qui - Il Foglio sas

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74B
I TETRAEDRI
DELLO SPAZIO
P. Schuyler Miller
dal 5 al 24 ottobre
MENSILE
I CAPOLAVORI
IL FOGLIO
cover
Cristiano Focacci Menchini
La luna d’argento chiazzato galleggiava nel cielo pieno di stelle, riversando
un flusso di luce pallida sul mare di
vegetazione verdazzurra che saliva in
un’onda lenta e possente, a infrangersi contro la cresta spumeggiante delle
Ande. L’ombra dell’aereo correva, laggiú
in basso, tuffandosi nelle depressioni e
risalendo le vette di quell’ininterrotto
mare di smeraldo che si estendeva a
perdita d’occhio. E le stelle — l’ammiccante Mira quasi a perpendicolo sulla
mia testa, una grande Fomalhaut che
sfolgorava sopra i monti lontani, e a sud
una schiera di esotiche stelle sconosciute, ardenti di un fuoco che noi del nord
conoscia-mo di rado — si raccoglievano come grandi lucciole intorno al polo
invisibile. Ma io badavo poco alla luna e
alle stelle e alla giungla inargentata, perché la notte mi aveva colto alla sprovvista, e non era semplice recapitare le
provvi-ste in una piccola ‘radura, contrassegnata soltanto da un ammiccante
fuoco da campo, perduta tra le giungle
brasiliane. Ma era proprio il Brasile? Lí
tre grandi stati si confondevano tra foreste, montagne e valli erbose: il Perú, la
Bolivia e il Brasile. Lí razze antichissime
avevano eletto la loro patria, eretto templi massicci nelle piccole valli, strappato
tesori alle montagne, donato la loro vita
alla giungla... un popolo di gran lunga
piú antico di quelli al di là delle montagne, che erano stati sotto-messi dagli
Incas. Lí non era mai venuto nessuno,
prima: ma adesso, nell’o-scurità sottostante, c’era una valletta ovale librata a
metà costa tra monti e foreste, e lí dovevano esserci le tende e i fuochi degli
scienziati, uomini del mio mondo. Dovevo scendere, volare in cerchio e lanciare il mio carico, e poi risalire nella
notte argentea come una grande falena
che sfuggisse alla fiamma, verso il mondo della luna e della giungla, per ritornare agli ordini del governo che mi aveva mandato, per ripiombare nella solita
routine del servizio aereo governativo,
dimenticando e perdendo per sempre la
luna e la giungla inargentata.
Ma dalle tenebre non saliva neppure
un bagliore di fiamma, né un baluginio
delle tende imbiancate dalla luna. Sotto la croce protesa dell’aereo passava il
mare ininterrotto verdescuro. Ci vuole
poco a mancare una piccola radu-ra, al
buio. Perciò, mentre la catena a occidente perdeva il suo allineamento, mi
abbassai e risalii, tornai indietro rombando, a quota piú alta, sopra le foreste
silenziose. Tuttavia avevo scorto uno
squarcio nella giungla: una cicatrice
aspra e nera lasciata da un grande fuoco
scaturito dalle viscere della terra, orrida
e truce nella dolce bellezza della notte.
Passò di nuovo sotto di me e quando
l’ombra dell’aereo svaní contro la sua
aspra oscurità, mi parve di scorgere un
movimento furtivo, un guizzo improvviso d’ombra contro la sua tenebra piú
fonda. Ridussi la velocità, per volteggiare e andare a vedere meglio, quando di
colpo l’aria intorno a me sfolgorò di un
cupo fuoco cremisi che azzannò il mio
corpo con la furia insopportabile dell’energia scatenata: il rombo dei motori si
spezzò e si spense, e precipitai roteando
verso l’argenteo mare sot-tostante! Cosí
come era venuta, la paralisi formicolante passò, e io potei correggere il tuffo
folle dell’aereo. danneggiato, staccai
l’accensione, e mi lanciai. Come in sogno, sentii lo strattone del paracadute
che si apriva, vidi l’aereo ab-bandonato
che, come un enorme pipistrello ferito,
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sbandava e sussultava e sbandava ancora in una lunga picchiata che si spezzò
e si impastò nella parte piú alta della
foresta. Poi solo il pesante moto pendolare del mio corpo ritmò i cupi secondi,
mentre pendevo sotto la cupola serica
del paracadute. E poi i rami fronzuti,
non piú argentei bensí simili ad artigli
famelici d’un nero orrore, si alzarono e
mi afferrarono. Piombai attraverso un
groviglio di liane e di rametti fragili,
in un’oscurità afosa e profumata dove
minuscoli esseri nascosti corsero via
frusciando nella notte e nel silenzio. La
foresta pluviale è come un tetto possente che si stende sopra le valli dell’America tropicale. I rami fittamente intrecciati nascondono al sole un mondo di
oscurità umida e putrida, dove grandi
serpenti chiazzati strisciano fra le radici
aggrovigliate, e liane ancora piú grandi strangolano i giganti delle foreste in
un’incessante lotta per la conquista della
luce. E in quei labirinti oscuri vi sono
piccoli esseri velenosi — feroci formiche dal morso di fuoco, lunghe cinque
centimetri, serpentelli minuscoli la
cui bellezza multicolore maschera una
morte atroce — creature delle cime degli alberi e del mondo splendido che le
sovrasta. All’aurora, un fulgore di vita e
di colori fiammeggianti emerge sopra il
tetto della giungla, la fiamma di un’orchidea o di un ara macao, e delle grandi
farfalle sgargianti. Sotto, si ravviva appena l’oscurità verde, trasformandosi in
una mezza luce in cui sembra stiano in
agguato e striscino e spiino vaghi orrori,
e le liane giganti si attorcono e si arrampicano su, su, verso la luce viva. E nello
strato piú basso c’è la morte e la putredine, l’opaco, fradicio tappeto di muffa e di
vegetazione putrescente dove grassi ver-
mi bianchi si rintanano nella loro cieca
paura e corrono enormi scolopendre. Il
sole era tramontato da un’ora quando
precipitai, ma solo quando ritornò io
riuscii a liberarmi e a districarmi dal
groviglio, come se anch’io ap-partenessi
alla giungla, e mi avviai verso il punto
dove la mia memoria ubica-sa del deserto, portando a un nuovo splendore
di vita il suo corpo gigantesco!
Poi, come per contraccolpo, dal vortice
torreggiante del capo zampillò un’esile,
finissima fontana di fuoco celeste e silenzioso, simile alla folgore artificiale
che scaturisce tra due elettrodi poderosamente energizzati... l’azzurro del
fuoco elettrico... gli avanzi del festino
del gigante. Come schiavi che si gettano
sulle briciole cadute dalla tavola del padrone, i dieci tetraedri minori si fecero
piú vicini. Mentre la loro fame selvaggia
si esprimeva con forza spaventosa, la
fontana di fiamma azzurra si suddivise
in dieci lingue sottili, a malapena visibili contro la roccia nera, che scesero sui
vertici dei dieci e, attraverso di essi, si
riversò fino all’orlo affollato della ruota
gigantesca, dove le sfere di fuoco cremisi stavano di nuovo salendo verso
un’altra esplosione! I globi cremisi si infransero, lanciando sull’orda un titanico
baldacchino di fiamma; e il gigantesco
padrone ne bevve il fulgore ardente.
La fontana dei rifiuti era diventata un
geyser di zaffiro scintillante, che saliva
a una trentina di metri nell’atmosfera
fremente e, piegato dalla fame rabbiosa
delle creature piú piccole, si incurvava
in una fulgente parabola sopra la ruota dei cristalli, piovendo su di loro e in
loro, rinnovandone la sostanza e la vita.
Infatti, mentre osservavo, ogni tetraedro cominciò a ingrandire visibilmente,
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raggiungendo con una crescita lenta,
orrida, una grandezza di poco inferiore a quella del loro capo gigantesco. E
mentre crescevano, il torrente di fuoco
azzurro impallidí e si spense, lasciandoli nell’avida attesa della fase finale! E
questa venne con sconvolgente rapidità!
In un istante, ognuno dei cen-to mostri
schierati esplose, si spezzò in quattro
cristalli che si sfaldarono a partire dagli
spigoli del tetraedro genitore. Rimase
una forma ottaedrica di cristallo trasparente, incolore e fragile, dalla quale
ogni vita si era allontanata per defluire
in quelle cose neonate... un guscio che
si accartocciò e cadde sotto forma di
una fine, scintillante polvere cristallina
sul fondovalle. Soltanto il gigantesco
comandante rimaneva immutato sotto
i raggi obliqui del sole. I cento cristalli
erano diventati quattrocento. I tetraedri
si erano riprodotti! Quattrocento cose
mostruose là dove un attimo prima ce
n’erano solo cento! Assorbendo la luce
del sole meridiano, succhiando la sua
energia per acquisire sostanza, gli esseri tetraedrici venuti da un mondo
alieno avevano il potere di travolgere
ogni resistenza con la sola loro capacità di moltiplicarsi! Contro cento di esse
o quattrocento, gli eserciti e la scienza
dell’umanità avrebbero potuto combattere con qualche possibilità di successo,
ma se ognuna di quelle creature .invulnerabili poteva quadruplicarsi ad ogni
transito del sole a mezzogiorno, non
c’era piú speranza! L’uomo era spacciato! Sul promontorio sporgente alla mia
sinistra, sentii una nuova attività. Gli
indios stavano cantilenando, in bizzarri toni sommessi, al ritmo di un grande
tamburo dal suono profondo. Era un
inno o una supplica monocorde ai loro
antichi dèi... gli dèi che adesso erano
personificati nei cristalli. Oltre lo schermo della vegetazione, intravvidi il capotribú, che sovrastava gli altri di tutta la
testa: a braccia levate, dirigeva l’esortazione. Le voci si levaronb, poi si spezzarono in un clamore rabbioso quando
una dozzina di altri indios ir-ruppero
dalla foresta, trascinando la figura legata di un bianco... Marston! Dovevo
portarmi piú vicino. Lí, separato da una
trentina di metri di spazio vuoto e da
un doppio schermo di liane intrecciate,
non osavo sparare per timore di uccidere anche l’amico insieme con i nemici!
Mi addentrai nell’intrico, impugnando
la mitragliatrice. Se non fossero stati
troppo assorti nel selvaggio rituale, gli
indios avrebbero udito senza dubbio il
rumore da me fatto mentre avanzavo,
avventandomi alla cieca nel sottobosco e dimenticando ogni prudenza! Per
caso o per fortuna il groviglio era meno
fitto che al-trove, e irruppi nella radura
appena in tempo.
Nonostante l’ipocrisia e il tradimento,
Valdez aveva detto la verità a proposito
delle antiche usanze e dei sacrifici. La
figura enorme di Marston era distesa
su una lastra rotonda di roccia levigata,
al centro della radura, e i piccoli uomini della foresta gli stavano addosso per
tenerlo fermo. Con le braccia levate in
atto di supplica, il capo gli stava accanto,
con il viso distorto da qualcosa che non
era soltanto la paura degli dèi e la frenesia del sacrificio! L’odio e una rabbia
terribile erano impressi sul volto bronzeo, trasformandolo in una maschera
diabolica. E nel pugno stringeva un
coltello d’acciaio lucente, un coltello che
mezz’ora prima era sepolto nella terra
nera della foresta... il coltello di Valdez!
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Il capo stava innalzando ancora il suo
canto di dedizione e di sacrificio, urlato
al ritmo tonante del tamburo, secondo
la tradizione del Vecchio Popolo che
aveva preceduto gli Incas! Salí di nuovo
in un crescendo di adorazione frenetica e di odio profondo.. sali in un urlo
folle e si spezzò mentre il suo braccio
piombava verso quella gola barbuta!
Con una sghignazzata selvaggia, la mia
mitragliatrice ridestò gli echi, avventando là morte di piombo attraverso la
radura, falciando vite umane in un sacrificio terribile, quale nessuna mente
di selvaggio poteva ideare! Attraverso
una foschia sanguigna vidi i corpi scuri
schiantati e scagliati via dalla violenza dei proiettili che strappava la carne
indifesa dalle ossa spez-zate e bagnava
di sangue fumante l’altare e la scarna
figura che vi era distesa! La sete del sangue era in me, mentre straziavo le loro
file sbigottite con quella morte ridente:
poi un nastro di munizioni terminò, e
mentre cercavo di montarne un altro i
pochi superstiti atterriti fuggirono urlando al riparo nella giungla! Ritornò la
ragione, e con essa l’orrore per il massacro che aveva compiuto, e insieme la
paura tremenda di avere ucciso anche
il mio amico, in quella furia irrazionale! Inciampando tra quei miseri resti
insanguinati, attraversai correndo la
radura dimenticando la mitragliatrice!
E quando’ io raggiunsi il rozzo altare su
cui era disteso, Marston, infradiciato di
sangue, si sollevò e si scosse di dosso i
cadaveri che l’avevano coperto. Si mise
a sedere e brontolò, ironico: — Sei sicuro di averne ammazzati abbastanza per
oggi? O non sapevi che la mitragliatrice
era carica? — Marston! —gridai, freneticamente. — Tutto a posto? Ti ho col-
pito? — Oh, no. Sono illeso. Sei un pessimo tiratore, se ci tieni a saperlo. Hai
fatto tutto quello sconquasso e non sei
riuscito a beccarmi! Però non posso dire
che tu non ce l’abbia messa tutta. Te la
sei cavata bene con gli spettato-ri innocenti, e naturalmente, un buon cittadino
deve pensare prima al pubblico.
In realtà, lo avevo colpito a un braccio
— solo una scalfittura, per fortuna — e il
sangue che aveva addosso non era tutto
degli indios. Comunque, le sue espressioni sarcastiche raggiunsero lo scopo e
mi strapparono al mio stato di semi-isterismo, che non sàrebbe stato utile a
nessuno, restituendomi a una lucidità
in cui potevo almeno parlare senza delirare come un pazzo. Solo quando ci
fummo allontanati dall’altare, Marston
mi parlò di Valdez. — Cos’è successo?
— chiese. — Valdez è scappato? — Ci si
è provato — risposi, tetro. — Aveva nascosto il carico dell’aereo lungo una pista che porta lontano da qui e... beh, non
ho voluto dargli retta, lui ha tirato fuori
la pistola, e abbiamo liquidato la faccenda. Gli ho spezzato il collo... l’ho ucciso.
— Non ti biasimo. Me l’immaginavo, e
credo che si sia trattato di scegliere... tu
o lui. Ma ha scatenato gli indios. Sapevi
che era un mezzosangue? Egli diceva di
essere un indio puro, figlio di un capotribú della giungla e di una principessa
discendente dal Vecchio Popolo, ma era
un mezzosangue, e incrociato nel modo
sbagliato! Bastava fargli capire di avere
intuito la verità, e diventava una bestia.
L’ho visto io stesso ridurre in poltiglia la
testa di un uomo perché quello, un mulattiere portoghese, sosteneva di essere
un suo parente... per parte di madre!
Valdez era uno deisacerdoti, aveva ereditato la carica dal padre, e immagino
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che abbiamo trovato il suo cadavere.
Homby però non lo sa, e se fossi in te
darei la colpa agli indios... a quelli morti. Chiaro? — Mi pare. È andata come
hai immaginato tu. L’ho colpito al collo
con una grossa liana, troppo forte. Ma
come hanno fatto a prenderti? — Te l’ho
detto, sospettavo di Valdez. Ho cercato
di seguirvi, e quelli mi sono piombati
addosso, a sud di qui, vicino al canalone. Dovevano avere trovato da poco il
cadavere, perché erano furibondi. Ma
credo che il professore sia salvo. Ti rendi conto che con questo sistema di riproduzione sono capaci di arrivare dove
vogliono... di fare di questo pianeta un
posto ideale per i tetraedri? Il professore ha calcolato che vengano da Mercurio... sovraf-follato, probabilmente, a
causa di questo sistema di riproduzione
all’ingrosso: per questo sono in cerca di
nuovi alloggi. Non so quante speranze.
abbiamo di liquidarli... probabilmente
un quarto di quelle che avevamo un’ora
fa. Ma sono ben scarse, armati come siamo. Hai preso l’altra mitragliatrice? — È
nel nascondiglio, con quasi tutti i viveri,
se gli indios non l’hanno trovato quando hanno scoperto Valdez. Ho qui una
mappa: l’aveva fatta lui. — Bene. Vediamola. Tu tieni d’occhio il professore,
domani, adesso che gli indios cercano il
sangue, e io porterò la roba al campo.
Adesso che li so ostili, terrò gli occhi
aperti e ti garantisco che non mi prenderanno più alla sprovvista. Andiamo..
. cerchiamolo subito, finché quelli sono
ancora terrorizzati. — Aspetta, Marston
risposi. — Vai a prendere subito la roba.
Ho l’im-pressione che ci servirà presto.
Posso trovare da solo il professor Homby, e non credo che gli indios avranno
voglia di altri guai, per un po’. — Hai
ragione! — esclamò lui. — Arrivederci,
allora. — E si avviò per la mia pista.
Capitolo 4. Senza scampo
Non faticai a trovare il professore. Anzi,
fu lui a trovare me. Stava ribollendo per
l’eccitazione, perché aveva visto qualcosa che noi non avevamo veduto. Hawkins! — esclamò, afferrandomi con
forza la spalla, — li ha visti riprodursi?
È straordinario... assolutamente senza
precedenti! Che rapidità... e, Hawkins,
non è necessario che si ingrandiscano
prima di scindersi. Ne ho visti due che
si dividevano e si dividevano ancora
in tetraedri di sette centimetri... e sono
diventati piú di un migliaio! Ci pensi, Hawkins! Se cominciano, possono
travolgere il nostro piccolo pianeta in
pochi giorni! Siamo spacciati! — Penso
che abbia ragione, professore — risposi.
— Ma mi dica... ha visto gli indios? —
Gli indios? Sí... sembra che sia successo
qualcosa, Hawkins. Sembra che abbiano
perduto la loro venerazione per i tetraedri. Queste tribú non usano dipingersi
molto, ma quelli che ho visto io avevano i colori di guerra, e un vecchio stava
maledicendo i tetraedri dall’orlo della
foresta, accalorandosi in una frenesia di
invettive. Adesso forse resisteranno, se
i cristalli cercheranno di fare qualcosa.
— Marston sarà felicissimo di saperlo!
Per ora, credo che faremmo bene a dirigerci verso le alture oltre il canalone,
dove la loro fiamma piú difficilmente
potrà raggiungerci. La lascerò là, e andrò a cercare Marston e le mitragliatrici.
Ne avremo bisogno presto, immagino.
— Benissimo, Hawkins. Mi sembra una
buona idea, e sono felice che lei abbia
trovato l’aereo. Ma dov’è Valdez? Con
Marston? — No. È morto. — Morto?
Vuol dire... gli indios? — Uhm. C’è
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mancato poco che facessero fuori anche
Marston, ma io avevo una delle mitragliatrici. Venga, andremo a prenderla, e
anche lo zaino con i viveri, e trovèremo
un posto dal quale potremo osservare
quel che succede, restando relativamente al sicuro. Mi segua. Trovammo una
fortezza ideale, sulla sponda occidentale
del canalone, dove uno sperone scendeva verso la valle dei tetraedri. Era stato
usato come posto di vedetta dagli antichi abitanti della zona, quando grandi
città di pietre tagliate sorgevano nelle
valli attualmente soffocate dalla vegetazione. Re-stavano ancora tratti delle antiche mura, che formavano un discreto
baluardo difensivo; lasciai il professor
Hornby con la mitragliatrice a tenere il forte, e andai in cerca di Marston.
Non faticai molto a trovarlo, e insieme
trasportammo le provviste dal nascondiglio alla fortezza, mentre il professore
montava la guardia. Per la verità, era
occupato soprattutto a scavare nell’antico strato di cocci e di utensi-li lasciato
dagli abitanti del passato. Spiegò che
l’ondata d’immigrazione del Pleistocene
proveniente dall’Asia, attraverso l’Alaska
e l’America settentriona-le, si era divisa
a Panama spingendosi poi ai due lati
delle Ande. A occidente, lungo la costa,
erano nate le antiche civiltà americane,
culminate con gli Incas. A oriente, c’erano gli indios delle foreste, gli esseri selvaggi delle fitte giungle, simili a quelli
che conoscevamo noi. E lí, al confine tra
le due. zone, Hornby stava cercando l’anello di congiunzione. Forse l’aveva davvero trovato. Ma non eravamo destinati
a saperlo. Passarono due giorni prima
che iniziassero le ostilità. Nel frattempo, avevamo trovato il relitto dell’aereo,
pressoché intatto, ma del tutto inservi-
bile in quella giungla fitta. Vuotammo i
serbatoi della benzina, la versammo in
grosse giare di ceramica dipinta che il
professor Hornby aveva trovato intatte
in una nicchia al di sotto del livello del
suolo attuale. La sua idea era com-battere il fuoco con il fuoco, sgombrando
tra l’altro uno spazio intorno allo sperone su cui stava il nostro fortino, in
modo che potessimo vedere che cosa
ci si preparava, in caso di guai. Marston
e io ripulimmo gli arbusti meglio che
potemmo, e incidemmo tagli profondi
negli alberi piú grossi, nella parte bassa
del pendio. Un contro-fuoco è sempre
una faccenda delicata, in una foresta,
ma noi ci riuscimmo, ammucchiando i
cespugli che si asciugavano rapidamente all’estremità opposta dell’area falciata,
innaffiandoli con la benzina e poi rintanandoci in uno degli scavi del professore mentre infuriava l’incendio. In un
clima piú secco non ce l’avremmo fatta
a sopravvivere. Lí, spianammo la fitta
foresta per circa sessanta metri da ogni
lato, prima che l’incendio si spegnesse,
lasciando un ammasso di vegetazione
carbonizzata che serviva benissimo a tenere noi dentro e gli altri fuori, e a sbarazzare la visuale. È possibile che il nostro fuoco sia servito anche a provocare
l’attacco dei tetraedri. Di sicuro, posso
dire che il mattino dopo c’era un’attività
piú intensa nella loro sacca di rocce. Prima del tramonto, spianarono un’ampia
fascia circolare di foresta. A mezzogiorno, banchettarono di nuovo con i raggi
del sole, e ormai la valle annerita brulicava delle loro figure spigolose, grandi
e piccine: molti parevano essersi moltiplicati senza crescere, come li aveva già
visti fare il professore. E poi, radunato
il loro esercito devastatore, i tetraedri
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cominciarono la conquista della Terra!
In ampie ondate di orrida distruzione,
con raggi di fiamma gialla che guizzavano dagli apici, i loro torrenti di energia
spazzarono la giungla, e neppure la sua
umida oscurità poté resistere. I possenti giganti della foresta crollavano sotto
la fiamma gialla, riducendosi in cenere finissima prima ancora di toccare il
suolo. Le liane giganti si contorcevano
come serpenti torturati, mentre la linfa
si vaporizzava in quel calore tremendo,
e cadevano morte e giacevano in lunghe
spire grige sulla roccia spoglia del fondo
della foresta... una roccia che assumeva
rapidamente lo stesso aspetto vetroso
della valletta, fusa da un calore quale
la Terra non aveva mai conosciuto. A
sera, il nostro sperone di pietra era una
penisola solitaria, un’o asi in un deserto
nero e aspro, una vetta che i tetraedri,
per qualche ragione sconosciuta, non
avevano ancora tentato di raggiungere.
Ormai potevamo constatare quali fossero i loro piani di conquista, e il nostro cuore si stringeva al pensiero della
nostra razza, perché mentre una metà
dell’esercito tetraedrico si impegnava
nella devastazione, l’altra metà si nutriva e si riproduceva sotto i raggi del sole.
Ogni giorno, dozzine di miglia quadrate si aggiungevano al loro dominio
infernale e migliaia di nuovi tetraedri
accrescevano il loro esercito snaturato.
Ormai potevamo vedere che, sempre
piú numerosi, sceglievano il secondo sistema, scindendosi in schiere di minuscoli esseri lunghi sette centimetri che,
nel giro di pochi giorni, raggiun-gevano la grandezza normale, e il giorno
successivo potevano riprodursi ancora! Era spaventoso: ma ormai eravamo
isolati senza speranza: eravamo come
un’isola in un mare di roccia nera, per il
momento non ancora toccata dal fuoco
devastatore, ma ormai del tutto incapaci
di salvare noi stessi e il no-stro inondo.
Se si eccettua la vegetazione che distruggevano con tanta metodicità, i tetraedri
mercuziani — il professor Hornby giurava che fossero tali, e in se-guito lo potemmo accertare — non erano ancora
entrati veramente in contat-to con gli
esseri viventi del nostro pianeta, e tanto meno con il suo padrone, l’uomo. Il
culto degli indios era stato tributato da
lontano, e noi ci guardavamo dal provocare i visitatori venuti dallo spazio.
Poi tutto cambiò, e, per cosí dire, su
un binario doppio. Cominciò con gli
indios. Finí con noi. Ora che eravamo
isolati dalla giungla, non sentivamo piú
l’inquietudine e l’attività degli abitanti
della foresta. I loro dèi li avevano traditi, e forse ades-so li consideravano diavoli: il sacrificio era stato interrotto e i
loro uomini piú importanti erano stati
massacrati senza pietà dagli uccisori del
loro fratello per metà bianco. Tutta la
loro vita e le loro leggende erano state
sovvertite. La colpa era dei tetraedri, e i
tetraedri dovevano pagare! Gli invasori
non iniziavano il programma quotidiano di distruzione prima che il sole fosse
alto. Negli ultimi tempi, gli abitanti della
foresta erano di-ventati esseri notturni,
e Marston ci svegliò intorno a mezzanotte: per assistere allo spettacolo, come
disse lui. In effetti, ci rendevamo conto
che quanto stavano per fare gli indios
sarebbe stato d’importanza vitale anche
per la no-stra situazione. Le sfere erano
troppo piccole, ormai, per ospitare tutte
le schiere dei tetraedri, i quali giacevano affollati in grandi ovali tutt’intorno;
dormivano, se si può dire che quelle
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cose dormano. Il primo indizio dell’attacco fu un piccolo fuoco di foglie e di
rametti acceso sopra il canalone, ora intasato dalle lastre di roccia distaccatesi
dalle sue pareti per il calore terribile. Si
vedeva a malapena: era piccolissimo,
ed era stato acceso per qualche scopo
magico. Poi si levò una bassa cantilena
lamentosa, che rapidamente crebbe di
veemenza e d’odio furioso: una maledizione per annientare gli invasori là dove
si trovavano. Il professore Hornby era
sbalordito dal fondamento di leggende
e di superstizioni enormemente antiche
che quel canto rivelava; e all’improvviso
la cantilena si spezzò in uno stridulo,
senile balbettio insensato! La tensione
era troppo forte, e il vecchio sacerdote
non aveva retto. Quasi in risposta a un
segnale, fuochi piú grandi si accesero
sui pendii della valle, e in quella luce vedemmo gli indios avanzare dal limitare
della foresta: erano migliaia, giunti da
grande distanza attraverso i sentieri della foresta, e adesso correvano alla battaglia con tutto il fanatismo rabbioso della
fede oltraggiata! Era una marea di umani urlanti, che si riversava dai pendii di
roccia nera per infrangersi sui tetraedri
addormentati! Eppure, quando l’ultimo
indio irruppe dal riparo della giungla, si
vide che il contingente degli aggressori
era penosamente piccolo, in confronto
alle schiere degli aggrediti. Come una
grande città di nere tende tetraedriche, i mercuziani, illuminati dalla luna
fioca, sembravano ignari dello sciame
dei selvaggi, guidati dal sacerdote delirante,. che si avventava su di loro. Ma
in realtà non erano affatto ignari! Fui il
primo a notare la fioca, rosea luminosità che aleggiava sulle schiere silenziose:
una luminosità simile a quella che ave-
va abbattuto il mio aereo. Lo bisbigliai
a Marston, ed egli mi disse che prima
non c’era, che i tetraedri dovevano essere svegli e in attesa. Aveva ragione. La
luminosità rossa si andava espandendo
rapidamente sul fondo della valle; ma
doveva essere stata preceduta da un’altra emanazione, invisibile; perché vidi il
vecchio sacerdote vacillare, percuotere
con i pugni un muro invisibile, e poi
cadere con un urlo soffocato e rimanere immobile. Ora, tutt’intorno alla
valle, i selvaggi avanzanti incontravano
quella lenta muraglia invisibile di morte: l’incontravano e cadevano. I corpi si
ammucchiavano nello slancio scatenato
delle orde degli uomini rossi. Pietre,
frecce, lance volavano nella nebbia rossa sempre piú densa, e andavano a sbattere, innocue, contro i tetraedri immoti! Ma l’attacco non era innocuo come
sembrava, poiché qua e là scaturiva un
guizzo di fiamma celeste quando uno
dei cristalli piú piccoli veniva schiacciato da una pietra! Erano resistenti, ma la
loro epidermide cristallina era sottile, e
una pietra ben scagliata poteva infrangerli. Non erano invulnerabili! Anche
gli indios lo compresero, perché abbandonarono lance e frecce e lanciarono
una grandine di pietre, grandi e piccole,
sui tetraedri, causando perdite sensibili tra quelli che non avevano ‘ancora
raggiunto proporzioni considerevoli.
I selvaggi stavano gridando di trionfo,
adesso, esaltati dal successo, e rallentavano l’intensità dell’attacco, ma la barriera invisibile continuava ad avanzare,
spargendo la morte lungo il loro fronte:
subito dopo, veniva la luminosità rosea
che dissolveva i cadaveri in una finissima cenere bianca; questa svaniva a sua
volta nel rosseggiare che si addensava.
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La cerchia urlante degli aggressori si
stava diradando in fretta, eppure non
si erano ancora resi conto dell’inutilità
dell’attacco; poi all’improvviso i tetraedri abbandonarono la difesa per passare
al contrattacco! La causa era evidente.
Cinque indios, dall’alto del pendio, avevano spinto su di loro un enorme macigno rotondo, che era rimbalzato tra le
rocce come una cosa viva ed era andato
a urtare il fianco di un grande tetraedro,
alto due metri e mezzo, schiantandolo
e liberando l’energia accumulata in un
tor-rente accecante di fiamma azzurra
che era ricaduta sui cornicioni vicini,
fon-dendoli in una pozza fumante e
incandescente di lava, splendente e orribile nella semioscurità. Era troppo!
L’attacco insensato era divenuto un’autentica minaccia per i tetraedri, che passarono subito alla rappresaglia. Fecero
scatu-rire dai loro apici le gialle saette
fiammeggianti della distruzione. Allora
gli indios ruppero le file e fuggirono davanti all’orda avanzante: ma erano fuggiti troppo tardi, perché i tetraedri erano
infuriati e non concedevano quartiere.
Le lingue di fiamma gialla guizzavano,
piombavano sui selvaggi in fuga e li
bruciavano in un attimo, abbattendoli
sulla roccia fumante, ridotti a orrori informi, poi il mare scarlatto li avvolgeva,
dissolvendoli in cenere. Gli indios parevano nuotare in un mare giallo, e quando quel mare li toccava, sparivano in un
attimo. Davanti a quello sbarramento
spaventoso non poteva resistere nessun
essere vivente! All’improvviso la tragedia si spostò nel nostro rifugio, quando
un gruppo di indios corse a ripararsi
sullo sperone roccioso. Come grosse
scimmie brune si arrampicarono sulle
pareti perpendicolari, verso la nostra
fortezza, e si rintanarono nel groviglio
dei detriti carbonizzati del nostro. controfuoco. Erano uomini come noi, un
immediato pericolo di vita, e Marston e
Hornby balzarono al parapetto, gridando loro qualcosa nel loro dialetto. Ma i
selvaggi spaventati non conoscono amici, e la loro risposta fu una pioggia di
lunghe frecce che fecero cadere il professore riverso tra le mie braccia: Marston, bestemmiando, corse a prendere
le mitragliatrici. A labbra strette, sparò
sul pendio roccioso una raffica sibilante
di pallottole mortali, falciando i selvaggi
impaz-ziti, cosí come io avevo fatto nella radura del sacrificio! Quando gli altri
ci videro, la loro follia si scatenò di nuovo: interruppero la fuga per avventarsi
sul nostro fortino, con le voci levate in
insulti frenetici!
Adagiai il professor Hornby al riparo di
un muro, presi l’altra mitragliatrice e
aprii con un calcio una cassetta di munizioni:. poi raggiunsi Marston per aiutarlo a difendere il forte. La prima volta
avevo avuto dalla mia parte la sorpresa e
la superstizione; ma adesso eravamo in
due contro un gruppo di fanatici esasperati, e i rischi erano grandi. Avanzavano come locuste, con gli occhi iniettati di sangue, i denti snudati in una
smorfia di odio... belve della giungla,
avide di uccidere! Furono i detriti del
nostro controfuoco, ammassati in una
fascia intrecciata intorno allo sperone,
quelli che ci salvarono, perché lí la folle
carica dovette arrestarsi e le nostre mitragliatrici causarono perdite pesanti. E
non eravamo soli: udii un colpo di fucile, e capii che il professor Hornby stava
difendendo il cornicione che si estendeva, dietro di noi, fino a raggiungere le
montagne. Credo comunque che la no9
stra difesa sarebbe stata travolta, se non
fosse stato per i tetraedri. Si erano subito resi conto che gli indios stavano combattendo contro qualcun altro, e avevano volto la cosa a loro vantaggio,
aggirando lo sperone per tagliare un’eventuale seconda ritirata, e poi lanciando l’ardente fuoco giallo contro la retroguardia
dei
selvaggi
urlanti,
liquidandoli con la stessa facilità con cui
un formichiere inghiotte le formiche.
Bastarono pochi minuti perché anche
l’ultimo indio giacesse, trasformato in
cenere grigia, sul pendio roccioso della
scarpata. Per un momento la situazione
rimase in bilico. Noi ci fermammo per
valutarla: tre uomini con fucile e mitragliatrici contro migliaia di tetraedri armati di folgori. Hornby si era lasciato
cadere contro il muro basso, ad occhi
chiusi, il corpo scarno squassato da colpi di tosse che gli facevano sgorgare fiotti di sangue dalle labbra contratte. Una
freccia gli aveva trapassato un polmone.
Marston gettò a terra la mitragliatrice
fumigante e afferrò un fuci-le. Lo imitai.
Per circa due minuti le forze rivali rimasero in silenzio e in attesa. Poi i mercuziani presero l’iniziativa. Le gialle lingue
di fiamma salirono lentamente il pendio, su, su, verso il nostro rifugio sulla
vetta. Quindi cominciarono ad avvicinarsi da ogni parte, iniziarono l’ascesa.
Cominciammo a sparare: non c’era dubbio circa la loro vulnerabilità, perché
dovunque i proiettili di piombo rivestiti
d’acciaio arrivavano a segno, il cristallo
sottile andava in schegge, e la notte si
illuminava del bagliore dell’energia liberata, il sangue vitale dei tetraedri! Non
potevamo salvarci, ma almeno avremmo Causato danni non indifferenti.
Dalla retroguardia giunse un cupo rom-
bo di tuono, e nella luce fioca della nebbia rossa vidi il gigantesco comandante
dei mercuziani, sull’orlo del precipizio
sovrastante la valle, impegnato a dirigere l’attacco. Lo sbarramento di fuoco
giallo cominciò a salire tra le rocce, verso di noi, e nello stesso istante un piano
vago, confuso, prese forma nel mio cervello. Alzai il fucile e sparai: non contro
quel fronte avanzante, ma piú oltre, in
mezzo all’orda, dirigendo a poco a poco
i miei colpi verso il colossale comandante, e centrando un mostro spigoloso
dopo l’altro, sempre piú vicino al punto
in cui esso stava acquattato. Poi lo vidi
arretrare davanti al mare di fiamme che
erompeva intorno a lui mentre i suoi
guerrieri cristallini cadevano: e allora io
abbattei, uno dopo l’altro, anche quelli
verso cui si stava ritirando, chiudendolo
in un cerchio di morte, minacciandolo
senza colpirlo. Non saprei dire perché
non cercammo di distruggerlo: Marston
mi aveva subito imitato, trascurando la
minaccia delle fiamme che si affievolirono e si spensero non appena i tetraedri
si resero conto del significato della nostra sparatoria. In qualche modo, intuivamo che era piú saggio risparmiare il
capo, e quell’intuizione fu esatta. Per un
attimo esitò, poi lanciò un ordine tambureggiante, e le schiere dei tetraedri
arretrarono lentamente, lasciandoci al
sicuro. Rimanemmo cosí per otto giorni, virtualmente prigionieri. Il terzo
giorno mori il professor Hornby: e fu
un bene, perché soffriva orribilmente.
Era il sole che comprendeva veramente
i tetraedri, e non sapremo mai come
avesse dedotto che provenivano da Mercurio, come dimostrò in seguito Marston. Anche i dati archeologici raccolti
dalla spedizione sono andati perduti,
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poiché Hornby e Valdez erano morti
entrambi, e non potemmo portare nulla
con noi. I tetraedri ci lasciarono stare,
impedendoci la fuga con quella nebbia
d’energia rossa, che si estendeva su per il
pendio fino ad una quota superiore a
quella della sella collegata alle pendici
delle montagne. Nel frattempo, con-tinuarono a devastare la giungla, miglio
per miglio, giorno per giorno. Li avevamo visti avanzare lentamente, attraverso i binocoli, e avevamo notato il loro
stupore assai umano quando avevano
bruciato il manto di vegetazione che copriva la grande città in rovina, la meta
della spedizione. Era la loro prima vera
esperienza delle opere dell’uomo, e suscitò un gran movimento. Guidati dal
gigante purpureo, si aggirarono per i
labirinti in rovina, studiandone ogni
nicchia ed ogni angolo. Lí c’era la prova
che la Terra ospitava una civiltà, e che
potevano attendersi una seria opposizione. Non credo che si rendessero mai
conto del fatto che la nostra modesta
difesa era uno specchio fedele di quanto
poteva fare quella civiltà. Piú tardi,
quello stesso giorno, trovarono anche il
relitto dell’aereo, e sta-volta si diffuse tra
loro un’autentica costernazione. Quella
era una macchina, evidentemente prodotta dalla civiltà da loro temuta. E per
giunta era di fabbricazione recente,
mentre la città era antica. Poteva significare che venivano spiati, che gli esseri
invisibili dell’ignota razza dominante
stavano in agguato nell’oscurità della
giungla, in attesa, con le loro macchine
da guerra, i loro congegni di distruzione? Per la prima volta da quando erano
discesi sulla Terra, i tetraedri si trovavano di fronte all’ignoto: credo che cominciassero a spaventarsi. La valletta
costituiva ancora il centro della loro attività, ed ogni giorno, quando il sole saliva al sommo del cielo, li vedevamo riprodursi, vedevamo crescere le orde che
avrebbero travolto la nostra razza e il
nostro pianeta, trasformando quest’ultimo in una cosa morta come quella piccola sacca sul versante orientale delle
Ande. Ormai, attorno a noi c’era sempre
un doppio cerchio di tetraedri, e il mare
d’energia cremisi si levava alto verso la
nostra prigione. Il gigante che li comandava veniva spesso a osservarci, a fissare
con occhi invisibili noi e la nostra fortezza. Ci eravamo abituati al loro linguaggio tambureggiante, e io pensavo
che, se ne avessimo scoperto la chiave,
non sarebbe stato difficile da comprendere. Marston pareva affascinato da
quegli esseri e dal loro comportamento.
Appena sopra il limite della foschia rossa c’era una fonte, dove andavamo ad
attingere l’acqua, ed egli stava là seduto
anche un’ora intera, il piú possibile vicino ai cristalli, a osservarli e ad ascoltarli.
Lo vedevo dondolarsi al ritmo di quel
linguaggio tonante, vedevo le sue labbra
muoversi in una lenta reazione, e mi
chiedevo se non fosse impazzito. Da
quando Marston mi aveva accennato
alla teoria del professor Hornby, secondo cui quegli esseri erano mercuziani,
avevo cercato il modo di accertar-lo.
Adesso che conoscevamo un po’ meglio
i tetraedri, mi chiedevo se non si potesse riuscire, in qualche modo, a indurli a
darci quella prova. Pensai ai racconti
che avevo letto e che parlavano di comunicazioni interplanetarie, di telepatia, di associazioni di parole, di linguaggi dei segni. Mi erano sembrati tutti
assurdi e impossibili da realizzare, ma
decisi di fare una prova. Nella struttura
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della torre di guardia c’erano delle pietre
abbastanza tenere, e poiché Valdez aveva recuperato dall’aereo la mia cassetta
degli utensili, disponevo di un martello
e di uno scalpello. Armato di questi
strumenti e di un ricordo abbastanza
approssimativo, mi accinsi a preparare
un rozzo diagramma in scala dei pianeti
interni, basandomi sulla teoria del professore. Incisi solchi circolari per le orbite dei quattro pianeti minori, Mercurio, Venere, la Terra e Marte, e scavai
una conca al centro. Vi collocai una
grossa pepita d’oro, scovata tra le rovine
della fortezza, per rappresentare il Sole,
e nei solchi inseririi un sassolino nero al
posto di Mercurio, uno bianco, piú
grande, per Venere, una perla di giada
trovata tra le rovine al posto della Terra.
La Terra aveva una piccolissima luna
bianca, nella sua orbita. Marte era un
pezzetto di ferro arrugginito, con due
granelli di sabbia per lune. La scala era
abbastanza proporzionata, e non c’era
posto per altro. Adesso ero pronto a tentare di comunicare con i tetraedri, ma
avevo bisogno di piú di un diagramma.
Mi sforzai di realizzare un rilievo della
Terra, con gli oceani e le basse catene
montuose. Tutto ciò richiese tempo e
fatica, ma Marston non si vedeva mai, e
a me non dispiaceva troppo, perché il
mio progetto sembrava piuttosto inutile, e non volevo ch’egli mi prendesse in
giro. Cosí stavano le cose quando scoppiò la tempesta tropicale. Non è difficile
spiegarne la causa. Quando i fuochi ardenti avevano devastato la giungla, l’umidità sovrabbondante della zona si era
vaporizzata. Anche l’acqua della nostra
piccola fonte, quando giungeva al livello
della foschia cremisi, svaniva in spire di
vapore al passaggio del confine quasi
invisibile tra la vita e la morte. Inoltre,
per tutta la lunga estate, il sole aveva fatto letteralmente bollire l’umidità delle
foreste pluviali in tutto il bacino del Rio
delle Amazzoni. L’ aria era satura di vapore acqueo, anche se normalmente sarebbe mancato ancora un mese all’inizio della stagione delle piogge. Le
perturbazioni elettriche causate dall’ininterrotto sbarramento di fuoco avevano intensificato l’effetto generale. La
situazione era matura perché scoppiasse
un temporale, e scoppiò! Un nubifragio.
Il cielo si squarciò durante la notte, e
l’acqua cadde, a torrenti, ruscellando su
ogni spigolo delle rocce, raccogliendosi
in pozzanghere dovunque trovava un
incavo, infradiciando noi e il mondo.
Spuntò il giorno, ma non c’era il sole per
nutrire i tetraedri. Del resto, non pensavano neppure a nutrirsi, perché erano
minacciati da un grave pericolo. Per i
tetraedri, l’acqua era mortale! Come ho
già detto, i loro fuochi avevano staccato
enormi lastre di roccia dalle pareti del
canalone che usciva dalla valle dove essi
dormivano: e la stretta gola si era intasata di detriti. E adesso che dai pendii
montani, privati dal suolo e della vegetazione, l’acqua si riversava nel suo letto,
il ruscello che si era scavato quel canalone si trovò bloccato da una diga: crebbe
e la superò, ma non prima che la valle si
fosse trasformata in un lago, dove solo
le due sfere perlacee galleggiavano contro lo sfondo delle pareti rocciose.
Mi-gliaia di tetraedri erano scomparsi
per sempre... si erano dissolti! L’acqua
per loro era la morte... la dissoluzione!
Erano al sicuro soltanto entro il riparo
delle sfere, che già da tempo erano sovraffollate. Le orde dei mostri tetraedrici erano perite miseramente durante la
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notte, prima di organizzarsi e di poter
intessere un baldacchino ardente di fulmini capace di trasformare l’acqua in
vapore e di tenerli al riparo. Con le sfere
gemelle era arrivato un centinaio di tetraedri. Ne erano nati centomila. Adesso ne resta-vano di nuovo cento. Ora la
strada della salvezza era sgombra! Ma
avevamo già avuto in precedenza la possibilità di salvarci, ed eravamo rimasti,
come rimanemmo ora. La fuga avrebbe
significato un ritardo, null’altro. Solo un
miracolo poteva salvarci, ma penso che
noi credessimo ai miracoli. Perciò cercammo invano di ripararci dal diluvio
nella torre in rovina, e guardammo tra
la pioggia torrenziale le due sfere, che
adesso non erano piú circondate dall’acqua, e stavano sull’orlo del canalone, al
di sopra della diga. L’acquazzone durò
tre giorni. Poi venne il sole, e le montagne cominciarono ad asciugarsi. A ricordarci le piogge rimase solo il lago
neonato, tinto di un color viola profondo a causa dei corpi dei tetraedri di cristallo lentamente dissolti. Quelli che si
erano riparati nelle sfere attesero un
giorno, poi uscirono a ispezionare le rovine della loro campagna d’invasione: il
gigantesco capo e un centinaio scarso di
subordinati. E allora scoprii che c’era del
metodo, nella follia di Marston! I tetraedri avevano ripreso a montare la guardia intorno alla base del nostro sperone,
sebbene lo sbarramento cremisi non
fosse piú tanto alto né tanto vivido. Il
loro capo stava al di fuori del cerchio, a
rimuginare e a spiarci; forse pensava che
esistesse un legame tra noi e il temporale che aveva distrutto le sue speranze.
Allora Marston si mise sotto il braccio
un grosso tamburo indio che io avevo
preso nella radura del sacrificio: un an-
tico tamburo rituale, con la membrana
fatta di pelle umana ben conciata, e si
avviò giú per la china, ad affrontare i tetraedri. Io rimasi accanto alle mitragliatrici, ad aspettare. Mi sembra di vederli
ancora adesso: i rappresentanti di due
razze interamente diverse, nati su due
pianeti distanti tra loro, al minimo, sessanta milioni di miglia, contrapposti e
nemici, acquattati sulla roccia nera e intenti a squadrarsi l’un l’altro! Si udí il
rombo del tetraedro gigantesco e la colorazione rosata dello sbarramento si
intensificò, sali piú alta sullo sperone.
Era un bluff. Marston non si mosse. Poi
alzò il grosso tamburo. Lo aveva curato
come un bambino, durante la lunga
pioggia, riparandolo come meglio poteva, accertandosi che la macabra membrana fosse ben tesa, asciugandolo accuratamente al sole e al fuoco per tutto
il giorno precedente. E adesso ne capivo
la ragione. Lentamente, sommessamente, usando in rapida successione la base
della mano e la punta delle dita, cominciò a suonare. Non era il pulsare ritmico
delle danze indigene, né la voce convulsa delle segnalazioni. Piú in fretta, sempre piú in fretta, il tamburo dei sacrifici
tuonò il suo messaggio, fino a quando i
rulli si fusero in un rombo basso e continuo, salendo di volume in un ruggito
continuo che si abbassava e si alzava con
inflessioni delicate. Marston doveva
avere polsi incredibilmente forti e sensibili per controllare il suono. Il ritmo
continuò incalzante. A parte quel rombo, tutto il mondo taceva: Marston e io
sulle pendici dello sperone, i tetraedri
intorno alla base, il gigante purpureo
dietro di loro: sulla riva del lago. E ancora e ancora, attraverso il mio cervello, i
colpi cupi e insistenti, come onde morte
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sulle spiagge di un mondo morto, mi
invadevano, mi saturavano, mi parlavano con la voce del temporale... parlavano, ecco! Marston stava parlando ai tetraedri con la voce del grande tamburo!
Nei lunghi, vuoti giorni passati sulle
pendici dello sperone, egli aveva a-scoltato, imparato, impresso nel proprio
cervello di scienziato il significato di
ogni comando che il gigantesco capo
dei tetraedri tuonava alle sue schiere
cristalline, apprendendo le inflessioni e
immagazzinandole nella mente! Aveva
imparato a memoria un vocabolario
semplice: suoni che indicavano il grande comandante, l’orda, i tetraedri come
specie; verbi elementari per andare e
venire e alterare lo sbarramento; parole
per indicare gli esseri umani, il loro pianeta e il nostro: una quantità di sostantivi e di verbi... ancora oggi mi pare impossibile che un uomo abbia saputo
strapparli dal borbottio di una razza
aliena... abbinati alle azioni che corrispondevano alle parole. Eppure Marston aveva imparato, e con la voce cupa
del grande tamburo stava rispon-dendo, con parole rozze, spezzate, imperfette, e con espressioni zoppicanti, ma parole che il tetraedro capiva! Infatti la
foschia cremisi sbiadí e svaní. I ranghi
dei cristalli si ruppero, e nello spazio lasciato aperto avanzò il comandante gigantesco, si avvicinò al punto in cui stava Marston con il tamburo. Si fermò,
parlò con parole assai simili a quelle
usate,da Marston: parole semplici, come
quelle che imparano i bambini piccoli,
connesse rozzamente. — Cosa-voi? E il
tamburo: — Noi-tetraedri-Terra — Io
traducevo approssimativamente, mentre si parlavano. Le parole non erano
letterali cosí come sono costretto a ren-
derle perché si adattino al nostro linguaggio limitato: erano idee, piú che
parole. Eppure, riuscivano a comunicare un messaggio. Il gigante era sbalordito. Com’era possibile che noi, mostri
deformi e flaccidi, fossimo signori di un
pianeta, e loro pari? Espresse la sue incredu-lità: — Voi-tetraedri? Il tamburo
rullò un’approvazione, come per un comando ben eseguito. L’idea era stata comunicata, ma il gigante purpureo non
pareva tenerla in gran conto.
— Voi-deboli! — (Facilmente vulnerabili, come la vegetazione, era il si-gnificato del termine adoperato.) — Voi-facile-morti. — (Qui usò un termine che
aveva indicato i tetraedri schiantati nella battaglia con gli indios.) — Noi-tetraedri-nostro-pianeta... e-terra! C’era
poco da rispondere. Potevano facilmente dominare entrambi i pia-neti. Eppure... Marston mi chiamò. — Hawkins,
porta qui le pietre che hai scolpito, e
una borraccia d’acqua. No, aspetta...
porta due borracce, e un fucile. Dunque
mi aveva visto al lavoro, e aveva intuito
il mio progetto. Beh, il suo era migliore,
ma se aveva idea di servirsi del mio, non
lo avrei di certo ostacolato. Trascinai giú
le lastre di pietra, poi tornai a prendere
le borracce d’acqua e il fucile. Secondo
le sue indicazioni, collocai una borraccia contro la roccia del pendio, sopra
di lui. Marston prese l’altra. E intanto
il suo tam-buro mormorava assicurazioni al gigante e alla sua orda. — Tu
manovra sulle lastre, Hawkins — mi
disse, — mentre io parlo. Io tradurrò, e
tu agisci di conseguenza. Il tamburo cominciò: — Sole-Sole-Sole. — Marston
lo indicò. — Vostro-sole... nostro-sole.
Il tetraedro approvò. Dunque veniva dal
nostro sistema solare. Ora Marston sta14
va additando il mio schema, il sole, la
Terra e la sua orbita. — Sole. Sole. Terra. Terra. — Feci rotolare lentamente la
sferetta di giada sul suo solco, facendola
seguire in un moto a elica dal sassolino
bianco che rappresentava la luna. Feci
rotolare gli altri pianeti, mostrandone
i colori e le grandezze relative. Marston
aveva ripreso a suonare il tamburo, in
toni interrogativi, mentre io toccavo un
pianeta dopo l’altro. — Vostro pianeta...
vostro pianeta? Vostro pianeta... quale?
Questo? Il gigante disapprovò. Non era
Marte. — Questo? — Non era sicuramente Venere! Venere doveva essere
troppo umido per loro. Con ansia: —
Questo? — Assenso! Il professore aveva
avuto ragione! Ve-nivano da Mercurio.
Ma Marston voleva essere sicuro. Trovò
una piccola chiazza di quarzo nel sassolino nero che era Mercurio, e la girò verso la pepi-ta che rappresentava il Sole,
la tenne cosí mentre Mercurio girava
lento nella sua orbita. Vi fu un’approvazione enfatica. Era proprio Mercurio, il
pianeta che volge sempre la stessa faccia
al Sole. Fin li, tutto bene. Marston prese l’altra lastra: la mappa in rilievo della
Terra. — Terra-Terra. Sí, il mercuziano
la riconosceva. L’aveva vista dallo spazio. Con un cristallo di quarzo, Marston indicò la parte dell’America meridio-nale in cui ci trovavamo, indicò il
suolo, il lago, la foresta. — Questo-questo — disse. Un’altra approvazione. I
tetraedri sapevano dov’erano, dunque.
Marston riapri un argomento chiuso.
Ricominciò con il rullo monotono e
rassicurante, poi vi sovrappose poche
parole, con destrezza. — Voi-tetraedri-Mercurio. — Certo che lo erano!
— Noi-tetraedri-Terra! — Non andava
bene. Marston ripeté: — Voi-Mercurio.
Noi-Terra. Noi-tetraedri! — Vi furono segni evidenti di dissenso. Marston
intensificò il tono rassicurante, poi aggiunse un brusco invito all’attenzione,
alzò il fucile, sparò due volte, gettò a
terra l’arma, e raddoppiò le assicurazioni di buona volontà e di mancanza
di pericolo. Aveva mirato esattamente.
La borraccia era forata in alto e in basso,
e ne sgorgava un fiotto sottile d’acqua,
che scendeva sulla roccia vitrea verso di
noi. Formò una minuscola pozzanghera
ai suoi piedi, traboccò, e la doppia fila
dei tetraedri arretrò per lasciarla passare. L’acqua formò un’altra minuscola
pozza vicino alla base del gigantesco
comandante. Ma questi non era disposto a correre rischi. Un lampo di energia accecante e la pozzanghera divenne
vapore, la roccia, diventò incandescente. Marston imparò un’altra pa-rola:
— Acqua-morta! Noi-tetraedri-Mercurio-e-Terra! Non andava bene. Marston
riprovò: — Voi-tetraedri-Mercurio. Acqua-tetraedro-Terra! Quella era unidea
allarmante! L’acqua signora della Terra!
— Acqua-no-morta! — Negazione recisa nel suono del tamburo. Marston tese
la mano. Il vapore si stava condensando
e ricadeva in goccioline minuscole sulla
roccia liscia. L’acqua non poteva venire
uccisa! Ritornava sempre! — Noi-tetraedri-acqua! Caspita! Quella sí che era
un’affermazione sensazionale! Marsion
ne die-de la prova. Tuffò le dita nella pozza ai suoi piedi, raccolse un po’
d’acqua con le mani e si inumidí i capelli. Io lanciai un poderoso grugnito
per attira-re l’attenzione, stappai l’altra
borraccia, e mi versai in gola un lungo,
ben visibile getto d’acqua. Marston prese la borraccia e ripeté il mio gesto, poi
mi mandò a prendere altra acqua: un
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secchio, questa volta. — Acqua-tetraedro-Terra! — ripeté. Illustrò quell’affermazione, attinse un po’ d’acqua dal
secchio, con molti spruzzi, e la versò
sul mio rilievo raffi-gurante la Terra, riempiendo le cavità dei mari. Sottolineò
la cosa con una nota torva del tamburo. — Acqua-tetraedro-Terra. Acqua.
Acqua! Ebbe un’altra intuizione, fece
avanzare Venere sulla sua orbita. — Cosa? — chiese il tamburo. Ricevette una
cupa risposta. Marston tuffò Venere in
acqua. Venere era un pezzo di pomice
e galleggiò. — Acqua-tetraedro-Venere?
— Oh, certo. Il gigante purpureo ne era
sicu-ro. Marston provò con Mercurio.
Mercurio andò a fondo. Continuò ad affon-dare. L’acqua non amava Mercurio.
— Voi-tetraedri-Mercurio. Acqua-no
-tetraedro-Mercurio. — Una pausa, poi
lentamente, torvamente: — Acqua-tetraedro-voi!
E aveva ragione. L’acqua li aveva sconfitti. Ebbi un’idea brillante, e Marston si
trasferí in riva al lago, passando come
un vincitore tra le due file di tetraedri.
Arrivato sulla sponda, con il gigante
abbastanza vicino e il resto dell’esercito
molto indietro, mi spogliai e mi tuffai.
Toccai il fondo e riportai in superficie una scheggia di cristallo purpureo
semidisciolta. Marston insistette, allegramente: — Acqua-tetraedro-voi!
— Quelli dovettero ammetterlo. Poi
il biologo cercò di coniare una parola
nuova: indicò il cielo e batté alcune sillabe sul tamburo. — Su-su. Acqua-su.
— Il gigante capi e comunicò il termine esatto. Marston coniò un altro termine nuovo, un cordiale, mormorante
«Grazie» sul tamburo. Io intervenni di
nuovo: attinsi un secchio d’acqua e innaffiai. Mar-ston, poi avanzai verso il
grande tetraedro con un altro secchio
pieno. Quello arretrò. Allorà mi bagnai
io: puerile, ma convincente. Ormai era
ben chiaro che l’acqua era un veleno
terribile per i tetraedri e per noi, invece,
una se-conda patria. Ecco delle vere informazioni! Marston stamburò rassicurazioni e richieste di attenzione e il gigantesco capo scivolò indietro, evitando
con cura le pozzanghere. Notai che stava librato a circa otto centimetri da terra. Forse, nella gravità molto inferiore
di Mercurio, volava. Cominciai di nuovo a dare una dimostrazione del mio
piccolo sistema solare, mentre Marston
annunciava di nuovo che la Terra era
sòprattutto ac-qua — un posto inadatto ai tetraedri — acqua che non poteva venire uccisa, ma che ridiscendeva
in forma di pioggia. Insistette sull’idea
della pioggia, fino a quando non fu sicuro di essersi fatto capire, suscitando
varie espressioni mercuziane di disgusto e di sgomento. Trovò una parola per
«pioggia»: anzi la inventò, pirché sembrava che in mercuziano non esistesse.
Era una combi-nazione di «acqua» e
«su», ben chiara, con un’enfasi doppia
per caratterizzarla. L’etimologia della
parola parve chiarissima agli interessati. Adesso anche i tetraedri sapevano
cos’era la pioggia. Io avevo praticato un
foro nella pietra tenera e sottile dell’orbita di Mer-curio e avevo messo tappi
di argilla nell’orbita della Terra, in punti
diametral-mente opposti. Marston cominciò un’altra dimostrazione. Versò
l’acqua su Mercurio, e quello svaní. —
Mercurio-no-pioggia. No! — L’intero esercito si era avvicinato, e ci fu un
mormorio collettivo di assenso. Venere,
invece, che stava in un solco profondo,
tenne parecchia acqua. — Venere-piog16
gia. Acqua-tetraedro-Venere. Capirono anche quello. Il clima di Venere era
l’ideale per le anitre e i ranocchi... ma
non per i tetraedri! Marston mosse un
pianeta, e io percepii un senso di tensione. Avevano capito dove intendeva
andare a parare. Marston stava descrivendo le condizio-ni climatiche della
Terra. Metà dell’orbita terrestre era piena d’acqua fino all’orlo. L’altra metà era
piuttosto umida. Egli mosse lentamente
la Terra in cerchio, mostrando che per
sei mesi il clima era piovoso, per altri sei
un po’ meno. Quindi prese il tamburo
per farsi capire meglio. —Acqua-tetraedro-Terra.
Noi-tetraedri-acqua.
Acqua-tetraedro-voi.
—Un’allusione
delicata. Poi, lentamente, enfaticamente: — Acqua-Venere. Acqua-Terra. — E
poi la carta risolutiva. Mosse Mercurio
nella sua orbita, collocò Venere quasi di fronte, indugiò. Il gigante assenti.
Erano le posizioni attuali dei pianeti.
Marston saltò la Terra e passò a Marte, lo fece rotolare nella sua orbita e lo
fermò. Assenso. Tutto vero, fino a quel
momento. E poi capii cosa intendeva
fare, perché, quando mise a posto la
Tèrra, in pratica sull’asse tra Marte e
Mercurio, la sistemò nel bel mezzo della
metà asciutta dell’orbita! I cento tetraedri arretrarono di oltre un metro, sconvolti. La pioggia che aveva praticamente
annegato il loro esercito di migliaia di
elementi era un esempio della nostra
stagione arida! Quindi, la nostra stagione delle piogge doveva essere un vero
e proprio inferno per ognuno di loro!
Ma Marston era un buon diplomatico,
e voleva suggerire un’alternativa. Versò
lentamente dell’acqua su Marte. Marte
aveva un buco sul fondo, e si asciugò
completamente. Marte era molto adat-
to. Ma la Terra era orribile e umida,
come Venere o peggio. Ed era abitata
da una razza di pesci superin-telligenti,
a giudicare dall’impressione che Marston aveva -comunicato ‘ai te-traedri.
Prese il tamburo per trasmettere un ultimo messaggio. — Terra-pioggia. Marte-no-pioggia. Noi-Terra. Voi-no-Terra.
Voi-Marte! —Insistette sulla domanda.
— Marte? Marte??? — Continuò a rullare un intermi-nabile punto interrogativo, poi smise, bevve una lunga sorsata
dalla borraccia e si tuffò nel lago, vestito
com’era. Lo seguii, e insieme nuotammo fino alla sponda opposta, dando
un’evidente dimostrazione della nostra
padronanza dell’acqua; poi uscimmo, in
attesa. Se era andata, tutto bene. Se no...
beh, c’era il lago, di mezzo. E andò! Per
un momento rimasero immobili, il possente tetraedro alto cinque metri, d’un
regale color porpora, e i suoi seguaci
alti due metri e mez-zo: erano immersi
in una riflessione silenziosa. Poi venne
un -comando im-provviso, e i cento sfilarono ordinatamente verso le sfere, vi
entrarono. Il cap.() era rimasto solo. Per
un istante esitò, poi avanzò fin sulla riva
del lago. Dal suo vertice guizzarono re
folgori candide, che sferzarono le acque
cupe, sollevandole in nuvole di vapore,
formando tra noi una densa parete di
neb-bia! Attraverso il sibilo del vapore
venne la sua voce tonante, in un ultimo
commento sull’invasione della sua razza. Marston tradusse, sottovoce. — Acqua-tetraedro -Terra . Voi-tetraedri-acqua. Noi-uccidiamo-acqua! Voi-Terra.
Noi-Marte. Marte! — Poi un lungo assenso ondeggiante, un «sí» sottolineato
all’infinito. Acqua e Terra sembravano
sinonimi, e noi eravamo perfettamente
a no-stro agio in quell’elemento peri17
coloso. Ma essi, i tetraedri di Mercurio,
potevano «ucciderla», mentre noi non
potevamo farlo! Non erano disposti a
di-chiararsi sconfitti, né di fronte all’uomo né di fronte all’acqua, ma il sistema
solare era grande. Noi potevamo tenerci
la nostra umida Terra! Essi andavano
su Marte! Dietro la cortina di acqua
«uccisa» si alzarono due grandi perle
splen-denti, meravigliosamente opalescenti nei raggi del sole al tramonto:
salirono e salirono, sempre piú piccole,
fino a quandò non svanirono nell’azzurro che si incupiva sopra le Ande. Per
ironia, cominciò a piovere.
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Edito in occasione della mostra “Ultrapiante” di Cristiano Menchini presso lo Spazio 74/B