Da piccolino caddi in una pagina
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Da piccolino caddi in una pagina
Da piccolino caddi in una pagina Dove ti dimostri tenero, là individui il tuo plurale. Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso Non lo sai? Scrivendo e leggendo ci si imbatte nelle proprie emozioni. Conviene imparare da piccoli, cosa credi? Meglio imparare da subito a tuffarsi in un libro, imparare a riconoscere e a dire le proprie sensazioni. Più tardi potrebbe essere troppo tardi. Davvero. Potrebbero arrestarci per analfabetismo affettivo. Scrivere è come giocare: inutile e necessario. Una carezza. E la carezza è una mano rivestita di pazienza che tocca senza ferire. Una mano che scrive. Imparare a turbarsi, a emozionarsi. Questo ci serve, questo importa. È impossibile amare mantenendo intatto il proprio io. E la scrittura affronta in maniera diretta i sentimenti opposti di potere e impotenza, mescola la sensazione di gravità che impone la passione creatrice e la leggerezza che deriva dall’aver potuto esprimere la nostra individualità. Regole e libertà. E tenerezza. Ma essere teneri significa comportarsi come un insorto civile che dinanzi alla violenza quotidiana dice: no! Differenti, per non restare indifferenti. Per scrivere e per leggere ci vuole una pazienza ferma, testarda. Altro che. Una forza dolce. Un prendersi cura di sé e degli altri, un farsi umili e cocciuti, fino a diventare lettori ostinati, scrittori testardi. Scrittura come prolungamento del sentimento, ecco. Come palestra dell’intimità. Lettura come cura di sé. Già. Versare nelle orecchie e nel cuore racconti dolci, romanzi sconfinati, poesie minuscole. La scrittura è empatia e distanza, distacco e tenerezza. Parlare a me mentre parlo di me. Forse ci serve a capire meglio quello che non siamo, che ci viene a trovare perché gli siamo andati incontro. Prendendo un foglio e impugnando una penna. Oltre la mia stanza, oltre il giardino, oltre il recinto il libro corre, si ferma e riparte. E le parole si agitano dentro di me, e mi agitano. Mi mordono il cuore, perché l’amore è sempre affamato. A volte la malinconia si diffonde, ti fa ammutolire, e la tua voce allora sogna di fuggire nel silenzio, per non dire niente. Mai più. Altre volte suona falsa, la tua voce ha dentro una bugia. Il tuo sguardo allora si aggira nella stanza alla ricerca di una fessura, di un alito di vento, di una minuscola luce. Nella tua testa c’è un gruppo di parole che passa. Alcune sono parole povere e si somigliano tutte, famiglie intere di parole quasi uguali tra loro. Altre sono vecchie, trascinano le gambe e il cuore. Le conosci fin troppo bene, non brillano più, hanno perduto i loro incanti. Ma prima o poi la finestra si spalanca e s’infila con furia nella stanza l’aria fresca, umida di vento che è passato sul fiume. La voce torna dolce, allora, a volte sussurra, a volte canta. Una parola ti sorprende, ti cade nel piatto, buona da mangiare, buona da pensare, da leggere. Arriva improvvisa una parola. Arriva luminosa e poi si spegne, come una stella caduta in un pozzo. Poi ne arriva un’altra, testarda, si pianta nella testa, mette radici. Arriva come un aiuto per andare, come un bastone, un legno duro per appoggiare il passo. Allora ti ci appoggi volentieri, cammini e cammini, annusando il vento, cogliendo bacche, parlando alle lucertole. Lo fai seduto nella tua profonda e alta poltrona di cuoio, soltanto guardando fuori, e l’unica vita che vedi entra tutta attraverso quell’unica finestra. Con un passo lento e prudente, ma eccitato, semini impronte di parole. Parole che muoiono e rinascono nelle parole, l’una nell’altra, cenere e seme. E una pagina ti chiama, una frase ti sorride. Sei ubriaco di pensieri. Vuoi scrivere un libro leggero. Un libro pieno di vento. Stai attento a quello che scrivi e a quello che cancelli, a quello che trattieni per te e a quello a cui rinunci, come in amore. La finestra resta spalancata, intanto, così come l’ha spinta il vento. Ondeggiano come ali le leggere tendine. Scrivere è per te uscire di casa e tornarvi, l’ansia di salire le scale e il sollievo di ridiscenderle. È andare per deserti, alture scoscese, strapiombi, è inoltrarsi nella boscaglia dei sentimenti ignoti. Nella tua storia cade una pioggia fiacca e triste, o splende il sole, ti capita un addio, un’imboscata, e tu cammini ancora. Entri e esci dall’ombra, vai avanti, molestato da insetti fastidiosi. Intento a guardare sotto le pietre. Vuoi scrivere un libro, una canzone piena di parole. Vuoi dire tutto il mondo. E il mondo non riesce a starsene quieto. Il vento che soffia, le nuvole che passano, per non parlare della pioggia. Tutto però procede bene nel fiume delle cose, come nel tuo libro. Ce la metti tutta per usare il pensiero e il sentimento, per scrivere intenso, per scrivere forte e trasparente come da dentro un cristallo, o da un diamante da cui sfugge una luce pura e densa. Te ne stai nella scrittura, un posto solitario e malinconico. E pensi che l’amore deve insediarsi nella scrittura. Ti senti tenero, perforabile, come la fibra di certi legni. Allora dentro le pagine anche l’assurdo si piega a un senso e, come una fortuna o un destino, i pensieri scivolano dentro le parole, e le parole lentamente nel cuore. Fuori si sente solo la pioggia, e nella testa una folla di parole al tempo stesso paziente e agitata. Pensi che scrivere è come precedere il tempo, arrampicarsi fino ad una casa sicura. Sei ripidi gradini che salgono fino a un robusto portone di legno. E quanto meno te l’aspetti, come dopo un litigio forte, i personaggi della tua storia ti danno un bacio sulla guancia, e tu fai un piccolo sospiro di piacere, ti sfiori la guancia con le dita e fai un largo sorriso, gli occhi fissi sulle mani intrecciate sul tavolo davanti a te. E’ questo, scrivere, cosa credi? Spingere il cuore oltre l’ostacolo, soffocare l’egoismo della paura, infilarsi in fretta nel cuore di un altro e fargli compagnia. Allora stai lì sapendo bene di esserci finito per caso, senza voglia né intenzione, senza entusiasmo. Ma già che ci sei decidi di rimanerci, ora, di dire la tua. Allora parli dolcemente, ma chiaro. Vai. Scegli il sentiero più difficile, il più accidentato. Un lavoro assurdo, certo, senza speranza. Come svuotare il mare, come tenere il vento. Solo come un nomade perduto in una tempesta di sabbia. A scrutare, a frugare, a cercare un paese innocente. Perché hai il cuore bambino. Cammini e cammini, insegui i tuoi personaggi, ascolti il loro racconto silenzioso, come un sasso levigato lo raccogli e lo rivolti tra le dita. Ascolti e ascolti, paziente, e poi ridi di un sorriso segreto, in una notte meno paurosa e sicuramente stellata, sostenendo quegli sguardi carichi di rabbia e di dolore. È questo, scrivere, parlare forte a bassa voce. Parlare piano ed essere sentiti lontano, dire parole intime, personali, eppure essere capiti dal mondo. Dopo un po’ capisci che se funziona, quello che dici, se emoziona qualcuno, allora le parole sono quelle giuste, e stanno miracolosamente intrecciandosi coi pensieri degli altri. Capisci che puoi coltivare il tuo linguaggio come un orticello discreto, certo, ma inevitabilmente giunge il momento in cui l’orto esce dai propri confini e si unisce ai prati, ai boschi, alla savana. La scrittura è così. Non salotto culturale, buon gusto, ottime frequentazioni. La scrittura è foresta: violenta, eccessiva, smisurata. Una foresta organizzata eppure lussureggiante. Una seducente selva oscura. Allora capisci che è dolce scrivere bene un racconto, con pazienza soffiarne via le cose inutili, farne un denso distillato di parole. E dopo lo scrivere il silenzio è cambiato. È bastato un fiato di parole, un rigo di scrittura. C’è un foglio di carta sul tavolo, adesso, con le parole scritte sopra. E quando rileggi le parole giuste e preziose che hai trovato te ne torni nella realtà stanco come chi ha lavorato molto, portandoti sottobraccio l’aquilone che solo per un pelo non è andato perduto. Oggi hai vinto. Chissà se domani perderai.