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Prospettive in Pediatria
Gennaio-Marzo 2016 • Vol. 46 • N. 181 • Pp. 25-37
Malattie metaboliche ereditarie
Come la ricerca
sta affrontando le
problematiche irrisolte
nella diagnosi e nella
terapia delle malattie
metaboliche ereditarie
Giancarlo Parenti
Nicola Brunetti-Pierri
Dipartimento di Scienze Mediche
Traslazionali, Sezione di Pediatria,
Università Federico II, Napoli,
Telethon Institute of Genetics
and Medicine, Pozzuoli (NA)
Nel corso degli ultimi decenni sono stati fatti importanti progressi nella diagnosi e terapia
delle malattie metaboliche ereditarie. Ora, dopo anni di esperienze, è possibile fare i primi
bilanci sugli approcci diagnostici e sull’efficacia delle terapie. Mentre per alcune malattie
metaboliche i risultati dei trattamenti sono stati brillanti e indiscutibili, per altre l’efficacia
terapeutica è stata parziale e sono emerse problematiche ancora insolute. La ricerca degli
anni a venire dovrà affrontare e risolvere queste problematiche. Alla luce dei progressi delle
metodologie in campo biomedico, tuttavia, già si cominciano a intravedere le strade da percorrere per affrontare le sfide poste dalle malattie metaboliche. In questo articolo vengono
presi in esame alcuni esempi di nuove strategie per migliorare e rendere più efficiente la
diagnosi e il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie. L’approccio alla diagnosi
potrà avvalersi delle nuove tecniche di sequenziamento su larga scala del genoma. Nuovi strumenti per migliorare la biodisponibilità e la produzione degli agenti terapeutici (ad
esempio enzimi ricombinanti), o approcci basati sulla terapia genica e genome editing,
probabilmente contribuiranno a migliore l’efficacia delle terapie e la prognosi dei pazienti.
Riassunto
Over the past few decades, major advances have been made in the diagnosis and treatment of inherited metabolic diseases. Following such important successes, it is time to
draw the first conclusions on the diagnostic strategies and efficacy of these therapies.
While for some diseases the results of treatments are indisputable, for others the therapeutic efficacy is limited and significant unmet medical needs still exist. Future research will
have to address these problems. Thanks to significant progress in biomedical research, it
is possible to envisage the strategies that may address the challenges posed by inherited
metabolic diseases. This article examines a few examples of these new strategies. The
diagnostic approach will likely take advantage of new large-scale genome sequencing
technologies. New tools for improving bioavailability and production of therapeutic agents
(e.g. recombinant enzymes), or approaches based on gene therapy and genome editing,
will likely improve therapeutic efficacy and prognosis.
Summary
Metodologia della ricerca
bibliografica
Gli autori hanno selezionato dalla letteratura più recente i contributi scientifici che a loro giudizio erano
più rilevanti sulla diagnosi e terapia delle malattie metaboliche ereditarie. La ricerca degli articoli è stata effettuata su banca bibliografica (Medline), utilizzando
come motore di ricerca PubMed e le seguenti parole
chiave per i diversi argomenti: “inborn errors of me25
G. Parenti, N. Brunetti-Pierri
tabolism”, “lysosomal storage disorders”, “next generation sequencing”, “gene therapy”, “enzyme replacement therapy”, ”drug repositioning”, “drug repurposing”,
“chaperone therapy”.
Introduzione
Fino a non moltissimi anni fa le malattie metaboliche
ereditarie (MME) erano viste come patologie dalla
gestione estremamente complessa, sia per le difficoltà nell’approccio diagnostico, sia perché considerate
quasi invariabilmente associate a una elevata mortalità o, nel migliore dei casi, gravate da una pesante
morbidità. Non era raro che medici o pediatri generalisti considerassero l’iter per arrivare a una definizione diagnostica in un soggetto con sospetta MME uno
sforzo poco gratificante o addirittura frustrante, viste
le scarse prospettive terapeutiche per questi pazienti.
Chi negli ultimi due decenni ha avuto modo di seguire attivamente pazienti con queste malattie ha invece
assistito a una rapida evoluzione nelle conoscenze
che ha portato a ribaltare le attitudini dei medici nei
confronti della prognosi e della terapia delle MME. Nel
corso degli ultimi anni è infatti intervenuta una favorevole e fortunata combinazione di diversi fattori che
hanno progressivamente cambiato il panorama e le
prospettive in questo ambito.
Innanzitutto, lo sviluppo delle tecnologie, come quelle
basate sul DNA ricombinante, ha dato un’accelerazione decisiva alla ricerca di nuove terapie. Queste
tecnologie a loro volta hanno facilitato lo sviluppo di
modelli animali per molte, se tutte queste malattie.
La disponibilità di modelli animali ha reso possibili
studi in vivo, fondamentali per la comprensione dei
meccanismi patogenetici e per valutazioni precliniche
dell’efficacia di nuove terapie. Lo sviluppo delle conoscenze sulla fisiopatologia delle MME ha consentito
di mettere a punto migliori strategie di intervento terapeutico, oltre che identificare nuovi target terapeutici.
Molti ricercatori si sono avvicinati allo studio di queste
malattie, perché rappresentavano un ottimo modello
per lo studio di vie metaboliche e della fisiologia cellulare. Infine, l’accresciuto interesse da parte dell’industria farmaceutica, promosso in gran parte dalla legislazione sui farmaci orfani, ha reso queste malattie,
una volta neglette, un target di interesse commerciale.
L’introduzione di nuove terapie, spesso con il supporto dell’industria farmaceutica, ha a sua volta favorito,
innescando un circolo virtuoso, studi clinici multicentrici (ad esempio registri di malattie, collaborazioni internazionali), con un’ampia condivisione dei dati sulla
storia naturale delle malattie, sull’efficacia dei nuovi
approcci terapeutici e un’accresciuta esperienza sulle
terapie disponibili. Grazie a tutti questi fattori non è
sbagliato considerare le MME un eccezionale e, per
ora, abbastanza fortunato modello e una “palestra”
per lo sviluppo di strategie potenzialmente applicabili
anche ad altri campi della medicina.
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Dopo diversi anni di esperienze, con il coinvolgimento
di gruppi sia clinici che di ricerca di base, è giunto il
momento di iniziare a fare i primi bilanci. Da una parte
l’ottimismo rispetto alla prognosi dei pazienti è notevolmente aumentato. D’altra parte per alcuni aspetti
le MME hanno rappresentato un “bersaglio mobile”. È
vero che le nuove terapie hanno risolto alcuni importanti problemi, basti pensare alla sopravvivenza dei
pazienti che si è allungata o normalizzata. Tuttavia,
proprio per questo motivo e per la complessità delle
MME, sono emerse una serie di problematiche nuove
(i cosiddetti unmet medical needs), a volte del tutto
inattese, che pongono nuove sfide alla ricerca in questo gruppo di malattie.
Lo scopo di questa review è di analizzare, con le conoscenze a oggi disponibili, quali potrebbero essere le risposte a queste sfide. Non sarà, ovviamente,
possibile trattare in maniera esaustiva tutte le problematiche aperte e relative ai singoli gruppi di malattie.
Pertanto ci limiteremo a considerare alcuni esempi
significativi ed esemplificativo in grado di illustrare i
potenziali futuri sviluppi nella diagnosi e terapia delle
MME.
La diagnosi delle MME: le nuove
tecnologie e i challenge futuri
Lo screening neonatale ha introdotto importanti cambiamenti nel campo delle MME e più in generale sta
ampliando il concetto di medicina preventiva. Alle metodiche tradizionali, ormai di interesse più che altro
storico, negli ultimi anni si è sostituito lo screening
neonatale, basato sulla spettrometria di massa (o
screening neonatale esteso) che con un’unica analisi
su spot di sangue raccolto alla nascita su cartoncino
consente, mediante l’uso di sofisticate apparecchiature (la tandem mass spectrometry – TMS), di identificare circa 40 diverse malattie del metabolismo intermedio. Questo approccio ha portato a un aumento
esponenziale delle diagnosi di MME, che però non è
stato privo di problemi e insidie legate soprattutto ai
falsi positivi e all’incompleta conoscenza della storia
naturale di molte MME.
In alcune malattie, come la fenilchetonuria, le anomalie del profilo dei metaboliti sono molto caratteristiche
e non generano dubbi diagnostici. Tuttavia, vi sono
alterazioni riscontrate allo screening neonatale che
possono essere di più difficile interpretazione e, nonostante la positività allo screening, alcuni bambini
non ricevono una diagnosi di MME per diversi motivi.
Ad esempio, poiché i primi giorni dopo la nascita sono
un periodo di catabolismo nei difetti di ossidazione
degli acidi grassi, il profilo delle acilcarnitine può risultare anormale nel campione di sangue raccolto per lo
screening, per poi normalizzarsi (o diventare dubbio)
in campioni raccolti successivamente.
Inoltre, per altri difetti metabolici possono esserci sovrapposizioni tra profili metabolici che possono cau-
Come la ricerca sta affrontando le problematiche irrisolte nella diagnosi e nella terapia delle malattie metaboliche ereditarie
sare ambiguità o ritardi nella diagnosi. Un esempio
particolarmente significativo in questo senso è quello
del deficit della deidrogenasi degli acidi grassi a catena molto lunga (VLCAD), un disturbo dell’ossidazione
degli acidi grassi relativamente frequente tra quelli identificati dallo screening neonatale allargato. Lo
screening identifica sia il fenotipo severo (con cardiomiopatia, miopatia, malattia epatica e morte improvvisa), che quello lieve (asintomatico) e probabilmente
benigno. Quei neonati con deficit VLCAD identificati
con lo screening che sono rimasti asintomatici durante l’infanzia sono probabilmente affetti dalla forma
lieve ma è difficile, allo stato attuale delle conoscenze,
distinguere un neonato con fenotipo potenzialmente
severo da quello che rimarrà asintomatico durante
vita (Schiff et al., 2013).
I programmi di screening mirano, infatti, a individuare quanti più possibili bambini affetti (vale a dire, evitando di perdere gli affetti, ossia i falsi negativi) allo
stesso tempo tollerando un numero accettabile di falsi
positivi. L’obiettivo è di individuare non solo i neonati gravemente affetti, ma anche quelli che presentano fenotipi più lievi e che pertanto hanno anormalità
biochimiche che spesso si sovrappongono a quelli di
neonati non affetti. Tuttavia le difficoltà diagnostiche
possono avere un impatto negativo sui genitori e le
famiglie (Hewlett e Waisbren, 2006).
Lo screening neonatale esteso, quindi, nonostante
rappresenti un successo della medicina preventiva,
pone nuovi problemi che derivano dalla possibile ambiguità dei risultati (stesso metabolita alterato in più
malattie), impatto psicologico negativo sui genitori e
la conseguente necessità di fornire indicazioni precise nel più breve tempo possibile. A questi problemi
si aggiungono la lunghezza, indaginosità e invasività
dell’iter necessario per la conferma della diagnosi.
Una possibile soluzione offerta dalle tecnologie e dalla ricerca più recenti potrebbe venire dalla sempre più
diffusa disponibilità di metodiche di analisi molecolare basate sul cosiddetto next generation sequencing
(NGS). Questa modalità di sequenziamento del DNA,
che si avvale di apparecchiature e tecnologie miniaturizzate ed estremamente avanzate, consente l’analisi simultanea di un numero elevatissimo di geni (e
quindi l’identificazione di mutazioni), fino al sequenziamento dell’intero esoma (i.e. intera porzione codificante del genoma) o dell’intero genoma. Una review
su questa metodica e sulle sue potenzialità cliniche è
stata pubblicata di recente su Prospettive in Pediatria
(Nigro, 2015). Frequenti applicazioni della NGS sono
quelle basate su panel di geni, come potrebbero essere, ad esempio, i geni che sono mutati nelle MME
sottoposte a screening neonatale esteso. Già si parla
della possibilità di avvalersi del sequenziamento di un
panel specifico ai fini della conferma diagnostica dei
risultati dello screening, in quelle situazioni in cui la
conferma basata su approcci biochimici tradizionali
sia particolarmente indaginosa o dubbia.
In aggiunta alle possibili applicazioni relative alla
conferma dello screening neonatale, la NGS appare
particolarmente promettente come strumento diagnostico per gruppi di MME. Panel specifici sono già stati
sviluppati, ad esempio, per patologie lisosomiali (Di
Fruscio et al., 2015), malattie mitocondriali, malattie
perossisomiali, difetti congeniti di glicosilazione, e
così via. In alcuni di questi casi il vantaggio è legato
alla possibilità di passare rapidamente dal sospetto
clinico alla conferma diagnostica, evitando procedure diagnostiche intermedie invasive (ad esempio, la
biopsia muscolare per patologie mitocondriali), costose (ad esempio, esami neuroradiologici) o difficilmente accessibili (ad esempio, dosaggi enzimatici).
È verosimile che nel prossimo futuro sarà anche possibile utilizzare questo approccio per l’analisi non invasiva dell’intero genoma fetale nel sangue materno
fin dalla quinta settimana di gestazione. Questi metodi high-throughput probabilmente forniranno un’ulteriore nuova risorsa per lo screening prenatale e neonatale non invasivo delle malattie genetiche, tra cui le
MME. Va tuttavia segnalato, a tale proposito, che per
l’applicazione di tali procedure restano da risolvere diverse questioni di natura tecnica, politica sanitaria e
soprattutto etica (Scala et al., 2012).
La NGS potrebbe quindi aumentare in maniera significativa il numero di malattie identificate, oltre a identificare le varianti genetiche che aumentano il rischio di
suscettibilità alle malattie del neonato e per estensione dei suoi familiari.
Ancora una volta, nonostante queste enormi potenzialità, la NGS nello screening neonatale solleva molte domande e serie preoccupazioni. Alcune di queste
preoccupazioni erano già evidenti agli albori dello
screening neonatale tradizionale (Wilcken, 2013).
L’eccesso di diagnosi e di trattamento per la fenilchetonuria è stato, ad esempio, un problema (Brosco e
Paul, 2013). Inizialmente si riteneva che ciascun bambino con fenilalanina elevata avesse la fenilchetonuria
e dovesse essere trattato con terapia dietetica. Nel
giro di pochi anni, tuttavia, si è dimostrato che alcuni
bambini identificati mediante screening avevano una
variante di fenilchetonuria con iperfenilalaninemia che
non richiedeva terapia. Con lo sviluppo dello screening neonatale allargato, il problema dell’eccesso di
diagnosi e di trattamento è notevolmente aumentato
e se prima questo problema riguardava uno o due
disturbi, adesso interessa molte condizioni (Wilcken,
2013). Molto probabilmente ciascuna MME ha una
variante benigna che si manifesta con anomalie biochimiche, ma senza problemi clinici. Queste anomalie identificate allo screening metabolico comportano
‘medicalizzazione’ e consequenti alti costi sanitari e
psicologici per la famiglia.
Oltre alle varianti benigne, vi sono poi disturbi identificati dallo screening allargato che sono probabilmente benigni come deficit di acil-CoA deidrogenasi
degli acidi grassi a corta catena (SCADD), il deficit di
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G. Parenti, N. Brunetti-Pierri
metionina adenosiltrasferasi (MATI/III), il deficit d isobutirril-CoA deidrogenasi e della 3-metilcrotonil-CoA
carbossilasi (3-MCC). Per alcune di queste anomalie biochimiche, i pazienti sono riferiti a un centro di
malattie metaboliche per eseguire i test di conferma
spesso seguiti da visite mediche e altri test di laboratorio nei mesi e talvolta negli anni successivi allo
screening neonatale.
Queste problematiche nel loro complesso non sono
sufficienti per influire sul giudizio complessivo sullo
screening metabolico esteso che rimane molto positivo. Ciononostante rappresentano dei segnali di cui
tenere conto con attenzione, soprattutto nel considerare ampliamenti del numero di malattie sottoposte a
screening neonatale, e impongono un’attenta e intelligente programmazione per evitare conseguenze dannose per molte famiglie. Sebbene lo screening genetico possa diventare uno strumento molto potente di
medicina preventiva, permettendo la diagnosi pre-sintomatica di molte malattie genetiche e possibilmente
terapie più efficaci, esso solleva anche molte problematiche etiche di non facile risoluzione. Per esempio,
è probabile che ogni neonato sottoposto a questo tipo
di indagine risulti portatore di diverse malattie o affetto
da malattie con esordio nell’età adulta. Come e chi
trasmetterà tutte queste informazioni ai genitori per
essere incorporate nella cura del bambino? Attualmente, i minori asintomatici non vengono valutati con
test genetici per malattie con esordio nell’età adulta
e uno screening genomico neonatale potrebbe dare
informazioni non desiderate e che riguardano epoche
della vita lontane a venire.
Che cosa può complicare
l’interpretazione di dati biochimici?
Il dogma per le malattie mendeliane è stato che le
mutazioni che le causano sono molto penetranti e
quasi mai influenzate dall’ambiente. Tuttavia progressivamente è emerso il concetto che le MME hanno
un livello di complessità non inferiore a quello delle
più comuni malattie multifattoriali. Secondo questo
punto di vista, le MME non solo formano uno spettro
nell’ambito di una specifica malattia metabolica, ma le
MME e le malattie comuni multifattoriali fanno entrambe parte di uno spettro di difetti metabolici. In questa
visione le malattie genetiche sono un continuum che
va da difetti primari di un singolo gene influenzato da
pochi geni modificatori, a difetti più lievi di un gene
sotto l’influenza di più geni (Lanpher et al., 2006).
La variazione biochimica esiste in ogni individuo indipendentemente da una diagnosi di MME ed in un recente studio di associazione genetica (GWAS) in una
popolazione sana è stata riscontrata un’associazione
tra i livelli plasmatici di C8-carnitina, il metabolita usato per la diagnosi di deficit deidrogenasi degli acidi
grassi a catena media (MCAD), e polimorfismi (SNP)
al locus ACADM che codifica per l’enzima responsa28
bile della MCAD (Shin et al., 2014). Lo stesso studio
ha evidenziato anche un’associazione tra i livelli ematici di fenilalanina e un locus adiacente al gene PAH
codificante per fenilalanina idrossilasi responsabile
della fenilchetonuria (Shin et al., 2014). Nel complesso, queste osservazioni evidenziano un continuum di
fenotipi biochimici con varianti comuni in geni responsabili di MME che possono dar luogo a fenotipi più
lievi ad un’estremità dello spettro e varianti estreme
più severe responsabili di MME all’altra.
Il monitoraggio dei pazienti
con MME: l’importanza
di nuovi biomarcatori
Una delle problematiche emergenti nel campo delle
MME è quello della disponibilità di biomarker quantitativi e affidabili. Questi marcatori possono essere
definiti come “analiti che indicano la presenza di un
processo biologico legato alle manifestazioni cliniche
e all’evoluzione di una malattia” (Aerts et al., 2011)
e sono sicuramente di importanza fondamentale,
non solo ai fini diagnostici, ma ancora di più per il
monitoraggio nel tempo dei pazienti e per la valutazione dell’efficacia di un trattamento. È evidente che
per valutare l’efficacia di nuovi approcci terapeutici è
fondamentale da una parte conoscere bene la storia
naturale delle malattie (e quindi avere gli strumenti
per seguirla) e d’altra parte avere una misura obiettiva e possibilmente quantitativa di quanto una terapia
incide sulla storia naturale della malattia.
Mentre per alcune patologie (ad esempio, le aminoacidopatie come la fenilchetonuria, la tirosinemia
o la malattia delle urine a sciroppo d’acero) i livelli
plasmatici del metabolita in questione rappresentano il marcatore ideale per monitorare l’efficacia della
terapia, per altre patologie la situazione non è così
semplice e immediata.
Per alcune malattie lisosomiali, ad esempio, gli indici di efficacia di una terapia sono legati a valutazioni
cliniche (il 6-minute-walk test, test di funzionalità respiratoria, valutazioni mediante questionari o patient
reported outcomes), che hanno il difetto di essere
molto dipendenti dall’esaminatore e dalla collaborazione del paziente, o estremamente soggettivi.
Fortunatamente, anche in questo campo, grazie a nuove tecnologie quali quelle basate sulla metabolomica (o
probabilmente in futuro la proteomica) ed i microRNA si
stanno facendo importanti progressi ed è possibile ipotizzare che il futuro riserverà ancora nuove acquisizioni.
Per restare nel campo delle malattie lisosomiali, in
particolare quelle con la maggiore prevalenza, sono
stati identificati marcatori biochimici, quali metaboliti
(il GB3 e il liso-GB3 nella malattia di Fabry) (Aerts et
al., 2008; Sueoka et al., 2015), enzimi (la chitotriosidasi nella malattia di Gaucher) (Hollak et al., 1994),
alcune citochine (PARC/CCL18, ancora nella malattia
di Gaucher) (Boot et al., 2004).
Come la ricerca sta affrontando le problematiche irrisolte nella diagnosi e nella terapia delle malattie metaboliche ereditarie
Più recentemente, proprio grazie allo sviluppo delle tecnologie analitiche, sono stati identificati diversi
nuovi metaboliti, come la glucosfingosina (Mirzaian
et al., 2015) nella malattia Gaucher, alcuni ossisteroli (prodotti di ossidazione di colesterolo) (Porter et
al., 2010; Jiang et al., 2011) e la lisosfingomielina-509
(Giese et al., 2015) per le malattie di Niemann-Pick
tipo C. È interessante notare che alcuni di questi marker sembrano correlare con i risultati di interventi terapeutici e in questo senso potrebbero essere molto
utili.
Terapia delle MME
Anche nel campo della terapia delle MME, come si
è già detto, i progressi sono stati entusiasmanti. Lo
sviluppo dei primi approcci terapeutici e il tentativo di
manipolare le vie metaboliche interessate, risale alla
metà del ventesimo secolo, con lo sviluppo della dieta
per la fenilchetonuria. Più di sessanta anni fa, sulla
scorta delle allora scarse conoscenze sulla biochimica della malattia, gli studi pionieristici di un medico tedesco, Horst Bickel (1918-2000), consentirono di mettere a punto una dieta a ridotto apporto di fenilalanina
(Bickel et al., 1953). Questo approccio consentiva di
mantenere i livelli plasmatici dell’aminoacido entro limiti accettabili e non dannosi nonostante l’esistenza
di un blocco enzimatico (deficit di fenilalanina idrossilasi, l’enzima che trasforma la fenilalanina in tirosina).
A distanza di vari decenni il principio della dietoterapia per la fenilchetonuria è rimasto invariato ed anzi
è stato esteso a diverse altre malattie del metabolismo degli aminoacidi, acidemie organiche, difetti del
ciclo dell’urea. Ormai l’efficacia di questo approccio
è ampiamente documentata e validata (Poustie e
Wildgoose, 2010; Camp et al., 2014) ed è possibile
affermare senza molti dubbi che la dietoterapia per
la fenilchetonuria rappresenti uno dei più formidabili
successi della medicina.
Nonostante i brillantissimi risultati di questa terapia
tuttavia esistono alcune problematiche che ancora
devono essere affrontate. Gli alimenti speciali per le
diete a ridotto apporto di aminoacidi sono in generale poco gradevoli sul piano organolettico, in particolare le miscele di aminoacidi. È esperienza comune
di chi gestisce questi pazienti che in particolari epoche della vita (ad esempio, nell’adolescenza) le diete
sono mal tollerate e la compliance diminuisce drasticamente. Un importante obiettivo dell’industria farmaceutica al momento è proprio quello di sviluppare
prodotti alimentari e integratori dietetici che abbiano
un minore impatto sulle caratteristiche organolettiche
della dieta e sulla qualità di vita dei pazienti. Allo stesso tempo sono stati messi a punto approcci alternativi o complementari alla dieta (Blau e Longo, 2015),
ognuno basato su un razionale diverso, quali la tetraidrobiopterina (il cofattore della fenilalanina idrossilasi)
(Muntau e Gersting, 2010; Longo et al., 2015; Thiele et
al., 2015), nuove miscele di aminoacidi neutri (large
neutral amino acids – LNAA) (Matalon et al., 2006;
Matalon et al., 2007) e l’uso della fenilalanina ammonia liasi (Sarkissian et al., 1999; Longo et al., 2014;
Rossi et al., 2014). Alcuni di questi tipi di approcci
sono stati discussi in maggior dettaglio nell’articolo di
Cerone et al (Cerone et al., 2012).
È possibile ipotizzare che nel futuro anche lo sviluppo
di alimenti geneticamente modificati o batteri sintetici
in grado di degradare aminoacidi nel tubo digerente
potrà contribuire a rendere le diete per la fenilchetonuria e per altre malattie del metabolismo intermedio
più appetibili e meno impegnative per i pazienti.
Un altro approccio che potrà portare in tempi relativamente rapidi nuove terapie per MME è il drug repositioning (conosciuto anche come drug repurposing).
Lo sviluppo di farmaci è un processo che richiede
tempi molto lunghi e costi molto alti. Si stima che in
media sono necessari 10 anni e almeno 1 miliardo di
dollari per portare un farmaco sul mercato (Drug Repurposing and Repositioning: Workshop Summary,
2014). Considerati questi tempi e costi per lo sviluppo
de novo dei farmaci, le aziende farmaceutiche sono
sempre più interessate a trovare nuove applicazioni
per i farmaci già esistenti sul mercato. Questo processo è denominato il drug repositioning. Finora questo
processo è stato in gran parte non-intenzionale o fortuito, spesso scaturito dall’osservazione di effetti non
desiderati di un farmaco. Uno degli esempi più noti
del drug repositioning è quello del sildenafil, commercializzato come Viagra o con altri nomi commerciali.
Originariamente sviluppato come un anti-ipertensivo,
il sildenafil è stato riproposto per il trattamento della
disfunzione erettile e dell’ipertensione arteriosa polmonare. Essendo la farmacodinamica e farmacodistribuzione ben caratterizzata per farmaci già in uso
nell’uomo, con il drug repositioning i farmaci possono
essere rapidamente sviluppati per una nuova indicazione clinica saltando tutti gli studi pre-clinici e clinici
di tossicità, guadagnando in maniera considerevole
tempo e riducendo in maniera drammatica i costi.
Nell’ambito delle MME, due studi recenti hanno permesso il drug repositioning del fenilbutirrato, un farmaco già in uso in pazienti con difetti congeniti del
ciclo dell’urea, per la malattia delle urine a sciroppo
d’acero e il deficit di piruvato deidrogenasi (BrunettiPierri et al., 2011; Ferriero et al., 2013). Per queste
malattie il meccanismo di azione del fenilbutirrato è
legato all’aumento dell’attività residua della deidrogenasi degli aminoacidi a catena ramificata e della
piruvato deidrogenasi responsabili della malattia delle
urine a sciroppo d’acero e del deficit di piruvato deidrogenasi, rispettivamente. Per queste applicazioni il
ruolo del fenilbutirrato sui due enzimi è stato ipotizzato e poi dimostrato partendo dall’osservazione clinica
che i pazienti con malattie del ciclo dell’urea in terapia con il fenilbutirrato sviluppano una riduzione della
concentrazione sierica degli aminoacidi a catena ra29
G. Parenti, N. Brunetti-Pierri
mificata, che suggeriva un’attivazione della deidrogenasi degli amminoacidi a catena ramificata. L’effetto
terapeutico del fenilbutirrato in effetti è legato a un aumento dell’attività enzimatica residua. Per la malattia
delle urine a sciroppo d’acero uno studio clinico è in
corso (NCT01529060), mentre è in fase di sviluppo
per il deficit di piruvato deidrogenasi.
L’esempio delle malattie
lisosomiali e della terapia
enzimatica sostitutiva. I limiti della
terapia (biodisponibilità, costi) e le
strategie per migliorarne l’efficacia
La ricerca di nuove terapie per la cura delle malattie
lisosomiali è stata nel corso degli ultimi venticinque
anni l’ambito caratterizzato dal più vivace progresso,
con diversi approcci innovativi, alcuni ormai approvati, altri tuttora in fase di sviluppo clinico.
La terapia enzimatica sostitutiva (enzyme replacement therapy – ERT) ha rappresentato probabilmente
il più rilevante e importante avanzamento in questo
campo. Lo scopo della ERT è quello di correggere il
deficit enzimatico responsabile della malattia fornendo lo specifico enzima, prodotto con tecnologia del
DNA ricombinante, mediante infusioni endovenose
periodiche. Questo tipo di approccio appare particolarmente vantaggioso nelle malattie lisosomiali, perché gli enzimi lisosomiali sono normalmente equipaggiati con residui di mannosio-6-fosfato. Il mannosio6-fosfato, infatti, viene riconosciuto da uno specifico
recettore (cation-independent mannose-6-phosphate
receptor – CI-MPR) che consente all’enzima ricombinante di raggiungere le cellule e gli organelli (i lisosomi) dove la sua attività è richiesta per correggere il
deficit enzimatico e rimuovere i substrati accumulati.
Questo tipo di terapia, dopo un esordio agli inizi degli
anni Novanta (quindi non recentissimo), caratterizzato da notevole successo nella cura della malattia di
Gaucher, è stato esteso o è tuttora in corso di studio,
per diverse altre malattie lisosomiali.
Alla prima fase di sviluppo della ERT sta ora subentrando una fase di attenta valutazione dei suoi successi e dei suoi limiti (Parini, questo volume). Per
alcune malattie trattabili con ERT, infatti, sono ormai
disponibili dati clinici relativi all’outcome di centinaia (o migliaia, come nel caso della malattia di Gaucher) di pazienti per periodi di osservazione molto
lunghi. Per questi motivi la ERT è oggi probabilmente
il miglior esempio di una terapia innovativa su cui è
possibile fare un bilancio critico della efficacia e delle
problematiche che restano ancora da affrontare e da
risolvere.
Nella maggior parte delle malattie lisosomiali trattabili con ERT la terapia si è dimostrata efficace nel
migliorare la performance generale dei pazienti, nel
ridurre l’accumulo e le conseguenze anatomopato30
logiche dell’accumulo nei visceri (fegato, milza), nel
ridurre l’escrezione urinaria di metaboliti. Per alcuni
casi, come la malattia di Pompe infantile classica,
caratterizzata da una severa cardiomiopatia, l’ERT è
risultata efficace nel ridurre l’ipertrofia cardiaca e nel
prolungare la sopravvivenza dei pazienti.
Le malattie lisosomiali, tuttavia, sono tipicamente
multisistemiche. Gli enzimi ricombinanti devono perciò essere in grado di raggiungere livelli terapeutici
(correttivi) in tutte le cellule, tessuti e organi coinvolti
dalla malattia. In questo l’ERT ha mostrato i maggiori
limiti. Lo scarso effetto a livello scheletrico in diverse di queste malattie, la scarsa risposta delle manifestazioni oculari e di quelle cardiache nelle mucopolisaccaridosi, la limitata correzione della patologia
muscolare scheletrica nella malattia di Pompe, sono
tipici esempi di queste problematiche (Parini, questo
volume; Wraith 2009).
Alla base dell’insufficiente biodisponibilità degli enzimi ricombinanti somministrati ci sono diversi fattori.
Uno di questi è il fatto che gli enzimi ricombinanti utilizzati come agenti terapeutici sono grosse macromolecole che non diffondono liberamente attraverso le
membrane cellulari e non sono in grado di raggiungere concentrazioni terapeutiche in alcuni dei tessuti
bersaglio. Questo è particolarmente vero per il sistema nervoso centrale (SNC), dove gli enzimi ricombinanti non raggiungono livelli terapeutici, in quanto
non sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica (blood-brain barrier – BBB). Considerato
che in due terzi delle malattie lisosomiali è possibile
un coinvolgimento del SNC, con neurodegenerazione
progressiva, spesso responsabile di gravi deficit neurologici, è evidente che la correzione della patologia
neurologica rappresenta una delle sfide più importanti da affrontare con la ricerca degli anni futuri.
Già oggi esistono diversi approcci che sono stati sperimentati per migliorare la distribuzione di enzimi lisosomiali ricombinanti al SNC. La strategia più diretta
e scontata è quella basata sull’iniezione distrettuale
dell’enzima ricombinante. L’obiettivo principale di questo approccio è quello di alleviare la compressione
del midollo spinale e, forse, di migliorare il decorso
neurologico o cognitivo dei pazienti. La somministrazione, studiata in modelli animali di vari tipi di mucopolisaccaridosi, è stata fatta per via intratecale, a
livello lombare o nella cisterna magna. La somministrazione intratecale dell’ERT è stata tradotta in terapia umana per le mucopolisaccaridosi di tipo I, II e VI
(Giugliani et al., 2014; Dickson et al., 2015; Muenzer
et al., 2016). La somministrazione richiede tuttavia
procedure invasive e sono allo studio dispositivi specifici per minimizzare l’impatto sui pazienti.
Un altro approccio proposto è basato su modificazioni chimiche della componente oligosaccaridica degli
enzimi, in modo da modificarne l’affinità per il CI-MPR
e/o l’emivita plasmatica. Ad esempio, la beta-glucuronidasi, l’enzima deficitario nella mucopolisaccarido-
Come la ricerca sta affrontando le problematiche irrisolte nella diagnosi e nella terapia delle malattie metaboliche ereditarie
si VII, è stata modificata chimicamente per aumentarne l’emivita plasmatica. In pratica una maggiore e
più prolungata biodisponibilità plasmatica dell’enzima
si traduce in un facilitato il traffico attraverso la BBB
(Grubb et al., 2008). Un approccio simile è in corso
di valutazione per facilitare l’accesso di un enzima ricombinante, l’alfa-glucosidasi (GAA, l’enzima carente
nella glicogenosi II o m. di Pompe), non al SNC, bensì
al muscolo scheletrico. In questo caso, una preparazione chimicamente modificata di GAA (neo-GAA)
è stata arricchita di residui di mannosio-6-fosfato, in
modo da migliorarne la distribuzione la muscolo (Zhu
et al., 2005).
Un altro tipo di approccio ancora più innovativo e affascinante è basato sull’uso dei cosiddetti “cavalli di
Troia”. Con questo approccio gli enzimi ricombinanti
sono ingegnerizzati in modo da renderli chimerici. Si
tratta, cioè, di proteine risultanti dalla fusione della sequenza dell’enzima che si vuol fare arrivare al SNC
con altri peptidi specifici. Quest’ultima componente
(il peptide estraneo, fuso con l’enzima) in generale
è un frammento di una proteina che è riconosciuta
da recettori specifici e quindi fa viaggiare l’enzima
terapeutico non attraverso la via normale (quella del
mannosio-6-fosfato e del recettore CI-MPR), ma attra-
verso altri percorsi che consentono una più facile penetrazione nel SNC. Un esempio è rappresentato dalla fusione di un enzima lisosomiale ricombinante con
un anticorpo anti-recettore della trasferrina. In questo
caso l’enzima è “trasportato” attraverso un percorso
non seguito fisiologicamente, dalla sequenza dell’anticorpo e dal recettore della trasferrina (Fig. 1). Studi
preclinici basati su questo approccio sono già stati
avviati in modelli animali per l’alfa-iduronidasi (Boado
et al., 2008; Osborn et al., 2008; Boado et al., 2009;
Bockenhoff et al., 2014), l’iduronato-2-solfatasi (Zhou
et al., 2012), l’arilsolfatasi A (Bockenhoff et al., 2014) e
per la tripeptidil peptidasi I (Meng et al., 2014).
Più di recente sono stati proposti approcci basati sulla
coniugazione della beta-glucocerebrosidasi ricombinante con peptidi (Rabies glycoprotein derived peptide, tetanus like protein e human immunodeficiency
virus 1 transactivator of transcription) che sembrerebbero migliorare l’efficacia della correzione enzimatica
in cellule di origine neuronale. Se questo approccio
venisse confermato in vivo, rappresenterebbe un’ulteriore utile strumento per migliorare l’efficacia della
ERT nel SNC (Gramlich et al., 2016).
Sorrentino et al. (2013) hanno inoltre dimostrato che
questo approccio potrebbe essere applicabile anche
Figura 1. La coniugazione di un enzima lisosomiale ricombinante con un anticorpo anti-recettore della trasferrina permette all’enzima di essere riconosciuto dalle cellule endoteliali della barriera ematoencefalica ed essere trasportato alle
cellule cerebrali, al contrario dell’enzima nativo che non è riconosciuto da recettori specifici e ha una scarsa penetrazione
nel sistema nervoso centrale.
31
G. Parenti, N. Brunetti-Pierri
per migliorare l’efficacia a livello del SNC della terapia
genica diretta al fegato. Questo gruppo ha messo a
punto un costrutto virale basato su un vettore adenoassociato (AAV) che codifica per una eparan sulfamidasi (l’enzima carente nella mucopolisaccaridosi IIIA,
o m. di Sanfilippo) fusa con il signal peptide di un
altro enzima lisosomiale altamente secreto, l’iduronato-2-solfatasi, e con una sequenza dell’apolipoproteina B (ApoB). Dopo iniezione per via intravenosa nel
modello murino di mucopolisaccaridosi IIIA, il gene
codificante per l’enzima modificato è stato trasferito
nelle cellule del fegato (che in questo modo rappresentano una fonte costante di enzima), prodotto e
secreto nel plasma. Attraverso la circolazione sanguigna l’enzima viene distribuito, grazie alla componente ApoB, a tutti i tessuti dotati di questo recettore,
compreso il SNC. Questo si è tradotto in un’efficiente
correzione del deficit enzimatico a livello cerebrale ed
una migliore clearance del substrato accumulato nel
SNC.
Oltre alla limitata biodisponibilità degli enzimi lisosomiali, la ERT si associa ad altre problematiche. Una di
queste, molto sentita nei paesi che dispongono di minori risorse economiche (paesi del terzo mondo, paesi in fase di revisione del bilancio finanziario), è quella
degli elevati costi di queste terapie. Il trattamento di
un singolo paziente affetto da malattia lisosomiale
può costare fino a diverse centinaia di migliaia di euro
all’anno. I costi di produzione e soprattutto gli investimenti in ricerca e sperimentazione contribuiscono
al costo elevato degli enzimi lisosomiali ricombinanti.
Un’attenta analisi di questi aspetti è stata fatta nel Regno Unito alcuni anni fa (Wyatt et al., 2012). Come è
possibile affrontare questo problema?
In realtà nuove tecnologie per la produzione di proteine ricombinanti sono già in avanzato stato di sperimentazione. In particolare la produzione di proteine
umane in piante geneticamente modificate risulta molto interessante e promette di abbassare notevolmente
i costi degli enzimi ricombinanti. Una beta-glucocerebrosidasi ricombinante è stata prodotta in cellule di
carota (Shaaltiel et al., 2007) ed è già approvata dal
2012 per l’uso clinico nella malattia di Gaucher. Altri
processi di produzione, ad esempio in semi di riso
(oryza sativa), sono stati segnalati (Patti et al., 2012).
Altri approcci terapeutici
per la cura delle malattie lisosomiali
Nonostante alcuni buoni risultati conseguiti dalla ERT
in alcune malattie lisosomiali, con rare eccezioni le
terapie oggi disponibili non hanno risolto interamente
le problematiche cliniche associate a queste malattie.
Le malattie lisosomiali restano perciò tuttora responsabili di unmet medical needs. In realtà anche in questo senso la ricerca attuale è estremamente attiva e
molto si sta facendo per sviluppare approcci alternativi o complementari alla ERT.
32
Uno di questi approcci, il primo a comparire sulla
scena dopo la ERT, è quello basato sulla cosiddetta “riduzione del substrato” (substrate reduction therapy – SRT). Le manifestazioni anatomopatologiche e
cliniche delle malattie lisosomiali, come è noto, sono
dovute allo sbilanciamento dell’equilibrio tra sintesi di
un substrato (in genere molecole complesse come
mucopolisaccaridi, sfingolipidi, oligosaccaridi) e la
loro degradazione a opera degli enzimi lisosomiali.
Se la ERT ha come scopo quello di rimpiazzare livelli sufficienti di enzima con la somministrazione di
enzimi ricombinanti, la SRT ha invece lo scopo di ridurre il carico di substrato, inibendone (parzialmente)
la sintesi. Questo compito è generalmente realizzato
con piccole molecole inibitrici di enzimi coinvolti nella
biosintesi dei diversi substrati.
Questo approccio è già in uso clinico in alcune malattie. Il miglustat, è stato approvato per il trattamento
della malattia di Gaucher tipo 1 (Cox et al., 2000; Elstein et al., 2007) e di Niemann-Pick di tipo C (Patterson et al., 2007; Fecarotta et al., 2015; Patterson et
al., 2015). Un altro inibitore della sintesi di substrato,
l’eliglustat tartrato, è stato introdotto di recente e valutato in uno studio clinico di fase II (Lukina et al., 2014;
Cox et al., 2015), ancora per il trattamento della malattia di Gaucher. La genisteina flavonoide è stata proposta come trattamento per alcune mucopolisaccaridosi (Piotrowska et al., 2011). Uno studio clinico di
fase III con alte dosi di genisteina orale aglicone è tuttora in corso (www.mahsc.ac.uk/projects/clinical-trialgenistein-novel-treatment-sanfilippo-diseases/). Altri
farmaci che inibiscono gli enzimi EXTL2 and EXTL3
(implicati nella biosintesi dei mucopolisaccaridi) sono
in corso di studio per possibili applicazioni nella cura
delle mucopolisaccaridosi (Canals et al., 2015).
Un altro approccio terapeutico promettente è quello
basato sulla terapia con chaperones farmacologici
(pharmacological chaperone therapy – PCT). La PCT
si basa sul concetto che spesso malattie con perdita
di funzione enzimatica, come le malattie lisosomiali,
sono causate da mutazioni missenso che, piuttosto
che rendere gli enzimi inattivi, alterano la loro conformazione tridimensionale o struttura terziaria e ne
causano il misfolding. Questi enzimi alterati nella loro
conformazione possono essere riconosciuti dai sistemi di controllo della qualità del reticolo endoplasmatico (ER) e degradati, possono essere impropriamente
glicosilati, o possono non raggiungere la destinazione
corretta nelle cellule (in questo caso i lisosomi) (Germain e Fan, 2009; Parenti, 2009; Parenti et al., 2015).
Pertanto, in queste malattie la perdita della funzione
non è dovuta alla perdita di attività catalitica, ma piuttosto è il risultato della degradazione o della localizzazione aberrante della proteina enzimatica (Fig. 2).
Piccole molecole e chaperones farmacologici possono interagire con le proteine mutanti,
​​
favorirne la
conformazione nativa, migliorarne la loro stabilità e
consentirne il traffico corretto ai lisosomi. Come risul-
Come la ricerca sta affrontando le problematiche irrisolte nella diagnosi e nella terapia delle malattie metaboliche ereditarie
Figura 2. In molte malattie metaboliche ereditarie, le mutazioni genetiche non comportano perdita di attività catalitica,
ma piuttosto difetti di folding della proteina con conseguente riconoscimento da parte delle proteine del controllo di qualità (QC – quality control) ed eccessiva degradazione della proteina. Gli chaperones farmacologici (CF) interagiscono con
le proteine ​mutanti stabilizzandole, permettendone il traffico intracellulare fino ai lisosomi e ripristinando in questo modo
l’attività enzimatica dell’enzima mutante. Alcuni CF migliorano anche la stabilità e l’efficacia degli enzimi ricombinanti,
che sono comunemente utilizzati per la enzyme replacement therapy (ERT).
tato, l’attività enzimatica della proteina mutante è parzialmente ripristinata. La PCT è stata proposta come
una strategia terapeutica per trattare alcune malattie
lisosomiali (Parenti, 2009) ed è attualmente in fase di
valutazione trial clinici di fase I/II.
I primi risultati di questi trial clinici stanno comparendo
in letteratura. Buoni risultati sulla clearance di substrato
sono stati ottenuto nella malattia di Fabry (Young-Gqamana et al., 2013). Uno studio pilota basato sull’uso
dell’ambroxol nella malattia di Gaucher ha ugualmente
dato risultati incoraggianti (Narita et al. 2016).
Un’evoluzione importante della PCT è stata la dimostrazione che alcuni chaperones non solo sono in
grado di proteggere dalla degradazione gli enzimi
mutanti endogeni, ma possono anche migliorare la
stabilità fisica ed eventualmente l’efficacia degli enzimi ricombinanti che sono comunemente utilizzati per
la ERT (Fig. 2, box tratteggiato). Questo effetto è stato
dimostrato in vitro e in vivo per le malattie di Pompe,
Fabry e Gaucher. Uno studio clinico italiano su 13 pazienti affetti da malattia di Pompe ha dimostrato che
uno chaperone farmacologico aumenta la stabilità
dell’enzima ricombinate (alglucosidasi alfa) nel sangue dei pazienti (Parenti et al., 2014).
Un trial basato sullo stesso principio, co-somministrazione di una chaperone e di un enzima ricombinante
(in questo caso l’alfa-galattosidasi), è stato di recente completato con risultati simili e cioè una migliore
stabilità dell’enzima ricombinante se somministrato
insieme allo chaperone (Warnock et al., 2015).
Il panorama delle strategie terapeutiche per le malattie lisosomiali è comunque ancora più ampio. Recenti
studi hanno dimostrato che manipolando in pathways
metabolici che si scompensano secondariamente
all’accumulo di substrati nei lisosomi è possibile migliorare il quadro anatomopatologico e probabilmente
alleviare la sintomatologia dei pazienti.
La stimolazione di un gene coinvolto nella regolazione della funzione lisosomiale (transcription factor
EB – TFEB) in un modello animale di malattia di Pompe ha portato alla quasi normalizzazione dell’architettura del muscolo e alla riduzione dell’accumulo di
33
G. Parenti, N. Brunetti-Pierri
glicogeno nei muscoli scheletrici (Spampanato et al.,
2013). Risultati simili sono stati ottenuti anche in altre
malattie lisosomiali e non-lisosomiali (Medina et al.,
2011; Ballabio, 2016). Un gene simile (TFE3) è stato di
recente identificato come altro potenziale target terapeutico nella malattia di Pompe (Martina et al., 2014).
La stimolazione farmacologica della produzione di
HSP70 (una heat shock protein che aiuta le proteine native a raggiungere la corretta conformazione e
le protegge dalla degradazione) porta alla stabilizzazione dei lisosomi in modelli di malattia di NiemannPick tipo C e al miglioramento delle anomalie cellulari
(Kirkegaard et al., 2010). Un trial clinico con arimoclomolo (il farmaco che appunto stimola HSP70) è ora
in corso.
Infine, studi sul ruolo dell’infiammazione nelle malattie lisosomiali, particolarmente sulle manifestazioni scheletriche (Simonaro, 2010; Kollmann et al.,
2013; Clarke e Hollak, 2015) hanno suggerito ulteriori
strategie terapeutiche. Un trial clinico basato sull’uso di pentosan solfato (un farmaco modulatore dei
pathway dell’infiammazione) è attualmente già in corso (Schuchman et al., 2013).
La terapia genica:
prospettive future
La terapia genica ha il potenziale di poter curare in
maniera definitiva molte MME agendo sulla causa primaria delle malattie, ossia la mutazione genetica. La
terapia genica per le malattie genetiche ha avuto un
considerevole sviluppo a livello preclinico negli ultimi
anni ed in un numero crescente di casi è stata intrapresa la sperimentazione nell’uomo. Gli approcci per
il trasferimento genico sono stati molteplici e ciascuno
di essi ha specifici vantaggi e svantaggi. Queste malattie sono ottimi candidati, perché per molte di esse
anche piccoli aumenti di attività enzimatica (spesso
anche del 10%) possano essere sufficienti per ottenere un beneficio clinico.
Nonostante i problemi di tossicità, come ad esempio l’immunogenicità del vettore e/o il prodotto del
transgene, la prevalenza di immunità preesistente
contro il vettore, la cancerogenicità inserzionale di
alcuni vettori e la perdita di espressione a causa della proliferazione tissutale per vettori non-integranti,
i risultati finora ottenuti lasciano sperare che questi
problemi possano essere superati. Nuove tecnologie (zinc finger, TALEN, e CRISPR/Cas9) sono state
recentemente sviluppate per ottenere la correzione
genomica della mutazione (cosiddetto gene editing)
e rappresentano la prossima generazione di farmaci
per la terapia genica. Anche se questi approcci sono
ancora lontani dall’essere utilizzati in applicazioni cliniche a causa di problemi rilevanti legati alla sicurezza (alterazioni genomiche off-target), essi potrebbero
superare molti degli ostacoli dei vettori attualmente
disponibili per la terapia genica, quali la perdita di
espressione del transgene secondaria alla proliferazione cellulare e potrebbero consentire l’espressione
del gene nel suo fisiologico contesto genomico.
In conclusione, la terapia di sostituzione genica ha
conseguito importanti successi in clinica e, sulla base
del costante progresso fino a oggi, ci aspettiamo che
diverse MME saranno indagate nei pazienti nell’immediato futuro. Maggiori dettagli sugli approcci di
terapia genica sono stati precedentemente discussi
in articoli di Prospettive in Pediatria (Brunetti-Pierri,
2008; Mussolino, 2012) e si rimanda il lettore a queste
revisioni e altri articoli disponibili in letteratura (Piccolo e Brunetti-Pierri, 2015; Ginocchio e Brunetti-Pierri,
2016).
Box di orientamento
• Cosa si sapeva prima
Nel corso degli ultimi decenni sono stati fatti enormi progressi nella diagnosi e terapia delle malattie metaboliche ereditarie. Per molte malattie sono state sviluppate terapie altamente efficaci.
• Cosa sappiamo adesso
Sappiamo tuttavia che per molte malattie l’efficacia terapeutica è stata parziale e sono emerse problematiche ancora insolute. La ricerca futura dovrà affrontare e confrontarsi con le sfide poste da queste
malattie metaboliche e dalle problematiche irrisolte ad esse associate. Nuove strategie diagnostiche (ad
esempio, basate su next generation sequencing) e terapeutiche (ad esempio, tecniche per migliorare la
biodisponibilità dei farmaci, terapie geniche e genome editing) sono già in corso di sviluppo.
• Quali ricadute sulla pratica clinica
Le nuove metodologie entreranno sempre di più nella pratica clinica e contribuiranno a migliorare e ottimizzare l’approccio diagnostico, l’efficacia delle terapie e la prognosi dei pazienti. I pediatri, non solo
quelli impegnati nella cura di pazienti con malattie metaboliche ereditarie, dovranno acquisire familiarità
con queste metodiche.
34
Come la ricerca sta affrontando le problematiche irrisolte nella diagnosi e nella terapia delle malattie metaboliche ereditarie
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Corrispondenza
Giancarlo Parenti
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria, Università Federico II, via Pansini 5, 80131 Napoli E-mail: [email protected]
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