Una forma istituzionale della poesia burchiellesca: la ricetta medica
Transcript
Una forma istituzionale della poesia burchiellesca: la ricetta medica
UNA FORMA ISTITUZIONALE DELLA POESIA BURCHIELLESCA: LA RICETTA MEDICA, COSMETICA, CULINARIA TRA PARODIA E NONSENSE I. La ricetta come forma istituzionale della rimeria ‘alla burchia’ Il sonetto costruito secondo uno schema farmacopeico rappresenta una delle forme più caratterizzanti della rimeria di stile burchiellesco: la presenza di sintagmi formulari, una sintassi ripetitiva con larga prevalenza della paratassi, l’ampia libertà di utilizzo dei materiali lessicali più disparati e delle più bizzarre iuncturae sono elementi distintivi della tecnica ‘alla burchia’ che trovano nella struttura della ricetta una sede ideale, anche in forza dell’ampio orizzonte tematico disponibile. Nei vari testi che prenderemo in esame, infatti, un medesimo canovaccio opera • • • per la ricetta culinaria (che ammicca all’ossessione per il cibo ed alle immagini d’abbondanza tipiche del filone carnevalesco); per quella medica (dove confluiscono le ricche tradizioni, tra loro collegate, della satira del ciarlatano e dell’invectiva contra medicum); per quella meno nota, ma assai diffusa nel Rinascimento, della ricetta cosmetica (dove si può pure intravedere un rapporto vitale, anche se meno diretto, con la polemica sulle mode femminili, che attraversa molti generi coevi in verso e prosa). Com’è noto, il compiacimento per l’elencazione delle vivande possiede radici molto antiche che dal plazer transalpino arrivano alla rimeria toscana attraverso l’importante mediazione del giullare Niccolò Povero: le sue paneruzzole o mattane si distinguono per il tono burchiellesco prodotto dal vertiginoso accumulo di voci e sintagmi disparatissimi, ove tuttavia prevale il referente gastronomico e non manca un accenno di ricetta, condotta nel consueto tono paradossale: Piovon frittelle e icodelle di lente E macheron che son ben incaciati E molte quaglie ci son di presente […] E se ti vuoi guarir del mal del fianco Mangia otto some e più di matton rotti. Se riposar ti vuoi quando se’ stanco, porta un gran peso e va’ sempre correndo e di cattività non sarai manco.1 Con intento più o meno serio, sono molti i menu messi in rima, per mezzo di testi che si riducono a sfrenata esibizione di prelbatezze, spesso sciorinate con una sintassi di grado zero, mera giustapposizione di sintagmi nominali. Così è già in Simone de’ Prodenzani, che descrive una grande abbuffata con un trittico di sonetti (LI-LIII), in cui è sensibile la parodia dei generi seri, a partire dalla invocazione di una specialissima triade di santi protettori, quali il pasticciere Macario, Tomaciello e Gaudenço, ricondotti ovviamente a 1 Sono i vv. 163-165 e 173-177 della prima paneruzzola, riportata da G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello, Manziana, Vecchiarelli, 2005, p. 133. ‘macaroni’, ‘tomacelli’ (ovvero ‘polpette’) e ‘godere’ rispettivamente.2 La consonanza con i testi burchielleschi è evidente nel son. LII, dove l’apparato sintattico è ridotto all’osso (vengono impiegati solo tre verbi, evideznziati in corsivo): Tortelli in scudella e bramangieri, suppa franciesca, lasagnia e ’ntermesso, raviuoli prima e poi ci venne el lesso: polli sommate, cinghiale e’ pevieri, poi caprioli e lepori in civieri, tordi, piccioni, starne arrosto apresso, con vin vermegli et aranci con esso, poi parmigiane, tartare e pastieri. bianchi savori, verdi e camellini, composta, ulive concie qui si pone, per far nostri apititi aguççi e fini; pere cotte e treggiea quivi sone, uva passarmelle appie e nociellini, poi anasi confetti e ’l ciantellone. [Prodenzani, Rime, LII (p. 302)] La rassegna di pietanze sopraffini è solo uno dei modi in cui si concretizza la visione del regno di Cuccagna, motivo letterario dall’ampio spettro sociologico dove la parata dell’abbondanza e della ghiottoneria è destinata a strabiliare il pubblico ma soprattutto ad esorcizzare la fame e la carestia, come splendidamente ha illustrato Piero Camporesi nel suo saggio Il paese della fame.3 Del resto, il sonetto burchiellesco – come qualunque altro testo che prenda ad oggetto il cibo – non può sottrarsi a una delle più universali chiavi d’interpretazione della letteratura del Rinascimento, la dialettica tra Carnevale e Quaresima, due polarità che il testo comico sviluppa in termini ugualmente iperbolici e paradossali. Nei Sonetti del Burchiello troviamo infatti uno «che fè il Burchiello per la quaresima» (XC: Apro la bocca secondo i bocconi; la rubrica è del Trivulziano 976, ma condivisa da altri due codici), ove invece di inebrianti visioni d’abbondanza troviamo una rassegna di cibi penitenziali, quali pesce minuto e di qualità scadente, legumi vari indicati con voci di sapore gergale: «[mangio] talor quel dipintor co’ suo prigioni ǀ che niun per povertà fu mai riscosso ǀ quando quel calzaiuolo» (XC, 5-7); grazie al soccorso di glosse marginali di alcuni copisti sappiamo che si tratta, rispettivamente, del ‘pisello’ e del ‘fagiolo’4. Per converso, il sonetto CLXXXI Da buon dì, gelatina mie sudata è imperniato su un’unica vivanda, la gelatina di carne appunto, di cui si tesse un appassionato elogio passandone in rassegna i vari ingredienti; la designazione di questi non è tuttavia diretta, ma lambiccatamente perifrastica, al limite dell’indovinello o del gergo: Quel tra Lerice e ’l porto dell’Amore o ne’ primi cuiussi del poeta, [forse il dum conderet urbem, di Virgilio, Aen. I 5] non ti mancò né pesto il venditore, 2 Simone de’ Prodenzani, Rime, edizione critica di F. Carboni, Manziana, Vecchiarelli, 2003, 2 voll.: si tratta del son. LI (i nomi parlanti si trovano ai vv. 1, 5 e 9). San Godenzo – che è anche un toponimo dell’appennino tosco-emiliano – appare due volte anche nei Sonetti del Burchiello, XCIX 7 e CVIII 9. 3 Il riferimento è a P. Camporesi, Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1978 (poi Milano, Garzanti, 2000). 4 Si tratta di glosse marginali del Vat. Rossiano 985, ma nel Panciatichiano 25 della Nazionale di Firenze tali glosse appaiono subentrate al testo e creano versi grossolanamente ipermetri: «talor quel dipintor pisello co ’ suoi prigioni … quando quel chalza[i]uolo fag[i]uolo». nè la dolceza che sì gli orsi allieta e quando atrista li suo agricultore, vin, sal, gruogo, acqua, aceto a man discreta. (vv. 9-14) Anche a fronte della notevole libertà concessa dal codice burchiellesco, si tratta di un gioco linguistico decisamente anomalo per un testo farmacopeico, e invano si cercherebbero in questo sonetto le cifre formulari e stilistiche che caratterizzano questo sottogenere e che verranno esaminate in questo contributo. Occorre dunque definire (a) quali siano i connotati formali distinitivi del sonetto farmacopeico all’interno di corpora poetici ispirati allo stile burchiellesco; (b) sia pure in via di approssimazione, l’incidenza quantitativa di questa tipologia testuale nei Sonetti del Burchiello ed in altri corpora poetici che – per ampiezza e varietà – possono fornire indicazioni soddisfacenti. II. Incidenza quantitativa nel corpus burchiellesco All’interno dei Sonetti del Burchiello, l’incidenza di testi propriamente svolti secondo uno schema farmacopeico è significativa ma non amplissima. A prescindere dagli accenni puntuali a questa tipologia testuale, disseminati in moltissimi testi ‘alla burchia’, si hanno infatti solo sette testi (su 223) interamente sviluppati sullo schema della ricetta, sebbene con modalità via via divergenti (i testi sono citati da Sonetti del Burchiello 2004): Se vuoi far l’arte dell’indovinare (III, p. 5) Se tu volessi fare un buon minuto (XXXI, p. 43) Signor mio caro, se tu hai la scesa (LXXXVII, p. 124) Chi guarir presto delle gotte vuole (CIII, p. 146) Qualunque al bagno vuol mandar la moglie (CXXVII, p. 178) Son medico in volgar, non in grammatica (CXXXI, p. 184) Se vuoi guarir del mal dello ’nfreddato (CLXIII, p. 228) Solo in tali testi operano tutti i fattori caratteristici di questo particolare filone, e in particolare quel tasso di formularità che rinvia esplicitamente alle compilazioni mediche e culinarie dell’epoca: • L’incipit ipotetico Se vuoi / Se tu volessi, seguito dalle finalità di applicazione della ricetta medica o dal piatto desiderato, come nei ricettari coevi, dove viene anche usato a mo’ di rubrica per l’intera ricetta: cfr. Se vuoi buon vermicelli per xij persone (XII ghiotti). Il verbo formulare, alla II persona, che introduce la lista di ingredienti è tipicamente To’ / Togli: per citare solo passi che presentano affinità contenutistiche con i nostri testi, si confronti questa ricetta dell’Ashburnham 349, c. 11r: «Se alcuno fosse refreddato ch(e) non potesse parlare togli orpim(en)to e peve e tritale b(e)n», che si può confrontare con Sonetti del Burchiello CLXIII Se vuoi guarir del mal dello ’nfreddato; nello stesso codice, c. 16v: «Se uno avesse cattiva memoria togli un’erba ch(e) à nome gallitrico e ma(n)za l’erba …», da confrontare con i vari riferimenti alla mnemotecnica presenti nel corpus burchiellesco (specie III, 9 et âpparare a mente la memoria). Togli era il più diffuso equivalente del latino Recipe, normalmente reso in forma abbreviata, e spesso conservato anche in contesto volgare: di uso diffuso già nel sec. XIII (Zucchero Bencivenni, GDLI), passa all’uso sostantivato per ‘ricetta’ solo nel sec. XVI, sulla scorta del francese (DEI). A noi interessa solo l’uso formulare, che introduce l’elenco degli ingredienti: ¶ Unguento da ochij perfectissimo. R(ecipe) onto sotille onci .j. e lavalo tre over quatro volti cu(m) aqua roxa … (Laur. Ashb. 348, c. 95r) o – in contesto poetico – Recipe a liberar dal mal del morbo (Ed. Londra 1757, p. ***). A questa struttura si conformano non solo i testi di carattere pratico e applicato, ma gran parte delle più nobili compilazioni in materia. Sebbene il mondo dei ricettari trequattrocenteschi sia un mare magnum ancora solo in minima parte esplorato, possono bastare gli esempi più noti (e diffusi in testimonianze d’epoca) ad esemplificare il nostro discorso: il Liber de coquina o de arte coquinaria, l’Antidotarium magistri Nicolai, maestro Martino, Bartolomeo Platina, lo pseudo-Michele Savonarola, i XII ghiotti. Dal Liber de arte coquinaria, possiamo citare uno stralcio casuale: «Togli capponi arrostiti, e i fegati loro con le spezie, e pane abbrusticato, trita nel mortaio; e distempera nel mortaio buono vino bianco et succhi agri, e poi smembra i detti capponi» (Ed. Zambrini, Bologna 1863, rist. anast. 1968). Sull’ampio spettro di utilizzo di tali ricettari, si dirà più avanti, bastino per adesso alcuni esempi che di tale rigido impianto formulare offre il Ricettario medico-cosmetico attribuito a Michele Savonarola (Ferrara, Biblioteca Ariostea, Cl. II 147), che illustra tra l’altro il modo di realizzare oro liquido e colori per la miniatura5: Recipe lo marmore bianco et mettilo ne lo letame fino che se comincia a regolare, te habbi del fiore di guado, cioè de la schiuma, cioè quando li tintori tinzeno, sia ben seco et mettilo a tridare suso la pietra et quanto ‹più› ne metti tanto più viene aperto. (Pseudo-Savonarola, p. 104). Da questo passo emerge l’uso di un altro verbo formulare, (h)abbi, usato per indicare la disponibilità di un ingrediente o per semplice variatio rispetto a togli e recipe. Anche questa voce è prontamente recepita nella parodia burchiellesca: poi fa’ Volterra in tutto dimagrire et habbi del bitur d’un anitrocco e di compieta il primo e sezzo tocco e questo è ’l modo se tu vuo’ volare (III, 5-8) Tra i verbi caratteristici della preparazione farmacologica, i più frequenti sono stillare o distillare, che indica l’estrazione o purificazione del principio per bollitura dei solidi o per condensa dei liquidi, come nel Ricettario Bardi: Recipe il mese di marzo ne’ fiumi, dove fanno le rane una certa schiuma, che drento vi stanno tre o quattro rane, e radunala, e poi la metterai a stillare a bagno, quando ne avrai ragunata quanta vorrai, e questa si domanda 5 Pseudo-Savonarola, A far littere de oro. Alchimia e tecnica della miniatura in un ricettario rinascimentale, a cura di Anronio P. Torresi, prefazione di Maruia Grazia Ciardi Duprè Dal Poggetto, Ferrara, Liberty House, 1992. sperma di rane stillata […] ottima per l’infiammazione della faccia, di occhi e di tutto il corpo.6 Puntualmente, il verbo compare in vari luoghi dei Sonetti del Burchiello, applicato ai più disparati ingredienti: Se vuoi far l’arte dello ’ndovinare tògli un sanese pazzo et uno sciocco, un aretin bizzarro et un balocco e fagli insieme poi tutti stillare. (III, 1-4) Stilla tre pipistregli e be’gli quando il giudice va a banco: questa ricetta è buona al mal del fianco. (CLXIII, 15-17) Scontrò messer Mariano che distillava barbe di tartufi per guarir del veder civette e gufi. (CLXXII, 15-17) Altrettanto caratteristico, e dunque passibile di impiego allusivo è pestare o battere, che indica la frantumazione degli ingredienti nel mortaio dello speziale, come nella ricetta per la tintura azzurra nel Cl. II 147 dell’Ariostea di Ferrara: A fare azuro Recipe lapis lazuli et pistalo bene sutilmente, te fa uno pastello di trementina e di sapone, et di rasa di pino, et quando haverai fatto lo pistello lascialo stare per 4 dì, te poi fa una liscia dolce che sia bene chiara e bella…7 Al pari di ungere, il verbo si presta a un impiego di forte allusività erotica, come del resto la metafora del mortaio, vulgatissima a partire dal Decameron (ad esempio, VIII 2)8; nei Sonetti, esso designa la particolare terapia destinata a ripristinare la fertilità di una moglie mediante il bagno termale: «Credi a me che son medico cerugo: ǀ fa’ che ogni sera pesti un petronciano ǀ e priemil con duo man e be’ti il sugo» (CXXVII, 9-11). Altrettanto si può dire dell’equivalente battere, che può tuttavia indicare anche l’atto di sminuzzare finemente gli ingredienti. L’esempio seguente ha un incipit che ricorda da vicino quello di uno dei nostri sonetti, il III Se tu volessi fare un buon minuto: 6 Il ricettario Bardi. Cosmesi e tecnica artistica nella Firenze medicea, a cura di Antonio P. Torresi, Ferrara, Liberty House, 1994, p. 130. 7 Pseudo-Savonarola, A far littere de oro, p. 104. 8 Si tratta delle parole con cui monna Belcolore restituisce il tabarro del prete da Varlungo: ‘Dirai così al sere da mia parte: - La Belcolore dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa in suo mortaio, non l'avete voi sì bello onor fatto di questa’. Il cherico se n'andò col tabarro e fece l'ambasciata al sere, a cui il prete ridendo disse: ‘Dira'le, quando tu la vedrai, che s'ella non ci presterà il mortaio, io non presterrò a lei il pestello’». Se vuoli fare minuto nella migliore maniera che fare si puote, togli due libre di mandorle et una buona anguilla frescha, e togli buone erbe oglenti bene monde e bene lavate, e mettele a lessare e battile bene.9 Gran parte dei rimedi illustrati nei ricettari del sec. XV sono concepiti per l’applicazione esterna, localizzata nell’area sofferente: impiastri, pittime (cioè impacchi, come negli stessi Sonetti, LXXXVII 9), lattovari, ma soprattutto unguenti. La famiglia ungere / unzione / unguento è la più ampiamente rappresentata nel linguaggio farmacopeico, come dimostra questo esempio tratto, ancora dal Ricettario Bardi, che propone un equivalente quattrocentesco della pillola blu: Oleum ad erectionem Priapi Recipe olio di pistacchi, olio di seme di senapa ana oncia meza; belgivi dramma una; fa linimento et unta le parti genitali (Ricettario Bardi, p. 130). III. L’apporto della tradizione mediolatina e dell’invectiva contra medicum Il sonetto imperniato sulla ricetta medica intrattiene un rapporto di analoga complessità con la tradizione precedente, cui contribuiscono in pari misura da un lato generi seri, quali l’invectiva contra medicum (l’esempio più cospicuo è il Petrarca di Familiares, V 19 e delle Invectivae appunto), dall’altro varie forme di parodia o satira del medico imbroglione o ciarlatano, attestate tanto in prosa quanto in versi. Si pensi al messer Mariano da Pisa, il messer Mariano citato sopra, che viene satireggiato tanto nei Motti e facezie del Piovano Arlotto quanto nei Sonetti del Burchiello attraverso la ricetta della sua specialità segreta, la famigerata utriaca che gli impostori smerciavano nelle piazze per curare ogni genere d’infermità; quella di Mariano non potrebbe essere più inconsistente: Limatura di corna di lumaca, vento di fabbro, d’organo e di rosta perché mosca giamai non vi s’accosta mette mastro Marian nell’utrïaca (LX, 1-4) Il sonetto abbandona poi lo schema della ricetta per dare libero sfogo alla varietà tipica dei testi ‘alla burchia’, ma Mariano ricompare in un altro sonetto del corpus, il CCXVI, attribuibile ad Andrea de’ Medici e interamente dedicato a mettere in berlina un impostore anche peggiore del proverbiale imbroglione pisano, il sarto castellan fatto sensale, che vanta anch’egli studi nella prestigiosa facoltà pisana di medicina. Mandagli il segno tuo nell’orinale e sollazando fa’ che fugga l’ozio, che, non che tu, ma s’e’ fusse uno Scozio ti chiarerà come fratel carnale. «Chicchi bichiacchi dice il tuo sanguigno, intendi me che già studiai a Pisa et ogni mal conosco senza signo». Mariano ch’ode scoppia delle risa, 9 [S. Morpurgo], LVII ricette d’un libro di cucina [= Ricc. 1071] del buon secolo della lingua, Bologna, N. Zanichelli, 1890, p. 21. ond’egli stringe i denti e ’l viso arcigno, bestemmia ogni potenza alla ricisa. (CCXVI, 5-14) In mancanza di adeguate conoscenze anatomiche, l’osservazione del campione (segno) dell’urina era la principale pratica diagnostica insieme a varie forme di palpamento del corpo.10 Chi pretende di conoscere una malattia senza signo (un vero controsenso per un medico serio, specie se laureato a Pisa) non può che affidarsi a un confuso sproloquio, finalizzato a gettare fumo negli occhi del paziente; la locuzione impiegata denota un’ignoranza ciarliera e petulante, ed è così spiegata nell’Hercolano di Benedetto Varchi: D’un ceriuolo o chiappolino il quale non sappia quello che si peschi né quante dita s’abbia nelle mani e vuol pure dimenarsi anch’egli per parer vivo o guizzare per non rimanere in secco, andando a favellare hora a questo letterato o mercante e quando a quell’altro, si dice: egli è un chicchi bichicchi e non sa quanti piedi s’entrano in uno stivale.11 In epoca antecedente al Burchiello, si trova un impiego diverso della ricetta all’interno di testi dal più spiccato carattere drammatico o narrativo; nella commedia mediolatina, ad esempio, è spesso la preparazione di medicine o unguenti miracolosi a risolvere situazioni complicate. In alcuni casi, gli autori indulgevano ad elencare gli ingredienti del composto, perlopiù improntati all’ossimoro o all’adynaton. Da ultimo, questo tipo di ricette impiegate in contesto letterario è stato studiato da Armando Bisanti, che si sofferma su un espediente attestato tanto nella commedia latina medievale quanto nella novellistica volgare (con esempi nel Baucis et Traso e nel Novelliere di Giovanni Sercambi), ovvero la ricetta destinata a restituire la malconcia verginità a una futura sposa in vista del suo matrimonio; il pedigree letterario di questo motivo non deve però fare dimenticare che tale prassi è ben attestata nei serissimi ricettari dell’epoca: Ad restringendam vulvam Recipe grani di sommaco, di mirto, di coriandoli, lente, cappelli di ghiande ana drame dua, palle di cipresso, di quercia preforata ana once quattro, allume di rocca oncia meza, cime di squinanti mezo manipolo. Farai polvere d’ogni cosa, e farai bollire in acqua serrata libbre otto, alla consumatione del terzo, poi cola e sprem, e spesso con una spugna in loco vi bagnate, e poi fatto questo userai quest’altro: scorze di pino oncia una, allume di rocca oncia meza, cipperi drame dua. Farai polvere d’ogni cosa e farai e farai bollire nella detta decotione, e poi bagnerete pezete di lino e le metterete spesso nel luoco dentro per otto giorni, che restringerà come se fosse fanciulla.12 Ma il saggio di Bisanti sottolinea anche il riutilizzo della ricetta in àmbito umanistico, dove la rassegna degli ingredienti stravaganti e paradossali offre il destro per esibire un raffinato repertorio mitologico; lo studioso cita un passo dei Carmina di Enea Silvio Piccolomini: 10 «Come stabilire una diagnosi, per esempio? Atraverso la vista e il tastamento, il medico riconosce senza sbagliarsi i disturbi la cui manifestazione è esterna […] numerosi trattati l’aiutano a stabilire la diagnosi fondandosi su due segni principali: il ritmo del polso e il colore o la consistenza delle urine» D. Jacquart, La medicina medievale alla prova, in Per una storia delle malattie, a cura di J. Le Goff e J-C. Sournia, Bari, Dedalo, 1986 (ed. orig. Les maladies ont une histoire, Paris, Seuil, 1985), pp. 71-76: 71. 11 B. Varchi, L’Hercolano. Edizione critica a cura di A. Sorella. Presentazione di P. Trovato, Pescara, Libreria dell’Università, 1995, 2 voll.: Intr. 704 (pp. 620-621). 12 Il Ricettario Bardi, p. 56. Tolle sonum ciceris, sicca dum veste tenetur, cum galli cantu decoque utrunque simul; Arpalices, quantum cursus capit, accipe dextra deque domo sumas tres Aquilonis apes; Tres Niobe lachrimas, duo tantum basia Prognes, illud, quod rapuit, det tibi litus, Hylam; Herculee libram dumtaxat sumito clave et pullum, feta est quem tua mula tibi; intuitum post hec captato libistidis urse et quicquid veri Lesbia dicit habe.13 Nelle sue fini annotatiunculae ai carmi del Piccolomini, Mario Martelli rileva il tono burchiellesco di questi adunata, e lo mette in relazione a un testo che si trova giustapposto ai Sonetti in alcune testimonianze quattrocentesche: si tratta di un anonimo capitolo ternario indicato dalle rubriche come Medicine, che narra una visione in cui appare un medico da strapazzo che espone le sue ricette e ‘proprietà’; ne cito alcuni stralci dal ms. Vat. Barb. 3936, c. 34r-v e 35r: In prima dicie: «A crescier i capelli, togli un quaderno de cichale lesse e grilli bianchi, e mescola co(n) elli; e poi le palme t’ongirai co(n) esse di piei: e statte al suol tridici nocte sença dormire e faraile spesse. […] A chi avesse i denti troppo secchi dagli a mangiar nove mactine a veglia una carrata di rose e di stecchi […] E si di porri vorrai guarir tosto torrai tre salta di lumacha e fagli bollire al vento e non dir: ‘I’ mi scosto’, et leghategli a’ piey con tre sonagli e uno archo di ponte e al sereno te sta’ tre dì, e fa’ che no(n) abagli». E così via, per un totale di 209 versi: nella seconda metà del Quattrocento, era dunque possibile organizzare un intero, lungo testo interamente sullo schema delle ricette bizzarre o paradossali, in modo che sui motivi tradizionali della satira del ciarlatano prevalesse largamente il gusto per il virtuosismo linguistico e retorico, la ricerca ossessiva di adynata e di iuncturae ossimoriche. La scelta dei copisti che abbinano questo strano capitolo ai Sonetti è dunque ben motivata: nonostante la vistosa infrazione dell’omogeneità metrica della raccolta (un criterio che porta molti scribi a omettere la canzone Voi che sentite gli amorosi vampi, certamente del Burchiello), il testo condivide con i sonetti ‘alla burchia’ il gusto per il gioco di parole, l’infrazione di varie forme di concatenazione logica, la sbrigliata inventiva lessicale. E come nel sonetto alla burchia, tale caleidoscopica varietà convive con una sintassi rigida e monotona, che non solo risulta in cola rigorosamente circoscritti alla singola terzina, quando non al singolo verso, ma è scandita periodicamente dalle frasi ipotetiche e dagli altri elementi formulari caratteristici della ricetta. 13 Aeneas Silvius Piccolomini, Epigrammata, XLI, cit. in A. Bisanti, Enea Silvio Piccolomini e le ricette impossibili, Schede umanistiche, n. s., 2 (2001), pp. 25-34: 26-27. IV. L’orizzonte tematico del ricettario Fin qui, ci si è primariamente soffermati su aspetti linguistici e formali del testo farmacopeico; tuttavia, è importantissimo notare che la maggioranza dei ricettari, e soprattutto le forme più comuni di compilazione ad uso familiare o di una piccola comunità, non si limitavano a ricette di carattere medico o culinario, ma cercavano di mettere insieme un autentico prontuario destinato a risolvere i molti problemi della vita quotidiana per tutti i membri della comunità: con un’occhio alle donne, destinatarie delle molte ricette di cosmesi, e con una certa attenzione per i problemi degli animali da trasporto (vi si trovano spesso intercalate ricette di mascalcia). Infine, in questa svariata fenomenologia testuale venivano mescolate e intercalate ricette di tipo magico-astrologico, incantesimi vari ed excerpta dai più famosi alchimisti del Medioevo, come dimostra la frequentissima inclusione di testi di Ramon Lull e Arnaud de Villeneuve: si possono citare esempi di notevole pregio estetico o storico come il Laur. Ashburnham 1166 e il citato Ricettario medico-cosmetico attribuito a Michele Savonarola. Ma per illustrare l’ampio spettro d’impiego di queste compilazioni farmacopeiche, converrà citare alcune ricette estratte dal ms. Firenze, Biblioteca Laurenziana, Ashburnham 349, codice cartaceo della metà circa del sec.XV: ¶ Se tu voli ch’un arboro n(on) abia foglie fin ala festa de san Zovan batista quella mattina de san Zovan(n)o inanti ch(e) leve el sole p[i]anta q(ual) arboro tu voli e n(on) farà foglia fin al dito dì de san Zovan(n)o. (c. 5v) ¶ Se tu voli che le tethe n(on) crescano mai a le fantine, fa’ castrare un porco e col sangue del coglione destro ungiglie la mamilla destra e con sangue del sinistro ungiglie la mamilla sinistra e mai n(on) cresceran(n)o più. (c. 13v) ¶ Se tu vol sempre avere i(n) memoria una do(n)na, q(ua)n(do) tu ma(n)ze de cappone togli q(ue)ll’ossecello più picholo ch(e) à i(n) cima de l’ala destra e ma(n)za q(ue)ll’osso p(er) so amore… (c. 18v) Credo che esempi come questo ci aiutino a demarcare con maggiore rigore quanto nei Sonetti o in altri testi possa (o non possa) definirsi nonsense. In altre parole, occorre definire in via preliminare l’orizzonte di quanto era atto a produrre questo tipo di straniamento in un lettore quattrocentesco, venendo percepito come bizzarro e deliberatamente strampalato; per converso, solo una più articolata conoscenza di tipologie testuali non letterarie o semi-letterarie, che costituivano nondimeno letture diffuse, addirittura consuete in certi àmbiti privati e familiari, può servire a delimitare proficuamente il territorio della parodia e a distinguerne i bersagli. Se ricettari come i citati vantavano un ampio credito da parte di vaste fasce d’utenza, non è inverosimile supporre che le fasce intellettualmente più avvedute nutrissero per tali testi un divertito scetticismo, che consuonava per giunta con l’ampia letteratura prosastica (ed il repertorio novellistico) afferenti alla citata tradizione contra medicum. V. Le raccolte di ricette e le descrizioni di banchetti: effetti di aggregazione spontanea e comicità involontaria Nel 1968, Domenico De Robertis pubblicava un saggio unanimemente considerato un pilastro della critica burchiellesca14, in cui indicava nei libri di gabella, e più in generale negli elenchi inventariali, un punto di riferimento importante per comprendere il gusto combinatorio delle enumerazioni burchiellesche, nonché la spontanea formazione di endecasillabi che risulta dalla giustapposizione di sintagmi nominali e dalle movenze di una sintassi modulare e prevedibile. La ‘proposta’ dello studioso, suggerita in relazione a semplici elenchi e inventari di merci andrebbe però applicata anche ad altre tipologie testuali, basate sull’elencazione ma non del tutto riconducibili a serie nominali. Laddove anzi l’enumeratio viene introdotta e accompagnata da una sia pure elementare e ripetitiva sintassi, quelle suggestive analogie sembrano moltiplicarsi e estendersi dalla semplice materia lessicale ai connettivi sintattici, dalla rigida scansione della paratassi al ricorrere di giri frasali che assumono spesso il tono formulare e memorabile dei cliché burchielleschi. Il testo farmacopeico è senz’altro una di queste tipologie: vi concorrono l’uso di un lessico inconsueto e peregrino, che evoca spesso l’esotico e il raro, l’ampia prevalenza della paratassi, l’abbondanza dei nessi e delle strutture formulari. Ma i documenti d’epoca non ci informano sulla gastronomia solo attraverso le ricette: molto apprendiamo anche dai resoconti di banchetti e conviti. Nella notevole varietà che li caratterizza (compilati da dipendenti della corte per esigenze di rendicontazione interna, da privati cittadini per informarne familiari e amici, o persino da storici e cronisti nell’ambito di opere di ampio respiro, ad esempio Bernardino Corio), essi condividono tratti comuni, specie relativi alla compresenza di un’analitica descrizione delle vivande (eventualmente corredata di informazioni sul costo dei relativi ingredienti) e di dettagliate informazioni sulla presentazione di esse, che da non solo privilegiava fattori quali la stravaganza simbolica o l’evocatività letteraria nella guarnizione dei cibi, ma avveniva con modalità autenticamente teatrali. Nelle varie forme di descrizione di questi sontuosi apparati, la sbrigliata fantasia dei registi dava corpo a visioni pienamente burchiellesche, che accozzavano animali rari e composizioni vegetali con molteplici riferimenti mitologici; al contempo, la modularità del dettato produceva – attraverso un ritmo ben scandito e spesso monotono – un gran numero di cola ritmici, che risultano assai spesso in endecasillabi involontari. Se ne trova un gran numero nei vari testi pubblicati da Claudio Benporat nella sua monografia sui banchetti di corte nel Quattrocento.15 La casistica è tale e tanta che è possibile divertirsi a mettere insieme un sonetto burchiellesco di una qualche plausibilità (sistema rimico a parte): Zellatina de pesci in piatti grandi, el Coliseo contraffatto e ornatissimo fece il Duca presenti di valuta e co˙llui il fattore dell’abate. Mense, trespoli et altri fornimenti corso amabile et vino de Grandoli meritamente li fo consegnata cum deci monstri marini argentati. Uno Hercule con un leone socto e colli supradicti Herculi Baccho di duecento miliara di fiorini: ancora furono portate in tavola ficatelli de pulli e de capretti, geladia in conche di vincorno. Per domenicha sera 14 15 [p. 159] [p. 157] [p. 144] [p. 137] [p. 137] [p. 159] [p. 188] [p. 272] [p. 169] [p. 170] [p. 141] [p. 174] [p. 281] [p. 175] [p. 145] D. De Robertis, Una proposta per Burchiello, «Rinascimento», 1968, pp. 1 segg. ***. C. Benporat, La cucina italiana del Quattrocento, Firenze, Olschki, 1997, 20012. furonvi servitori e cortigiani, finalmente compiuto il desinare. [p. 240] [p. 143] Mi si perdonerà lo sconfinamento ludico, se può servire a dare ragione della relativa facilità di questo tipo di versificazione, in cui la sintassi, frantumata e addomesticata dalle lunghe enumerationes, consegna al rimatore un’ampia messe di materiale, che permette di impostare il gioco su elementi accessori, quali il virtuosismo lessicale o l’esercizio retorico, comunque lontani da un qualsiasi sviluppo dei contenuti logici o narrativi. Solo in questi termini il testo farmacopeico può vantare una qualche cittadinanza nel variegato mondo del nonsense. Concludo con due avvertenze di carattere generale: se vogliamo attenerci alla sostanza di questi testi, e anche all’evidenza delle testimonianze d’epoca, sarà bene non tracciare un confine troppo netto fra cucina e farmacologia: più che di contiguità e complementarietà tra i due mondi, è infatti opportuno parlare di due aspetti della medesima materia. Senza addentrarci in un terreno troppo vasto per gli scopi di questo saggio, si può dire in sintesi che da un lato la salute umana era descritta in termini di equilibrio dei diversi umori e stabile complessione, riflesso dunque di un’alimentazione conforme all’individuo, dall’altro l’intervento sulla nutrizione era di fatto l’unica terapia farmacologica disponibile, con cibi e ingredienti disponibili in natura e destinati a controbilanciare scompensi nell’equilibrio umorale (bisognava attendere per altri due secoli per vedere i primi contributi della chimica applicata alle cure mediche). Infine, una compresenza di una sbrigliata varietà tematica e di rigide costrizioni sintattiche e formulari accomuna le sillogi di testi burchielleschi e i ricettari coevi anche sul piano della trasmissione testuale, in forza della notevole fluidità che i testimoni manifestano quanto a canone ed ordinamento, ma anche per la funzione-guida che in tali fluttuazioni assumono certi nuclei testuali. Sia che questi risalgano a precoci sistemazioni redazionali, sia che riflettano l’opera più tarda di copisti-collettori, si tratta di fattori che rendono possibile tracciare un profilo tassonomico della tradizione che può guidare la restituzione dei testi e al contempo offrire un’immagine del contesto socio-culturale in cui il testo si è diffuso, un riflesso insomma dell’operato di quanti – a partire da un insieme fluido di unità testuali apparentemente slegate tra di loro – hanno cercato di allestire un prodotto funzionale ai gusti o alle esigenze del loro particolare ambiente. In tal modo ha operato Lucia Bertolini in un saggio ricco di suggestioni metodologiche, che analizzava la tradizione dei XII ghiotti attraverso un attento monitoraggio degli spostamenti di determinati blocchi di ricette fra le varie testimonianze manoscritte.16 MICHELANGELO ZACCARELLO 16 L. Bertolini, Problemi testuali dei libri di cucina: l’organizzazione del testo nella tradizione dei ‘XII ghiotti’, «Bullettino senese di storia patria», C (1993), pp. 47-81. Laur. Ashburnham 348 (sec. XV metà): ¶A far una aqua odorifera ch(e) chaza lentizene e ogni machia del viso (et) c(etera): Item a fare una ch(e) fa el viso bello senza alcuno pericolo […] R(ecipe) saponaria trifoliu(m) acutum che ha li fiori bianchi, herba de san zuliane … (c. 10r) ¶ Triacha diateseron (et) c(etera): Triacha diateseron. Triacha ut diximus domina medicinarum diatesserarium de quatuor rebus de qua antiq(ui)tus (con)ficiebantur (cc. 17v18r). ¶ A far crescere li capilli, [R(ecipe)] ostrege e luxertelle in polvere fatto e messia cum melle crudo e sança de galina (cc. 38v-39r) ¶ A far aqua vale ale gotte frede e calde. E volsene in(n)aquare il vino. Et vale a desmetere el bevere del vino a pocho a pocho. Ancora poi ad aquare questa aqua cum aqua comuna. Et tien l’omo sì caldo del stomacho e de la testa che non tien quasi niente in testa (et) c(etera): R(ecipe) origano, menta, salvia … (c. 68r) ¶ Unguento da ochij perfectissimo. R(ecipe) onto sotille onci .j. e lavalo tre over quatro volti cu(m) aqua roxa … (c. 95r) Laur. Ashburnham 349 (sec. XV metà): ¶ Se tu voli ch’un arboro n(on) abia foglie fin ala festa de san zovan batista quella mattina de san zovan(n)o inanti ch(e) leve el sole p[i]anta q(ual) arboro tu voli e n(on) farà foglia fin al dito dì de san zovan(n)o. (c. 5v) ¶ Se uno avesse cattiva memoria togli un’erba ch(e) à nome gallitrico e ma(n)za l’erba … (c. 16v) ¶ Se alcuno fosse refreddato ch(e) non potesse parlare togli orpim(en)to e peve e tritale b(e)n (c. 11r) Se tu voli che le tethe n(on) crescano mai a le fantine, fa’ castrare un porco e col sangue del coglione destro ungiglie la mamilla destra e con sangue del sinistro ungiglie la mamilla sinistra e mai n(on) crescerai(n)o più. (c. 13v) Se tu vol sempre avere i(n) memoria una do(n)na, q(ua)n(do) tu ma(n)ze de cappone togli q(ue)ll’ossecello più picholo ch(e) à i(n) cima de l’ala destra e ma(n)za q(ue)ll’osso p(er) so amore… (c. 18v) XII ghiotti Formule: Se vuoi buon vermicelli per xij persone Ess. Benporat Zellatina de pesci in piatti grandi, [p. 159] el Coliseo contraffatto e ornatissimo [p. 157] fece il Duca presenti di valuta [p. 144] e co˙llui il fattore dell’abate. [p. 137] Mense, trespoli et altri fornimenti [p. 137] corso amabile et vino de Grandoli [p. 159] meritamente li fo consegnata [p. 188] cum deci monstri marini argentati. [p. 272] Uno Hercule con un leone socto [p. 169] e colli supradicti Herculi Baccho [p. 170] di duecento miliara di fiorini: [p. 141] ancora furono portate in tavola [p. 174] ficatelli de pulli e de capretti, [p. 281] geladia in conche di vincorno [p. 175]. Per domenicha sera [p. 145] furonvi servitori e cortigiani, [p. 240] finalmente compiuto il desinare [p. 143]. Citato da DECARIA Sonetto fatto per Piero di Jacopo Tanaglia e mandato a me Filippo Scarlatti a dì 23 di settembre 1474 [da Lirici toscani, II, p. 612] Sugo d’uno scambietto d’un coltrone e mescolato col mugghio d’un bue, del qual se ne vuol tôr sei once o piùe, encorpora con grasso di moscione, e fara’ne di tutto un’unzïone, e per dicozion becco di grue; ugni le reni e tiralo allo giùe, se guarir vuoi del mal dell’amatrone. Questa t’è data per prima ricetta e, s’ella non ti giova, manda tosto per una allo spezial della cornetta. Falla far buona e non guardare al costo, togli un’oncia di sguardo di civetta e cuocine con essa un pollo arrosto. Azzuffati col mosto, che ti farà posar po’ me’ la testa, fuggendo e ghiribizzi e lor tempesta. La viglia della festa, cioè la notte della Epifania, molti guariscon d’ogni malattia.