numero 3 anno VII – 21 gennaio 2015

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LA M4, I TAXISTI E NOI
Luca Beltrami Gadola
Nei giorni scorsi il signor Stefano
Guiso-Gallisay ci ha scritto: ”Egregi
Signori ma non vi viene il dubbio
che tutti questi articoli a cui date
spazio contro la M4 non siano
commissionati dalla potente lobby
dei tassisti e/o scritti da parenti, amici o consulenti di tassisti? Non
riesco a spiegarmi come mai tali articoli non siano mai supportati da
cifre e si basino invece su astratte
argomentazioni non solo del tutto
opinabili, ma anche contraddittorie.”.
Normalmente alla lettera di un lettore avrei risposto nella rubrica La posta dei lettori ma questa volta le cose sono un po’ diverse: il signor
Guiso-Gallisay mette in dubbio la
buona fede e la correttezza dei nostri collaboratori accusandoli di essere al servizio di interessi altrui o
forse addirittura “a libro paga” di
qualcuno. Quello del signor GuisoGallisay è un vecchio vizio italiano e
in particolare della classe politica
nostrana: l’attribuire agli altri propri
possibili ma biasimevoli comportamenti; posso garantirgli di aver preso un grosso abbaglio: nessuno dei
nostri collaboratori, né io personalmente, siamo in vendita e qualche
volta ci secchiamo persino di fronte
alla domanda “da che parte stai”,
quando questa domanda sottintende opportunismo politico.
Ma veniamo allo specifico della lettera. Chi fosse attento lettore del
nostro giornale non si sarebbe certo
perso in particolare gli articoli di
Marco Ponti che con la lobby dei
taxisti non è certo tenero, così come
non siamo mai teneri nei confronti di
chi troppo sfacciatamente e prepotentemente antepone le ragioni proprie o della categoria di appartenenza al bene comune. È nota, tan-
to per fare un caso, la nostra avversione ai difensori senza se e senza
ma dei diritti acquisiti.
Due parole sul supporto offerto alle
opinioni dalle cifre. Non credo proprio che i nostri collaboratori e io
stesso si sia parchi nel sostenere le
nostre opinioni con le cifre, quando
le conosciamo e sono indispensabili
al ragionamento le diamo, cosa che
purtroppo invece non è da parte della classe politica di governo.
Per venire al caso della M4, nei
confronti della quale la nostra posizione è molto articolata: siamo come tutti favorevoli alla costruzione di
metropolitane ma per la M4 ne contestiamo la priorità rispetto ad altri
investimenti pubblici, ne contestiamo in parte il tracciato, ne contestiamo le scelte tecnologiche, ne
contestiamo l’opacità delle procedure di appalto e molto altro ancora.
Visto che i responsabili ci dicono
che la risoluzione del contratto sarebbe costata “troppo”, ci piacerebbe conoscere le cifre di questo
“troppo” per sottoporle ai nostri lettori e confrontarle con gli oneri futuri
sul bilancio comunale in ossequio a
una delle ragioni stesse della nostra
esistenza come giornale: conoscere
per far conoscere, per discutere, per
decidere e per giudicare.
Le faccio un caso e le do questa
volta le cifre. Avrà notato in metropolitana enormi affissioni di pubblicità proprio della M4. Il costo di
quest’operazione mi risulta 2 milioni
di euro ma non so a carico di chi
siano. Di che si tratta? Pubblicità di
un “prodotto” che sarà sul mercato
solo nel 2022 salvo prolungamenti
dei cantieri? Pubblicità elettorale
della Giunta? Campagna di informazione? Un figlio spurio della co-
siddetta “partecipazione”? Attendiamo con ansia spiegazioni per poter informare anche il signor GuisoGallisay e gli altri nostri lettori.
Già che ne abbiamo parlato, ancora
qualche parola sulla partecipazione.
La campagna sulla M4 dallo slogan
“abbiamo messo la quarta”, curioso
riferimento all’automobile la cui presenza in città si vorrebbe limitare,
sembra piuttosto destinata a dimostrare disponibilità a dare ascolto ai
cittadini che si propongono di limitare i disagi dovuti ai cantieri. Comunque invita a conoscere il “percorso”
della nuova linea. Lo faremo anche
noi nei prossimi numeri ma dedicandoci al percorso formale e autorizzativo di questa benedetta linea,
dalla Giunta Albertini, passando per
quella della Moratti sino a oggi: un
viaggio nella burocrazia, nella nebbia della politica, nei pasticci e nelle
contraddizioni, sperando di non trovare di peggio.
Oggi ci pare curioso che si vada a
discutere con i comitati dei cittadini
sugli eventuali disagi per poi concedere loro quello che il CIPE - Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica - (delibera
del 30 agost0 2007) aveva già imposto in gran parte come “ prescrizioni” vincolanti al momento del rilascio del parere favorevole alla realizzazione della M4 che, detto per
inciso, riguardava solo il lotto funzionale Lorenteggio - Sforza Policlinico, il primo preso in esame e autorizzato. Nel frattempo vigileremo
sull’applicazione dei contenuti delle
prescrizioni, che mettiamo a disposizione per chi fosse interessato:
conoscere per far conoscere, per
discutere, per decidere e per giudicare. E per noi anche per proporre.
SE AL POSTO DI PARIGI CI FOSSE STATA MILANO?
Emanuele Telesca
La strage perpetrata alla redazione
di Charlie Hebdo, a Parigi, ha
smosso in ognuno di noi una moltitudine di pensieri, riflessioni, preoccupazioni. Superata l’onda emotiva,
a una domanda può essere interessante rispondere: è se fosse capitato a Milano? Se gli attentatori fossero stati dei cittadini italiani di seconda generazione che, incappucciati e
ben armati, avessero fatto fuoco in
una redazione di giornale? Quale
reazione avrebbe messo in campo
la città e il paese?
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Non è un esercizio di fantasia fine a
se stesso, riconoscendo le somiglianze tra la capitale francese e il
capoluogo lombardo. Milano ha
sempre aspirato a divenire una metropoli europea, porta verso il centro
e il nord europea, ammantata di una
grandeur e di un orgoglio propriamente meneghino. E certamente la
vicinanza tra le due città l’ha dettata
anche la storia, con le opere napoleoniche di inizio XIX secolo ancor
oggi visibili nell’architettura e nell’urbanistica milanese.
Milano, come Parigi, è sede di numerose testate e case editrici. Riviste, quotidiani e pubblicazioni spesso denotate da spiccate caratterizzazioni politiche, religiose e filosofiche; che già in passato hanno fatto
discutere per le loro posizioni in materia di multiculturalismo e “scontro
di civiltà”, spaccando l’opinione
pubblica. Se un commando avesse
fatto irruzione in una di queste redazioni, decimandone i componenti,
la cittadinanza milanese avrebbe
risposto come quella parigina? O le
scorie di lunghi anni di acceso con2
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fronto politico e ideologico avrebbero mostrato le loro conseguenze?
In tutta onestà, nello stato attuale in
cui versa la nostra democrazia, attirata dalle sirene populiste e contagiata da un diffuso e nemmeno
troppo celato razzismo, temo che la
risposta non sarebbe né compatta
né razionale. Richiamo alla memoria quanto avvenne dopo un episodio meno drammatico, ossia l’oramai famoso lancio della statuetta
contro l’allora premier Silvio Berlusconi: la parte politica che aveva
visto offeso il proprio leader lanciò
strali nei confronti degli avversari,
rei (a loro dire) di aver incitato una
campagna d’odio verso il Cavaliere.
Si forzò la mano nel dividere l’agone
politico tra buoni e cattivi, chiedendo
a tutti di dissociarsi da quel folle gesto.
Già immagino, allora, gli slogan
rabbiosi delle destre, pronti a chiudere tutte le frontiere, chiedendo
leggi restrittive delle libertà personali. Immediate fioccherebbero le mozioni di sfiducia verso gli amministratori locali e nazionali, rei di aver
permesso il proliferare di centri di
preghiera e di cultura islamica. Non
si riuscirebbe, probabilmente, a organizzare una manifestazione di
piazza unica che, come a Parigi,
raccolga milioni di cittadini senza
bandiere di partito. In ogni occasio-
ne pubblica si chiederebbe a questo
o a quel fedele musulmano di dissociarsi in maniera espressa, chiedendo vicinanza all’islam moderato
(a sottintendere che i seguaci di Allah sono, per natura e convinzioni
religiosi, dediti al terrorismo). Gli
appuntamenti elettorali successivi si
incardinerebbero sull’episodio, permettendo ai leader che mirano alla
pancia degli elettori di fare incetta di
voti. E allora gli attentatori sì che
avrebbero raggiunto il loro obiettivo:
diffondere la paura a un livello tale
da sovvertire le nostre esistenze,
viatico perché il famigerato scontro
di civiltà passi dalle parole ad i fatti.
È una visione oscura, la più pessimistica, che però si fonda su dati di
realtà. Dopo gli attentati dello scorso 7 gennaio abbiamo sentito politici
dichiarare che siamo in guerra, e
che ciò rende necessario controlli a
tappeto su tutti gli islamici. In vista
di Expo è stato chiesto di sospendere l’area Schenghen, così da rendere più sicure le nostre frontiere.
Come avvoltoi sono partiti all’attacco del progetto della Giunta Pisapia
di bandire spazi per nuovi luoghi di
culto in città, col timore che nuove
moschee vadano di pari passo con
un aumento esponenziale di rischio
terroristico (che poi, quel bando, è
destinato a numerose confessioni
religiose, non solo a quella islami-
ca). I commenti sono stati spesso
beceri e raffazzonati, privi della necessaria dose di conoscenza: quel
terrore che gli attentatori vogliono
diffondere e utilizzato già da ora
come strumento elettorale.
Fare proprio lo slogan “Je suis
Charlie” vuol dire avere a cuore la
libertà d’espressione, il multiculturalismo, la democrazia; una visione in
cui si abbandonino fondamentalismi
ed estremismi religiosi, ma anche
filosofici e politici. In questi giorni è
stato sbandierato da personaggi
che, fino all’Epifania, facevano propria una differente retorica. Come
ha ricordato Roberto Saviano è solo
con i fatti più tragici e di sangue che
apriamo gli occhi e le coscienze,
garantendoci nuove garanzie da
parte dei governanti per quei diritti
messi in pericolo dal terrorismo organizzato.
L’augurio è che a Milano, e in Italia,
ciò avvenga ben prima e senza dover patire le sofferenze del popolo
francese, guidati da un programma
politico e culturale aperto a tutte le
realtà presenti sul nostro territorio,
capace d’essere empatico rispetto
alle sofferenze d’ogni parte del
mondo. Solo allora la nostra società
sarà munita di sufficienti anticorpi
per rispondere ad attacchi e violenze cieche.
ISCRITTI E ELETTORI NELLA CARTA DEI CIRCOLI DEL PD
Stefano Draghi
Nell'ultima riunione del 2014 la Direzione del PD Metropolitano Milanese ha approvato la Carta dei Circoli, un documento che vuole essere un primo contributo alla riorganizzazione del PD milanese, sintesi
finale di un percorso iniziato all'ultima Festa dell'Unità e ben impostato
dal punto di vista del metodo (1). È
una buona occasione per esaminare e approfondire alcuni dei nodi
che il PD ha di fronte. Mi limito qui,
per motivi di spazio, a qualche considerazione sul rapporto tra iscritti e
elettori.
Come avverte l'epigrafe, la Segreteria si proponeva di arrivare alla stesura di una Carta che sancisse un
patto tra "centro" (segreteria e direzione) e "periferia" del PD (i circoli),
il primo a maggioranza renziana (eletto con le primarie aperte) fautore
del nuovo "partito degli elettori", la
seconda territorio ancora in larga
misura presidiato dai militanti tradizionali (la "Ditta"), sostenitori del
"partito degli iscritti". Una frattura
sulla concezione del partito e della
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sua forma organizzata che rischiava
di allargare quella già ampia sulla
linea e le alleanze politiche, sul programma di governo e sulle riforme.
Per questo, la Carta voleva "nell’Area metropolitana milanese lanciare
un nuovo modello di rapporto tra il
“centro” e la “periferia”, che metta al
centro obiettivi e orizzonti condivisi,
garantendo il buon funzionamento
del Partito metropolitano a ogni livello, aprendolo maggiormente agli
elettori." [dalla presentazione]
La Carta licenziata dalla Direzione è
molto al di sotto di queste ambizioni,
evita le questioni più importanti che
il PD (come altri partiti) ha di fronte
e si limita in sostanza a meglio definire e rinvigorire il partito di zona,
entità intermedia tra i circoli e la segreteria metropolitana. Operazione
utile a rinsaldare il controllo del partito "centrale" sulla "periferia", ma
non certo a rianimare la vita stentata di molti circoli. E che anzi può
avere effetti opposti come la riduzione della dichiarata autonomia dei
circoli o un incentivo al loro accor-
pamento. Niente di male se due circoli uniscono le loro risorse, ma se
a Milano città l'organismo politico di
zona si rafforza, che spazio in futuro
potranno avere i circoli? Se il partito
ha come missione principale quella
di conquistare consensi e governare
le amministrazioni locali, che senso
ha mantenere in vita organismi di
partito, come i circoli, che non hanno alcun corrispettivo istituzionale?
Non è chiaro dunque quale trade-off
stia alla base del patto tra centro e
periferia del partito, perché nella
Carta i grandi assenti sono proprio
gli iscritti e gli elettori. Anche accettando l'idea che la Carta fornisca
solo "linee guida e indicazioni di
buon senso", sorprende che nulla si
dica su come i circoli possono sostenere il tesseramento, fronteggiare il calo degli iscritti e la loro mutazione in una situazione politica profondamente cambiata, e come possano motivare gli elettori a una più
intensa partecipazione alla vita di
partito. Rade e generiche formulazioni sparse nella Carta indicano
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che le iniziative dei circoli devono
essere "sempre aperte agli elettori",
che il segretario deve "guidare il
Coordinamento, valorizzando il ruolo degli iscritti, mantenendo alta
l’attenzione verso gli elettori e i cittadini".
È davvero troppo poco davanti alla
crisi dei partiti e della loro organizzazione, ormai conclamata da decenni, a destra e a sinistra, in Italia
e in altri Paesi. Ci si poteva aspettare che nella presentazione della
Carta si delineassero i punti fondamentali di questa crisi e si proponessero principi e norme, anche
sperimentali, su cui avviare, a partire dalla base e certo con un percorso lungo e non facile, la ricostruzione di una organizzazione che aiuti il
partito a rimontare il deficit di rappresentatività e la caduta, in qualità
e quantità, della partecipazione alla
vita politica. Per ridare alla politica
la reputazione perduta e per rimoti-
vare nuovi volontari al servizio della
collettività. Insomma per provare ad
abbozzare il nuovo profilo organizzativo del partito del XXI secolo, almeno a Milano. Ma di ciò non vi è
traccia.
L'idea semplice che "un partito più
aperto agli elettori è un partito che
funziona meglio" è molto ambigua e
rischia di essere ormai obsoleta. Le
primarie, che hanno rappresentato
una grande risorsa e la vera innovazione introdotta dal PD nel sistema politico italiano, hanno urgente
bisogno di una revisione delle regole per fermare il degrado che le ha
colpite, come da ultimo in Liguria.
Forse anche per questo tendono a
calare gli elettori, quelli veri (in Emilia) e quelli virtuali (nell'ultimo sondaggio Ipsos del 18 gennaio).
Se la formula "partito degli elettori"
vuole essere la ricetta adatta a guarire la malattia ereditata dal PCI ("Il
piatto di lenticchie elettorale non va-
le la perdita dell'anima politica") allora serve a ben poco e arriva con
grande ritardo: il PD (come d'altronde chi l'ha preceduto PDS, DS e
Margherita) è ormai da tempo partito elettoralistico, interclassista e
prenditutto. Se invece "partito degli
elettori" vuole indicare un'alternativa
al ruolo centrale degli iscritti, sostituiti da primarie aperte o consultazioni on line non governate e non
controllate, allora deve essere chiaro a tutti che i rischi di dissoluzione
del partito si fanno più concreti.
Come aveva molto autorevolmente
suggerito la sentenza della Corte
Suprema USA sulle primarie californiane o come dimostra la più recente e nostrana parabola del M5S.
(1) Largo dibattito preliminare, costituzione di un gruppo di lavoro, interviste a esperti e esponenti politici,
stesura preliminare, dibattito in Direzione, stesura finale.
VIA PADOVA BASTA CON LE FALSE ETICHETTE! LA LUNGA STRADA DELL’INTEGRAZIONE
Eleonora Poli
Ora sarebbe addirittura “come la
banlieue dei terroristi”: ecco, nell’immaginario di via Padova mancava
questo furbo paragone, e ci ha pensato Mario Borghezio - una domenica mattina in visita al quartiere - a
trovare le parole adatte per gettare
un po’ di benzina sul fuoco. In certi
casi le parole durano giusto il tempo
di essere pronunciate, eppure lo
stesso arrivano alle orecchie della
gente, a chi ha gli strumenti per
comprendere e chi no, chi ride e
purtroppo chi applaude, chi conosce
e chi no luoghi e situazioni. Buttate
lì, non con leggerezza ma con studiata provocazione e mancanza di
un serio approfondimento dei problemi, frasi superficiali e a effetto
sono come uno schiaffo alla gente
che nella zona vive, lavora, si impegna ogni giorno per l’integrazione e
il miglioramento della qualità della
vita sul territorio.
Tra i quartieri difficili di Milano, via
Padova - la lunga strada multietnica
tra viale Monza e via Palmanova - è
senz’altro in grado di suscitare, anche senza bisogno di commenti di
sottofondo, le opinioni o le reazioni
più disparate. Paura repulsione curiosità interesse, fino ad arrivare alla
“familiarità”, all’annullamento di ogni
iniziale sensazione di estraneità. Il
succedersi di queste percezioni opposte va spesso di pari passo alla
dimestichezza con il posto, i negozi,
le persone; ben diverso se ci passa
per caso una sera in macchina, da
via Padova, se la si frequenta abi-
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tualmente, se si affitta o acquista
una casa qui. La conoscenza accorcia le distanze, modifica le valutazioni.
Tanto che, qui più che altrove, molti
residenti scelgono di dedicare tempo ed energie ad associazioni, comitati, gruppi politici o di volontariato; e di partecipare alle attività del
Consiglio di Zona 2 e delle sue
commissioni con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita sul territorio.
Prove, esperimenti di coesione sociale sotto varie forme quindi – dalla
scuola alla musica, dal teatro alla
politica - in un circondario abitato
da tante nazionalità diverse, dove la
convivenza nasce in molti casi forzata e reciprocamente poco tollerante. Apertura e disponibilità dei
cittadini, italiani e non, fanno segnare progressi che, impercettibili al
primo sguardo, non sfuggono però a
chi vive la realtà quotidiana del
quartiere.
Perché via Padova non è solo emergenza e allarme, è soprattutto
quotidianità. Vivace e densa umanità, spalmata su quattro chilometri di
strada, da piazzale Loreto al quartiere Adriano. A tutte le ore del giorno e della notte la tagliano fischiando i treni che passano sul ponte sopraelevato della ferrovia, a tutte le
ore donne e uomini di ogni Paese la
attraversano in lungo e in largo: parlano, fanno la spesa, fumano, mangiano, bevono, non di rado si prendono a botte. La strada non è mai
vuota. Ci sono i musulmani che a-
spettano la moschea in zona e gli
italiani-cristiani che la temono come
il peggiore dei mali, c’è la chiassosa
comunità dei peruviani, i cinesi con i
loro ristoranti e negozi, tanti dai Paesi dell’Est … .
No, via Padova non è un idillio di
culture che si incontrano, un’isola
felice, o una colorata stradina di Parigi: racchiude contraddizioni e contesti drammatici, specie in alcune
aree limitrofe. Eppure non è nemmeno il Bronx che qualcuno vorrebbe a suo uso e consumo far credere, quello che esci dopo le dieci di
sera e ti sparano o ti rapinano. È
uno spazio concentrato, non solo di
popolazione, ma di vita che scorre e
a volte si incaglia, in un equilibrio
instabile sempre pronto a rompersi.
Per questo le parole pesano qui più
che altrove, rischiano di avere un
effetto deflagrante sulla paura e
l’insicurezza dei residenti: gli anziani, chi vive in zona da poco, chi non
ha, appunto, quella familiarità che
discerne il vero dalle esagerazioni.
L’attenzione dei media arriva puntuale a ogni rissa violenta, specie se
scorre sangue, a ogni scoperta di
cinesi che lavorano negli scantinati
o di occupazioni abusiva; a ogni polemica da talk show post-attentato
terroristico internazionale.
Silenzio invece su tutto il resto, su
quanti in via Padova lavorano da
anni per l’integrazione, facendo leva
soprattutto sulle relazioni umane. Il
complesso scolastico del Trotter,
dove i bambini cinesi e magrebini fin
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dalle elementari studiano e convivono felicemente con gli italiani
senza porsi gli stessi problemi dei
loro genitori e nonni, non è una “nota di colore” da citare qua e là, è
una delle tante realtà positive del
quartiere. Così come l’associazione
di Villa Pallavicini, al confine della
via, che da anni organizza tante attività tra cui corsi di italiano per gli
stranieri. Lo stesso sta facendo il
circolo PD che, attivo da meno di
due anni, ha riscoperto proprio grazie ai conflitti di via Padova l’idea di
una politica sul territorio, vicina al
quartiere e ai bisogni della gente. E
proprio dal circolo Pd di via Padova
sono nate altre iniziative, sviluppate
nell’ambito del progetto dei “Luoghi
ideali” di Fabrizio Barca, raccontato
mesi fa da Elena Comelli qui sulle
pagine di ArcipelagoMilano. Ora il
progetto va avanti, nell’idea che
questa via non sia una macchia da
nascondere alla città, ma addirittura
un luogo da esibire, non attraverso
eccessi in negativo o false idealizzazioni, ma per quello che è.
“Via Padova is not a lonely street” è
il titolo della guida “turistica” che sarà realizzata per presentare la strada in occasione di Expo: bar, ristoranti di ogni etnia, storie e testimonianze nelle tante attività commerciali che hanno attraversato la trasformazione della zona nei decenni,
da quando era terra di meridionali
emigrati a Milano all’attuale mix
multietnico … Intanto alcuni negozianti hanno accettato di farsi decorare le saracinesche da giovani artisti di Brera dando l’esempio agli altri: dalla Torrefazione al numero 64
al Supermercato della carta al numero 89, la via inizia a colorarsi.
Con questo non si vuole credere
che gli abitanti siano tutti entusiasti
frequentatori del circolo PD o del
Consiglio di Zona, che tengano tutti
corsi volontari agli immigrati o che
siano nel comitato organizzatore
dell’annuale, ormai celebre festa di
maggio, “Via Padova è meglio di
Milano”. Non è così: bisogna mettere in conto anche il vicino di casa
che urla quasi ogni giorno “ecco,
questa giunta ha favorito arabi e
rom, e qui c’è solo degrado”. Ma
che cos’è il degrado? La moto bruciata e abbandonata; i divani sventrati scaricati in via Arquà; l’immancabile bottiglia di birra vuota davanti
al portone; o le bucce di quei semi
di zucca sul marciapiede, mangiati
in quantità buttando per terra gli
scarti. Il degrado è temuto, e poi cavalcato in modo indegno da chi sa
bene dove andare a parare, giocando sui sentimenti della gente, giocando sporco su ignoranza, diffidenza e istinti di cieca difesa dal
possibile intruso … .
E veniamo allora a un punto cruciale, che cosa ha fatto e sta facendo
questa Giunta per migliorare via
Padova? In campagna elettorale
l’impegno per un futuro cambiamento era stato forte, da queste parti.
Qualcuno ora dirà semplicemente
che non si è fatto niente; altri sosterranno, per sentito dire, che Pisapia
“distribuisce aiuti e case solo agli
immigrati e agli islamici”, ma niente
fa di concreto contro il degrado e le
sue cause: rabbia e indignazione
trovano terreno facile, nei contesti
difficili. Ma la percezione di molti è
un’altra. Che se i problemi non sono
risolti, qualcosa però è cambiato,
soprattutto nell’approccio.
Da quasi quattro anni, una giunta
progressista trasmette l’input che se
l’integrazione ancora non è stata
raggiunta, è però giusto - normale e
non eccezionale - lavorare insieme
per farla crescere, incentivando tolleranza e aggregazione, a differenza di quello che hanno fatto, per decenni, le amministrazioni di destra;
non che criminalità e violenza siano
magicamente scomparse, ma si è
scelto di contrastarle insieme, in
forme diverse dalla repressione, le
ronde, l’esercito sotto casa. Con
queste nuove premesse, alla fine
hanno poi fatto probabilmente di più
per via Padova i cittadini e le associazioni che non le istituzioni. Eppure pensiamoci, pensiamo a Borghezio e alla Lega: queste premesse
non sono affatto così scontate! È un
lavoro lungo, che passa attraverso
le persone nel superamento di pregiudizi e diffidenza reciproca. Sono
piccoli passi.
In via Padova molte signore anche
anziane vanno ora dal parrucchiere
cinese perché costa poco ed è tanto
gentile; o fanno un salto al mini
market arabo perché sta aperto fino
a tardi e ha proprio di tutto, o provano i dolci della nuova pasticceria
tunisina; e si chiama sempre più
spesso l’idraulico rumeno, che in
fondo non lavora male … . Per necessità, per caso e un po’ per curiosità le abitudini cambiano, con risultati lenti ma sorprendenti: con la conoscenza tra i singoli, il razzismo
perde la sua primaria ragione di essere e il buio non fa più paura. È
così che da via Padova scompaiono
i mostri facendo posto a esseri umani.
MOVIDA. PER UNA VOLTA PARLIAMONE SERIAMENTE!
Giacomo Marossi
La lettera aperta pubblicata da ArcipelagoMilano la scorsa settimana
sembra scritta dieci anni fa. Fatta
salva la comparsa dei bastoni da
selfie e il ritorno di moda del Moscow Mule, sembra non essere
cambiato nulla nella percezione del
cosiddetto “problema movida” rispetto all'era Moratti. Il dato più
grave è la convinzione che la movida siano giovani studenti sfaccendati che si ubriacano mentre la società che lavora li mantiene. La vita
notturna è oramai trasversale a tutti
gli under40 ed è divisa in caste,
gruppi, veri e propri movimenti, con
le loro regole sociali e le loro usanze.
È un mondo parallelo in cui ciascuno vive una seconda vita e in cui le
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regole della quotidianità vengono
illusoriamente ribaltate. L'impiegato
brianzolo arriva a Milano e si atteggia da milionario con due escort
russe raccattate sui divanetti di
qualche discoteca che più improbabile non si può. Piuttosto che i ragazzi di una qualche periferia abbandonata a se stessa che sciamano sul centro, cercando qualsiasi
occasione di rivincita sociale verso i
loro coetanei borghesi o verso l'arredo pubblico superfighetto che,
giustamente, a loro fa male più di
un pugno nello stomaco.
La vita notturna è un aspetto della
vita sociale di ciascun cittadino occidentale sempre più importante:
non è nient’altro che il naturale desiderio di uscire e incontrarsi duran-
te la notte di una larga fetta di popolazione, con la possibilità di vivere i rapporti sociali in modo diverso
dal normale. Questo crea un mercato vastissimo, che significa soldi
e posti di lavoro a non finire; in cui,
la fetta di nero, illecito e criminale è,
se non maggioritaria, comunque
enorme. Parliamo di milioni di euro
riciclati dalle mafie, cui si affiancano
quelli guadagnati nello spaccio, nella prostituzione, e nella gestione
diretta di molti aspetti legali della
vita notturna (buttafuori, parcheggiatori, somministrazione di alcolici,
etc.).
Occorre dunque cambiare prospettiva, smettendo di considerare un
problema ciò che un problema non
è. La movida causa problemi di
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convivenza come ogni attività umana, ma non è e non sarà mai un
singolo problema ben individuato. È
un fenomeno e come tale va accettato e vissuto, a meno di voler militarizzare mezza città. Detto questo,
ecco alcuni spunti concreti:
1) Il tema della legalità è fondamentale. Occorrono percorsi virtuosi di
certificazione e promozione degli
esercizi e delle attività che non fanno nero e che non sono in commistione con le mafie. Propongo un
“bollino blu” della movida che permetta, in particolare ai ragazzi, di
sapere dove possono andare a divertirsi senza favorire la criminalità
organizzata.
2) Nelle scuole una massiccia campagna di educazione al consumo
critico e consapevole di tutte le sostanze: dall'alcool alle metamfetamine. Come, per altro, suggerisce
l'antidroga della Squadra Mobile di
Milano (per i neofiti consiglio il documentario RAI “Cocaina”).
3) Differenziare al massimo. Incentivo alle attività collaterali: musica
dal vivo, teatro, cinema, reading,
Djset e qualsiasi altra cosa di culturale-politico-sociale possa affiancarsi al semplice bere e drogarsi, in
modo da offrire più scelta. Best
practices: l'APE nel Parco; il regolamento della musica di strada firmato Barberis - Gibillini; i tentativi di
Alessandro Capelli di aprire gli spazi del comune alla Dogana e alla
Fabbrica del Vapore o l'autogestione di spazi polifunzionali dedicati ai
ragazzi come l'ex ZAM di porta Ticinese. Occorre consentire la scelta
più varia, sopratutto ai 14 -17 enni
che non devono vedere la propria
crescita soggetta alle regole di un
mercato notturno che letteralmente
guadagna sulla loro pelle.
4) Una politica di gestione dei conflitti intelligente. Proposte spot: sostituire l'obbligo del bicchiere di plastica col vuoto a rendere; bagni
pubblici ovunque; assunzione di
“stuart di via” sul modello torinese
che dissuadano da comportamenti
troppo rumorosi o vandalici; incentivi pubblici per insonorizzazioni,
doppi vetri e dehors; favorire forme
di trasporto alternativo come taxi
scontati, carsharing, mezzi pubblici
notturni o anche driver a chiamata
che consentano di non guidare ubriachi la propria auto (vedi la startup meneghina Driver2Home).
5) Una politica di diffusione della
movida in ogni quartiere che individui e incentivi la creazione di mini
distretti, consentendo di creare poli
aggregativi razionalizzati alternativi
a quelli nati casualmente e di volta
in volta aboliti per intervento della
forza pubblica o di improbabili cancellate.
6) La creazione di un grande polo
del divertimento sull'asse della Stazione Centrale nei magazzini dell'ex
mercato del pesce che, sfruttando i
tunnel all'interno della stecca ferroviaria, la posizione strategica nella
rete trasporti e la necessità di rivalutare un'area altrimenti “malfamata”, faccia da sfogo ai già strabordanti maxi distretti di Porta Garibaldi, Sempione e Ticinese.
Dulcis in fundo, il tema della sicurezza: è comprovato che se, da un
lato, la movida crea continuamente
problemi di ordine pubblico, dall'altra è una panacea per la sicurezza
delle persone da aggressioni, stupri, furti e rapine. Una città viva e
illuminata 24 ore su 24 è una città
complessivamente più vivibile e sicura. Occorre, dunque, trovare un
punto di incontro tra interessi contrastanti e tra punti di vista spesso
veri e validi in modo complementare. Va richiesta tolleranza ai residenti, ma tocca sopratutto alla nostra generazione interrogarsi su
come gestire diversamente i propri
spazi sociali autogovernandosi e
unendosi per estromettere dalle nostre vite le mafie e i comportamenti
socialmente distruttivi e incivili.
Siamo noi a dover garantire che il
senso di libertà e il fascino dello
stare insieme fuori dai vincoli quotidiani siano un’esperienza di crescita per tutti e non un problema di
sicurezza pubblica o di schiavitù a
logiche di mercato fin troppo feroci
ed evidenti.
STATUTO APPROVATO. ORA SPAZIO AI CONSIGLIERI, PER COMINCIARE
Salvatore Crapanzano
Ora è il momento di sottolineare solo gli aspetti positivi del nuovo statuto della Città metropolitana di Milano. Con questo statuto, che permette al Consiglio metropolitano di produrre decisioni in tempi molto rapidi,
la questione centrale riguarda il metodo che si sceglierà di utilizzare per
arrivare a produrre le decisioni. In
termini operativi, nulla dice lo statuto in tal senso. Quindi i primi passi
sono particolarmente importanti per
sperimentare un metodo innovativo,
promettente ed efficace.
Naturalmente è possibile, e ovviamente opportuno, dare alcune deleghe ad alcuni Consiglieri per facilitare il lavoro del Consiglio. Ritengo
però che sia sempre e comunque
indispensabile che “tutti” i 24 Consiglieri metropolitani siano subito
messi nelle condizioni di svolgere
un ruolo operativo, un ruolo molto
attivo (non solo per evitare che in
breve tempo si sentano chiamati
solo a votare, pro o contro).
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
Questo ruolo attivo potrebbe essere, in questa prima fase, giustamente scelto da ogni singolo Consigliere, che potrebbe organizzarsi per
affrontare i temi - tra i tanti certamente importanti e urgenti - su quali
lui stesso è più preparato e sensibile. Questa partenza, ampiamente
collaborativa, potrebbe risultare
molto significativa da diversi punti di
vista (di metodo, di contenuti, di
concretezza); meglio ancora se si
decidesse che in questa prima tornata, considerando le difficoltà economiche che la Città metropolitana
si trova già di fronte, ogni Consigliere si limitasse a portare alla discussione e all'approvazione in Consiglio
solo “delibere senza impegno di
spesa”.
Ogni Consigliere può essere opportunamente libero di decidere il suo
percorso di lavoro; e decidere sulla
necessità di interloquire - secondo i
casi e secondo la propria sensibilità
- con il mondo delle professioni, con
quello dell’associazionismo, con
l’università, con i sindacati, ecc.
Tanti sono i temi di ordine generale
che ritroviamo nello Statuto, e che
necessitano di essere meglio definiti:
* la qualità urbana diffusa,
* la promozione della cultura, dei
talenti, delle diversità
* la promozione della qualità della
vita sociale, della salute, dell'ambiente,
* l'integrazione dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione; e la coerenza con le scelte
urbanistiche;
* la realizzazione di una amministrazione pubblica più efficiente attraverso interventi di radicale semplificazione del quadro normativo,
regolamentare e organizzativo
Altri esempi di problemi molto concreti:
1. Individuare quali rapporti attivare
in via continuativa tra Città metropolitana e Regione Lombardia.
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2. Individuare quale possa essere il
percorso più opportuno per individuare le Zone Omogenee in tutta la
Città metropolitana
3. Individuare quale possa essere il
percorso più opportuno per individuare, non solo all'interno alcune
Milano, le Zone ad Autonomia Amministrativa, in modo da cominciare
a ridisegnare anche le competenze
amministrative e burocratiche dei
diversi livelli di governo del territorio
4. Rafforzare l’identità di ogni singola piccola parte della Città metropolitana.
5. come dialogare efficacemente
con i Comuni, con i Cittadini, con le
Imprese, con i Professionisti con le
Associazioni, fissando percorsi e
tempi adeguati
6. Come affrontare in modo più coordinato, e con soluzioni efficaci, i
grandi temi di vasta area: l’inquinamento, i trasporti, la gestione dei
rifiuti, ecc.
Sarebbe opportuno che in ogni
Consigliere, sia chiamato a portare
all'approvazione dei suoi colleghi
non solo il risultato ottenuto sul tema scelto, ma anche il metodo di
lavoro che lui ha scelto di seguire.
C'è sempre da sperimentare e da
imparare (anche utilizzando il supporto delle nuove tecnologie).
Ogni Consigliere può dimostrare
così di essere realmente al servizio
della Comunità che vive e lavora in
questo territorio, non solo evitando
dannose contrapposizioni ma cercando di dare concretezza operativa
e autorevolezza a questo nuovo “livello di governo”.
È un momento di grande responsabilità.
Ora servono volontà, capacità, ma
anche attente sperimentazioni in
tutti i campi.
In definitiva questa proposta punta a
ottenere più obiettivi contemporaneamente:
* dare ruolo a tutti i 24 Consiglieri, in
forma attiva e paritaria
* sperimentare un metodo di lavoro
che possa diventare (spero) quello
più utilizzato dal nostro Consiglio
metropolitano
* cercare di ottenere in tempi brevi
più risultati in diversi ambiti, lavorando in parallelo su più argomenti
che sono oggettivamente tutti urgenti, senza creare burocrazia con
inutili colli di bottiglia
* dimostrare a tutti, anche così, che
il Consiglio metropolitano è consapevole delle necessità e delle particolari urgenze; e che esprime subito
volontà e metodo nel cercare di individuare i percorsi più adeguati per
trovare le soluzioni più corrette ad
alcuni problemi di fondo
* iniziare ad affrontare temi importanti, determinanti, che però richiedono di spendere in volontà e non
risorse economiche, oggettivamente
scarse
Con l'augurio che si possa riuscire,
anche così, a iniziare a ricostruire la
fiducia dei Cittadini verso le Istituzioni, buon lavoro a tutti.
ARCHITETTURA A MILANO E COMMISSIONE PER IL PAESAGGIO
Gianni Zenoni*
È del tutto comprensibile che lo
scopo della Commissione per il paesaggio sia quello di favorire la realizzazione di interventi edilizi correttamente inseriti come tipologia e
morfologia nel contesto milanese,
quindi riteniamo corretto che una
Commissione di professionisti, con
assoluta indipendenza di giudizio,
possa valutare i progetti .
Ma nello stesso tempo anche in
considerazione dell’attuale difficoltà
economica e dei costi connessi allo
sviluppo di un’operazione immobiliare, è necessario tenere presente
che per la programmazione economica di un nuovo intervento edificatorio il tempo deve essere considerato quale un fattore imprescindibile
e fondamentale.
Allo stato attuale l’operato della recente Commissione per il paesaggio
si è spesso orientata a non approvare la maggior parte dei progetti,
scegliendo di non fornire in modo
esplicito e chiaro le indicazioni necessarie ad adeguarli. Alcune delle
precedenti Commissioni avevano
ritenuto di fornire dei criteri di valutazione o di favorire il contraddittorio
con i professionisti attraverso conferimenti concordati per dare la possibilità ai progettisti di spiegare la logica di un progetto che viene sviluppato per mesi e poi valutato in
pochi minuti.
Noi riteniamo che la Commissione
per il paesaggio debba fare riferi-
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
mento a una idea di città e a criteri
generali per il suo trattamento espressi dal PGT, già presenti o da
precisare ulteriormente, (dal Consiglio Comunale con apporti di gruppi
di pressione, cui ARCHXMI intende
contribuire) come linee guida pubbliche e consultabili da tutti i professionisti, sulla base delle quali verranno valutati i progetti.
Nell'ottica di uno sviluppo armonico
della nostra città e di un lavoro costruttivo tra Ente Pubblico e operatori del settore, ARCHXMI propone
5 punti di discussione e confronto:
1) Modalità progettuale: è sicuramente necessario definire delle
premesse che si dovrebbero rifare
al concetto di Continuità tipologica e
di linguaggio con il contesto, che in
certe situazioni o destinazioni particolari può essere superato da un
progetto particolarmente innovativo
e denso di significati, ma sempre
con chiari criteri di rapporto con esse. Questo riteniamo sia un tema
che riassume lo scontro culturale tra
gli architetti (il nuovo non contestualizzato o la continuità dell’esistente).
Tale tema può essere perseguito
senza pregiudizi ma con un approccio trasparente e chiaro.
Per valutare il Progetto Singolo il
primo parametro di riferimento dovrà essere la “Contestualizzazione“,
documento dove il progettista spiegherà la sua lettura del contesto,
racconterà la genesi del progetto e
indicherà le scelte fatte per inserire
al meglio il nuovo edificio nell’esistente. Elementi da valutare saranno: storia del sito, ricerca degli allineamenti, morfologia edilizia prevalente, dimensione del lotto edificabile, materiali e colori delle costruzioni
circostanti. I dettagli delle facciate,
quando la Contestualizzazione è
corretta, non sono importanti.
Per la valutazione dei Piani Esecutivi sarà determinante garantire la
“Continuità” con il tessuto edilizio
circostante e poi curare la formazione di una nuova Scena Urbana con
la valorizzazione di: preesistenze
naturali, edifici storici o di particolare
valore, creazione di cortine edilizie
utilizzando anche differenti varietà
tipologiche, formazione di fondali e
prospettive, con l’utilizzazione di tutte quelle opere minori, ma decisive,
di arredo urbano.
2) Esame dei progetti: L’esame
della Commissione a richiesta del
progettista deve essere fatto alla
presenza dello stesso (evitando così che siano i tecnici comunali a illustrare alla Commissione progetti
che non conoscono approfonditamente), che potrà, come relatore,
spiegare le motivazioni del progetto.
Successivamente al parere emesso
nella stessa riunione senza la sua
presenza, se questo è negativo il
progettista avrà il diritto di accedere
subito alla Commissione per concordare le modifiche da apportare al
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progetto. Questo permetterà di
semplificare la procedura e risparmiare i tempi della approvazione
definitiva.
Sarà infine opportuno che nella
scelta del linguaggio e della tipologia architettonica sia sempre garantita la libertà di espressione, che
deve contraddistinguere l’azione di
un progettista, e che solo nei casi di
marcata incoerenza con i principi
sopraesposti può essere limitata e
corretta.
3) Composizione della Commissione: per aumentare il peso culturale e la trasparenza della procedura, i componenti, esperti in architettura, paesaggio e urbanistica, dovranno avere concreta esperienza
dimostrata da un curriculum di interventi edilizi e urbanistici realizzati e
da una pubblicata produzione lette-
raria sugli argomenti di riferimento
della Commissione.
4) Competenza della Commissione: nel caso di Progetti Singoli la
Commissione dovrà essere competente, attraverso la Contestualizzazione, esclusivamente per le parti
che si affacciano su spazi pubblici,
cercando di rispettare il diritto alla
libertà di espressione dei professionisti. Nei casi di intervento su edifici
esistenti e di conseguente mantenimento di colori e materiali esistenti
riteniamo inutile l’esame della Commissione. Riteniamo che il compito
della Commissione del paesaggio
per migliorare il disegno della città
sia quello di non insistere sui dettagli architettonici dei progetti singoli,
a favore di una convincente “Contestualizzazione” del progetto, e di
esaminare a fondo i Piani Esecutivi,
cercando in essi la “Continuità” con
il tessuto edilizio circostante e spronando l’operatore a non pensare
solo al più redditizio sfruttamento
edilizio ma ad affrontare con generosità l’impegno a creare un dignitoso brano di città arricchendolo anche con opere minori.
5) Scadenza dei pareri: Sarà importante anche garantire una data
certa di scadenza dei pareri, se,
come oggi, durerà 5 anni, anche in
presenza di eventuale sostituzione
di membri della Commissione o di
decadenza della stessa i nuovi
Componenti dovranno rispettare il
parere emesso della precedente
Commissione.
* Vice presidente ARCHXMI
Associazione Architetti per Milano
www.archxmi.org
ROTTAMARE PER RIQUALIFICARE: UN FONDO PER LA ROTTAMAZIONE IMMOBILIARE
Giuseppe Bonomi
Proviamo a immaginare un vecchio
capannoncino con tettoie e superfetazioni, tra un viale urbano e una
area a verde realizzata come standard da un nuovo complesso. Il suo
valore immobiliare è appeso alla
possibilità (o scommessa) di una
sua trasformazione urbanistica: ma
per farne cosa? Un nuovo cubetto
fuori scala e di difficile mercato? Si
tratta di un limbo immobiliare in cui
qualsiasi proprietario può solo difendere strenuamente (e comprensibilmente) i suoi interessi.
Se ci fosse un soggetto in grado di
agire per conto della collettività per
acquisire tale “capannoncino” a un
ragionevole valore di mercato (in
una fase in cui i tempi e gli scenari
futuri appaiono favorevoli) e restituire tale area a verde collegando il
viale al giardino retrostante, la collettività (tutti noi anche se abitiamo
da un’altra parte della città) ne trarrebbe un grande vantaggio. Quello
che manca è un soggetto in grado
di compensare una “perdita” specifica con i “guadagni” generali, e di
operare sul mercato con ruolo “da
privato” ma nell’interesse collettivo.
Obiettivo - Di rottamazione immobiliare, o urbana (volendo considerare
non solo gli edifici obsoleti ma anche le infrastrutture abbandonate o
superate) se ne parla ma non si
concretizza: che cos’è, chi la fa,
etc.; tutto molto interessante, in linea di principio, in pratica le priorità
di tutti sono diverse: ora per esempio il dibattito si concentra sulla città
metropolitana, sullo sconto sugli
oneri di urbanizzazione per sostitu-
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
zione, ma forse sarebbe opportuno
allargare un po’ l’orizzonte, evitando
peraltro il benaltrismo.
L’obiettivo specifico è quindi la predisposizione di uno strumento operativo per attuare la rottamazione
edilizia ai fini della riqualificazione
urbana.
Il Fondo per la Rottamazione (FR) Il principio è quello di un Fondo di
rotazione destinato alla riqualificazione urbana mediante la rottamazione di manufatti urbani che confliggono con gli obiettivi delle politiche urbanistiche. Inteso come fondo
di rotazione, esso prevede una dotazione iniziale, degli investimenti
che generano ritorni adeguati consentendo il reintegro del capitale e
quindi generando nuovi investimenti.
Le risorse del FR possono avere
diverse fonti, diversificate per priorità, facilità e scelte politiche che, in
linea di massima, possono essere:
* Gli oneri di urbanizzazione: è evidente che questa fonte andrebbe a
sottrarre gettito alle esigenze di
cassa del Comune, ma sarebbe
perfettamente rispondente ai principi ispiratori delle urbanizzazioni
stesse, essendo gli interventi prodotti dal FR un perfetto esempio di
urbanizzazioni di scala superiore.
* Diritti volumetrici perequativi:
computati sulle aree pubbliche, essi
potrebbero essere offerti sul mercato a valori di mercato, con ciò - tra
l’altro contribuendo a far decollare
un mercato, di tali diritti appunto,
che per ora è solo una chimera.
* Tassazione di scopo: strumento
esistente (si è usato per la MM1) e
rilanciato (da ultimo con il D.Lgs.
23/2011) vedrebbe in questo strumento il braccio operativo atto a selezionare e gestire progetti complessi.
Non si può escludere anche la cessione di volumetrie in sostituzione
(evidentemente in riduzione, ma di
qualità, con progetto di massima da
cedere o concedere a privati) da cui
possano generare ulteriori proventi.
L’entità/peso delle diverse fonti deve essere oggetto di uno studio di
fattibilità.
Come impiegare le risorse: si tratta
appunto dell’oggetto della riqualificazione urbana, e l’oggetto non è
trovare gli interventi, ma di selezionarli in base a priorità e criteri trasparenti e condivisi. In linea di principio, la natura dello strumento, il
concetto di rottamazione per la riqualificazione, porterebbe a privilegiare la ricostruzione del verde, e
poi i servizi alla collettività.
Gli impieghi devono - nei limiti del
possibile - avere un ritorno economico (superfici date in concessione
per impianti sportivi, spazi ludici,
etc. ) o, al limite, benefici che possono essere rendicontati in altra
maniera (utili virtuali), ma tale da
misurare le performance del FR.
Governance - La raccolta di risorse
e il loro investimento non dovrebbero essere un problema se ci fosse
una volontà determinata ad attuare
il progetto. Piuttosto, caratteristica
del progetto è (deve essere) quella
dell’indipendenza e dell’autonomia:
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stabilite le regole - pubbliche - è opportuno che il Fondo, tramite il gestore, operi come un privato, un vero e proprio Fondo Mobiliare che
investe e ritrae proventi economici
(o benefici equiparabili a ricavi) con
la trasparenza di un Fondo quotato.
Si avrebbe quindi il gestore privato
che attua le strategie decise
dall’Ente Pubblico, con quest’ultimo
che controlla i risultati. Non potendo
dire che l’azione pubblica sia più
trasparente di quella privata (entrambe hanno un lato oscuro), la
garanzia deve essere la trasparenza, e questo FR, con le norme vigenti, appare attualmente quanto di
più trasparente ma anche efficace ci
possa essere.
La complessità di questa governance deriva dall’intersettorialità: molteplici sono gli attori che devono dare le strategie che il gestore del
Fondo deve attuare: infatti l’Amministrazione comunale (o metropolitana) legge il territorio con più “ottiche” e agisce con più braccia, interagendo con altri poteri: la gestione
strategica del FR risulta inevitabilmente complessa e richiede una
attribuzione di poteri che concili trasparenza, definizione dei ruoli e autonomia operativa, evitando le secche dei veti incrociati e dei conflitti
sotterranei: un tema di governance
molto complesso evidentemente.
Ci sono anche altre criticità in questa idea: oltre alla complessità data
dal “mettere a bilancio” i benefici
oltre che a costi e ricavi, l’aspetto
più complesso è la duplice cerniera
che collega questo strumento da un
lato alla realtà dell’amministrazione
pubblica e dall’altro con il mercato:
un ruolo estremamente complesso,
ma è anche il suo stesso motivo di
esistere. È prevedibile una forte resistenza da parte della struttura
amministrativa pubblica che sentirebbe intaccato il suo ruolo, ma va
sottolineato che il FR svolgerebbe
una funzione che oggi semplicemente non esiste.
D’altro canto l’Amministrazione Pubblica non dispone di strumenti per
incidere operativamente sul territo-
rio se non l’esproprio, che non appare applicabile nei casi qui ipotizzabili.
È importante osservare invece che il
FR non può che essere strumento
per le scelte espresse dell’Amministrazione tramite lo strumento canonico, il PGT, ed eventualmente
da altri attori a scala minore (quartieri e consigli di zona) o superiore
(la città metropolitana). Qui peraltro
si entra in temi fin troppo noti e dibattuti, ma lo strumento FR non
contrasterebbe bensì sarebbe strumento operativo in grado di attuare
strategie e scelte amministrative di
diversi livelli gestionali e scale territoriali.
Mi viene da dire che la visione (i
principi) devono nascere dalla lettura a grande scala, ma le scelte e le
priorità operative devono essere a
scala di cittadino, quindi di quartiere: think globally, act locally in salsa
metropolitana!?!
CASE CRISI E ARCHITETTI
Giovanna Franco Repellini
Vivendo a Milano si ha una visione
abbastanza parziale del problema
della casa, la nostra città infatti nel
complesso si mantiene attrattiva e
movimentata per cui nonostante la
nota crisi del mercato immobiliare
non molto tempo fa un noto immobiliarista ha dichiarato: ”fortunato chi
ha proprietà di case a Milano”.
A Milano resta oggi fermo il movimento delle nuove costruzioni e tuttora mancano le case in affitto a
buon mercato per i giovani e i meno
abbienti; non così appena si esce
dalla città sopratutto nella direzione
sud sia a est che a ovest. Più ci si
allontana da Milano o in generale da
alcune grandi centri più la situazione diventa pesantemente deflattiva:
una casa che valeva 100 oggi vale
50 e anche facendo lavori di ristrutturazione magari tra due anni varrà
30. Il mercato degli affitti è nella
stessa condizione, già a Lodi con
350 euro al mese si trova un buon
appartamentino e se poi si esce dalla direzione dell’asse ferroviario
verso Bologna se ne trovano anche
a 250 euro. A prezzi inferiori è per
un proprietario inutile affittare con il
rischio di avere danni alla proprietà
e dover sborsare ulteriori soldi su un
bene già in perdita. La maggior parte di edifici che si trovano in questa
situazione sono vecchi o addirittura
antichi e spesso fanno parte di quel
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
tessuto semistorico che a reso attraenti i nostri piccoli centri.
La situazione era molto diversa
quando negli anni settanta ho iniziato la professione di architetto. Allora
si parlava di riuso, il postmoderno
aveva evidenziato la crisi dell'architettura del dopoguerra, nessuno voleva più abitare in un condominio,
tutti volevano la casa di ringhiera, il
palazzetto ottocentesco, volevano
ristrutturare la cascina dei genitori o
un rustico nel centro Italia. In meno
di venti anni appoggiati dal basso
costo delle case esterne ai centri
più privilegiati, dall'inflazione che
valorizzava ogni intervento, dalla
mancanza di tasse sulla casa e anche, dobbiamo dirlo, dal lavoro edile
quasi tutto in nero, gli italiani hanno
ristrutturato centinaia di migliaia di
palazzi, edifici, costruzioni fatiscenti
o comunque ammalorate.
Centri storici completamente abbandonati nel dopoguerra, per le
migrazioni, per l'abbandono delle
campagne e anche per il desiderio
sacrosanto di avere un bel bagno
piastrellato con acqua calda in casa,
sono stati totalmente rimessi in sesto attraendo anche acquirenti stranieri. Gli architetti, sempre criticati,
hanno avuto un ruolo importante
perché tutto questo lavoro fosse
compiuto con una buona cura e
qualità. A metà degli anni ‘90 è iniziata poi l’azione dei comuni che si
sono impegnati ripulire le strade, a
lastricarle in pietra, a organizzare
piazzette e giardini pubblici e a
provvedere a tutte quelle trasformazioni dette genericamente arredo
urbano durate circa 15 anni e crollate con il tracollo dei bilanci.
Allora siamo a posto, si potrebbe
dire, è stato tutto fatto basta dare
delle aggiustatine, ma purtroppo
non è così. Una grande parte del
patrimonio abitativo non è stata mai
messa a posto, le costruzioni ristrutturate iniziano a ripresentare problemi (umidità, impianti, sismica) e
tutto il patrimonio costruito nel dopoguerra, fino agli anni settanta
compresi, deve essere rinormato
sopratutto per quanto riguarda i
consumi energetici. Nel frattempo
magnifici edifici storici hanno perso
il loro ruolo e sono diventati inutili
come un vecchio convento abitato
da due suore o un grande albergo
liberty in una zona termale dove
neppure le vecchie signore vengono
più.
Insomma ci troviamo di fronte a
un'enorme necessità di lavori di
manutenzione straordinaria in una
situazione totalmente cambiata dove possedere un edificio, spesso
ereditato, in un qualsivoglia parte
della provincia italiana è ormai diventata una iattura fiscale, un pozzo
nero di spese. Oltretutto le case antiche sono passate di moda, l'anti-
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quariato è crollato e alla vecchia libreria in radica e vetro della nonna
tutti preferiscono una Billy che costa
meno del trasloco.
Così quando si sentono una serie di
dichiarazioni politiche sull'importanza del recupero del patrimonio storico italiano, sull'importanza del turismo e sull'unicità dei nostri comuni
mi domando chi pagherà quel lavo-
ro minuzioso da formichina che sta
alla base di qualsiasi ristrutturazione
territoriale e che prevede che la
proprietà della casa sia una sicurezza anche per il futuro.
La risposta è complicata e richiede
tanti punti di vista di cui uno, che
butto lì in modo generico, per quanto riguarda la Lombardia, si trova
nell’urgenza di definire e organizza-
re un’area metropolitana vasta (più
vasta della provincia di Milano) che
comprenda aree verdi agricole e in
cui sia molto semplice e veloce
muoversi. Che senso ha abitare in
periferie mezze degradate quando
si può abitare in un piccolo centro
con giardino e avere spostamenti
non superori a quaranta minuti?
LO SPAZIO PUBBLICO E L’EFFETTO PERVERSO DEI REGOLAMENTI
Giulia Mattace Raso
Niente è più profondo e pervicace di
un regolamento attuativo: così come
gutta cavat lapidem, articoli e commi formano (deformano?) lo spazio
pubblico. Norme, apparentemente
indolori, che replicate infinite volte
su ampia scala danno il tono alla
qualità del paesaggio urbano. Regolamenti che si sovrappongono,
competenze che si intrecciano, adempimenti che generano OGM urbani. Il più noto è forse il dehors.
L’occupazione del suolo pubblico,
ha un suo regolamento che ne determina un canone (la fantomatica
Cosap) e un suo disciplinare “Disciplina del diritto ad occupare il
suolo, lo spazio pubblico o aree private soggette a servitù di pubblico
passo, mediante elementi di arredo
quali: tavoli, sedie, fioriere, ombrelloni, tende solari, tende ombrasole,
pergolati, faretti, pedane mobili, gazebi, dehors stagionali e altri elementi similari”. Fondamentale rispetto alla Cosap è la delimitazione
dell’area, che distingue lo spazio in
concessione dal restante suolo
pubblico, quello per cui pago da
quello che no: in particolare per gli
esercizi di somministrazione come
elementi di delimitazione sono di
fatto normate le fioriere. Il colore dei
vasi, la disposizione, addirittura le
essenze e la loro altezza: “Lauro,
Pittosforo, Aucuba, Viburno, Ilex
Aquifolium, Lonicere” che meglio
resistono a parassiti e malattie, garantendo una buona e facile manutenzione (sic!).
Una volta delimitata l’area tocca coprirla con un telo e/o tettoia che la
protegga da “fonti di insudiciamento” (il guano del volatile che famigliarmente alberga a Milano, piuttosto che la cicca dell’annoiato impiegato del piano di sopra ...) così come prescritto dal Regolamento di
Igiene (Titolo IV Igiene degli alimenti
e delle bevande) per la somministrazione in pertinenze esterne.
Da quando si è introdotto il divieto di
fumo nei locali pubblici, le pertinenze esterne sono diventate naturali
rifugi per fumatori incalliti: vogliamo
forse lasciarli al freddo? Giammai!
Ecco che pullulano i funghetti (stufe
a ombrello, una bombolona a gas
con un bruciatore rialzato e paravento a copertura). Ma per climatizzare più efficacemente meglio sarebbe tamponare quel che resta tra
le piante in vaso e gli ombrelloni:
una tendina trasparente farebbe
proprio al caso nostro. Ed ecco qui
la scatola si è confezionata da sola!
Ma che orrore quei teloni trasparenti
svolazzanti, a questo punto meglio
un dehors costruito per bene, pulito,
in vetro, trasparente … (il pensiero
dell’amministratore solerte che ambisce a una città pulita e ordinata).
Ne siamo proprio sicuri? Non ha
forse tutto ha origine dalla finalità
(art.2.1 Disciplinare) degli elementi
di delimitazione perché “Tali manufatti vengono utilizzati al fine di evitare che persone o cose fuoriescano dall’area in modo disordinato”,
ovvero che il cliente non se la dia a
gambe levate senza pagare la consumazione? Nelle pubblica piazza ci
tocca fare lo slalom tra questi coacervi di masserizie organizzate solo
perché non prendiamo l’abitudine di
pagare prima lo scontrino? O perché i gestori non si fidano a sufficienza dei camerieri che potrebbero
esigere il pagamento seduta stante
alla consegna della comanda? (come d’abitudine in tutto il resto
d’Europa?)
Hai un bel dire che “In centro storico, nelle aree pedonali recentemente riqualificate e/o di maggior prestigio per la città, tali elementi di delimitazione possono essere introdotti
in misura minima.” e che “Le recinzioni devono garantire la percezione
visiva complessiva del contesto urbano specifico”: basta una bella
passeggiata in via Vittor Pisani per
avere il catalogo del dehors cacofonico, e paradossalmente in prossimità di un porticato!
È come se il regolamento agisse
sull’aspetto hard, dello spazio, avendo noi rinunciato a priori al disciplinamento di quello soft, del
comportamento, così come per evitare che le macchine parcheggino
sui marciapiedi posiamo “parigine” a
più non posso o facciamo i cordoli a
doppio scalino, invece di multarle.
Impostiamo una serie di regole che
generano modifiche profonde sulla
struttura dello spazio pubblico e della sua fruizione collettiva perché
non abbiamo l’ambizione di modificare la nostra (o l’altrui?) condotta.
Compromettiamo la bellezza delle
nostre città pagando il prezzo per la
maleducazione di alcuni (al bar o in
macchina). Vista così non sembra
un grande affare?
Scrive Gianni Fodella a proposito della linea MM4
Vorrei vedere dibattuto nelle vostre
pagine il problema che la costruzione della linea della MM4 causerà a
tutti i milanesi e non soltanto a chi
abiti nella zona interessata ai lavori.
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
Perché prevedere le trincee profonde da scavare partendo dalla superficie? Sembra che i lavori per costruire linee ferroviarie sotterranee
siano ovunque nel mondo realizzati
senza trasporto di terra in superficie, ma con un metodo di trasporto
sotterraneo dei detriti che evita l'uso
di escavatori e il transito di camion
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carichi di detriti che devono attraversare la città.
La costruzione dei parcheggi sotterranei e delle linee esistenti della MM
hanno creato danni enormi alla salute di tutti, creato disagi di ogni genere e costretto molti esercizi addirittura a chiudere perché i lavori in
corso (durati anni) hanno fatto dirottare altrove i clienti abituali e potenziali. Negli ultimi due giorni si sono
sentite e viste in televisione ripetute
e dettagliate informazioni relative
alla MM4 e i responsabili del Comune di Milano si sono scusati per i
disagi che la costruzione comporte-
rà. Nessuno ha parlato delle possibili alternative costruttive !!! Forse
perché la malavita organizzata guadagna di più con i metodi tradizionali di scavo ed estorsione? Vorrei
precisare che chi vi scrive non abita
lungo il percorso della MM4.
Scrive Piero De Amicis a proposito di piazza Sant'Agostino
In relazione all’articolo “Lettera aperta da piazza Sant’Agostino” proprio con riferimento alle sacrosante
lamentele espresse dagli autori della “lettera”, desidero informare su
quanto
segue:
Negli
anni
2007/2008, nell’ambito del piano
Comunale dei Parcheggi, fu presentato ai competenti uffici del Comune
di Milano dall’allora promotore, così
definito a seguito dell’espletamento
dell’apposito bando di gara, il progetto del parcheggio interrato in
piazza Sant’Agostino comprensivo
della sistemazione superficiale della
piazza stessa, redatto dallo studio
“deamicisarchitetti” di Milano.
Tale sistemazione prevedeva il
mantenimento del mercato bisetti-
manale secondo dimensioni e modalità concordate con i responsabili
comunali del Settore Commercio
unitamente alla piantumazione di
100 alberi, disposti secondo un preciso disegno geometrico, e alla razionalizzazione del traffico veicolare
ai margini della piazza.
Il progetto della sistemazione superficiale si proponeva la riqualificazione complessiva del luogo, assegnandogli la duplice funzione di sede del mercato nei giorni di martedì
e sabato e, per tutto l’altro tempo, di
spazio alberato di sosta completamente separato dal traffico. Per una
serie di ragioni di carattere generale, il parcheggio interrato è stato
annullato ma la sistemazione super-
ficiale prevista dal progetto resta
tuttora valida, potendo fra l’altro
contare su un aumento dello spazio
godibile per la scomparsa delle attrezzature legate al parcheggio.
Recentemente da parte dei progettisti è stato riproposto alla Amministrazione Comunale il progetto della
sistemazione
superficiale
della
piazza, ritenendolo ancora del tutto
attuale e adeguato alle aspettative
dei residenti nella zona, ma al di là
di un generico interesse, non è stato
espresso dalla Amministrazione alcun indirizzo concreto. Il progetto è
stato pubblicato sull’ultimo volume
edito da Skira sulle nuove architetture a Milano.
Scrive Gregorio Praderio a proposito delle aree Expo
Fra le varie questioni da affrontare
per delineare il futuro delle aree Expo a mio parere c'è anche quello
dell'accessibilità automobilistica: teoricamente ottima, viste le varie infrastrutture autostradali esistenti in
zona, ma in realtà debole, visto il
livello di carico della Torino - Venezia e della Milano - Laghi (per esperienza personale, ma credo di molti,
perennemente in coda già adesso).
Nella documentazione ufficiale per
ora non ho notato nulla di particolarmente risolutivo sul tema, se non
appunto la presa d'atto delle infrastrutture esistenti. Aggiungerei questo ai già numerosi problemi evidenziati.
Scrive Umberto Puppini a proposito dell'area Calchi Taeggi
Mi permetto di commentare, da tecnico quale sono, che la messa in
sicurezza è una procedura ben definita dalle norme vigenti in materia
ambientale. Non comporta costi di
manutenzione particolarmente onerosi e comunque infinitamente inferiori a quelli del trasferimento di una
discarica in un altro sito, operazione
che avrebbe essa stessa un impatto
ambientale a dir poco notevole. Da
un punto di vista storico, bisogna
ricordare che tutte le città, e dunque
anche Milano, sono costruite sulle
macerie delle demolizioni, che contengono rifiuti di varia natura. C’è un
intero quartiere a Quarto Oggiaro
con costruzioni erette negli anni settanta su una grande cava colmata di
rifiuti, per fare uno dei tanti possibili
esempi.
La questione urbanistica è delicata
e devo presumere che sia stata ben
valutata da chi ha fatto le scelte ci-
tate nell’articolo. Al di là della reazione che può destare l’odore degli
interessi in gioco, a me le scelte fatte appaiono chiare e condivisibili. Mi
sembra invece difficile immaginare
come la proprietà abbia saputo vedere così lungo da orchestrare
l’esito di una vicenda che si è prolungata per decenni, con le norme
nazionali in materia ambientale che
cambiavano strada facendo.
Replica Sergio Pennacchietti
Che in tante altre aree, anche a Milano, nei decenni passati si sia costruito su ex-cave riempite di rifiuti
senza bonificarle è più che certo;
ma la speranza e l'impegno di tutti
dovrebbe essere che non accadano
più cose simili. Certamente il Comitato valuta positivamente che l'area
di Calchi Taeggi venga messa in
sicurezza. Le preoccupazioni riguardano semmai le modalità tecniche dell'intervento, visti gli alti livelli
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
di inquinamento di terreno e falda e
le grandi dimensioni dell'area (circa
260.000 mq!) che verrebbe coperta
con teli di 1,5 mm. saldati tra loro.
Oltre ai rischi di possibili rotture del
telo (radici di piante, scavi incontrollati...) con il pericolo di percolazione
delle acque meteoriche, si dovranno
necessariamente tenere sotto controllo i sistemi di laminazione, le barriere idrauliche necessarie per mo-
nitorare l'inquinamento della falda, i
gas interstiziali, ecc.
Quello comunque che a parere del
Comitato desta scandalo in questa
vicenda è il fatto che il Comune riconosca automaticamente il trasferimento (dove? su aree di chi?) dei
diritti edificatori a chi non ha rispettato la Convenzione, firmata quando
già conosceva bene le condizioni
dell'area per la quale chiedeva i
permessi di costruire. E' la solita
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storia di bonifiche promesse che
poi, per una ragione o per l'altra (ma
quasi sempre perché costano!), non
vengono fatte.
Scrive Jacopo Gardella a proposito di Piazza Alfieri
Scrivo per complimentarmi con
Renzo Riboldazzi e con te per la
sarcastica critica comparsa su ArcipelagoMilano del 7 Gennaio 2015 e
rivolta al complesso urbano di Stazione Bovisa, Piazza Emilio Alfieri,
triangolo ferroviario “La Goccia”. Alle pungenti osservazioni dell’autore
voglio
aggiungere
soltanto
quest’ultima mia. Da più di venti anni ogni mattina centinaia di studenti
e decine di docenti escono dalla
Stazione Ferroviaria, attraversano la
piazza e si dirigono alla Facoltà di
Architettura e di Design, in via Durando. Sono studenti e docenti – va
sottolineato – non di medicina, non
di diritto, non di lettere, ma di architettura, di urbanistica, di paesaggio.
Possibile che nessuno di loro abbia
mai notato l'indecenza dello spazio
urbano che va dalla Ferrovia alla
sede della Università? Possibile che
a tanti studenti, destinati a diventare
futuri architetti, non sia mai sorto il
desiderio di conferire alla piazza un
più decoroso aspetto architettonico?
Possibile che tanti insegnanti impegnati nella professione di architetto
non abbiano mai pensato di assegnare ai loro allievi il compito di riprogettare la piazza ed i suoi dintorni? L’intera Facoltà di Architettura
avrebbe potuto prendere l’iniziativa
ed impegnarsi ed elaborare un progetto di questa desolata parte della
città; e avrebbe poi dovuto offrirlo al
Comune di Milano affinché invitasse
costruttori pubblici e privati a finanziare e a realizzare l'opera.
Ricordo un episodio di scoraggiante
abulia che aveva amareggiato
l’arch. Aldo Rossi quando ancora
insegnava a Milano: era venuta ospite della Facoltà di Architettura la
nota compagnia di attori americani
appartenenti al Living Theatre.
Nell'aula disponibile per la rappresentazione occorreva allestire un
rudimentale palcoscenico utilizzan-
do sgabelli e tavoli da disegno: il
tema si presentava entusiasmante
per chi sarebbe diventato un futuro
architetto; una prova stimolante da
mettere in pratica con entusiasmo
ed immaginazione. Fu triste constatare che la sfida non venne raccolta
dagli studenti; non suscitò nessun
interesse; non stimolò nessuna inventiva. Tanto che ci si chiedeva
attoniti chi obbligasse tanti giovani
ad iniziare un corso di studi lungo
ed impegnativo quando di fronte alla
fortuna di mettere concretamente
alla prova la loro capacità creativa si
defilavano svogliati e si mostravano
indifferenti.
Tuttavia incolpare soltanto le giovani generazioni sarebbe una ingiustizia: la colpa è piuttosto delle generazioni adulte che non sono capaci
di aprire prospettive, di suscitare
speranze, di offrire occasioni; e così
facendo spengono anche le energie
migliori.
MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Abbado, un anno fa
In questa settimana è difficile dimenticare il primo anniversario della
scomparsa di Claudio Abbado; nei
giorni successivi a quel 20 gennaio
Bologna diventò meta di un pellegrinaggio ininterrotto di amici, estimatori, musicisti e musicofili di ogni
genere; nella piazzetta di Santo Stefano - dove affacciava sia la sua casa che la piccola basilica romanica
in cui era allestita la camera ardente
- ci si incontrava e ci si abbracciava
con gli occhi arrossati e con un senso di vuoto. E poi a Milano, la folla
in piazza della Scala ad ascoltare la
Marcia Funebre dell’Eroica, eseguita a teatro vuoto e a porte aperte, e
al Piccolo il filmato del Viaggio a
Reims. Tutto questo solo un anno fa
e sembra sia passata un’eternità.
A ricordarci tutto questo è arrivato
con grande puntualità il bel volumetto “Nel giardino della musica. Claudio Abbado: la vita, l’arte, l’impegno”
(Guanda, 174 pagine) di Giuseppina
Manin, la giornalista che per il Corriere della Sera ha seguito il direttore d’orchestra nelle più importanti
occasioni della sua vita professiona-
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
le, intervistandolo in tante circostanze, sì da poter dire di averlo ben
conosciuto. Si legge di un fiato,
questo libriccino i cui capitoli corrispondono alle date significative di
una vita ricca di avvenimenti e di
emozioni: da ragazzo, quando ha
“incontrato” la musica, alle prime
importanti prove della professione,
negli strepitosi successi che si sono
accavallati l’uno all’altro, fra le “sue”
orchestre, negli affetti familiari e nella malattia. Non vi sono indiscrezioni, anzi, è un racconto molto discreto e scritto in punta di penna, pieno
di grazia e di attenzione nei confronti di un’esistenza densa di studi, di
riflessioni, di rapporti umani, di impegno sociale e sopratutto di rigorosa coerenza.
La Manin non è una storica né una
critica musicale, e stupisce quanto
sia attenta come osservatrice, professionale come cronista, fedele nel
riconoscere qualità e meriti di tutti i
personaggi che racconta: i genitori e
i fratelli di Claudio (così amava farsi
chiamare da tutti), i quattro figli - Alessandra, Daniele, Sebastian e Mi-
sha - e il loro attaccamento al padre, le loro madri (Giovanna Cavazzoni, Gabriella Graziottin, Viktorija
Mullova), i grandi amici (fra cui Luigi
Nono, Maurizio Pollini, Martha Argerich, Daniel Barenboim, Zubin Metha, Renzo Piano, Roberto Benigni,
Giorgio Napolitano solo per ricordare i più noti), i suoi fan (gli “abbadiani itineranti”, capitanati da Attilia
Giuliani, detta “Tilla”), i musicisti che
lo seguono da un’orchestra all’altra
sempre pronti a “suonare insieme” e
a suonare con lui. E poi gli eremi, in
Sardegna e in Engadina, e le residenze a Milano, Vienna, Londra,
Berlino, fino a Bologna dove concluderà l’esistenza con grande dignità e serenità. Ma anche le passioni, come quelle per il mare e la
montagna, per il calcio, per il giardinaggio.
Il libro mostra in filigrana i rapporti
che Abbado ha avuto con orchestre
e teatri - la Scala, i Berliner, i Wiener - e da quelle pagine si capisce
quanto complicato sia il mestiere del
direttore. Più di ogni altra cosa colpisce la descrizione della forza che
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la musica infonde in chi la pratica
come lui, con passione e devozione,
per combattere la malattia e il dolore: Abbado ha convissuto quasi
quattordici anni con il suo terribile
male, e vi è riuscito grazie alla musica.
L’altro aspetto di questa biografia che l’editore chiama più giustamente un “vivido puzzle di memorie” - è
l’impegno civile che ha caratterizzato tutta la vita di Abbado. Un impegno che non è mai stato un fiancheggiamento politico (“mai una
tessera di partito”) ma piuttosto il
sentirsi parte di una comunità, sempre dalla sua parte più debole: dalla
musica portata nelle carceri, nelle
scuole, negli ospedali, all’appoggio
dato alla grande mobilitazione di
Abreu per i ragazzi di strada, dalla
denuncia delle sopraffazioni perpetrate nel Vietnam fino alla apertura se vogliamo con qualche ingenuità alla Cuba di Castro, Abbado ha assunto posizioni sempre ruvide, che
avrebbero potuto costargli la carriera; non si poneva il problema del
proprio particolare ma cercava di
guardare, con generosità, al generale. E a differenza di tanti che hanno sfruttato il mondo dei giovani
senza dar loro nulla o quasi nulla in
cambio, ha permesso a un numero
inimmaginabile di ragazzi e ragazze
di trovare la propria strada nel mondo della musica: una nuova generazione di musicisti si è formata con
lui e intorno a lui, e grazie a quella
inesauribile fonte di energia è riuscita a costruirsi una - peraltro difficile professione.
Una storia lunga ottant’anni che ha
cambiato il mondo della musica lirica e sinfonica e soprattutto ha modificato la percezione che il mondo
aveva di quella musica. Abbado è
stato un campione dell’interpretazione musicale e della prassi della
direzione dell’orchestra, assicurando all’Italia il prestigio internazionale
che aveva conquistato con Toscanini e proiettandola ancora una volta
nel mondo. Nelle pagine di Giuseppina Manin si sente questa ammirazione, priva di piaggeria e di enfasi;
e se forse qua e là le pagine sono
dolenti o segnate dalla nostalgia,
appaiono sempre e fortemente permeate dall’ottimismo del loro protagonista. Il che, naturalmente, ce lo
fa rimpiangere ancora di più.
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
Etty Hillesum maestra di vita
Inaugurata nel dicembre 2014 in
occasione del centenario della nascita (1914 - 2014) la mostra "Etty
Hillesum maestra di vita. Da Amsterdam ad Auschwitz", ospitata negli spazi delle ex cisterne della Fabbrica del Vapore, è stata ora prorogata fino al 31 gennaio. Milano rende così omaggio a Etty Hillesum,
giovane donna ebrea di grande profondità intellettuale e ricerca spirituale, vissuta in Olanda e morta ad
Auschwitz nel 1943, che ci ha lasciato nei Diari e nelle Lettere la testimonianza di un pensiero controcorrente e anticipatore, per molti
versi, di riflessioni attuali ancora oggi.
Realizzata in collaborazione con il
Comune di Milano, la Casa delle
Donne, la Casa della Cultura, la
mostra è un tuffo emozionale nella
vita dell’autrice, che permette a chi
già l’ha conosciuta leggendo i suoi
testi, di rincontrarla guardandola
negli occhi. Ma consente anche, a
chi non si è mai avvicinato a un suo
testo, di scoprire una donna che conosceva bene le parole e l’animo
umano, e che era capace di declinare le prime usandole per scandagliare a fondo il secondo.
La mostra è fatta di brani e foto,
provenienti dall’archivio del Museo
della Storia Ebraica di Amsterdam,
che ritraggono Etty, S. (cui, finalmente, si riesce così a dare un volto), la famiglia di lei e gli amici più
cari; pochi i testi curatoriali: quasi
come a voler lasciare il visitatore
solo nell’incontro con questa donna
straordinaria. Profonde e intense,
quasi quanto la stessa mostra, le
parole dei visitatori che si leggono
nei quaderni di commento la mostra: molti salutano Etty e spesso la
ringraziano per le riflessioni, spesso
per i consigli e in molti per aver esternato dolori condivisi che da soli
non sarebbero riusciti a far uscire.
"Nei diari e nelle lettere, tradotti in
Italia da Adelphi, Etty Hillesum te-
stimonia una capacità di introspezione e di osservazione della realtà
fuori del comune e ci parla con un
profondo accento di verità, senza
ricorrere a ricette miracolistiche o
palliative, in nome di un indistruttibile e gioioso amore per la vita.
I brani selezionati per la mostra
“Etty Hillesum maestra di vita” mirano a scuotere il visitatore alla stregua di “colpi di martello” – secondo
un’espressione adottata dalla stessa Hillesum – che minano certezze
consolidate e luoghi comuni, costringendolo a rovistare nelle viscere del proprio io alla ricerca di verità
scomode o sottaciute." Pier Giorgio
Carizzoni – Curatore della mostra
Etty Hillesum. Cuore pensante
della vita - La Fabbrica del Vapore /
Spazio ex Cisterne, via Procaccini 4
Tutti i giorni dalle ore 14 alle ore
19.30 (martedì 27 gennaio dalle ore
14 alle 22) Biglietto: 3 euro
Quando il cibo si fa mostra
Food | La scienza dai semi al piatto, non è solo una mostra dedicata all’alimentazione: è un percorso
di avvicinamento e scoperta del
processo di produzione di ciò che
mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni
accompagnano il visitatore dalla
scoperta dei cibo, dall’origine
quando è seme fino alle reazioni
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
chimiche che sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su provenienza storico-geografica, suggerimenti sulle modalità di conservazione o
exhibit interattivi.
La mostra, in corso fino al 28 giugno 2015 e allestita nelle sale del
Museo di Storia Naturale Milano,
rappresenta il più importante e-
vento di divulgazione scientifica
promosso dal Comune di Milano
sul tema di Expo 2015. “Nutrire il
Pianeta, Energia per la Vita” e costituisce una delle più importanti
iniziative del programma di “Expo
in Città”.
Tutto nasce dai semi è il titolo della prima sala, nella quale vengono
raccontate le diverse classi e fa-
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miglie con caratteristiche, provenienza e utilizzo. Decine e decine
di barattoli mostrano, portando, in
alcuni casi per la prima volta, esemplari che appartengono alle
più importanti banche dei semi
italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti
dove mele, agrumi, riso, caffè e
cacao non avranno più segreti: tra
giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è facilmente accessibile
e non superficiale. Grande elemento positivo della mostra è infatti la capacità di rendere fruibili
le nozioni più scientifiche a un
pubblico differenziato, senza per
questo incorrere nel rischio di
semplicismo.
Che la cucina sia un’arte è risaputo da tempo, ma che alla base di
tante ricette vi siano principi di
chimica e fisica passa spesso inosservato: la terza sezione della
mostra illustra come funzionano
alcuni degli elettrodomestici più
comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate
che i broccoli hanno un metabolismo più veloce delle cipolle e che
per meglio conservarli andrebbero
avvolti in una pellicola di plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai
problemi di chi cucina (cosa fare
se la maionese impazzisce?).
Quando poi sembra che niente in
materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala
I sensi. Non solo gusto ovvero
niente è come sembra: vista, olfatto e tatto anche nel mangiare
giocano un ruolo determinante, al
punto talvolta di allontanare il gusto dalla reale percezione.
Il costo del biglietto è medio alto
(12/10 euro), ma la visita merita
davvero il prezzo d’ingresso se
non altro per cominciare ad affacciarsi nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il
2015.
Food. La scienza dai semi al
piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì 09.30 – 13.30 / Martedì,
Mercoledì, Venerdì, Sabato e
Domenica 9.30 – 19.30 / Giovedì
9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro
Mostre e buoni propositi per il 2015
Il nuovo anno inizia sempre con i
migliori propositi, soprattutto in ambito sportivo e culturale: quest’anno
andrò almeno una volta al mese a
vedere una mostra, saranno almeno
due le sere la settimana dove correre. Sull’aspetto sportivo non possiamo aiutarvi, ma per quanto riguarda le mostre vi segnaliamo ciò
che accadrà a Milano nei prossimi
mesi. Alcune delle proposte sono
più indirizzate a Expo e al tema
dell’alimentazione, altre invece più
votate a mostrare il meglio dell’italianità a chi per l’occasione visiterà
Milano.
A Palazzo Reale faranno da padroni
due grandissimi artisti, simbolo del
genio italiano: Leonardo (dal 14
aprile) e Giotto (dal 2 settembre
2015 al 10 gennaio 2016). La prima
è presentata come la più grande
mostra su Leonardo mai ideata in
Italia, non celebrativa ma trasversale, a cavallo tra arte e scienza mentre la seconda ripercorre lo straordinario lavoro dell’artista fiorentino. Il
grande polo espositivo ospiterà mol-
to altro: Natura, mito e paesaggio
dalla Magna Grecia a Pompei (21
luglio 2015 al 10 gennaio 2016),
mostra dedicata a raccontare il paesaggio nel mondo classico, indagando come nei secoli sia cambiato
e evoluto il rapporto dell'uomo con
la natura che lo circonda; Arte lombarda dai Visconti agli Sforza
(marzo – giugno 215) mostra che
intende celebrare una delle pagine
più gloriose della storia della città di
Milano che sotto le due famiglie si
affermò come una delle città più importanti d'Europa.
La prima grande retrospettiva dedicata a Medardo Rosso (marzo giugno) verrà allestita nelle sale ottocentesche della GAM di Palestro
mentre Palazzo della Ragione ospiterà da marzo a settembre Italia
inside out, una raccolta di immagini
che presentano al pubblico il lavoro
collettivo di quei fotografi che, in
momenti diversi, e con sensibilità
individuale, hanno colto gli aspetti
principali della vita del nostro Paese.
Se cibo e alimentazione sono i temi
attorni ai quali si sviluppa Expo
2015, non mancano di certo mostre
che li celebrino: attesissima è infatti
Arts & Foods, unica Area tematica
di Expo realizzata in città e allestita
negli spazi interni ed esterni della
Triennale di Milano dal 9 aprile fino
al 1 novembre. La grande mostra
(7000 mq) metterà a fuoco la pluralità di linguaggi visuali e plastici, oggettuali e ambientali che dal 1851,
anno della prima Expo a Londra,
fino a oggi hanno ruotato intorno al
cibo, alla nutrizione e al convivio.
Inoltre farà tappa a Milano dal 28
aprile al 6 settembre la mostra Il
Principe dei Sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e
Bronzino, ospitata prima al Palazzo
del Quirinale (fino al 15 aprile) e che
concluderà il proprio percorso a Firenze dal 16 settembre al 15 febbraio.
La proposta è vastissima e in continua crescita, non resta che segnarsi
le preferenze in agenda e non abbandonare i buoni propositi.
L’arte di costruire relazioni: Céline Condorelli all’Hangar Bicocca
Se un pomeriggio d’inverno un
viaggiatore avesse voglia di scoprire
Milano attraverso uno dei luoghi
simbolo della storia industriale e artistica della città, potrebbe recarsi
all’Hangar Bicocca. Una delle mostre recentemente inaugurate nello
spazio è la personale di Céline
Condorelli, un’artista che vive e lavora fra Londra e Milano.
L’esposizione ha un titolo che non
passa inosservato:
bau bau.
L’espressione, che ludicamente richiama al verso di un cane, è anche
un omaggio al significato della paro-
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
la in lingua tedesca, costruzione, e
all’esperienza della scuola del Bauhaus.
Effettivamente, superate le difficoltà
iniziali di approccio all’apparente
incomunicabilità dell’arte contemporanea, il percorso espositivo si rivela
ricco di spunti sul tema della costruzione e dell’amicizia, sviluppati attraverso sculture, installazioni, video
e scritti.
L’artista ha una formazione relativa
all’architettura e alla cultura visuale,
e ha riflettuto a lungo sulle “strutture
di sostegno”, ovvero su ciò che
supporta, sostiene, appoggia e corregge, sia in senso strutturale che
relazionale.
L’amicizia diventa per l’artista una
dimensione di lavoro e una forma
d’azione. I suoi pensieri sull’amicizia
sono condensati nel libro The
company she keeps, offerto ai visitatori su una scrivania: chiunque
può accomodarsi e leggerlo, e chi
vuole può anche salire sul tavolo
per osservare dall’alto la visuale
all’esterno, attraverso l’unica finestra dell’ambiente espositivo, aperta
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appositamente dalla Condorelli in
occasione della mostra.
Un altro tema forte è infatti il dialogo
con gli spazi dell’Hangar. La mostra
è stata pensata in relazione alle
precedenti esposizioni (il pannello di
legno all’ingresso è lo stesso della
mostra precedente di Gusmão e
Paiva, e Céline vi ha posto una ventola che produce un vento che sospinge lo spettatore attraverso la
scoperta delle opere; i video in onda
su una piramide di televisori ricordano la babelica torre di Cildo Meireles) così come l’installazione Nerofumo è stata appositamente prodotta attraverso la collaborazione
con lo stabilimento Pirelli di Settimo
Torinese.
Musica che fa da sottofondo nell’ingresso e nei bagni, installazioni che
diventano sedute su cui i visitatori
possono accomodarsi e colloquiare,
tende dorate mosse dal vento: bau
bau è una mostra irripetibile in qualsiasi altro luogo, in grado di seminare silenziosi spunti di riflessione negli interessati, curiosità negli scettici,
stupore negli appassionati. Giulia
Grassini
Céline Condorelli, bau bau Hangar Bicocca via Chiese 2, Milano
fino al 10 maggio 2015 – da giovedì
a domenica 11:00 – 23:00 Ingresso
gratuito
Nel Blu di Klein e Fontana al Museo del Novecento
Uno straordinario racconto di un
dopoguerra animato da artisti, collezionisti, intellettuali e mercanti è lo
scenario che si immagina faccia da
sfondo alla relazione di amicizia tra
Yves Klein e Lucio Fontana raccontata nella mostra in corso al Museo
del Novecento e che immergono chi
vi è coinvolto con stimoli visivi e
suggestioni intellettuali.
Due città, Milano e Parigi, e due artisti, distanti per età anagrafica, provenienza, formazione e stile ma con
in comune la ricerca artistica che si
articola verso nuove dimensioni
spaziali e concettuali. Ripercorrendo
il tradizionale allestimento cronologico del Museo ci si accosta progressivamente al rapporto tra i due:
più questo si fa intenso e più aumenta la densità di opere che si incontrano dei due artisti. L’apice del
sodalizio si raggiunge quando si
spalanca la vetrata sopra piazza del
Duomo con la Struttura al neon di
Lucio Fontana sul soffitto e la distesa blu di Pigment Pur di Klein. Un
dialogo straordinario all’interno del
quale il visitatore non può che sentirsi coinvolto ed estasiato ammiratore.
Cinque sono gli anni cui la mostra è
dedicata: dal 1957, anno in cui Yves
Klein espone per la prima volta a
Milano alla Galleria Apollinaire una
serie di monocromi blu, al 1962, anno della morte dello stesso Klein.
L’inaugurazione della mostra in Brera è l’occasione in cui i due artisti si
incontrano per la prima volta e Fontana è tra i primi acquirenti di un
monocromo dell’artista francese,
diventando poi uno dei suoi più importanti collezionisti in Italia.
Nell’esposizione sono documentati
cinque anni di lettere, incontri, viaggi e condivisione di due artisti che
hanno segnato profondamente, ognuno a modo proprio, la storia
dell’arte novecentesca. L’affinità in-
tellettuale e artistica emerge laddove le aperture spaziali di Fontana
(fisiche e concettuali) trovano corrispondenza nel procedere di Klein
dal monocromo al vuoto. Entrambi
perseguono uno spazio immateriale,
cosmico o spirituale, che forse appartiene a un’altra realtà.
Una mostra da non perdere “Yves
Klein Lucio Fontana, Milano Parigi
1957-1962”, che per la ricerca storico-artistica e le scelte curatoriali
non appaga solo la fame conoscitiva del visitatore, ma soprattutto fa sì
che venga immerso in un mondo blu
splendente che offre un profondo
godimento emozionale.
Klein Fontana. Milano Parigi
1957-1962 Museo del Novecento
piazza Duomo fino al 15 marzo
2015 lunedì 14.30 – 19.30 martedì,
mercoledì, venerdì e domenica 9.30
– 19.30 giovedì e sabato 9.30 –
22.30 Biglietti :10/8/5 euro
Tra Leonardo e Milano prosegue felicemente il sodalizio
Se in una pigra domenica sera emerge nel milanese un’incontenibile
voglia di visitare una mostra, quali
sono le proposte della città? Intorno
alle 19.30 non molte in realtà: Palazzo Reale così come i grandi musei del centro sono già in procinto di
chiudere. Una però attira l’attenzione, sarà per la posizione così
centrale o forse proprio per il fatto
che è ancora aperta.
Quella dedicata al genio di Leonardo Da Vinci, affacciata sulla Galleria
Vittorio Emanuele, è una mostra in
continua espansione che periodicamente si arricchisce di nuovi elementi frutto delle ricerche dal Centro
Studi Leonardo3, ideatore e organizzatore della mostra nonché
gruppo attento di studiosi. Se Leonardo produsse durante la sua vita
un’infinità di disegni e schizzi, L3 si
pone come obiettivo quello di studiare a fondo la produzione del genio tostano e renderla fruibile a tutte
le tipologie di pubblico con linguaggi
comprensibile e divulgativi offrendo
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
un momento ludico di intrattenimento educativo, adatto sia per bambini
che per adulti.
Quasi 500 mq ricchi di modelli tridimensionali e pannelli multimediali
che permettono realmente di scoprire le molteplici sfaccettature del
pensiero e dell’operato leonardesco:
macchine volanti o articolati strumenti musicali possono essere
smontate e rimontate; riproduzioni
del Codice Atlantico e di altri manoscritti sono tutte da sfogliare, ingrandire e leggere; ci sono giochi di
ruolo a schermo nei quali i visitatori
vestono i panni dello stesso Da Vinci. La produzione artistica non è dimenticata, anzi: un’intera sala è dedicata ai più famosi capolavori
dell’artista con un grande pannello e
due touchscreen dedicati al restauro
digitale dell’Ultima cena, alla Gioconda e a due autoritratti dell’autore.
Inaugurata nel marzo 2013, prorogata prima fino a febbraio 2014 e
ancora fino al 31 ottobre 2015, la
mostra ha superato le 250 mila visite imponendosi come centro attrattivo per turisti e cittadini. Un buon risultato, ma forse basso considerando l’alta qualità della mostra e la
posizione decisamente strategica. Il
successo di pubblico sarebbe stato
migliore (forse) con un maggiore
rilievo dato dalla stampa e dei social
network, e da un costo del biglietto
più calmierato. Ma c’è ancora tempo, e l’occasione giusta è alle porte:
non perdiamola e anzi, dimostriamo
che anche a Milano ci sono centri di
ricerca capaci di produrre mostre
interessanti senza necessariamente
creare allestimenti costosi ed esporre opere o modelli originali.
Leonardo3 - Il Mondo di Leonardo
1 marzo 2013 - 31 ottobre 2015
Piazza della Scala, Ingresso Galleria Vittorio Emanuele II Aperta tutti i
giorni, dalle 10:00 alle 23:00 compresi festivi Biglietti: 12/10/9 euro
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Il “re delle Alpi” conquista anche Palazzo della Ragione
Quella al Palazzo della Ragione non
è solo una mostra di fotografia sui
grandi spazi, come riporta il titolo, è
un’ode alle avventure e alle montagne di Walter Bonatti. 97 gli scatti
presentati in quella che si sta imponendo sempre di più come una sede espositiva di valore della città di
Milano.
Ma alle grandi fotografie del mondo,
alle riproduzioni audio e video si affiancano alcuni degli oggetti che
hanno da sempre accompagnato
Bonatti: gli scarponi di cuoio oramai
consunti, la Ferrania Condoretta,
una piccola macchina fotografica
che usò sul Petit Dru, e la macchina
per scrivere: una Serio, modello Everest-K2, che gli venne regalata
dalla stessa azienda produttrice
perché raccontasse la vera storia di
ciò che successe sul K2 nel 1954.
È forse grazie a quel dono che Bonatti prese ad affiancare all’alpi-
nismo e all’esplorazione delle vette
anche la narrazione. Acuto e attento
osservatore del mondo, Bonatti attraverso i suoi reportage darà voce
a realtà lontane appassionando i
lettori delle più grandi riviste italiane,
prima tra tutte Epoca.
Un uomo decisamente in controtendenza rispetto al contesto nel quale
viveva: nell’Italia post-bellica del
boom economico Bonatti sceglie
l’allontanamento dalla realtà per andare a scoprire mondi nuovi e inesplorati. Mai lo sfiora il pensiero di
rimanere, anzi torna sempre a casa
per raccontare il suo vissuto: da
ciascun viaggio porta con sé racconti, riflessioni e tante, tantissime
immagini per far sognare chi non
riesce a partire con lui.
Le immagini in mostra raccontano
dei grandi viaggi, della sua capacità
di errare solo e della sua grande
ammirazione per la potenza della
natura. Emerge anche una certa
consapevolezza di sé: durante i suoi
viaggi Bonatti escogita una serie di
tecniche con fili e radiocomandi che
gli consentono di essere non solo
parte delle proprie fotografie, ma
romantico protagonista, quasi ultimo
e affascinante esploratore del mondo.Una mostra che coinvolge il visitatore mescolando avventura, fotografia e giornalismo, giungendo a
delineare il profilo di un grande uomo che ha contribuito a fare la storia del Novecento.
Walter Bonatti. Fotografie dai
grandi spazi Palazzo della Ragione
Milano fino all'8 marzo 2015 - Orari
Tutti i giorni: 9.30 - 20.30 // Giovedì
e sabato: 9.30 - 22.30 La biglietteria
chiude un’ora prima dell’orario di
chiusura Lunedì chiuso Ingresso 10
euro
Marc Chagall porta la leggerezza a Palazzo Reale
Non si può essere a Milano
nell’autunno 2014 e non aver visitato la grande retrospettiva dedicata a
Marc Chagall, tale è stato il battage
pubblicitario che ha tappezzato
l’intera città. Non solo, ma Chagall è
anche uno di quegli artisti che rimangono nei ricordi anni dopo la
fine degli studi, che sembra facile
capire e apprezzare e per i quali si è
più predisposti a mettersi in fila per
andarne a vedere una grande mostra. Su questa scia è stato pensato
il percorso che ha condotto
all’ideazione della mostra, che
prende proprio le mosse dalla domanda “Chi è stato Marc Chagall? E
cosa rappresenta oggi?”
L’esposizione, a Palazzo Reale fino
al 1 febbraio, accompagna il visitatore in una graduale avvicinamento
all’artista; attraverso 15 sale e 220
opere si scopre l’artista affiancando
l’esperienza artistica alla sua crescita anagrafica. Uomo attento e profondamente sensibile al mondo che
lo circonda, Chagall, è figlio ed erede di tre culture con le quali si è
confrontato e che nel suo lavoro ritornano spesso: la tradizione ebraica dalla quale eredita figure ricorrenti, come l’ebreo errante, e immagini cariche di simbologie; quella
russa, sua terra natia dei bianchi
paesaggi e delle chiese con le cupole a cipolla, e quella francese delle avanguardie artistiche, incontrata
più volte durante i suoi soggiorni.
Queste eredità si manifestano in
maniera eterogenea e armonica in
uno stile che rimarrà nella storia per
essere solo suo: colori pieni di forma e sostanza, animali e uomini
coprotagonisti in una sinergia magica, l’atmosfera quasi onirica e
l’amore assoluto che ritorna in ogni
coppia raffigurata, quello tra Marc e
Bella Chagall e che intride di felicità
e leggerezza ogni altro oggetto raffigurato intorno a loro. Persino il secondo conflitto mondiale e poi la
morte dell’amata Belle paiono non
appesantire il suo lavoro, quanto
invece lo conducono a una maggiore profondità e pregnanza di significato.
L’immediato godimento della mostra, che potrebbe essere ostacolata dalla lunghezza e dal corpus così
importante di opere, è dato anche
dalla capacità didattica della audioguida e dei pannelli di mediare tra il
pensiero e il valore pittorico dell’artista e l’occhio poco allenato del visitatore. I supporti presenti in mostra contestualizzano in maniera
chiara il periodo e i lavori del pittore,
offrendo tal volta una descrizione,
tal volta un approfondimento nelle
voci della curatrice Claudia Zevi o
dell’erede dell’artista, Meret Meyer.
La mostra racconta anche la poliedricità dell’artista: attraverso i costumi, i decori e le grandi scenografie che l’artista ha realizzato per il
Teatro Ebraico Kamerny di Mosca
emerge lo Chagall sostenitore entusiasta e attivo protagonista in ambito culturale della Rivoluzione d’ottobre; nelle illustrazioni per le Favole di La Fontaine e nelle incisioni
per Ma vie (la sua autobiografia) si
incontra un altro Chagall ancora,
che non teme in nessun modo il
mettersi alla prova con qualcosa di
nuovo e diverso.
Uomo e artista che si fondono in
una personalità quasi magica che al
termine della percorso espositivo
non si può non apprezzare e che
sancisce, ancora una volta, il ruolo
dell’artista nella storia dell’arte moderna.
Marc Chagall. Una retrospettiva
1908 - 1985 - fino al 1 febbraio 2015
Palazzo Reale, piazza del Duomo
Milano - Lunedì: 14.30-19.30 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30-19.30 Giovedì e sabato:
9.30-22.30
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
[email protected]
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
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Malala Yousafzai con Christina Lamb
Io sono Malala
La mia battaglia per la libertà e l'istruzione delle donne
Garzanti 2013 pp. 284, euro 12,90
"Io sono Charlie" e "Io sono Malala",
due frasi simbolo. Per affrontare il
problema Islam e la sua compatibilità con i valori propri dell'Occidente.
In primis la libertà dell'individuo, che
affonda le sue radici millenarie nel
pensiero greco, romano, cristiano,
umanista, illuminista.
Malala Yousafzai è la sedicenne
pakistana insignita del Premio Nobel per la Pace 2014 per avere, difeso in comizi, interviste, e nel suo
blog in urdu, il diritto allo studio delle
donne. Delle donne della sua vallata, lo Swat, un giardino dell'Eden
sospeso tra montagne inviolate, ricche di smeraldi, ove vi sono numerose tracce di templi buddisti in rovina perchè qui transitò il Buddha. E
anche Alessandro Magno, che si
narra si avventurò fin sulla cima del
monte Elum per rapire la stella di
Zeus, Giove, dopo avere costruito
speciali catapulte in grado di raggiungere con le sue frecce il nemico
in fuga sulla cima del monte.
Malala, nomen omen, si riferisce
all'eroina afgana, novella Giovanna
d'Arco, che nel 1880 seppe ridare
fiducia all'esercito afghano in rotta,
sfilandosi il suo bianco velo e issandolo come una bandiera, sino alla
vittoria sugli inglesi.
Malala, figlia di Ziauddin detto il falco, fondatore di tre scuole, le Khursahl school, presso Mingora in Paskistan, (oggi contano 1200 alunni,
70 insegnanti) attivista a sua volta
per il diritto allo studio delle donne e
contro le discriminazioni. Fiero nemico dei Talebani infiltratisi dal vicino Afghanistan, che pretendevano
di tornare al medioevo, con la chiusura delle sue scuole, costruite tra
mille sacrifici, perché ritenute occidentali e infedeli. Quegli stessi Talebani armati e foraggiati dagli americani al tempo della guerra contro i
sovietici in Afghanistan,1979-1989,
perché ritenuti valido baluardo locale contro il nemico. E ora teorizzatori della jihad, come quinto pilastro
dell'Islam, dentro e fuori dei loro
confini, Europa compresa!
Malala dunque, degna figlia di suo
padre, luce dei suoi occhi, educata
come un maschio, che mai celava il
suo volto dietro un velo, prima della
classe in tutte le materie, compreso
l'inglese e le scienze. Lei che giocava a cricket sul terrazzo della loro
casa con i fratelli e che sognava di
diventare una ricercatrice scientifica
o una politica, non un'insegnante o
un medico come tutte le ragazze
sue amiche; e portava scarpe bianche, nonostante il bianco fosse riservato agli uomini. E che sin dagli
11 anni era in grado di affascinare il
pubblico con la sua oratoria, fino a
tenere a 16 anni un discorso dinnanzi all'Assemblea dell'ONU a New
York.
Il 9 ottobre 2012, una pallottola sparata da vicino da un talebano, mentre si trovava sul pulmino della
scuola, bloccato a un posto di blocco, le trapassò l'orbita dell'occhio
sinistro, le recise il nervo facciale, le
fece gonfiare il cervello, rischiando
di ucciderla sul colpo. Il ricovero
immediato presso il vicino ospedale
militare le salvò il cervello e la vita.
E solo il tempestivo trasporto successivo, sull'aereo privato del principe degli Emirati Arabi, alla volta di
Birmingham, in Inghilterra, rese possibile le ulteriori operazioni necessarie e la lunga riabilitazione.
Il libro, scritto a quattro mani con
l'importante giornalista internazionale Christina Lamb, ripercorre la vita
di Malala, e gli usi e costumi della
sua vallata, lo Swat, assimilato al
Pakistan nel 1969. Non solo dunque
la storia della sua famiglia, ma quel-
la del Pakistan sin dalla sua fondazione nel 1948.
E veniamo così a conoscere la straordinaria personalità del coraggioso
padre, che poté, per un colpo di fortuna, studiare allo Jenzaeb College,
la scuola migliore in loco, non in una
madrassa monotematica, e così
concepire l'idea di creare una sua
scuola ove tutti potessero studiare
l'inglese, pass partout per il mondo
intero. E incontriamo il buonsenso
della madre Tor Pekai, maturato in
una famiglia di predicatori colti e tolleranti. E il mondo di amici di ampie
vedute che ruotavano attorno a loro,
nel rito del the, proprio dell'ospitalità
pashtun, seduti sul tetto della casa,
la sera a parlare di politica e di "versetti satanici".
Ma intanto si allargava l'ombra scura dei Talebani, che solo dopo tre
anni di violenze e nefandezze, furono scacciati dal forte esercito regolare pakistano, lasciando dietro a sé
una scia di distruzioni e di morti. Ma
alcuni ancora soggiornavano nella
vallata, nascosti, pronti a colpire. In
questo clima pesante la famiglia di
Malala è costretta a emigrare nel
paesino del padre sulle montagne,
sperando che al ritorno sia tutto
terminato. Invano.
"Un bambino, un'insegnante, un libro e una penna possono cambiare
il mondo" usa dire Malala, ora residente in Inghilterra con la sua famiglia. Il Malala fund da lei creato ha
come obiettivo quello di far sentire
la voce di 64 milioni di bambine e
non, ai quali è negato il diritto allo
studio, in tutto il mondo. Per partecipare al dibattito v. in internet
www.facebook.com/MalalaFund.
Marilena Poletti Pasero
SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
[email protected]
Piccoli pezzi compongono il puzzle dei Kataklò
Tornano a Milano i Kataklò dopo
una tournée di due anni che li portati fino alla casa-madre del Nederlands Dans Theater (Olanda), il Lucent Dans Theater di Den Haag, e
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fino al Teatro Alfa di São Paulo e al
Teatro Municipal di Rio de Janeiro
(Brasile), dove sia il pubblico nordeuropeo sia quello del Carnevale
più famoso al mondo ha potuto ap-
prezzare i colori e lo spirito dei Kataklò.
Per il grande successo di pubblico e
critica che ha ottenuto lo spettacolo
Puzzle, i piccoli pezzi dal taglio uni-
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co si incastrano nuovamente per il
pubblico milanese al Carcano e inscenare un arlecchino di danze, nel
quale la danza si fonde con
l’acrobazia della ginnastica e l’esagerazione del circo per creare uno
spettacolo dai colori forti e contrastanti e dalle geometrie chiare e definite.
L’arlecchinata di Puzzle si delinea
su musiche varie, tratte da colonne
sonore di film, da melodie introspettive e ‘meditative’ di compositori del
nostro tempo e da musiche etniche
(percussioni africane, musiche ebraiche, etc.), mentre nelle coreografie una sfilata di creatività pura
lasciata - apparentemente - alla totale discrezione degli artisti. In realtà, un fil rouge si può seguire nella
specifica volontà della regista (Giu-
lia Staccioli, una campionessa di
ginnastica ritmica, fondatrice della
compagnia e dell’Accademia dei
Kataklò) di portare la ginnastica dalle arene olimpioniche al teatro,
mantenendo quella che è la peculiarità delle competizioni ginniche, la
successione ordinata delle squadre
con le relative esibizioni; facendo
così in modo che la ginnastica non
sia solo una nicchia per tecnici e
appassionati, ma venga aperta e
presentata al grande pubblico come
svago, mostrando espressione ed
emozione.
Lo spettacolo è suddiviso in due atti,
nove danze per ogni atto più un epilogo, e si configura come una antologia della danza del Novecento. Si
trovano i veli danzanti della Modern
Dance di Martha Graham, l’espres-
sività pura dionisiaca di Isadora
Duncan esasperata e ammodernata
nell’elemento circense, fino ad arrivare alla citazione del repertorio
classico (in una delle coreografie
compare un tutù nero in un pas de
deux contemporaneo) e a qualche
elemento del Tanztheater di Pina
Bausch. I sei danzatori (tre uomini e
altrettante donne) non si servono
solo del ritmo e del mimo, ma dalla
ginnastica e dal circo prendono a
prestito attrezzi come funi, nastri,
cerchi e clavette, pali prestati dalla
pole dance, nastri sospesi come
trapezi e altri elementi scenografici.
Domenico G. Muscianisi
In scena al Teatro Carcano di Milano dal 21 al 25 gennaio 2015
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
[email protected]
A Milano apre una nuova sala cinematografica
Il Teatro Martinitt in un momento
difficile per le sale inizia una nuova
avventura scegliendo di regalare al
suo quartiere, Lambrate, una sala
cinematografica. Dal primo febbraio,
dalla domenica al mercoledì, il sipario del Martinitt si apre sul grande
schermo, con proiezioni per tutti i
gusti, per tutte le età e per le scuole.
La sala sarà inaugurata mercoledì
21 gennaio 2015, con una giornata
di proiezioni no-stop dalle ore 10
alle ore 23. Alle ore 20 a ingresso
gratuito sarà proiettato il capolavo-
ro di Vittorio De Sica "Miracolo a
Milano".
Tutte le informazioni le potete trovare qui:
http://www.teatromartinitt.it/CINEMA
/index.html
La teoria del tutto
di James Marsh [Gran Bretagna, 2014, 123']
con Eddie Redmayne, Felicity Jones, Emily Watson, David Thewlis
Stephen Hawking è universalmente
conosciuto e riconosciuto come un
geniale scienziato affetto da una
malattia neurologica progressiva e
cattiva che fin da giovane, non solo
lo ha costretto su una sedia a rotelle, ma gli ha tolto l’uso della parola.
Questo film non racconta il suo essere un genio della fisica, ma la storia privata di Stephen e di sua moglie, conosciuta e amata quasi contemporaneamente alla rivelazione
della malattia a poco più di vent’anni, portando con sé la diagnosi, errata, di un’aspettativa di vita brevissima: due anni.
È la storia di Jane, lo sguardo di Jane sul suo compagno di vita, quel
ragazzo con cui ha condiviso per
poco la giovinezza sana, quell’uomo
a cui è stata accanto per anni per
amore. Per amore con lui ha fatto
tre figli e con lui ha sperimentato la
fatica quotidiana del convivere con
una persona geniale e ironica, dalla
mente vivace e velocissima, ingabbiato in un corpo che non gli rispondeva più, raccontando senza veli il
n. 3 VII - 21 gennaio 2015
loro stare insieme in un libro, ‘Travelling to Infinity: My Life With Stephen’, a cui il film è ispirato.
Il film parte dall’innamoramento del
giovane Stephen, ancora studente
di Fisica a Cambridge, interpretato
dal giovane Eddie Redmayne, per
Jane, studentessa di lettere, una
solare e bellissima Felicity Jones, e
accompagna il pubblico attraverso i
loro sentimenti e l’amore che cambia.
Una narrazione e una regia tradizionale non particolarmente originale che lascia tanto spazio alla bravura degli interpreti, sempre in perfetta
sintonia di sguardi e battute tra loro,
perfetti nel disvelare i personaggi
nelle loro debolezze oltre che nel
loro essere coraggiosi in modo diverso.
Il regista James Marsh, che ha vinto
un Oscar per il bellissimo documentario Man on Wire, sulla storia del
funambolo americano Petit, che attraversò il cielo di New York su una
fune, non osa quanto nel suo precedente lavoro, ma confeziona un
buon prodotto ben sostenuto sostenuto da una bella squadra di attori.
Un cast interamente inglese di
grandi professionisti, a cominciare
da Eddie Redmayne, attore inglese
con doppio passato, da giovane
modello e da attore shakespeariano, che ha compiuto un gran lavoro
su una scommessa difficile, tanto da
vincere il Golden Globe per il miglior
attore drammatico della stagione.
Sotto gli occhiali troppo grandi e
sempre storti, il suo sguardo velatamente ironico di non può non
conquistare lo spettatore portandolo
sempre a guardare ben oltre la
scompostezza del suo corpo in pieno decadimento fisico.
Perfetta, Felicity Jones, un volto da
attrice di hitchcockiana memoria,
che riempie lo schermo con il sorriso morbido e lo sguardo deciso.
Comprimari di spessore David Thewlis e Emily Watson, che con una
semplice battuta ‘molto inglese’, rivolta a Jane, dimostra tutta la comprensione di una madre attenta.
Fanno da bellissimo sfondo gli spazi
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universitari di Cambridge, con grande cura nei costumi e nelle sceno-
grafie che l’atmosfera accademica
degli anni ‘60/70.
IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
LA SEGRETA POESIA DEL TRAFFICO MILANESE
http://blog.urbanfile.org/2015/01/20/zona-san-cristoforo-la-citta-delle-auto/
DOPO I FATTI DI PARIGI
Don Virginio Colmegna: COSA CAMBIA DOPO IL 7 GENNAIO
http://youtu.be/q5VtZ8VOaos
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