimento di vuoto che per essere colmato deve trovare ascolto e comprensione.
“Gli altri vogliono che io superi tutto in fretta, che io volti pagina”. Anche la carta di identità che nella voce stato civile scrive: “libero” è il segno
che il mondo che ci circonda preferisce che si dimentichi, che non si resti troppo a lungo nella consapevolezza del dolore e della difficoltà che la
perdita di una persona amata provoca nelle vite di chi non vuole dimenticare ma cerca di trasformare questa perdita in qualche cosa che possa
permanere al di là della morte.
(Maria Assunta Mauro)
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IL NOSTRO CORPO
Piatto di Sarita” di Alex Majoli, 2005 (da Magnum, a cura di B. Lardinois, Roma 2010)
Autore: Maria Assunta Mauro
“date al dolore la parola; il dolore che non parla sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi”
(William Shakespeare)
Casa Müller a Praga di Adolf Loos, 1928-1930
Il CORPO ASSENTE
Il gruppo AMA per l’elaborazione del lutto a un anno dal suo avvio
IL CORPO
ASSENTE
“Le otto di sera. Dietro alla mia lavatrice a carica dall’alto che riempio velocemente di panni da lavare, la finestra del bagno…
Dietro quel vetro puntinato, vicinissima, la sua sagoma, lo scroscio della doccia, i suoi movimenti lenti, precisi, sempre ugnali, i suoi.
La macchia scura dei suoi capelli ricci e folti, quasi impermeabili all’acqua, sparisce sotto l’asciugamani.
Io ferma, con la roba da lavare fra le mani, lo guardo. Non posso evitare di guardarlo compiaciuta, mentre schiude la finestra per fare uscire il
vapore dal bagno. Sono al buio, lui non mi vede e sento che è mio, che mi piace, e che sono fiera di averlo”.
Triste domenica, come triste è stato il sabato.
Perché ritorna il dolore? Perché queste fitte le sento in questi giorni più acute? Forse perché ho sentito al telefono la voce di tuo padre, che mi
ha procurato un’emozione grandissima, forse perché sto aspettando tua sorella e fremo per rivedere l’azzurro dei tuoi occhi, per spiare la curva
della tua schiena, forse perché tuo nipote ha cominciato quest’anno il liceo (nella nostra scuola, amore!) e forse perché, proprio mentre capisco
tutto questo e vengono fuori le lacrime, stride il gabbiano, corro alla finestra e ti vedo allontanarti alto e sicuro… forse perché abbiamo visto un
cartone che finiva bene, con le languide braccia della principessa che cingevano le spalle del principe, forse perché ieri, rassettando i quaderni
di nostra figlia, ho visto la nostra famiglia disegnata, tu eri grande e con tanti capelli.”
(Iolanda)
“Mia cara Giulia, sono trascorsi ventidue mesi dalla tua dipartita, eppure non mi sono ancora abituato alla tua assenza. Non c’è stata sera in cui
mi metto a letto e mi sembra di sentire la tua presenza accanto a me; non c’è mattina in cui mi sveglio e non penso che devo alzarmi prima di
te, per prepararti la colazione, come ho sempre fatto. Ogni volta che torno dal lavoro, mi illudo di aprire la porta e ritrovarti con le tue tute e i tuoi
calzettoni che tanto mi divertivano.
Tu sai quanto era bello per me stringerti fra le mie braccia e perdermi nelle tue rotondità, che tanto amavo.
La sensazione di morbidezza che mi trasmetteva il tuo corpo era una panacea che cancellava ogni stanchezza ed ogni preoccupazione.
Tu sai quanta intimità e quanta complicità c’era fra di noi, eppure oggi più che mai ricordo con rimpianto quella mano che stringevo alla mia, nelle
notti trascorse in ospedale o a casa nostra, negli ultimi tempi, quando reclamavi, quasi con autorità, la mia presenza accanto a te.
Io ti ho sempre amata, eppure credo di non averti amata, con tanta passione, se non proprio quando il tuo corpo cominciava a sfiorire e quando
la tua persona, prima fiera e piena di vivacità, presentava l’immagine di una ormai irrimediabile fragilità.
Quella mano tanto a lungo stretta e baciata é oggi poggiata sul mio cuore ed è l’unico conforto che rimane nella mia struggente malinconia.”
(Antonio)
Casa Stoclet a Vienna di Josef Hoffmann, 1906-1911
IL MIO CORPO
La città vecchia” di Stuart Franklin, 1992 (da Magnum, a cura di B. Lardinois, Roma 2010)
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IL SUO CORPO