passione per un popolo - Atma-o

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passione per un popolo - Atma-o
PASSIONE PER UN POPOLO
Collana «VITA DI MISSIONE»
(titoli recenti)
— Missionarie martiri in Africa (Tomasi I.)
— Le mani ruvide del Regno (Gaiga L.)
— Nato per l’Africa (Gaiga L.)
— Maschere e volti della Cina di oggi (Criveller G.)
— Il guerrigliero di Dio (Gaiga L.)
— Padre Pedro di Manantenasoa (Scherrer A.)
— Ho amato l’Africa (Tebaldi G.)
— Testimone del dialogo (D’Ambra S.)
— Due terre, una missione (Montonati A.)
— Il vescovo del dialogo (Gaiga L.)
— Apri gli occhi mia Chiesa (Sanchioni P. a cura)
— Un uomo senza frontiere (Baldisserotto P)
— Radio Alvorada (Uggè E.)
— Loilem (Perego P.)
— Una casa per il mio Signore (Gaiga L.)
— Con tutto il mondo nel cuore (Schiavinato L.)
— L’ultimo carovaniere (Tebaldi G.)
— Grazie Burkina (Granchi S.)
— Dal campanile al mondo (Zanotto L.)
— Due mondi una vita (Lintner M.M. - Fink C.H. - Comina F.)
— Un medico di Praga nel cuore dell’Africa (Drlík M.)
— L’albero dai fiori rossi (Valente P.)
— Pedro Casaldáliga (Escribano F.)
— La famiglia prende il largo (Springhetti P.)
— Sui sentieri dei Wahehe (Di Martino A.)
— Passione per un popolo (Zambon M.)
Mariagrazia Zambon
PASSIONE
PER UN POPOLO
Viaggio fra i missionari del Pime
in Bangladesh
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA
Copertina di BRUNO MAGGI
Foto di p. FABRIZIO CALEGARI
© 2005 EMI della Coop. SERMIS
Via di Corticella, 179/4 - 40128 Bologna
Tel. 051/32.60.27 - Fax 051/32.75.52
web: http://www.emi.it
e-mail: [email protected]
N.A. 2240
ISBN 88-307-1510-7
Finito di stampare nel mese di dicembre 2005 dalle Grafiche Universal
per conto della GESP - Città di Castello (PG)
PREMESSA
Come mi capita spesso, dopo una giornata piena di impegni e di incontri, anche quel giorno, a notte fonda, mi
sedetti al computer a leggere la mia posta elettronica.
Tra le tante e-mail una attirò subito la mia attenzione:
“Urgente dal Bangladesh”, firmato Franco.
Incuriosita l’aprii all’istante: era di p. Franco Cagnasso, che mi chiedeva se ero disponibile ad andare in Bangladesh per un mese, a visitare le missioni del Pime. Presto sarebbe stato il 150° anniversario di presenza di questo
Istituto nel “Paese dell’acqua” e io ero invitata a scrivere
“un qualcosa” per l’occasione.
Idea stuzzicante e allettante. Dopo dubbi e perplessità
– non potevo però dire di no a questo Istituto di cui una
parte di me è “figlia spirituale” – fissai il biglietto aereo
per il novembre 2004 e, giunto il momento, partii. O meglio, ritornai in Bangladesh.
Questo libro è frutto di quel viaggio.
Con la cartina alla mano, forse vi stupirete dell’itinerario che si percorrerà in queste pagine.
Nel descrivere le diverse modalità di servizio missionario – tra passato e presente – con la penna ho compiuto
più un percorso storico che geografico, come invece, ovviamente, è realmente avvenuto.
Ho sottaciuto, inoltre, tanti luoghi e tante persone, non
ho parlato di chi ha organizzato l’itinerario e di chi, di volta in volta, mi ha accompagnato in questo viaggio, rendendo possibile questo scritto anche grazie a tante riflessioni, osservazioni, stimoli e preziose testimonianze. Ripenso a p. Dotti, p. Rapacioli, p. Meli*, p. Martinelli, fr.
Cattaneo…
* La foto di copertina ritrae padre Emanuele Meli tra i bambini del
Bangladesh.
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Tralasciando mie considerazioni personali, ho voluto
lasciar emergere i personaggi a mio parere più emblematici, ma dietro le quinte ci sono tutti. Sì, proprio tutti. Sia i
quaranta missionari del Pime ora presenti in Bangladesh,
sia la lunga schiera di quelli che li hanno preceduti. Ed è a
tutti loro che va la nostra ammirazione e gratitudine.
MARIAGRAZIA ZAMBON
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INTRODUZIONE
Ha ancora senso all’inizio del terzo millennio dell’era
cristiana parlare di “missione”? Che cosa ci richiama questa parola? Perché continuare a usare un termine che rimanda a una realtà qualche volta scomoda e quasi sempre
controversa? Queste e altre domande affollano le menti e i
cuori di tanti cristiani e di non pochi missionari che hanno scelto di spendere la propria vita a contatto con popoli
che appartengono a universi culturali lontani e professano
fedi diverse.
A me pare che a partire dall’evoluzione interna ed
esterna alla Chiesa, il cristiano si pone in modo nuovo e
originale domande che appartengono all’essenza della sua
identità e responsabilità di credente.
La nostra è un’epoca caratterizzata dal “tempo reale” e
dai viaggi interplanetari. Questo ha trasformato, come
conseguenza, il nostro modo di concepire le coordinate
nelle quali ci ritroviamo a vivere: il tempo e lo spazio appunto. I mezzi di comunicazione e quelli di trasporto, oltre che il bisogno o l’interesse dei popoli, hanno rivoluzionato di fatto la realtà nella quale ci troviamo a vivere. Conviviamo sempre di più con persone con le quali culturalmente, religiosamente e socialmente siamo simultaneamente distanti e vicini.
Il pluralismo etnico, culturale e religioso interessa e interroga un po’ tutti. E porta con sé due opposte tentazioni:
il relativismo e la chiusura. Espressioni come “le religioni
sono tutte uguali” sono ingiuste nei confronti prima di
tutto delle religioni stesse e della loro originalità. Di fatto
non c’è una religione uguale all’altra e il missionario è
chiamato a conoscerne con pazienza la complessità e le
differenze. Anche l’universo culturale di una persona è
tutt’altro che semplice da decifrare e questa complessità
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risulta decisiva per ogni discorso rilevante sulla povertà e
sullo sviluppo.
A questa complessità nella quale si trova ad operare, si
aggiunge poi l’evoluzione della propria coscienza di credente. Certamente il missionario del secolo scorso affrontava, in linea di massima, molti più disagi e privazioni di
quanto non ne affronti il missionario di oggi. Questi però
aveva un chiaro mandato: doveva annunciare il Vangelo,
battezzare e fondare la Chiesa. Oggi il compito del missionario appare più complesso.
L’ultimo Concilio ecumenico costituisce una tappa
fondamentale in questa maturazione della coscienza missionaria della Chiesa. Come qualcuno ha giustamente
fatto notare, tutti i documenti prodotti dal Concilio possono essere interpretati in termini di missione ed evangelizzazione. In particolare il rapporto tra la chiesa e il
mondo viene affrontato con uno sguardo e in una prospettiva nuovi. A un atteggiamento pessimista nei confronti dell’uomo, si è sostituito un atteggiamento che,
senza ingenuità o forzature, cerca di cogliere l’azione
dello Spirito che “soffia dove vuole”, anche al di là dei
confini visibili della Chiesa. Il risultato è riuscire a guardare in termini positivi, critici ma sereni, la persona
umana e ciò che le appartiene più intimamente: la sua
cultura e la sua fede.
L’evoluzione della realtà insieme alla maturazione avvenuta nella sua coscienza qualificano la missione della
Chiesa. La missione continua, il mandato di Gesù ai suoi
non è venuto meno, ma la Chiesa è chiamata a svolgere tale compito in un atteggiamento dialogico con gli uomini e
le donne a cui vuole comunicare il proprio messaggio di
salvezza. E per fare ciò essa è chiamata in primo luogo a
convertire se stessa. Questa è la condizione per divenire
sempre più evangelizzante. Di fronte poi alla sua testimonianza, l’interlocutore potrà accogliere o rifiutare tale annuncio, o ancora, nel caso viva già radicalmente la propria
fede, entrare in un dialogo di salvezza attraverso una reciproca edificazione, purificazione e testimonianza.
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Questo cammino estremamente stimolante, anche se
non privo di tensioni, emerge dal libro scritto da Mariagrazia Zambon. Quest’anno la comunità del Pime in Bangladesh compie 150 anni, e in questa occasione abbiamo
voluto ricordare un’avventura che continua ad interpellarci. Mariagrazia, a sua volta missionaria in Turchia, ha
viaggiato e incontrato tutti i missionari che attualmente
lavorano in questo paese, raccontando il suo viaggio e
l’impegno di questa comunità a servizio della missione
della Chiesa. Una missione diversa dal passato, ma non
meno rilevante o urgente.
P. FRANCESCO RAPACIOLI
Superiore Regionale del Pime
in Bangladesh
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1. VITA DA PIONIERI
La giornata volge al termine e il sole al tramonto indora con la sua luce i prati e le palme della missione. Sotto la
veranda, seduto su una poltrona di vimini, riposa p. Luigi
Scuccato. Lunga barba bianca fluente, come si addice agli
anziani missionari, segno distintivo dei lunghi anni trascorsi in questa terra lontana.
E lui di anni ne ha 85, di cui quasi sessanta trascorsi in
Bangladesh.
Un patriarca d’altri tempi, esile, lucido e pronto alla risposta. E pensare che quando giunse nel lontano 1948, alla vista dei suoi confratelli pallidi ed emaciati, della loro
impressionante magrezza e del loro continuare a grattarsi,
“poveri noi – pensò, – fra qualche anno saremo così anche
noi”, e ai piedi delle tombe di alcuni di loro morti molto
giovani giurò a se stesso: “Devo fare tutto il bene che posso il più presto possibile”.
Così lavorava con lena, convinto che sarebbe morto
giovane.
Non aveva tutti i torti: era risaputo che il Bengala veniva ritenuto la “tomba dei bianchi”.
Anche p. Luigi, ancora vigoroso, giovane ed energico,
ha sfidato tribolazioni e problemi di tutti i tipi, eppure
non si è lasciato scoraggiare dalle miserie materiali e spirituali, mantenendo il cuore giovane e vitale.
Ha tante cose da raccontare, ma a parlare sono i suoi
piedi. Grossi, deformati, ben piantati nei sandali di cuoio,
ne hanno percorsa di “strada”. Se di strade si poteva parlare a quei tempi: sentieri tra risaie e foreste, infangati o
impolverati a seconda della stagione.
Evangelizzare, allora, era così. Attraverso il cosiddetto
mofosil, la visita lunga e lenta ai villaggi, che riempiva tutta la stagione secca.
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«Si andava con zelo a cercare i pagani –, ricorda p.
Luigi – e a leggere ora i resoconti dei viaggi dei primi pionieri alla ricerca di tribù nuove da evangelizzare e di cristiani dispersi da confortare, si rimane stupiti per la resistenza che avevano, per lo spirito di sacrificio e la fede
incrollabile.
Facevano viaggi di mesi, rimanendo assenti da casa
senza alcun conforto, in un clima micidiale, spostandosi a
piedi o su un carro a buoi, dormendo in capanne di fango
col tetto in paglia, fra gente con cui spesso non si riusciva
a comunicare».
Dal tavolino davanti a noi, p. Scuccato tra una pila di
vecchie riviste, italiane e bengalesi, estrae un prezioso numero di «Mondo e Missione», che riporta una lunga intervista a p. Sozzi, giunto in Bangladesh nel 1929.
Mi prega di leggerlo, mentre chiamato da un giovane
dell’ostello della parrocchia deve andare a risolvere una
delle numerose, innocue, baruffe tra ragazzi.
È padre Ferdinando Sozzi a raccontare:
«Le notti e i giorni che ho passato su quel carro senza
molle!
Una volta non c’erano né moto né auto; qualche bicicletta, ma se si doveva stare in giro mesi e portarsi tutto
l’occorrente per le funzioni sacre, i registri, le medicine, il
catechista accompagnatore, bisognava andare con il carro
a buoi: non su strade lastricate come ci sono adesso, ma
per sentieri polverosi e fangosi, lungo le risaie o nell’interno della giungla: e dove il carro non passava, si proseguiva
a piedi o in bicicletta (sempre pronta sul carro).
Si andava adagio, naturalmente, al massimo trenta
chilometri al giorno, non di più, e spesso anche di meno.
Quando era il tempo delle piene dei fiumi, con la pianura tutta allagata, non si sapeva più nemmeno dove era il
fiume e dove il sentiero: si rimaneva anche un giorno o
due fermi, a lasciar passare l’acqua, rifugiati su qualche
promontorio. E poi i ponti, che nella maggioranza dei casi erano bambù infilzati nel fango, sui quali si doveva
camminare con la bicicletta in spalla e il catechista dietro
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col pacco dei paramenti sacri: a volte le corde marce si
rompevano e si finiva a bagno, nel fango o nell’acqua, bisognava raggiungere a nuoto la riva e mettere al sole tutte
le nostre cose ad asciugare.
Una volta sono caduto nell’acqua e non avendo più
niente di asciutto eccetto il camice della Messa, mi sono
messo quello e sono entrato così nel villaggio. Sotto ero
nudo. Un’altra volta l’acqua aveva coperto una grande buca e ci sono cascato dentro in pieno che a momenti affogo.
Non so come ho fatto a resistere: il Signore mi ha aiutato in modo straordinario. Tutti gli anni, nei mesi di giugno-luglio, in sei o sette missionari eravamo costretti ad
andare in ospedale con la malaria addosso o qualche altro
male, ci rimettevano a posto e ritornavamo in foresta; all’ospedale ci consolavamo a vicenda, le cure erano poche
perché mancavano i medicinali, ma almeno c’era una casa
in mattoni, un po’ di asciutto e di fresco, mentre nei villaggi si moriva di caldo umido, soffocante.
Di fronte a queste febbri si sarebbe dovuto mangiare
bene per tirarsi su, per avere energie sufficienti: invece la
gente comune non aveva la possibilità di avere cibo nutriente e noi stessi non andavamo al di là di riso, verdure,
pesce di fiume e qualche pollo. Non c’era possibilità di
avere altro cibo, io per lunghissimi anni non ho saputo
che gusto avessero il formaggio, i salumi, il burro, la carne
di manzo, l’olio d’oliva e qualsiasi altra cosa che non crescesse sul posto. Oggi invece si trova tutto, basta avere un
po’ di soldi e al mercato trovi qualunque cosa.
Noi continuiamo a mangiare male, così per abitudine,
per trascuratezza, ma ogni tanto, almeno quando facciamo festa, ci concediamo una bistecca, un gelato, un caffè
autentico; a Natale ci arriva anche il panettone dall’Italia,
magari un po’ rancido perché non imballato bene (con
quel caldo!), ma arriva.
Ma le difficoltà maggiori non erano quelle materiali.
Quando sei giovane e sano non ci pensi nemmeno.
Quel che invece ti faceva veramente soffrire era l’isolamento, che adesso è quasi del tutto scomparso; il vivere
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tra popoli primitivi che non ti capivano, con i quali ti intendevi pressappoco e potevi solo parlare di mangiare e di
cose materiali. Così ti sentivi isolato, sprecato: tornavi a
casa dopo uno o due mesi di vitaccia e non trovavi nemmeno un cane a cui raccontare le tue storie.
Se ci incontravamo ogni tanto tra confratelli erano feste che non finivano più, si stava alzati tutta la notte a
chiacchierare. Anche se c’era solo acqua di pozzo da bere,
bastava parlare con qualcuno che ti capisse.
Se ho avuto delle crisi? Certo che ne ho avute. Due volte sono stato lì lì per tornarmene a casa, in Italia; ero proprio scoraggiato. Due volte mi sono detto: adesso parto,
non dico niente a nessuno e fra un mese sono in Italia, a
casa mia. Volevo proprio scappare senza lasciare traccia.
Ero solo con decine di villaggi da visitare, con quella gente che chiedeva questo e quello, chiedevano cibo, chiedevano medicinali, chiedevano soldi, chiedevano un lavoro,
e io non avevo nulla da dare. Ad un certo punto vai giù di
morale davvero.
Ma perché non sono scappato?
Beh, perché un po’ di fede ce l’avevo e perché il buon
Dio mi ha preso per il collo e mi ha trattenuto al tempo
giusto».
«Sai, – mi interrompe p. Luigi, tornato con una bella
tazza fumante di thè, – dopo così tanti anni, continuo ad
avere nel cuore lo stesso desiderio che da giovane mi
portò fin qua: far amare Dio. Ma nessuno può amare Dio
senza conoscerlo e quindi bisogna parlare di Dio, con l’annuncio e con la vita. Ecco cosa spingeva a camminare,
camminare, camminare senza sosta.
Io ho fatto le mie prime esperienze nella missione di
Danjuri, dove ho avuto un’ottima guida in un maestro catechista santal, Peter Mardi, che mi ha fatto evitare tanti errori. Un uomo di fede. Giravamo insieme nei villaggi e lui, come un menestrello, intonava i canti composti per spiegare i
misteri della fede. Una vera e propria catechesi cantata».
Stile di missione sperimentato fin dagli inizi dell’evangelizzazione tra i tribali.
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Mi fa cenno di seguirlo fino alla chiesa, appena di fianco
alla casa parrocchiale, attraverso il praticello ben curato.
Facciata scrostata – “colpa della forte umidità”, sembra subito scusarsi il padre – di una chiesa che ricorda
tanto una parrocchietta in Brianza.
Costruita ancora nel 1925, dedicata al Sacro Cuore di
Gesù, è qui che riposano le spoglie di p. Francesco Rocca,
morto in questo villaggio nel 1929, a 60 anni, dopo 37 anni di missione.
È con orgoglio che mi mostra la lapide, posta con discrezione e modestia sul lato destro della navata interna.
Nulla di speciale, nulla di appariscente, verrebbe da dire, ma chi è qui sa che questo padre del Pime è il primo
pioniere e apostolo dei Santal in tutto il Bengala, giunto a
Beneedwar nel 1902, con un carro indiano dopo mille peripezie, ed è qui che gettò il primo seme del cristianesimo,
amministrando il battesimo a cinque bambini.
Ma andiamo con ordine.
Giunto nell’allora Bengala Centrale nel 1892, questo
giovane sacerdote di Valmadrera, in provincia di Lecco,
dopo solo qualche mese di apprendimento della lingua locale fu mandato a Pakuria, a sud del Gange, e da lì cominciò a visitare tutti i villaggi pagani del distretto, sostando
in ciascuno anche più di una settimana sotto la tenda. Egli
scriveva al superiore di Milano: “Mi fermo dagli otto ai
quindici giorni per paese… in generale ascoltano volentieri per la prima volta. In alcuni la Parola di Dio fa decisamente buona impressione e li fa riflettere seriamente. Io
continuerò a girare in tenda da villaggio a villaggio per
predicare. Presto sarà pronto un libretto di semplice e
chiara esposizione della nostra religione” (fu stampato,
molto letto e apprezzato fino agli anni della seconda guerra mondiale).
P. Rocca a Pakuria faceva la vita del “fachiro” o “santone indiano” adattandosi a tutti gli usi e modi del paese pur
di fare breccia nell’animo dei bengalesi.
Soleva dire: “la mia casa è la strada” perché era sempre
in movimento da un posto all’altro.
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Spesso piantava la tenda vicino ai bazar e passava lì
lunghe settimane per dare agio a tutti di parlare della sua
religione.
Usava la lanterna magica, faceva uso di menestrelli
bengalesi per cantare la vita di Gesù e così far sentire la
Buona Novella.
Alcuni erano seriamente interessati e in essi la Parola
di Dio rimaneva scolpita, ma la breccia non si aprì. Un po’
quello che era successo a san Paolo: “Parli bene, ma ti
ascolteremo un’altra volta” (At 17,32).
Poi mons. Pozzi, vescovo di Krishnagar, gli diede l’incarico di visitare Saidpur, dove si trovava la comunità cristiana degli europei, degli euroasiatici e di qualche bengalese, quasi tutti impiegati ferroviari. Era una bella missione, pulita, con comode casette, con il giardino davanti;
una vera oasi in mezzo alla giungla. Nel 1893 il governo vi
fabbricò una chiesetta per gli impiegati cattolici e da quell’anno in poi p. Rocca ogni mese da Pakuria visitava quei
cristiani. Finché nel 1906 andò ad abitare in maniera stabile nel Bengala Orientale, al di là del Gange.
Ma conversioni zero.
È nel gennaio del 1902 che si apre la seconda fase dell’evangelizzazione. Al lavoro tra gli indù e i musulmani
succede quello tra le tribù aborigene.
All’inizio dell’anno, per ordine di mons. Pozzi, capitò a
p. Rocca di visitare il villaggio di Begunbari (a cinque chilometri da Beneedwar) dove un cristiano, Gabriele Topno
da Ranchi, era andato a tentare la fortuna dall’India Centrale.
Gabriel Topno era emigrato in quel posto qualche anno prima dal suo villaggio nella regione indiana di Chota
Nagpur. Era un tribale munda, cattolico ed anche lebbroso. Forte credente, non aveva mai nascosto la sua fede: era
addirittura riuscito a convertire alcuni seguaci (che prima
di incontrarlo avevano fatto parte per qualche tempo della
Chiesa Battista). Cosa torturava la mente di Gabriele non
era tuttavia la lebbra, ma il fatto di non aver alcun sacerdote vicino. Egli aveva paura di non poter continuare così
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ed iniziò a scrivere lettere a destra e a sinistra pregando
qualche prete di venire a confessarlo e a battezzare i suoi
bambini. Dal Chota Nagpur gli arrivò la risposta che abbastanza vicino, a Purnea, ma anche nel Bihar vi era una
missione e lo pregarono di rivolgersi ad esse. E così Gabriel ed alcuni dei suoi seguaci intrapresero il viaggio sulla lunga e polverosa strada per Purnea, dove il gesuita L.
Knockeart, dopo averli ascoltati, rispose che purtroppo il
loro villaggio era troppo lontano ma promise di interessare qualcuno. E così una sua lettera arrivò a Krishnagar (il
centro della missione del Pime in Bengala), da lì fu trasmessa a p. Rocca e finalmente Gabriel ebbe la visita di un
sacerdote. Padre Francesco restò qualche giorno con Gabriel, lo confessò, battezzò i suoi cinque bambini e… si
guardò intorno.
Così il villaggio di Begunbari, due miglia a sud della attuale parrocchia di Beneedwar, divenne il primo centro
pastorale per la popolazione dei nativi del Nord Bengala.
Questa prima visita a Begunbari fu, infatti, solo l’inizio.
Dal 1902 al 1910 Padre Rocca fu l’unico missionario
presente nell’intera area che corrisponde più o meno alle
attuali diocesi di Dinajpur e Rajshahi.
Sino al 1907, date le difficoltà del viaggio, il villaggio fu
visitato solo una volta all’anno e il lavoro di p. Rocca si limitava esclusivamente ai Munda.
Ma Begunbari era come un faro di luce e nei dintorni
si sparse la Buona Notizia. Nel 1908 aprì la prima scuola
santal a Chokjodu e nel 1909 la comunità cristiana contava 98 anime a Begunbari e Chokjodu.
Finalmente, nel 1910 arrivò l’aiuto di due nuovi sacerdoti, S. Monfrini ed E. Ferrario, entrambi del Pime, e dei
Fratelli Francescani, una congregazione religiosa tedesca.
Il loro zelo era straordinario e la loro attività di catechesi
era essenzialmente destinata ai villaggi.
P. Rocca morì improvvisamente il 10 dicembre del
1929 e nel 1933 arrivava un altro padre dal grande cuore:
p. Giuseppe Cavagna.
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Si fermò a Beneedwar 35 anni. E un suo scritto è diventato manifesto di vita: “Allora, all’inizio del mio apostolato, non vedevo i problemi, vedevo le anime; non parlava la lingua, parlava il cuore; non avevo autorità, avevo
molta disponibilità; non sapevo le usanze, le assorbivo a
poco a poco. Ero buono a nulla, ma in chiesa, al confessionale, all’altare ero al mio posto.
Ero giudicato troppo semplice, vedevo però tutto in
Dio. Ero timido, però sempre rispettoso e sottomesso anche se dovevo pagare di persona.
Ero povero e sempre col denaro contato, ma ero felice
nelle mani di Dio.
Mi si rovinavano gli occhi e leggevo con fatica, ma avevo fede contro ogni speranza. Amavo il mio posto e la gente affidatami e ciò è stata la mia perseveranza…
Ho avuto tante prove, il fuoco della tribolazione non
mi è mancato, la sofferenza qualche volta è stata così violenta da non poter nascondere l’angoscia, ma in tutto questo il Signore mi è sempre stato vicino e spero che me lo
sarà sempre.
Il mio tormento più grande da sempre è quando vengono i poveri a dirmi che non mangiano da giorni e sai
che è vero; dicono che hanno bambini a casa digiuni da
tempo e sai che è vero. Il problema è drammatico quando
anche le missioni sono senza aiuti, senza soldi, senza riso.
E allora cosa posso dare? Devo dare a questa gente ogni
momento della mia vita”.
E sì, i vecchi missionari di cibo e di denaro ne avevano
ben poco da dare, ma davano tutto se stessi, perdonavano
tutto.
Beneedwar ha avuto per il suo gregge sempre missionari “speciali” e oltre ai padri Rocca, Monfrini e Cavagna
dobbiamo ricordare i padri Margutti, Belgieri, Grossi,
Bianchi, Dal Corno, Giulio Schiavi, Emanuele Meli e Carlo Dotti. Il passaggio di questi pastori ha lasciato un segno
profondo nella comunità, che ha dato sei sacerdoti alla
Chiesa e molte vocazioni di suore.
La comunità conta ora 4.000 cristiani.
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Davvero di strada se n’è percorsa molta: attualmente
all’inizio dell’anno si deve lottare e arrabbiarsi perché sono troppi quelli che vogliono mandare i figli all’ostello, alla scuola di cucito, al college, mentre fino a poco tempo fa
ci si arrabbiava per il contrario.
Ora c’è un corpo dirigente tra i catechisti a tempo pieno o limitato, direttori responsabili dell’ostello, delle scuole di cucito, assistenti legali su cui si può fare affidamento,
senza che tutto si fermi quando il padre è assente.
E sia tra i Mahali che tra i Santal non mancano prove
di autentico interesse religioso, di vera fede, di gioia e di
pace spirituale, di profondo progresso nella vita e nella
mentalità cristiana. Da un confronto coi pagani, balza all’occhio che molto cammino è stato fatto.
«Ma di strada ce n’è ancora, – mi confida p. Luigi, –
dobbiamo continuare a formare i “nostri” perché siano a
loro volta luce e sale. Dobbiamo insegnar loro ad amarsi e
ad amare tutti, per essere testimoni di vita… così saranno
loro a presentare il Vangelo a chi ancora non conosce Gesù. Altrimenti noi, che ci facciamo qui? Il nostro mandato
non è ancora scaduto. Non voglio fare la vita da infermo
per non essere di peso agli altri. Preferirei morire camminando…» e così dicendo si avvia dai suoi ragazzi che, dopo aver raccolto le foglie dal prato perfettamente pulito e
in ordine, hanno improvvisato una partita di calcio prima
che si faccia buio.
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I primi missionari
“La missione del Bengala Centrale, prima di darla a
noi, Propaganda Fide cercò di affidarla ai francesi, poi ai
carmelitani scalzi, ma tutti la rifiutarono costantemente
perché oltremodo difficile, sterile…”: è con questa consapevolezza che padre Albino Parietti, con altri tre compagni
del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, nel 1855
si preparava a partire per i territori “oltre il Gange”, totalmente privi di missionari.
Quelle terre erano conosciute fin troppo bene come “la
tomba dei bianchi”: malaria, dissenteria e talvolta tifo
mietono abbondanti vittime, lui stesso, superiore della
nascente missione, sarà il primo a rimetterci la vita nove
anni più tardi.
Con padre Luigi Limana, padre Antonio Marietti e fratel Giovanni Sesana, approda a Calcutta nel pieno della
torrida estate indiana e il vescovo della città ha fretta di
mandarli a 240 chilometri più a est: Berhampur (che vuol
proprio dire “luogo delle malattie”). Vivono come monaci.
Studio e preghiera, preghiera e studio. Sotto la maestria di
un sacerdote bramino “studiamo a più non posso e con
vero calore perché senza lingua siamo come statue – scrive Parietti, dopo un mese dall’arrivo. – L’unica cosa da
farsi, per ora, è apprendere le lingue, acclimatarci, venire
in cognizione dei costumi, pregare e insegnare coll’esempio… Già bene ci si accorge che in questo campo di pietre
bisognerà sudare molti anni prima di vedere fiorire anche
poco. Basta: Dio mi ha invitato qui e ci sto volentieri. Io
non dispero: non faremo né subito né molto, ma qualche
cosa, col tempo, Dio ci concederà”.
E così è. Il Bengala Centrale (successivamente Pakistan
orientale) diventato Bangladesh con l’indipendenza del
1971, conta attualmente sei diocesi, in quattro delle quali
oggi sono presenti una quarantina di missionari del Pime.
Mariagrazia Zambon
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2. DOPO GLI ANNI CINQUANTA
Lasciata la città di Dinajpur, centro della diocesi dal
1927, abbandonata la strada asfaltata e il traffico caotico,
ci si infila in strade sterrate che fanno un polverone terribile, in mezzo a sterminati campi di riso dorati, puntellati
dai colori variopinti delle donne in sari che raccolgono in
mazzetti le spighe già mature.
Tra un sobbalzo e l’altro, dopo parecchi chilometri,
giungiamo a Lohanipara, un sottocentro della parrocchia
di Boldipukur. Case in fango e tetti in lamiera o paglia,
bambini che rincorrono l’auto, salutando festosamente…
un cancello aperto ci attende e subito ci avvolge la quiete e
il silenzio.
Ad accoglierci p. Giovanni Vanzetti, con il suo fedele
cane Pinki.
Longilineo, avvolto nel suo cardigan color carta da
zucchero e con il suo “basco” nero lo si potrebbe scambiare per un distinto pittore impressionista francese, se non
fosse per quelle ciabatte di plastica infradito che “tradiscono” la sua lunga e semplice vita di villaggio.
Occhi luccicanti ancora vispi, sorriso affabile e gentile,
da cinquant’anni in Bangladesh, paese che è diventato la
sua patria e la sua stessa vita.
E pensare che appena sbarcato nel 1955 non esitò ad
esclamare: “Ma io qui non ci sto nemmeno pitturato!”.
L’impatto fu orribile: sporcizia, strade indecenti, case
miserabili, gente in ogni angolo.
Fu la sua determinazione e il suo desiderio così a lungo coltivato che gli fece pensare di aspettare almeno sei
mesi prima di prendere qualunque decisione drastica.
Con i suoi ideali giovanili pensava di poter cambiare il
mondo, ora sa che prima di tutto non deve stancarsi di
cambiare se stesso.
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Non sempre è stata una luna di miele, ma non ha mai
più preso in considerazione il rientro in Italia. Neppure
durante la guerra civile del 1971, quando, da Pathorgata,
si ritrovò a dover scappare in India con la sua gente.
Il paese era in rovina.
Tutte le missioni di frontiera venivano inesorabilmente
saccheggiate: i pakistani pieni di odio inferocito non volevano lasciare nulla dietro di sé e facevano il deserto ovunque passassero, per molti chilometri, bruciando villaggi,
distruggendo ponti e strade. Alla gente – dopo aver cercato di difendersi come poteva – non restava che scappare e
trovare rifugio al di là del confine.
Una interminabile fila di povera gente in cammino verso l’India, con la desolazione e la paura nel cuore.
E anche per lui l’unica soluzione per salvare la sua gente fu la fuga.
Ricorda ancora quanto scrisse in quel lontano 5 maggio, appena giunto a Rajibpur in uno dei tanti campi profughi allestiti dal governo indiano: «Sono in India con la
maggior parte dei miei cristiani che hanno lasciato tutto.
Anch’io sono qui con i soli vestiti che porto indosso e il
passaporto, ho dovuto abbandonare ogni cosa nella missione di Pathorgata, che è stata assaltata e saccheggiata
mentre noi venivamo via: non ho potuto portare via nulla!
Mi pare un brutto sogno, non riesco ancora a crederci
di aver perso tutto! Eppure sono fuggito non all’inizio,
quando si profilava il pericolo, ma alla fine, con tutti i cristiani dei villaggi vicini alla missione ed anche con parecchi non cristiani, quando era impossibile restare senza
mettere in pericolo la vita di molti. Per tre giorni e due notti abbiamo visto il fuoco degli incendi avvicinarsi, abbiamo
sentito dei villaggi saccheggiati e messi a ferro e fuoco, eppure io non volevo convincermi a partire. Quando l’incendio e il saccheggio è giunto nei nostri villaggi, la gente non
ci ha visto più, era terrorizzata. Allora, per non esporre al
pericolo vite umane, poiché la mia gente non mi avrebbe
lasciato solo a nessun costo – se non partivo io non partiva
nessuno – ho dato l’ordine della partenza, mandando avan-
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ti donne e bambini con qualche uomo e rimanendo con gli
altri uomini fino all’ultimo. Erano più di 500 solo i cristiani, quella notte della fuga, oltre ai non cristiani che si sono
uniti a noi e grazie a Dio nessuna vita umana è andata persa, anche se per strada abbiamo incontrato una banda di
briganti che ci hanno spogliato di tutto: qui basta che una
decina di criminali abbia qualche fucile e comandano loro,
non c’è più legge, non c’è più pietà! È meglio così, poveri e
nudi di tutto come Gesù nella Passione.
Ora siamo qui al campo profughi: si muore di colera,
centinaia di profughi continuano ad arrivare e siamo senza tende, senza coperte, senz’acqua, senza medicinali, senza cibo! L’India sta facendo il possibile, ma è un paese povero».
E gli occhi si inumidiscono nel raccontare le fatiche
del periodo trascorso in India.
«Lavoravo tutto il giorno per mettere assieme delle tettoie di lamiere o di paglia per i profughi che continuavano
ad arrivare ogni giorno. P. Paolo Poggi, anch’egli scappato
da Dinajpur, dirigeva invece l’assistenza medica, ma c’era
scarsità di medicine e i casi di colera e di diarrea aumentavano sempre più. Nel campo c’erano 5000 persone, di
cui tremila cristiani».
Dopo nemmeno tre mesi di questo esilio, la politica del
governo indiano nei confronti degli stranieri nei campi
profughi presso la frontiera cambiò: non volle più interferenze e i padri dovettero ritirarsi in missioni più all’interno nel territorio indiano.
E così a sofferenza si aggiunge sofferenza. Neppure in
questa forzata inazione p. Vanzetti abbandonò la sua gente. Mi tira fuori un’altra lettera ingiallita dal tempo.
«Non ci voleva proprio quello che ci è capitato. Anche
se è duro accettare la volontà di Dio, bisogna rassegnarci… mi dici di venire intanto in Italia: no, per il momento
non credo che ce la farei a staccarmi da questi posti, e poi
finché posso fare qualcosa per i miei cristiani e anche per
gli altri, finché ho la speranza di tornare tra di loro, non
torno certo in Italia».
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E sì, racconta ancora con commozione: «Per la mia
gente era un gran sollievo essere lì con loro, non potevo fare nulla di speciale, ma eravamo insieme, condividevamo
la stessa sorte».
Ma la sofferenza più profonda era il pensare alla sua
missione abbandonata:
«In questi giorni – continua la lettera – sto pensando (e
di tempo per pensare ne ho molto) a tutti i progetti che
avevamo fatto per lo sviluppo dell’evangelizzazione, ai nostri corsi di aggiornamento, ai nostri piani… Cosa è rimasto di tutto questo? E il mio distretto, dove non esiste più
nulla perché tutto è stato bruciato e saccheggiato? Altro
che progetti!
Ma tutto ha un significato… Penso che sia ora più che
mai il tempo per ripensare a tutto il nostro lavoro, di fare
quello che forse per mancanza di tempo non abbiamo mai
fatto quando eravamo sul posto: curare quello che è più
importante e lasciar andare quello che può cadere, e
quante cose sono cadute! Per conto mio, è bastata una
notte e tutto il mio lavoro di costruzioni è andato distrutto! Scuole, chiesa, cappelle, case, opere sociali, campi coltivati, tutto distrutto in una notte sola!
Hanno asportato porte, finestre, le lamiere che ricoprono la casa, la chiesa e le scuole; naturalmente anche
tutti i mobili e attrezzi non ci sono più!
Ho lavorato per più di dieci anni a Pathorgata, ho costruito la missione, ho formato i cristiani e adesso non vi
rimane più nulla. Pensa se il mio lavoro missionario fosse
stato solo quello di costruire dei muri! Povero me, sarei
già alla disperazione…».
E sì, p. Giovanni appartiene alla “seconda ondata” dei
missionari del Pime giunta fra gli aborigeni del Bangladesh. Finita la seconda guerra mondiale, si erano riaperte le
frontiere e il lavoro era ripreso.
Negli anni Venti e Trenta la missione del Bengala si era
impegnata soprattutto ad esplorare il territorio e inserirsi
tra la gente, gettando i semi evangelici a vastissimo raggio, per raggiungere tutte le popolazioni e fondare nuove
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comunità di credenti. Dal 1950 la scelta mutò: questi missionari dovettero sostenere la fatica e la responsabilità di
consolidare quanto era sorto. Bisognava formare i cristiani in senso evangelico ed ecclesiale, ma anche in campo
educativo, economico, sociale, politico. Altrimenti non li
si aiutava davvero e non si fondava una vera Chiesa locale.
Ecco l’impegno degli anni Cinquanta e Sessanta:
rafforzare la fede, ma anche la vita sociale ed economica
dei cristiani per renderli cittadini istruiti, maturi, convinti. I centri missionari vennero fondati stabilmente in muratura (e non più in fango e pietra), si diedero ai cristiani
scuole elementari e superiori, si costruirono pensionati,
dispensari, si organizzarono corsi regolari per catechisti e
corsi di scienze religiose e di promozione umana; in campo economico e sociale nacquero scuole di avviamento al
lavoro, cooperative agricole, iniziative di promozione della donna; in campo giuridico, la lotta contro gli usurai e la
difesa dei tribali e delle loro terre anche in tribunale.
In quel periodo di grossi cambiamenti anche p. Vanzetti si diede da fare per aiutare i tribali ad entrare nel
mondo moderno, a non essere sfruttati da tutti, a non ritrovarsi a fare i braccianti, gli ultimi della società.
Le giungle bengalesi stavano vertiginosamente diminuendo a favore della coltivazione di riso e lui aiutò lo sviluppo agricolo nella zona di Pathorgata, dove vi rimase
dal 1962 al 1979.
Introdusse la nuova semente IRRI (un ibrido selezionato proveniente dalla Filippine), che gradualmente soppiantò il riso locale.
Lo spiazzo verde in mezzo al deserto dei terreni brulli
e secchi, nel mese di febbraio, attirava l’attenzione dell’intero paese.
Insegnò la tecnica del trapianto del riso. Introdusse la
coltivazione del frumento, delle patate olandesi, dei pomodori. Costruì una diga e cinque chilometri di canali per
l’irrigazione e come riconoscimento del suo contributo allo sviluppo di quell’area gli fu conferito un premio nazionale per l’agricoltura a Joypurhat.
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Costruì inoltre la scuola elementare, dando a tutti la
possibilità di accedere all’educazione di base.
Questo è stato fin dall’inizio il suo modo di testimoniare che la Chiesa è amica e sorella di tutti, annunciando
che il Signore vuole bene a chiunque.
«Noi prepariamo la strada, presentiamo Cristo, Lui poi
abiterà chi vuole. E le conversioni a volte nascono proprio
dall’esempio dei cristiani, dalla vita della comunità, dalla
presenza del prete. E ora – lo dice con un sorriso affabile –
io sono una pentola vecchia e sporca, ma il Signore mi ha
usato per distribuire le sue pietanze deliziose, spero.
Ancora oggi sono qui a disposizione, vorrei lavorare di
più, ma le forze mi vengono meno. Il tempo del lavoro è finito, ma non ho smesso di stare con la gente. A disposizione ventiquattr’ore su ventiquattro.
Se arrivano di notte che fai? Brontoli? Magari anche,
ma poi ascolto e ringrazio il Signore perché questo o quel
bisognoso è venuto e lo posso servire, anche a quest’ora,
nel Signore».
Tutto qui sembra davvero ridotto all’essenziale, dopo
un’intensa vita di lavoro.
Una piccola scuoletta di taglio e cucito, qualche donna
con quattro vecchie macchine da cucire, due saloncini per
la catechesi del venerdì ai bambini e gli incontri degli
adulti. Una modesta chiesa costruita dal suo confratello
Gregorio Schiavi negli anni Settanta, che troneggia nel
prato tirato a nuovo e la nuova canonica, di fianco a quella storica in fango e lamiera, che con fierezza ci mostra,
per non dimenticare le origini della missione.
Nella parrocchia attualmente ci sono 400 famiglie cristiane, Santal e Oraon. A volte non fa nulla, aspetta. Spesso in chiesa, davanti all’Eucarestia nel tabernacolo. Prega
e legge, legge e prega, contento di stare lì presente. Fino
alla fine.
Con quella passione, ancora giovane, per Dio e per
l’uomo.
E quando può asciugare le lacrime di qualcuno è contento. A chi vuole ringraziarlo ripete senza sosta: «Non
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ringraziare me, vai in chiesa a ringraziare Dio che mi ha
ispirato, mi ha dato le forze e le possibilità di aiutarti».
Il riferimento è là, al tabernacolo, centro di ogni vita
cristiana.
Mi fissa per un attimo negli occhi: «Ora basta parlare
di me, io in fondo sono qui perché voglio servire i cristiani, non voglio che facciano brutta figura davanti a Dio e
che siano più conciati dei discepoli di Maometto. Il mio
desiderio? Che la loro vita sia piena, bella, gustosa, come
questo buon vino moscato fatto con le mie mani con l’uva
passita iraniana trovata a Dhaka. Sai, è una ricetta antica,
quando ancora non si riusciva a trovare né uva né vino in
tutto il Bangladesh e dovevamo ingegnarci per poter celebrare la santa Messa. Al Signore bisogna offrire sempre il
meglio, che te ne pare?». Assaggiare per credere.
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Un confine tracciato in fretta
1947: sono i mesi tormentati che precedono la fine dell’immenso Impero indiano, dominato per due secoli dall’Inghilterra.
Il Viceré ha fretta di liberarsi di un popolo sempre più
ingovernabile. Gandhi percorre freneticamente il paese,
nel tentativo di evitare divisioni e spargimenti di sangue.
Ma Ali Jinnah, un avvocato del nord-ovest, ha già deciso
di giocare tutte le sue carte (anche quelle della violenza se
necessario) per creare uno stato musulmano indipendente chiamato “Pakistan”, paese dei puri.
Sarà composto dalle minoranze musulmane sparse
nell’Impero, prime fra tutte quella del nord-ovest a cui si
unirà quella del Bengala.
Ma i bengalesi sono esitanti: il Bengala è una regione
indiana vasta, geograficamente unitaria, con un’unica
lingua. A ovest predomina l’induismo, mentre ad est l’Islamismo è diffuso tra l’80% della popolazione e ha radici
antiche, perché ha cominciato a propagarsi, prima pacificamente e poi attraverso re e imperatori, a partire dal XII
secolo. C’è chi vorrebbe un Bengala inglobato nella Federazione Indiana, chi lo vorrebbe unico e indipendente, chi
infine vorrebbe dividerlo: la parte musulmana con il Pakistan e quella indù con l’India.
Prevale quest’ultima soluzione, e sarà forse la paura la
ragione principale della scelta.
I musulmani, più poveri e meno preparati culturalmente, temono infatti di essere ridotti al rango di cittadini
di seconda categoria, sfruttati ancor più di prima dai proprietari terrieri indù.
Meglio scegliere di stare con i pakistani, che parlano
altre lingue, hanno altri costumi, distano migliaia di chilometri, ma sono fratelli nella fede.
Con questa speranza il Bengala orientale si divide da
quello occidentale nell’agosto 1947 e diventa Pakistan
orientale.
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Il confine è tracciato in fretta, tenendo presenti solo
criteri religiosi: indù di là, musulmani di qua. Ne nasce
una frontiera capricciosa e assurda. Calcutta, capitale del
Bengala unito, dove ci sono gli stabilimenti della juta, resta in India, mentre i campi che la producono sono in
Pakistan: falliranno gli stabilimenti e la juta marcirà nei
magazzini.
Tutta la struttura economica, amministrativa, militare, giudiziaria che era in mani inglesi o indù passa ai
pakistani dell’ovest e il Pakistan orientale si trova ad essere colonia come prima e peggio di prima. È più popolato,
ma non ci sono libere elezioni che possano dargli la maggioranza in Parlamento; è più povero, ma chi decide come
distribuire aiuti ed investimenti vive nel Pakistan occidentale e lascia all’est solo le briciole.
Ali Jinnah aveva promesso rispetto e libertà per tutti,
ma ora la grossa minoranza indù ha paura, viene guardata con sospetto. Molti fuggono in India e le loro terre vengono prese come “proprietà del nemico” e date ai musulmani a loro volta scappati dall’India.
I tribali, per di più, hanno visto dividere in modo assurdo le aree che occupavano da secoli, senza che nessuno tenesse in alcun conto la loro esistenza: essi non riescono a capire perché la fine del colonialismo debba significare l’inizio di nuovi problemi per loro.
E proprio quando i bengalesi, la cui nazione era indipendente solo da cinque anni, cominciavano a sognare libertà e progresso dopo il lungo periodo del colonialismo,
il governo volle imporre come unica lingua nazionale l’urdu, idioma straniero ed ostico, parlato da chi, a migliaia
di chilometri di distanza, deteneva il potere politico, militare ed economico.
Nasce il “movimento della lingua” prima per chiedere
blande riforme e poi, ad ogni no degli ottusi governanti di
Karachi, per avanzare sempre maggiori pretese.
Si susseguono leggi marziali, tentativi di riforme, costituzioni nuove, ma il Bengala capisce sempre meglio di
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essere sfruttato e deriso. Finalmente nel 1970 arrivano
elezioni libere. Stravince l’Awami League, un partito laico, conquistando la maggioranza assoluta dei seggi nel
partito nazionale.
Il suo leader Mujibur Rahman (Mujib) avrebbe diritto
a diventare primo ministro del Pakistan; ma il Pakistan
occidentale è contrario. Con mille scuse il Parlamento
non viene convocato e Mujib inizia una serie di scioperi e
boicottaggi perché gli diano quello che ha conquistato con
il voto.
Ma non c’è niente da fare. Nel marzo del 1971 viene
imprigionato, mentre l’esercito bombarda l’università di
Dhaka e cerca casa per casa, massacrandoli, uomini politici, medici e professori bengalesi. La speranza è che, privato dei suoi capi, il popolo si pieghi. Ma non è così. Chi
è riuscito a sfuggire proclama l’indipendenza e inizia la
guerriglia.
Da marzo a dicembre è la guerra civile.
L’esercito pakistano si appoggia a fanatici locali per
sterminare gli indù e dare la caccia ai partigiani che, a loro volta, si appoggiano all’India per avere armi e addestramento. Muoiono un milione di persone (secondo stime
ufficiali) e dieci milioni fuggono affollando i campi profughi subito oltre il confine.
Indira Gandhi, allora primo ministro dell’India, prima chiede al mondo aiuti per sfamarli, poi dichiara che
sono un peso insopportabile e dà ordine all’esercito di invadere il Bengala per liberarlo: è l’occasione d’oro per
umiliare e dividere l’odiato Pakistan, con il quale ci sono
già state due guerre in poco più di vent’anni. Il generale
Aurora attacca deciso su più fronti ed in pochi giorni i
pakistani intrappolati e scoraggiati firmano la resa: è il 16
dicembre, festa della vittoria.
Così è nato il Bangladesh.
Tratto dal libro: Bangladesh, Paese d’acqua, a cura di
Massimiliano Lattanzi, Roma 1989 (II ed. PIME 1991).
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3. MARTIRE PER AMORE
Andharkota, sul confine con l’India.
Paesone a pochi chilometri da Rajshahi, una delle prime missioni del Pime, ora in mano al clero locale.
Parrocchia ben strutturata, con chiesa, scuole, ostello
e dispensario.
Missione fiorita sul sangue di un martire: p. Angelo
Maggioni.
Mi fermo in chiesa a pregare. E ripenso alla sua storia.
16 dicembre 1971: finalmente, dopo nove mesi di guerra civile, i pakistani, intrappolati e sconfitti firmano la resa con i bengalesi. Dalla secessione con il Pakistan occidentale nasce il Bangladesh. Un paese prostrato da distruzioni, sovrappopolazione e fame, che ancora una volta deve ricominciare da zero.
«In questi mesi quante cose sono successe! Quanti
eventi belli e brutti, più brutti che belli: fuga dei nostri cristiani e non cristiani per scappare alle rappresaglie dei
soldati pakistani, distruzione di interi villaggi, saccheggi,
uccisione indiscriminata di gente innocente e poi la guerra di liberazione. Qui attorno alla missione di Andharkota,
lungo il fiume Gange che fa da confine, per un’estensione
di venti miglia, tutti i villaggi sono stati bruciati dai soldati col pretesto che vi trovavano rifugio i guerriglieri bengalesi. Non solo: in ogni villaggio pretendevano un certo numero di persone, quelle che capitavano, giovani e vecchi
che non avevano potuto fuggire, facevano loro scavare
una fossa e poi li fucilavano...
Dunque, i più, presi dalla paura, dall’incertezza dell’avvenire, si sono dispersi qua e là in cerca di sicurezza fuori
dal pericolo... Nessuno li tratteneva, la paura era troppo
forte; vendevano tutto, buoi, riso, lasciavano la casa e i
terreni e se ne andavano. Molti varcando il confine. Ora
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che la vittoria è venuta a coronare nove mesi di sacrifici,
stanno tornando. E qui comincia il grosso problema: tutta
questa gente ritorna con niente e non trova niente: né casa
(quelle non bruciate e saccheggiate sono state deteriorate
dal tempo e dall’alluvione), né attrezzi per lavorare, né
mezzi per vivere (non hanno né buoi, né bufali per arare i
terreni); l’anno scorso non hanno potuto fare il raccolto...
Tutta questa gente come farà a vivere?».
Una domanda inquietante che non lascia in pace padre
Angelo Maggioni. Lui, che ha radici contadine, sa bene cosa vuol dire dover fare i conti con la mancanza di raccolto.
E i ricordi vanno indietro di parecchi anni. Quante volte
anche la sua famiglia ha dovuto “stringere la cinghia” perché l’appezzamento di terreno affittato a Trezzo, sulle rive
dell’Adda, aveva dato un raccolto magro o era andato male... Lui conosce bene la fatica di suo padre per tirare
avanti la famiglia, tanto da dover sopportare che le sorelle
di Angelo, ancora bambine, lavorassero ai telai di uno stabilimento tessile, con orari intollerabili. Ricorda l’impossibilità di sostenere qualunque spesa, tanto che gli era stato possibile entrare nel seminario del Pime a undici anni
solo perché il rettore gli aveva concesso di non pagare la
quota d’iscrizione. Ricorda anche il dispiacere di sua madre di non poter comprare i medicinali per alleviare le sofferenze di quella malattia che porterà suo padre alla morte, nel lontano 1929. E come dimenticare che per cinque
anni ininterrottamente non aveva potuto tornare a casa
dal seminario di Treviso perché non aveva soldi per pagarsi il viaggio e i familiari non avevano mezzi per andare a
trovarlo?
È con questo grande spirito di sacrificio, maturato in
tante ristrettezze, che ora, a trentadue anni di sacerdozio
e ventitré di missione in Bengala, può affrontare ancora
una volta la sofferenza e l’ingiustizia, condividendo con il
suo popolo adottivo dolori e necessità. Ma non solo. È la
sua bontà, la sua mitezza che colpisce chi gli sta accanto.
Rosa, la sorella maggiore, infatti, ricorda: «Quando perdeva la pazienza, gli altri non se ne accorgevano nemmeno.
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Lui era buono, buono davvero. Non è mai stato un tipo
nervoso. Aveva sempre il viso contento, anche quando aveva grosse preoccupazioni. E non era capace di essere duro
con nessuno». In missione, di fronte a tanti soprusi e prepotenze soffre in silenzio, dandosi da fare in mille modi
per testimoniare la misericordia e la solidarietà cristiana
verso tutti. E fa colpo proprio così: con il suo fare mite, il
sorriso sereno, il suo parlare pacato e il suo agire umile.
Tanto che un insegnante bengalese del ginnasio di
Andharkota, nel ricevere la notizia della morte del missionario, asciugandosi le lacrime, dirà: «Questo vostro prete
incarnava in sé l’idea che noi musulmani abbiamo della
santità: siamo forti nella fede, ma difficilmente lo siamo
altrettanto in mitezza, lui invece era riuscito a fondere insieme queste due qualità».
P. Angelo Maggioni, nato nel 1917 a Trezzo d’Adda, in
provincia di Milano, a 22 anni viene ordinato sacerdote
nel Pime. Ma il sopraggiungere della seconda guerra mondiale gli impedisce di partire missionario. I confini sono
chiusi, le vie di comunicazione bloccate: nessuno, se non
per manovre militari, può espatriare. E così per nove anni
padre Angelo svolge servizio di vice parroco a Fara d’Adda, attendendo di partire per il Bangladesh (l’allora Pakistan Orientale) a cui è già destinato. Solo nel ’48 riesce a
salpare. Insieme a quattro confratelli diretti alla stessa
missione, si “intrufola” sulla Taurinia, una nave ormai rudere di guerra, adibita solo al trasporto merci. Dopo trentatré giorni di viaggio, finalmente, il 14 novembre di quello stesso anno toccano il suolo bengalese. Ad accoglierli ci
sono gli anziani confratelli «macilenti e ingialliti dalla malaria: essi ci guardavano in faccia e i loro occhi si riempivano di salute. Noi per loro eravamo la certezza che la
missione ora sarebbe continuata, dopo la reciproca lunga
attesa durata dieci anni». Dunque, forze e speranze nuove.
Da appena un anno la Gran Bretagna ha concesso l’indipendenza al suo grande impero asiatico (1947), che in
base a criteri religiosi, viene diviso in due Stati distinti:
l’India, popolata prevalentemente da indù e il Pakistan, di-
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viso in due parti distanti 1500 chilometri l’una dall’altra, i
cui abitanti sono in prevalenza musulmani. È una spartizione fatta a tavolino e a rimetterci sono proprio i bengalesi: il Pakistan orientale, infatti, ha perso la sua capitale
culturale ed economica, la grande Calcutta, e si trova così
non solo completamente circondato dal grande stato indiano, ma anche e soprattutto in una situazione di sfruttamento e di dipendenza assoluta dall’industriale e più sviluppato Pakistan occidentale. Padre Maggioni, dunque,
inizia a svolgere la sua attività missionaria nella zona più
povera e popolosa di questo impero frantumato, tra i musulmani bengalesi, per l’80% analfabeti e contadini.
La sua prima destinazione è la missione di Ruhea, allora retta da un parroco indiano, poi passa a Mariampur
dove impara il santal, per poter comunicare con le tribù
dei villaggi vicini. Questa infatti diventa la sua attività
principale. Anche nei successivi luoghi dove sarà trasferito (Borni, Saidpur, Dinajpur e infine Andharkota), non
impianta grosse strutture, non si dedica alla costruzione
di edifici per opere educative e sanitarie, ma si dà al lavoro silenzioso tra i tribali santal, formando piccole comunità cristiane e apportando il suo aiuto spirituale e materiale. È convinto che la “fiacchezza” di questa gente sia
dovuta alla malnutrizione: «Non mangiano mai abbastanza: il riso è l’alimento base, spesso l’unico, sovente non c’è
neppure questo». E poi «il caldo umido, che passa i 40
gradi, mette addosso una tale spossatezza, che si ha voglia
solo di bere e dormire. Quando si comincia a respirare un
po’ meglio, iniziano i mesi di pioggia e allora si vede acqua
a non finire. Non solo i campi, ma anche le strade si allagano, le capanne vengono danneggiate e il raccolto del riso va in malora. Poi ritornano i mesi di siccità che, giungendo inesorabilmente, fanno prevedere carestia».
Un circolo vizioso di alluvioni e siccità che rende difficile una coltivazione costante e fruttuosa. P. Maggioni, allora, progetta lavori di irrigazione, per garantire acqua
nella stagione secca e per diminuire le inondazioni durante la stagione delle piogge. Dal 1948 padre Angelo torna in
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Italia solo due volte: nel 1961 e nel 1971. Ed è proprio durante quest’ultima vacanza a casa di sua sorella Rosa che
apprende dai giornali italiani notizie sempre più tragiche
sul Pakistan orientale: il presidente Yahya Khan sta ordinando sanguinose repressioni contro i separatisti del Bengala, che hanno proclamato la repubblica popolare del
Bangladesh il 26 marzo del 1971. La guerra civile provoca
dieci milioni di profughi e suscita l’intervento dell’India in
difesa dei bengalesi. Padre Maggioni riceve notizie poco
confortanti da Andharkota e fissa subito la data della partenza. La sorella cerca di persuaderlo, ma non c’è nulla da
fare: «Io gli dicevo – ricorda Rosa Maggioni – “Perché vai?
Resta almeno finché la situazione non si sia calmata. Tanto non puoi mica cambiare nulla”. “Lo so, – mi rispondeva
con la sua solita aria serena – ma bisogna che io vada. Sono il più vecchio della missione, so come risolvere certi
guai”».
Così padre Maggioni, senza pensarci due volte, ritorna
in Bangladesh, ad Andharkota. Trova numerosi villaggi
bruciati e saccheggiati e si vede costretto a dolorose peripezie per salvare cristiani e indù; tant’è vero che, poiché
protegge poveri e indifesi, viene percosso e maltrattato. A
casa, però, preferisce non scrivere nulla di quello che gli
sta capitando. Solo qualche accenno alla condizione generale del Paese, come nella lettera del 26 ottobre 1971: «La
situazione è sempre precaria, sempre soggetta a peggiorare, come un bubbone che può scoppiare da un momento
all’altro. È questa atmosfera di incertezza che ci tiene con
il cuore in sospeso. Non possiamo progettare niente per il
futuro, poiché non si sa come potrà essere. La fiducia in
Dio, è questa che ci sostiene». Poi in Italia, per diversi mesi, si resta senza notizie. Solo a gennaio del 1972 arriva una
nuova lettera di padre Angelo, in cui parla di distruzioni
immani e di tre milioni di morti dall’inizio della guerra civile. Con l’arrivo degli indiani, infatti, comincia la spirale
di violenza contro i pakistani occidentali in territorio bengalese, contro coloro che sembrano pakistani, o fa comodo
ritenere tali: gente linciata, sgozzata per le strade. Muoio-
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no assassinati anche tre missionari, tra cui il bengalese padre Lucas, ucciso con un colpo di fucile alla nuca.
Poi, molto lentamente, in primavera, ricomincia la ricostruzione. Tutto raso al suolo. Case, scuole, strade, canali, ponti hanno subito distruzioni immani. Il primo ministro del nuovo stato bengalese, Mujibur Rahman, accetta aiuti economici e umanitari da chiunque. Le organizzazioni internazionali cattoliche, dunque, d’accordo con il
governo di Dhaka, si danno da fare per incentivare l’autopromozione dei bengalesi e aiutano la gente in mille modi,
per riuscire almeno a soddisfare i bisogni di prima necessità. Padre Maggioni è parroco in Andhakota, ma si dedica
molto anche all’apostolato nei circa quaranta villaggi
sparsi nel territorio della sua parrocchia, dove viene a
contatto con i profughi rientrati dall’India che «vivono
sotto le tende, in capanne improvvisate con foglie e paglia,
o sotto le piante. Mi stringe il cuore al vedere le condizioni di vita di tanta gente senza casa, senza lavoro, senza cibo». E a nessuno riesce a dire di no: «Tutto il giorno la mia
casa è assediata da turbe di gente che invocano aiuto: chi
vuol essere aiutato a costruire la casa, chi vuole vestiti, chi
un po’ di riso o di frumento, qualche donna domanda latte in polvere per i suoi bambini, chi domanda aiuto per
comprare buoi o recuperarli; altri chiedono che si metta
una pompa d’acqua nel loro villaggio o un pozzo, perché
non hanno acqua da bere». La missione diventa un centro
propulsore di raccolta e distribuzione. È l’unica organizzazione sociale che funziona. «Bande armate, poi, girano
per le campagne, disposte a qualunque rapina. Così le residenze dei missionari, spesso isolate, sono le più esposte
agli atti di brigantaggio, proprio perché punto di convergenza e di smistamento degli aiuti provenienti dall’estero». È il caso di padre Angelo.
È l’una di notte del 14 agosto 1972: una banda di ladri,
armati di fucile, fa irruzione nella missione di Andharkota. Sulla veranda, a pian terreno, tre ragazzi cristiani stanno dormendo tranquilli. I ladri gridano, schiamazzano,
chiamano il missionario. Padre Angelo, svegliato di so-
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prassalto, si affaccia. Non riesce neppure a far luce con la
pila che subito gli sparano due colpi di fucile. Si ripara in
casa. Intanto due dei ragazzi alloggiati in veranda scappano, mentre il terzo viene catturato e costretto a dire dove
sono i soldi. Non lo sa. I ladri si precipitano al piano superiore e mettono a soqquadro la casa. Si sentono altri colpi
di fucile. La gente dei villaggi vicini grida spaventata, ma
nessuno ha il coraggio di intervenire. Dopo tre quarti d’ora i ladri, delusi, fuggono via senza essere riusciti a trovare le poche centinaia di rupie che il padre ha ritirato dalla
banca il giorno prima. Subito le suore e i vicini accorrono,
ma padre Angelo è già morto, steso nel mezzo della sua
camera. Una pallottola, sparata attraverso la fessura della
porta, gli ha trapassato l’aorta.
La casa, una tipica costruzione colonica sbiadita dal
sole, è deserta.
Un forte vociare mi fa balzare, riportandomi di colpo
alla realtà.
È una frotta di bambini che gioca festante tra le balle
del fieno, facendo capriole a più non posso.
Li guardo mentre schiamazzano felici e sembra facciano a gara a chi urla di più.
Il giovane prete bengalese li sgrida, intimando loro di
non disturbare.
Un carro di bufali passa stracarico di riso sulla stradina sterrata, di fianco alla chiesa. Quest’anno il raccolto è
stato abbondante. La vita continua.
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4. RICOSTRUZIONE UMANA E SPIRITUALE
Arriviamo alla cattedrale di Dinajpur attraversando la
città in risciò.
Una gincana tra una miriade di risciò coloratissimi e
biciclette, e lo sfrecciare strombettando di qualche moto,
auto super-lussuosa e camion carichi all’inverosimile.
I bordi delle strade – veri e propri palcoscenici di vita –
sono tappezzati di gente che si contende negozietti di latta
e plastica. Bugigattoli fatti di nulla e che vendono quasi
nulla, ma dove è esposto di tutto. Anche gli alberi sono
una buona occasione per appendere in bella mostra camicie e pantaloni in vendita per quattro soldi. Il tutto è molto calmo e dignitoso, pur nella povertà e nel sudiciume.
Bellissimi i colori dei sari delle donne, accovacciate a sminuzzare montagne di mattoni per farne ghiaia da usare
come calcestruzzo. Le lunghe canne di bambù in vendita
ovunque, i ragazzini che giocano spensierati. Tra questa
gente piccola, minuta, magra e scura di pelle, in continuo
via vai, mucche pelle e ossa che brucano tra l’immondizia
e galline spelacchiate che razzolano in ogni angolo.
Appena varcato il cancello del grande complesso dell’episcopio, sembra di entrare in un altro mondo: tutto ordinato, pulito. C’è aria di festa. È la festa di san Francesco
Saverio, patrono dei missionari e santo a cui è stata dedicata la cattedrale della diocesi. Bambini e ragazzine degli
ostelli e delle scuole stanno facendo le ultime prove di
canti e danze. È pronto un vasto palcoscenico.
Con questo chiacchiericcio nelle orecchie salgo nell’ufficio di p. Adolfo L’Imperio, parroco della cattedrale, responsabile del lebbrosario di Dhanjuri, incaricato di vari
lavori di amministrazione e costruzioni edili.
Classe 1930, nato a Zara – ma da sempre vissuto a Gaeta, dove è stato ordinato sacerdote nel 1967 – è partito per
la prima volta per il Bangladesh nel 1969.
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Gli acciacchi cominciano a farsi sentire, traditi da un
bastone che lo accompagna senza tregua ovunque, ma è
ancora giovanile. Occhietti furbi, sorriso malizioso, sempre la battuta pronta nel suo accento laziale ancora ben
marcato nonostante i suoi trent’anni in terra bengalese.
Nel suo ufficio pieno di carte, libri, tavoli e scaffali è alle prese con il computer che sul più bello – sarà il sovraccarico di corrente elettrica usata dagli altoparlanti in cortile, sarà l’ennesimo cortocircuito della città – si spegne e
non ne vuole più sapere di riaccendersi.
«Eh sì, è solo da sette anni che anche la computerizzazione è giunta in Bangladesh, sovvenzionata dalla Banca
Mondiale: è una gran comodità… quando funziona! Ce n’è
stata di evoluzione anche in questa nazione e di strada se
n’è fatta in questi anni. Il progresso sta arrivando anche
qui, ma da sempre il problema più grosso è la gestione del
capitale e delle persone», mi dice subito p. Adolfo, aprendo un lungo e complesso capitolo sull’economia del Bangladesh.
Da subito, già nel lontano 1972, dopo la guerra d’indipendenza, egli si è trovato a dover organizzare l’aiuto alle
migliaia di profughi, che, con la liberazione, si riversavano a frotte in Bangladesh. Esisteva già il CORR (Christian
Organization Relief and Rehabilitation), nato in occasione dell’alluvione del 1971, e a p. L’Imperio ne fu affidato il
coordinamento, per convogliare tutti gli aiuti che provenivano dalle organizzazioni cristiane estere e in particolare
dalla Caritas Internazionale. Dinajpur, a quei tempi era
tutta macerie, non si trova nulla di nulla da comprare, una
città fantasma. I soldati e i Bihari, ritirandosi, avevano distrutto tutto quello che potevano.
I treni non funzionavano, le strade erano inagibili con
ponti e strutture distrutte; per coordinare il lavoro sul territorio della diocesi comprò una jeep con la quale si spostava personalmente a verificare le varie emergenze.
Finito il regime militare e terminata la guerra IndiaPakistan del 1971, le circostanze lo hanno immesso senza
sosta in un lavoro febbrile, necessario, non rimandabile: si
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trattava di folle senza cibo, senza casa, senza strumenti di
lavoro, che arrivavano ai loro villaggi devastati e ad accoglierli non c’era una società organizzata con i mezzi necessari per venire incontro ai loro bisogni. In simili circostanze ogni uomo con un minimo di responsabilità doveva
fare tutto il possibile.
Con la guerra e il ritorno di dieci milioni di profughi
dall’India, i quattro vescovi del Bangladesh, che dirigevano l’Organizzazione, stabilirono un programma di lavoro
che ammontava a trenta milioni di dollari.
All’inizio l’aiuto è stato in gran parte di emergenza, il
primo degli scopi del CORR (che poi ha assunto il nome di
Caritas); poi, a partire dalla fine del 1972, l’azione si concentrò più sulle opere di sviluppo, stimolando la gente ad
essere sempre più corresponsabile.
«Un esperto delle Nazioni Unite – sottolinea p. L’Imperio – ha riconosciuto che qui a Dinajpur il CORR è riuscito non solo ad alleviare la fame, ma a salvare la disastrosa
situazione della gente, offrendole la possibilità di collaborare al proprio sviluppo. L’orientamento era di dare un
aiuto perché potessero fare da soli; se ci fossimo limitati a
sfamarli, avremmo dovuto continuare a fare lo stesso fino
ad oggi. Dal 1972 abbiamo rinunciato a distribuire cibo e
vestiti a coloro che ne avevano bisogno, perché il governo
si era preso l’impegno di portare avanti questo lavoro. Noi
cercammo di portare avanti il programma di sviluppo a
lunga scadenza, impegnandoci soprattutto a risvegliare
una nuova coscienza sociale.
L’indipendenza ha trovato il paese in una situazione
economica bloccata e con molte distruzioni. Il dopoguerra
è sempre il periodo più difficile: è facile distruggere e ci
vuole poco. È difficile cominciare da capo. E ancor più
complicato è studiare come rendere la gente artefice del
suo domani».
Sono in tanti a riconoscere che quello del COOR fu un
gran bel lavoro.
P. Ferdinando Sozzi dichiarò nell’intervista per «Mondo e Missione»:
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«È stato un lavoro meraviglioso, si sono salvate centinaia di migliaia di vite e aiutati milioni di poveracci a ricostruirsi tutto, dalla capanna al pozzo, dall’aratura del
campo all’acquisto del primo bestiame.
La Chiesa con il COOR ha dimostrato a tutti che la sua
preoccupazione era quella di aiutare tutti allo stesso modo, cristiani e musulmani, bengalesi o santal, gente che
noi sapevamo fino a ieri si è odiata. Abbiamo avuto dieci
milioni di rifugiati che tornavano dall’India senza nulla,
dieci milioni! E molti di quelli che erano rimasti avevano
perso tutto… nella confusione generale, le uniche cose che
hanno funzionato sono stati il COOR e l’esercito indiano.
L’esercito manteneva l’ordine, la Chiesa univa gli uomini
di buona volontà per lavorare alla ricostruzione, amministrava i soldi di tutti per il bene di tutti. Quando il governo
del Bangladesh fu impiantato, il presidente Mujibur Rahman ha voluto ricevere tutti i vescovi (tutti bengalesi) per
ringraziarli a nome di tutto il Paese.
Era una cosa incredibile vedere come tutti si fidavano
solo dei preti e di quelli che lavoravano per noi: venivano
commissioni dell’Onu, dell’India, degli Stati Uniti, di tutti
i Paesi e di tutti gli organismi del mondo; studiavano, vedevano le necessità e poi davano i soldi a noi perché li facessimo fruttare per il bene di tutti.
È stato un periodo di emergenza, che è bene che sia
passato, perché ormai tutto è in mano allo stato, com’è
giusto. Ma allora si è visto che la Chiesa era veramente al
servizio di tutti: abbiamo costruito strade e case, canali
d’irrigazione e pozzi, abbiamo distribuito viveri e vestiti e
medicinali e nessuno ha potuto dire che abbiamo fatto gli
interessi di qualcuno in particolare. Abbiamo fatto lavorare, nella costruzione delle strade e delle capanne soprattutto, centinaia di migliaia di disoccupati, pagandoli col
riso e il grano che arrivavano gratis dall’America e da altri
paesi. Il Signore ci ha aiutati visibilmente: sono passati
nelle nostre mani e nelle mani della gente che lavorava
con noi dei miliardi, delle decine di miliardi e non abbiamo avuto un solo caso grave di furto o di qualcuno che sia
scappato con i soldi della comunità.
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Credo che l’azione più grande di evangelizzazione l’abbiamo fatta con questa testimonianza di amore concreto a
tutti, di modo che tutti hanno capito cos’è la Chiesa e cosa
sono i missionari.
Durante la guerra non pochi musulmani e i mullah (incaricati di dirigere la preghiera nell’islam) a vedere che la
Chiesa dava tutto, aiutava tutti, prendeva iniziative continuamente per il cibo, le case, i profughi, i pozzi, i campi,
pensavano e dicevano: questi missionari fanno così per interesse, poi ci battezzeranno tutti; quando avranno in mano il popolo diranno: chi vuol essere aiutato, deve farsi
cristiano… E invece in quel periodo non abbiamo battezzato nessuno, c’eravamo anzi imposti la proibizione di
parlare di conversione o di battesimi. Tutti ci guardavano
stupiti, non sapevano spiegarsi tutto questo e di come non
avessimo approfittato dei soldi che avevamo in mano, né
del potere, né del governo: anzi, appena il governo è stato
in grado di avere una sua organizzazione, abbiamo ceduto
tutto senza la minima esitazione; e a volte erano i funzionari governativi che ci pregavano di non mollare tutto perché non sapevano cosa fare. Questa è stata una grande testimonianza, un’evangelizzazione che nei piani di Dio
avrà prima o poi i suoi frutti. E li ha già avuti, perché i giovani bengalesi sono maturati nelle avversità e hanno assorbito la grande lezione di Gesù Cristo, che è di fare del
bene agli altri senza aspettarsi nessuna ricompensa in
cambio».
«Per me quel periodo è stata una grande esperienza di
vita e di fede – vuole precisare p. Adolfo – mi sono reso
conto di essere passato attraverso un’esperienza di grande
sofferenza, ma anche di aver vissuto un’esperienza di solidarietà umana e cristiana di cui non è facile delimitare le
proporzioni. Ho incontrato giovani di tante nazioni di Europa, America, Asia che sono venuti per ricostruire e testimoniare solidarietà con coloro che soffrono. Cristiani e
non cristiani abbiamo lavorato insieme per costruire un
avvenire migliore a fratelli che fino a ieri ci erano sconosciuti.
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Un mio amico ebreo che lavorava per l’Onu venne a
chiedermi di pregare il sabato nella nostra cappella del Seminario.
L’assemblea costituente del Bangladesh si concluse
con la preghiera fatta in comune da tutti i parlamentari.
Tante volte ho visto i padri recarsi la sera tardi con il lume
a petrolio in cappella dopo una giornata senza respiro. Per
la fine del Ramadan, tanti fratelli musulmani si prostrarono in preghiera insieme, all’unisono. Allora capii che non
eravamo soli e che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi. E così spesso mi ritrovavo a pensare: “Può darsi che
le leggi economiche e le statistiche sulla popolazione mettano paura, può darsi che il mondo occidentale continui a
dare aiuti solo se l’indirizzo politico è di una certa linea:
ma è anche vero che troverò la forza di dire quello che ho
da dire, troverò la forza di capire colui che mi chiede aiuto, facendogli superare l’egoismo perché chieda non per sé
ma per il villaggio, troverò la forza di ricominciare dopo
un fallimento, perché vicino a tutti c’è un Redentore che
soffre e un Padre che accoglie.
Se evangelizzare è uguale a “liberare l’uomo”, – mi dicevo – qui si tratta di iniziare dal livello più basso. Il cristianesimo è un messaggio all’uomo di oggi, a qualsiasi individuo, un messaggio che parte dall’uomo libero; l’evangelizzazione è un problema molto più vasto che inizia nelle situazioni più diverse; qui da noi la prima istanza è lo
sviluppo.
La conversione è una cosa che parte da Dio: Lui si costruisce il Regno, a noi spettava – e spetta – solamente dare una testimonianza di vita che indichi la vita nuova che
è in noi».
Terminata l’emergenza, dotato di uno spirito vivace,
ricco di capacità organizzativa, p. Adolfo nel 1980 lasciò la
direzione della Caritas nella sua diocesi per darla in mano
ai laici e riprendere più direttamente in mano l’opera di
evangelizzazione. «Era il tempo di lavorare per rendere
autonomi i bengalesi, in modo che fossero essi stessi i costruttori del loro paese».
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E p. Adolfo si dedicò maggiormente ai vari altri suoi
impegni amministrativi e pastorali in Cattedrale, alla
scuola di 1.200 ragazzi e giovani, al convitto con 70 “giovinastri”, alla comunità cristiana a 40 chilometri dalla città,
all’ospedale e al lebbrosario… così, lui stesso afferma, “finii di perdere i pochi capelli che mi erano rimasti”, finché
nel 1986 fu chiamato in Italia, ironia della sorte, per un incarico nell’economato. E ricominciò il lavoro tra montagne di scartoffie, dopo aver fatto un corso sulle nuove normative e legislazioni italiane. È lì che imparò ad usare il
computer.
Nel 1994 la nuova partenza, ovvero il rientro in Bangladesh. Tanta gioia, ma con essa la nuova fatica di ricominciare.
La tentazione di rimanere in patria fu grande, ma la
nostalgia per il paese d’adozione e la spinta missionaria
furono più forti.
E nel chiudere la valigia e lasciare l’Italia, una riflessione a quanti gli dicevano di restare.
«Qualcuno mi ha detto che dovrei spiegare il motivo
del mio ritorno in Bangladesh. Più di uno mi ha detto:
perché non resti? C’è tanto da fare anche qui da noi. Anche l’Italia è terra di missione. Per me è un dovere far
“sentire” la presenza di Dio, far toccare la paternità di un
Dio buono e misericordioso in un mondo lacerato da odio
e discordia. Ed è un diritto per milioni di persone avere
conoscenza di Cristo, perché non ci può essere fede senza
conoscenza e non c’è conoscenza se non si parla di Gesù.
Parlare con la vita, muovendosi, stando vicino ad un altro,
ad un diverso per lingua e cultura, nella sua realtà di vita,
per poter arrivare a questa scoperta di Gesù che cambia la
vita.
In un paese come il Bangladesh, dove di persone ce ne
sono tante, si può avere la tentazione di voler fare tante
cose e non aver tempo necessario per ascoltare la persona.
Allora bisogna saper andare, come Maria che visita ed è
pronta a servire fermandosi e facendosi carico delle incombenze ordinarie di una casa dove deve nascere un
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bambino. Se non abbiamo la stessa attenzione e tensione
perdiamo tempo. Devo dirvi che mi è capitato tra i lebbrosi, tra i piccoli dei villaggi, a scuola come durante l’alluvione o i periodi difficili della vita.
Bisogna giocare la vita, tutta la vita! Bisogna essere
persone innamorate, appassionate di Dio e in Dio appassionate dell’uomo, senza mettere confini o limiti a questa
passione, che deve assomigliare a quella di Gesù. Per questo parto. O meglio: riparto».
Tornato in Bangladesh sperava di nascondersi in un
villaggio senza troppe responsabilità, invece gli hanno
chiesto di stare dapprima a Dhaka e poi nuovamente a Dinajpur.
Nei sette anni di assenza trova un paese molto cambiato: traffico caotico di macchine e autobus, palazzi con
ascensori, televisioni a colori, computer, ampliamento di
industrie e di edilizia.
Ovunque gente che viaggia. Autobus pieni, treni stracarichi, risciò che intasano il traffico.
Anche p. Adolfo ha questa “malattia”, tanto che qualcuno gli dice che deve essere nato in viaggio o in treno e
viene soprannominato “padre viaggiante”. Sempre in movimento.
Scrive in una lettera agli amici: «E la sera, nel momento del rendiconto con il Signore, lo ringrazio di avermi
aiutato anche oggi… a viaggiare. Mi trovo ancora novellino, perché non ho saputo dare la giusta attenzione a coloro che hanno viaggiato con me, a quelli che alla stazione
hanno cercato di iniziare un dialogo con me... perché non
sono sempre stato accondiscendente alle pestate di piedi,
perché non ho ceduto il posto a sedere a qualcuno più anziano di me. Accidenti! Penso tra me e me, il Signore vuole proprio degli eroi e io non ne ho la stoffa. Faccio del
mio meglio ma… il troppo stroppia e quasi inizio con uno
sfogo. Poi penso a p. Giuseppe, che ha solo 75 anni, che
continua a viaggiare in bici, con il sole e con la pioggia, visitando i villaggi; penso a suor Enrichetta, anche lei settantacinquenne, che continua a viaggiare per andare a tro-
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vare le “sue suore” nei vari conventi sparsi in questo paese
e mi sento piccolo, molto molto piccolo.
Spero che tra giovani di belle prospettive ci sia qualcuno che abbocchi all’amore e, per amore di Dio e del prossimo, venga a vivere questa stupenda avventura».
Mi fissa negli occhi: «Sai, è tempo di lasciare il testimone, ora io mi sento un poco “Dadu” – nonno –, soprattutto quando incontro persone conosciute da piccole e
adesso hanno due o tre pargoletti dagli occhioni belli e
scrutatori. Mi godo questi “miei” nipoti e penso: forza, il
mondo ora è nelle vostre mani. Noi abbiamo lottato per
rendervelo migliore: ora spetta a voi».
La corrente elettrica è tornata: la musica sfonda le
orecchie.
Basta chiacchiere. Si scende in cortile, bambini abbracciano e salutano. Le bambine tirate a nuovo nei loro
vestitini di pizzo e tulle variopinto si mettono in bella mostra aspettando i complimenti. Per tutti c’è una battuta e
la foto ricordo.
Comincia la festa.
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Diocesi di Dinajpur
La diocesi di Krishnagar, dove i missionari del Pime
erano partiti a lavorare nel 1855, era composta da due
parti distinte, una a nord e l’altra a sud del sacro fiume
Gange. La zona sud era maggiormente sviluppata e comprendente le attuali diocesi di Khulna e Krishnagar (l’ultima ora in India).
La zona a nord comprendeva l’attuale diocesi di Dinajpur, insieme a quelle di Rajshahi, Jalpajguri e Raiganj
(queste ultime due attualmente in India), separate successivamente.
Aveva una fisionomia tutta sua, in quanto la maggior
parte dei cattolici era costituita da tribali; aveva, oltre alla
cappella di Saidpur, una parrocchia nell’estremo nord, a
Malda (1915) una a sud, presso Andharkota (1907), e due
al centro: Dhanjuri (1910) e Beneedwar (1911).
L’ idea di formare un’intera diocesi nella zona a nord
del Gange diventava sempre più attuale nelle menti dei
missionari e fu così che iniziarono a cercare un posto
adatto allo scopo, a metà strada tra il Gange e il Bhutan.
Più andava avanti il progetto e più tutto sembrava puntare su Dinajpur, in quanto Saidpur, pur essendo in posizione centrale, non aveva possibilità di estensione perché il
terreno era di proprietà della ferrovia.
Del resto all’inizio del secolo scorso il cristianesimo
non era una novità a Dinajpur e dintorni. Alla fine del 18°
secolo la città aveva un unico cattolico nella persona di
Ignatius Fernandes, un portoghese nativo di Macao, commerciante di tessuti, che possedeva in città una fabbrica
per la produzione della cera ed alcune proprietà a Sadamohol, circa 17 chilometri a nord di Dinajpur. Senza lasciare il proprio lavoro, predicava la Buona Novella, riuscendo ad avere alcune conversioni sia a Dinajpur che a
Sadamohol.
Subito dopo la loro conversione un nutrito gruppo di
Munda da Begunbari, assieme ad altri Munda originari di
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Chota Nagpur, emigrarono e si stabilirono vicino a Nijpara, a cento chilometri da Beneedwar. La distanza era enorme, per quei tempi, e i missionari erano costretti a far sosta in vari posti, in occasione delle loro visite.
Uno di questi posti era Kasba, appena a sud di Dinajpur, dove viveva Kesob Sen, un battista proveniente da
Sadomohol. Egli aveva un carattere così particolare che
in Bengala viene definito “Court Dalal”, e cioè un uomo
che è più abile di un avvocato nelle dispute legali ma che è
anche più tenace di un mandriano nel mungere… la propria clientela.
Questo battista era amichevole nei riguardi dei missionari e quando seppe che essi cercavano del terreno per
un Centro Missionario, non perse l’occasione di offrire un
bel pezzo di terra proprio dietro la sua casa che era allora
alla sinistra dell’ingresso principale dell’attuale episcopio
di Dinajpur. Il terreno fu comprato nel 1914 dal fratello
francescano Paulus. Kesob si diede da fare come un matto e regalò anche un pezzo della sua proprietà e, nel suo
entusiasmo, si rifece battezzare cattolico. La sua idea era
che, con un complesso di tal fatta, i suoi affari sarebbero
notevolmente incrementati.
Fu solo a conclusione della prima guerra mondiale,
nel 1923, che si stabilirono nel centro due missionari: padre G. Margutti e padre Bianchi, entrambi del Pime. Fu
subito chiaro che non erano proprio i tipi che potessero
essere strumentalizzati da Kesob per i suoi traffici e la reazione di Kesob fu immediata. Come era stato attivo nell’aiutare la costruzione della missione così ora, con querele, calunnie ed ogni mezzo tentava di distruggerla. Grazie
a Dio non riuscì nemmeno a scalfirla.
I nuovi missionari all’inizio vivevano in una tenda,
poi in un capannone di lamiera e finalmente iniziarono
la costruzione in mattoni. Nel breve periodo di quattro
anni il posto era pronto per ricevere il primo Vescovo della appena creata diocesi di Dinajpur. Si era nell’anno
1927.
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Kesob, il vecchio imbroglione, restò cattolico, malgrado
tutti i problemi che aveva creato. Egli morì in povertà ma
visse abbastanza per assistere al giubileo d’argento della
diocesi.
L’espansione della missione avveniva non soltanto in
termini di costruzioni, ma anche di nuovi battesimi. Molte
conversioni avvenivano tra i Santal dell’area di Nijpara, Sadamohol e, specialmente, nella zona sud-ovest di Dinajpur.
La missione è andata man mano espandendosi e conta
attualmente circa 900 cattolici. Al suo interno esiste una
scuola (sia primaria che superiore) per 1800 studenti, un
ospedale con 145 posti letto, il convento delle suore, la chiesa cattedrale, un convitto per studenti delle scuole superiori con 200 posti per i ragazzi e 120 per le ragazze, un orfanotrofio, la Casa Vescovile, la Casa Parrocchiale (appena
ultimata nel 2000) che comprende un centro di cucito, uffici parrocchiali e aule per i bambini della Parrocchia, oltre a
un attrezzato centro di computer.
Il primo vescovo di Dinajpur fu Santino Taveggia, Pime, già vescovo di Krishnagar per 21 anni. Aveva 72 anni
quando andò a Dinajpur e vi morì dopo appena un anno.
Il secondo vescovo fu Giovanni Battista Anselmo, Pime, un uomo di estremo coraggio e di incredibile resistenza
al lavoro. Fu lui che si accollò con grande determinazione
la “nuova impresa” dal 1929 al 1949. Erano anni in cui la
popolazione cattolica cresceva nella diocesi al ritmo di 4-5
mila unità all’anno, e poi la seconda guerra mondiale, la
spartizione dell’India nel 1947, la deportazione nei campi
di concentramento di quasi tutti i missionari, la perdita dei
fondi della diocesi, lo stop degli aiuti dall’Italia e la grande
carestia nel Bengala. Il vescovo Anselmo si ritirò nel 1949 e
morì a Rohanpur nel 1953.
Il terzo vescovo fu Giuseppe Obert, Pime, dal 1949 al
1968, anno in cui si ritirò in Italia, dove morì il 6 marzo
1972.
Il quarto (e primo bengalese) vescovo fu Michael Rozario, dal 1968 al 1978, quando fu trasferito al seggio me-
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tropolitano di Dhaka. Durante i suoi dieci anni si ebbe
l’indipendenza del Bangladesh e l’assassinio dell’unico sacerdote santal: Lucas Marandi. Ma la Chiesa locale da allora ha ripreso vigore ed è in continuo aumento. Nel 1975
inaugurò la nuova cattedrale di Dinajpur, costruita da p.
A. L’Imperio.
Il quinto vescovo fu Theoutonius Gomes, CSC dal
1979 al 1996, anno in cui fu trasferito come vescovo ausiliare di Dhaka. Nel 1991 si è distaccata la nuova diocesi
di Rajshahi.
Il vescovo attuale, dal 1996, è Moses Costa, che sta
portando avanti con notevole coraggio e una incredibile
forza l’evangelizzazione nei più remoti villaggi della diocesi e che sta dando una spinta di innovazione tecnologica
alla stessa.
p. Luigi Pinos
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5. IMPEGNO EDUCATIVO NEGLI OSTELLI
Si fa sera, la calda luce dell’imbrunire accarezza i campi di riso. Dopo un lungo tratto di strada sterrata, – serpentina polverosa nella stagione secca e striscia melmosa
durante le piogge – ci si inoltra in un’oasi con folte piante
che offrono refrigerio alla vista: manghi, pompelmi, palme. Una vera delizia.
E ad accoglierci una frotta di bambini e bambine dai
grandi occhi scuri, indaffarati a portare acqua e terra, una
processione di formiche che, parlottando tra loro, vanno e
vengono in perfetta sincronia lungo i vialetti in lastre di
cemento dipinte con fiori naif e segni geometrici colorati.
Stanno preparando il terreno per il nuovo ostello e tutti sono al lavoro. Nessuno escluso.
La gioia si fa subito contagiosa e i canti di accoglienza
lasciano spazio al sudore e alla fatica.
«Questo si chiama diritto al lavoro», esclama entusiasta p. Emilio, orgoglioso di dimostrare quanto sia importante per questi 280 ragazzini il lavoro comunitario: essendo di etnie e provenienze diverse esso aiuta a socializzare e fa sentire la casa “propria” perché costruita con le
proprie mani.
«Ma non pensiate che sia uno sfruttatore, hanno tempo anche per giocare, divertirsi e pregare».
Infatti, poco dopo, terminata l’ora di lavoro, eccoli scatenati più che mai nei campi da calcio e da pallavolo, e dopo cena, tutti stretti come sardine, seduti a gambe incrociate per terra sulla piazzola di cemento, a fare le prove
dei canti e a guardarsi un film in cassetta, in rigoroso silenzio con gli occhi spalancati puntati sul piccolo schermo
televisivo.
E al mattino, all’alba, prima di andare a scuola, eccoli
tutti accoccolati fitti fitti – confondendosi con le minute
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suore bengalesi – su tappeti davanti all’altare della chiesa
per la Messa, in un silenzio sacro, interrotto solo dall’esplodere armonioso dei canti: voci bianche che commuovono.
Pensare che l’80% di questi bambini non è cristiano,
bensì animista. Ma che fare? Impedirgli di venire a pregare sarebbe per loro una grande offesa.
Chissà com’è, le “reduciones” dei primi gesuiti in Paraguay nei tempi passati me le immagino così. Eppure siamo in Bangladesh, più precisamente a Chandpukur, ad
una manciata di chilometri dall’India, in uno dei tanti
ostelli dei padri del Pime, fondato negli anni Ottanta, che
durante l’anno scolastico raccoglie i figli dei villaggi lontani, altrimenti impossibilitati ad andare a scuola.
Un fiore all’occhiello, segno di dialogo e di rispetto
Da non credere che agli inizi, proprio in questa zona,
l’evangelizzazione sia stata così difficile e osteggiata.
È p. Luigi Pinos a raccontare in uno dei suoi tanti
scritti: «Nel 1940, quando p. Giuseppe Cavagna e il catechista Pirthi Marandi visitarono il villaggio di Chandpukur per la prima volta, nessuno era propenso non solo a
diventare cristiano ma neppure a fornire una semplice
ospitalità. Tutto quello che riuscirono ad ottenere fu una
piccola stalla. Nessuno offrì loro il fuoco per cuocere il riso, e nessuno pose ai loro piedi il tradizionale recipiente
pieno d’acqua, simbolo del cibo che sarebbe stato cucinato per loro. Al mattino il padre e il catechista scoprirono
che il villaggio era diventato deserto: erano andati tutti via
per non dover parlare con i due forestieri. P. Cavagna e
Marandi naturalmente andarono via e arrivarono al villaggio vicino di Malpukur, si sedettero sul tronco di un albero
abbattuto e si misero a cantare. Gli abitanti, al sentire
questa novità, si avvicinarono e udirono con curiosità la
spiegazione dei canti, ma nemmeno questa volta fu data
ospitalità né fu richiesto loro di tornare.
Solo dopo un bel po’ di tempo furono gli stessi abitanti a pensare diversamente. Gli anni successivi alla divisione del Paese erano stati per loro durissimi, vi erano state
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in continuazione dispute con i musulmani circa la proprietà del terreno e, come tanti altri tribali, non avevano
speranza alcuna di averla vinta in tribunale. Alla fine furono loro stessi ad andare a Beneedwar chiedendo ai missionari di visitarli ancora. Padre Cavagna tornò una seconda
volta a Chandpukur, fu lui a parlare con i musulmani circa la proprietà, ad esaminare quei pezzi di carta che i poveri Santal non sapevano leggere, e alla fine i Santal ebbero salva la propria terra. Si avvicinarono così alla fede cristiana. Sia gli abitanti di Chandpukur che quelli di Malpukur furono battezzati nel 1957.
L’idea di stabilire una parrocchia a mezza strada tra
Rohanpur e Beneedwar era già nei programmi del vescovo
Anselmo, che aveva scelto Chandpukur per la sua posizione centrale in tutto il territorio ad ovest di Beneedwar. Ma
l’esecuzione del progetto tardò moltissimo per le difficoltà
dovute sia alla lontananza del posto da strade e ferrovie,
sia al fatto che il luogo era famoso per i suoi banditi.
La suddivisione del territorio nel 1947, tra India e
Pakistan, non fece che incrementare la criminalità nella
zona. Nel 1981 la parrocchia di Beneedwar contava più di
1.000 cattolici: fu allora che si decise di dividerla in due,
con la formazione della nuova parrocchia di Chandpukur
che ebbe, nella persona di p. Paolo Ciceri, il suo primo
parroco».
Quanta acqua è passata sotto i ponti.
Ora attorno all’ostello e alla missione ci sono 50 villaggi, di cui 25 cristiani, con una propria cappellina.
P. Emilio Spinelli, 58 anni, milanese, dal 1975 in Bangladesh, dal volto solare, contornato da capelli e barba
bianca, con la stessa passione dei suoi predecessori, orgoglioso della sua oasi, dove non è ancora giunta né l’acqua
corrente né elettricità, mi invita a bere un caffè italiano
(spedito regolarmente dalla sorella) gorgogliante da una
italianissima moka, su un fornelletto da campo, nella sua
capanna fatta di fango e lamiera, a poca distanza dall’ostello, in mezzo al bosco. La porta dà sul cortile dove ci sono le stanzette dei più grandicelli e dalla finestra della
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stanza si può ammirare la luna piena che si specchia nel
pukur (stagno artificiale). È qui che all’alba, prima di iniziare qualunque attività, il missionario si riserva del tempo per pregare, per meditare, per leggere, per contemplare
la natura e i suoi suoni, per ripensare alla vita dei “suoi”
bambini e delle famiglie che sostiene grazie agli aiuti provenienti dall’Italia. E nel pomeriggio va a zappare con i
suoi ragazzi, ma anche da solo. Per aver tempo di riflettere indisturbato.
Anche con i musulmani il rapporto è buono, si è instaurato un buon dialogo di vita. Anch’essi vengono aiutati quando hanno problemi di salute e indirizzati al Medical Center di Rajshahi.
«Sai, – mi dice – qui lo spazio è aperto, come vedi non
ci sono recinti, chiunque può venire, vedere, godere: un
mio amico musulmano spesso viene a trovarmi perché dice che qui trova la pace. E pensare che prima qui sembrava di essere nel deserto del Kuwait!
Ho piantato, mi sono preso cura dei fuscelli e ora queste maestose piante cominciano a dare i loro frutti. Lo
stesso vale per questi bambini. Ci vuole pazienza, attenzione, cura.
Il mio desiderio è che crescano sani, amanti della vita,
che sappiano ora e sempre – qualunque difficoltà attraversino – che la vita è il primo e il più bel dono di Dio. Ecco
quello che mi propongo nello stare qui con loro e nell’averli qui con me: insegnar loro a vivere la vita, fino in fondo.
In pienezza. E nei momenti duri che la vita riserberà loro,
mi auguro che si ricordino quanto hanno imparato qui: la
semplicità, la solidarietà, la speranza, la misericordia».
Il nostro vociare incuriosisce i bambini che spuntano
da ogni parte: tanti occhi che guardano scrutatori.
«Vedi, il mio desiderio più grande è che imparino a
condurre una vita e un lavoro dignitosi, che siano dei bravi uomini e delle brave donne, mogli e mariti, madri e padri e… chissà, suore e preti».
Questo è il sogno che da subito ebbero i missionari del
Pime in Bangladesh. Da quando sono sorte le missioni in
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questa terra, infatti, immediatamente si avvertì la necessità delle scuole e degli ostelli. La scuola era il cuore della
missione, perché permetteva di formare persone istruite,
in grado poi di essere utili al proprio popolo e alla testimonianza del messaggio evangelico.
Inizialmente la gente non capiva l’utilità della scuola:
non solo i missionari offrivano tutto gratis, ma dovevano
persino pagare i genitori più poveri, perché lasciassero i
loro figli liberi dal lavoro. Le mamme dicevano loro: «Ma
come? Ti ho dato mio figlio e tu vorresti anche che io ti pagassi? Sei tu che devi pagare me, perché mio figlio non
guadagna nulla». Poi cominciarono a vedere che i figli imparavano a leggere e a scrivere, ottenevano qualche impiego governativo, e la loro qualità della vita cambiava. Ora
all’inizio dell’anno i padri e le suore devono fare i conti
con i posti perché sono troppi quelli che vogliono mandare i figli all’ostello e alla scuola.
Guardo questo buon uomo dagli occhi dolci – mezzo
benedettino, mezzo scout, – mentre con un abbraccio solo
stringe a sé una decina di bambini sgambettanti che fanno
a gara a tenerselo ben stretto: ha speso ventun anni della
sua vita qui – non sempre sono state rose e fiori, le spine
non sono mancate – per trasformare, nel nome del Signore della Vita, la steppa in giardino, dei cuori selvaggi in
animi fiduciosi e amanti. A quando i frutti? Dio solo lo sa.
Ma già di alcuni se ne assapora il gusto.
In tutte le missioni attualmente ci sono ostelli che
ospitano per una media di quattro-cinque anni centinaia
di bambini e ragazzi, maschi e femmine, per una fascia
che va dai 5/6 anni ai 17/18. Quindi tutta l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza con il loro carico di doni e
di problematicità che queste età comportano. Anni in cui
si gettano le basi – fragili o solide che siano – della struttura della persona. Basi che resteranno per tutta la vita come un’impronta indelebile.
E questo vale ancor di più se si tratta di adolescenti,
come nel caso dell’ostello St. Philip, l’unico di tutta la dio-
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cesi di Dinajpur che raccoglie ragazzi dai dodici ai diciannove anni.
Lo sa bene p. Fabrizio Calegari, che ne segue la direzione dal 2003, come formatore ed educatore.
«Fin dal mio primo arrivo in Bangladesh nel 1996, furono diverse le cose a colpire la mia attenzione – mi racconta all’ombra di un albero, ai bordi di un grande campo
di calcio. – Una di queste, forse per una passione che ho
sempre avuto nel campo dell’educazione, è stato certamente l’ostello, con la sua vita e le sue dinamiche.
Dopo essere stato nella parrocchia di Suihari, con un
ostello di 270 tra bambini e bambine delle elementari, mi
trovo ora a seguire questo ostello, dedicato a S. Filippo
Neri, nato più di cinquanta anni fa con lo scopo di offrire
ai ragazzi delle parrocchie della diocesi di frequentare le
scuole superiori, impresa diversamente impossibile nei loro villaggi.
Negli anni Novanta p. Viganò – che aveva una passione
contagiosa per i ragazzi – per aumento delle richieste lo
ingrandì con una nuova ala.
Certo, aveva uno stile burbero, grezzo, ma per i ragazzi era un nonno.
Quando ero a Dhaka a studiare la lingua, le due o tre
volte che p. Viganò venne in capitale ha sempre cercato di
convincermi a farmi destinare al S. Filippo. Tanto che
quasi mi ero arrabbiato. E quando ormai minato nella salute, nel 1998, lo accompagnai all’aeroporto per tornare
definitivamente in Italia – e fu l’ultima volta che lo vidi –
con un magone grosso così e la sua voce roca mi disse:
“Vai, vai da quei ragazzi là”.
Così quando il vescovo mi propose questo incarico, mi
parve un segno.
Per almeno due anni i ragazzi erano stati quasi abbandonati a loro stessi: la fatiscenza di diversi ambienti dell’ostello faceva da specchio alla trasandatezza che trovavo
nei ragazzi.
Da subito avvertii l’importanza di impostare una proposta educativa.
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Attualmente nell’ostello ci sono 115 adolescenti provenienti da tutte le parrocchie della diocesi e da alcune parrocchie di altre diocesi e appartengono a varie etnie: Santal, Oraon, Khotryo, Bengalesi, Munda, Mahali, Raut.
Quasi tutti i ragazzi sono battezzati, ma non mancano
eccezioni, in maggioranza provenienti dal mondo indù. Si
tratta in ogni caso di famiglie che sono in contatto con la
missione e che approvano l’istruzione cristiana che diamo, anche se questo non significa che un giorno sceglieranno il battesimo».
È mezzogiorno e i ragazzotti ancora con la divisa (pantaloni blu e camicia bianca) tornano a crocchi dalla scuola, bighellonando nel campo. I più piccoli con una radiolina a tutto volume con canzonette popolari bengalesi si appartano in un angolo, seduti sul prato, ma non tolgono lo
sguardo dal giovane missionario, sarà per l’ospite sconosciuta che gli siede accanto con tanto di quaderno e penna…
Anche p. Fabrizio si è accorto dei loro sguardi: «Sai, la
mia presenza per loro è un punto di riferimento, mi osservano, mi scrutano per vedere come mi comporto, come
reagisco, se sono coerente con quello che dico, solo così
matura la stima e la fiducia reciproca. Sanno che ci sono,
chi sono e con me si possono confrontare su tutto.
La figura del formatore è determinante.
Ogni attività è un’occasione per formare. Ma, anche e
soprattutto, per amare i ragazzi. E perché essi possano fare esperienza di Dio che li ama.
«Poi giorni fa – prosegue a mo’ di esempio – ho consegnato le borse di studio a dodici ragazzi che si sono distinti lo scorso anno per risultato scolastico e impegno nell’ostello: scuola, vitto e alloggio saranno totalmente gratuiti
per un anno. Con il computer avevo preparato un diploma
con il nome di ciascuno, così che il premio fosse anche visibile. Nel riceverlo, qualcuno era imbarazzato come se
stesse rubando, qualche altro quasi piangeva. Io sono orgoglioso per loro. Soprattutto perché i migliori studenti
della scuola – che conta centinaia di ragazzi, in maggio-
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ranza musulmani – sono i miei ragazzi. Hanno preso quasi tutte le migliori posizioni per ogni classe. Alla faccia del
razzismo bengalese che vuole i tribali inferiori e meno
brillanti. Eccoli qui i tribali: dategli una possibilità e, almeno a scuola, non sono secondi a nessuno. Ma i primi a
non crederci sono i ragazzi stessi, tanto è forte il senso di
inferiorità. Ecco perché queste borse di studio sono uno
stimolo e un rinforzo positivo enorme.
“Avete visto?” – domandai ai ragazzi alla fine. “E allora, chi sono i migliori?”. Silenzio.
“Chi sono i migliori?” – ribadivo alzando la voce. “Noi”
– rispose qualcuno debolmente.
“Chi sono i migliori?” – richiesi gridando e portando
una mano all’orecchio come per sentire meglio le loro risposte. “NOI!” – gridarono finalmente tutti quanti. E rimanemmo così a guardarci, ridendo e applaudendoci.
Condividere per quanto possibile la loro vita è già dire:
“tutto quello che fate è importante per me. Io credo in
voi”.
E se a volte io stupisco loro, spesso sono loro che mi
sorprendono e mi incoraggiano nel cammino di fede con
le loro scelte e le loro intuizioni.
Per esempio una volta il preside della nostra scuola mi
informò che si stavano raccogliendo aiuti da distribuire
alla gente di una zona vicina colpita dall’alluvione. Mi propose di donare anche noi una quota corrispondente a
mezzo chilo di riso per ogni ragazzo dell’ostello. Di riso ne
abbiamo stivato diverse tonnellate, dal momento che ogni
giorno ne consumiamo quasi un quintale. Potevamo dare
quello che chiedevano con facilità. Si trattava però di far
partecipare anche i ragazzi e chiedere loro in che modo
volevano offrire questo mezzo chilo per ciascuno. Altrimenti avremmo perso un’occasione per crescere nel dono.
Raccolsi proposte classe per classe e rimasi stupito dal
loro entusiasmo nel rispondere. Per raccogliere il riso necessario alcuni suggerirono di rinunciare a due colazioni –
cioè a due piatti di riso – altri ad una cena e di aggiungere
soldi, altri ancora di saltare la carne una domenica – l’uni-
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ca di tutta la settimana! – e aggiungere soldi per colmare
la cifra stabilita. Alla fine decidemmo insieme di eliminare la carne per una domenica e di rinunciare a una colazione.
Se penso a quanto sia stato importante questo gesto di
rinuncia, che diventa dono per gli altri, a questo riso che
per loro è tutto e anche di più, provo un misto di orgoglio
e di tenerezza per i ragazzi».
P. Fabrizio, originario di Monza, poco più che quarantenne, da dieci anni in Bangladesh, così cresce con loro,
cercando di trasmettere loro l’amore di Dio.
«Ricordo ancora – continua il racconto – la fine del
“mio” primo anno scolastico in questo ostello. Facemmo
festa assieme preparando una ricreazione con un po’ di
numeri. Organizzai la pesca con premi raccolti durante
l’anno e cose comprate qui. Tutti avrebbero ricevuto qualcosa. Le magliette da calcio (ovviamente non originali!) di
Zidane, Maradona, Ronaldo, Crespo, Vieri, che mi ero
portato dall’Italia, risaltavano sul tavolo ed erano naturalmente le più desiderate. Sontus e George rimasero a bocca aperta davanti al palco per tutto il tempo, sperando di
essere loro tra i fortunati. Invano: le vinsero altri, che il
calcio lo masticano assai meno di loro. I ragazzi furono
contenti e si impegnarono molto con le danze e i canti.
Anch’io ero contento, mi pareva che il bilancio fosse positivo, pur con tante cose da migliorare.
Mentre ci si preparava per andare a dormire, Ismail mi
si avvicinò per parlare. Fosse stato per lui, in tutto l’anno
mi avrebbe detto sì e no dieci parole, compresi i buongiorno, tanto era timido.
Era imbarazzato, ma sorridendo mi disse sottovoce:
“Ha mantenuto la sua parola padre, grazie!”. Cascai dalle
nuvole: che parola? “All’inizio dell’anno, cominciando
questo nuovo lavoro, lei ci ha detto che non poteva prometterci nulla tranne una cosa: che ci avrebbe amato.
Questa parola l’ha mantenuta” – mi disse Ismail, mentre
torceva il suo berretto di lana con le mani. Mi sentii arrossire fino alla punta dei capelli».
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E ancora adesso, nel parlarne, gli luccicano gli occhi.
«Sai – prosegue con il suo vocione p. Fabrizio, ragazzotto dal cuore grande, – l’educatore deve essere padre e
madre, come ricordava bene don Bosco ai suoi: “Se sarete
veri padri e vere madri, bisogna che voi ne abbiate anche
il cuore”. Il mio sogno è dare a ciascuno, nello spazio dell’amore, la possibilità di rivelare la propria statura».
Per questo ha pensato anche ad alcune proposte concrete, che si inseriscono nella vita ampiamente già strutturata dell’ostello: oltre alla catechesi settimanale e alle visite periodiche nelle classi interrogando e discutendo sia su
tematiche scolastiche che di vita, ha ideato dei luoghi fattivi per far crescere i suoi ragazzi, umanamente, culturalmente e spiritualmente, stimolando desideri e passioni.
Mi fa vedere due aule fatiscenti, con scaffali vuoti da riempire, pareti da intonacare, riparare e abbellire, ma nei suoi
occhi già c’è una piccola biblioteca ben fornita di libri per
ragazzi e un’accogliente cappellina, due luoghi essenziali
per la formazione dei giovani, luoghi dove potersi trovare
in libertà individualmente a leggere e a pregare.
Sogni che, prima del previsto, grazie alla generosità di
amici italiani si sono potuti realizzare.
La bella cappella a cui ha lavorato un artigiano venuto
appositamente da Chittagong, nel sud del Bangladesh, dal
12 luglio 2005 è diventata un luogo “personale” in cui potersi fermare a pregare o a meditare quando i ragazzi ne
sentissero il bisogno. Accanto ad essa la piccola biblioteca, dotata di qualche centinaio di libri bengalesi, di vario
genere, ma anche di una piccola sezione di libri inglesi e
abbellita, alle pareti, da cartine geografiche. Padre Fabrizio ha aggiunto anche un microscopio e ha confessato che
sta già pensando, in futuro, a qualche computer.
L’appassionante sfida educativa continua.
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6. IMPEGNO SANITARIO A RAJSHAHI
Il sole è cocente quando arriviamo a Rajshahi, città adagiata sulla riva sinistra del Gange – che fa da confine occidentale con l’India – e attraversata dalla ferrovia, lungo la
cui scarpata ci sono un’infinità di basse casupole di argilla,
paglia e bambù. Alcune donne con bambini sono intente a
impastare “spiedini” di sterco bovino e pula di riso, che,
seccato, sarà un ottimo combustibile per la cucina o per ricavare qualche soldo al bazar. Altre, incuranti del traffico
caotico della città, che scorre accanto a loro, lavano le stoviglie e fanno il bagno vestite nei numerosi pukur posti tra
la strada e i binari. Questi stagni sono una riserva artificiale indispensabile in questa stagione secca e la loro acqua risulta preziosa per lavare e lavarsi, abbeverare gli animali,
allevare il pesce, per avere acqua per cucinare e spesso –
purtroppo – anche per bere. È un piacere spiare furtivamente con quanta precisione e discrezione in questi acquitrini donne e uomini si lavino accuratamente con il sapone,
rimanendo immersi con i loro vestiti. E, quando escono, le
donne con una disinvoltura regale raccolgono i loro splendidi capelli neri in lunghe trecce, lasciandoli asciugare al
sole, si cambiano gli abiti bagnati e con un pudore senza
uguali indossano freschi sari asciutti dai mille colori. Così,
distratta da questa operazione che a mio avviso richiede
una grande arte e perizia – quale fosse una danza armoniosa dove nulla è lasciato al caso, – tra uno strombazzare di
clacson e una brusca sterzata per evitare camion e risciò
che viaggiano senza alcuna regola stradale, per una stradina secondaria arriviamo al Sick Selther della città, gestito
dalla suore di Maria Bambina e dai missionari del Pime, all’interno della parrocchia del Cristo Redentore.
Una struttura semplice, composta da piccoli edifici a
un piano, con diverse stanze che danno sul cortile comune
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centrale, abbellito da fiori e piccole piante. Accogliente,
lindo, questo è il Centro di Accoglienza per i Malati, provenienti da villaggi vicini e lontani, fondato nel 1974 da
suor Silvia Gallina – della comunità religiosa di Maria
Bambina – con l’intento di aiutare gli ammalati poveri
provenienti soprattutto dalla zona nord-ovest del Bangladesh.
È la stessa suor Silvia (morta ottantenne il 31 maggio
del 2002, dopo 47 anni di Bangladesh) a scrivere anni addietro: «Appena finita la guerra d’indipendenza, eccomi
trasferita ad Andharkota. Molti degli uomini più giovani
della missione, attraverso l’opera persuasiva del padre
missionario, avevano trovato un lavoro nel Medical College di Rajshahi (ospedale statale annesso alla facoltà di medicina) a quattro miglia dalla missione. In missione c’era
un dispensario, ma a fatica poteva aiutare tutti i poveri
ammalati. Capii che un semplice dispensario non bastava
più. Allora presi la mia “Vespa” e cominciai a portare malati al Medical College, dove venivano visitati, venivano
prescritti gli esami, effettuate le radiografie, ecc.
All’inizio le mie prestazioni per questi poveri ammalati, malnutriti e tante volte sporchi e malridotti, creavano
sospetti da parte del personale medico che esclamava:
“Che fa questa forestiera qui? Non vorrà mica farci tutti
cristiani?” e così via. Ma quando si accorsero che la mia
carità era per tutti, musulmani, indù, cristiani e pagani,
cambiarono ritornello e cominciarono ad ammirare il nostro lavoro».
«All’inizio suor Silvia – racconta p. Stephen Gomes,
prete bengalese che ha lavorato con lei – accompagnava
sempre i malati dal dottore per un controllo o per una diagnosi, conoscendo la superficialità e la faciloneria di alcuni di loro. I suoi malati erano poveri ed ignoranti; lei lo sapeva bene: alcuni non li avrebbero visitati accuratamente
e in fretta gli avrebbero prescritto qualche pillola di vitamina che non avrebbe loro giovato. Essa controllava le
prescrizioni e i medicinali, e se qualcuno avesse ricevuto
solo palliativi, avrebbe protestato con il dottore. Presto i
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medici si misero all’erta e quando sapevano che si trattava
di un “malato della madre” lo visitavano accuratamente
altrimenti lei si sarebbe fatta sentire.
Il suo lavoro con i malati e i poveri fu ben presto riconosciuto e rispettato da medici, infermieri e amministratori».
E la buona “Vespa” verde era il suo cavallo di battaglia:
fare dieci chilometri per arrivare all’ospedale, dopo essere
arrivati con il carretto dai villaggi lontani, non era facile
per malati malmessi e deboli.
P. Luigi Pinos in un suo scritto la ricorda così: «Dio solo sa quanti malati ha scarrozzato sul sedile posteriore del
suo cavallo di ferro! Ormai, quando arrivava agli uffici
della città, gli impiegati sapevano già che non si scappava:
orario o non orario bisognava accontentarla. I dottori, anche se si erano già tolti il camice e stavano per andare a
casa, nel vederla arrivare trafelata, si rassegnavano».
Ancor oggi molte volte i malati sono scheletri ambulanti che si trascinano a stento e che trovano nelle suore
che li accompagnano il loro sostegno e il loro conforto; se
andassero da soli al policlinico i dottori non li guarderebbero neppure, infatti la maggioranza di loro sono tribali e
in pochi, e con difficoltà, parlano il bengalese; molti non
lo conoscono affatto. Le suore si fanno portavoce per loro
e implorano per loro perché vengano visitati e ricoverati,
se c’è bisogno.
Una volta ricoverati, tutti i giorni una suora o un collaboratore va a visitarli per supplire a tutti i loro bisogni; le
spese da sostenere sono elevate, specialmente se vengono
operati, perché all’ospedale somministrano solo i medicinali più comuni. In certi periodi dell’anno ci sono anche una
quarantina di malati da visitare, senza contare quelli che
sono al sanatorio, che non sono mai meno di una ventina.
«Alla fine però – prosegue p. Pinos – suor Gallina scoprì che anche il sistema della Vespa non era conveniente:
le pratiche per l’ammissione dei degenti richiedevano tempo e la Vespa non sembrava abbastanza veloce. Così suor
Silvia si mise alla ricerca di un terreno, e, grazie all’inter-
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vento della Caritas, lo trovò lungo la ferrovia, alla periferia
di Rajshahi, vi fece costruire una tettoia di lamiera che
chiamò “Rifugio per i malati”.
Tranne i casi di emergenza, infatti, gli ammalati per essere ammessi all’ospedale devono essere sottoposti ad esami preliminari come malati esterni e alla fine possono essere ricoverati. Durante questo periodo di attesa la gente
povera non ha un posto dove stare, spesso passa diverse
notti sulla strada, aspettando di essere ricoverata. Tanti
tornano a casa senza essere stati nemmeno visitati. Vista
questa amara realtà, la compassione ha spinto suor Silvia
a provvedere a una temporanea accoglienza dei malati
provenienti dai villaggi. Per prima cosa aiutavano i malati
a lavarsi, li rivestivano con abiti puliti e così li potevano
presentare meglio ai medici. Poi li assistevano con cibo,
medicinali e altri aiuti, soprattutto per chi non poteva affrontare le spese necessarie (gli ammalati vengono al centro e vi rimangono per tutto il tempo in cui sono sottoposti alla terapia o fino a quando vengono ammessi all’ospedale). Infine davano agli ammalati, mentre stavano al
Centro, un’educazione sanitaria minima (igiene e cura dei
bimbi per prevenire le malattie infettive).
Suor Gallina scrive: «Si pensò così di costruire almeno
una capanna di fango, ma, ritenuta non opportuna per l’igiene e per le esigenze di disinfezione, si costruì un dispensario, un cucinino e due stanzette. Nella stanza dove
si mangiava, si dormiva, si ricevevano visite, tutte le mattine lo stesso direttore della Caritas, p. Faustino Cescato –
che aveva appoggiato e sostenuto il progetto – celebrava la
santa Messa.
Fu proprio come il granello di senape della parabola
evangelica.
Quando nel 1980 si è iniziato così il Sick Shelter non
avremmo mai pensato che quattro ampi tavolacci di legno, una semplice stuoia e un cuscino, dopo pochi anni si
sarebbero trasformati in 60 posti letto con materasso, lenzuola e in più un nuovo centro con 46 posti letto per gli
ammalati di tubercolosi».
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Infatti, in seguito il progetto è stato molto ampliato e
oltre al Sick Shelter residenziale di Rajshahi con 60 posti
letto, sempre strapieno, è stato istituito un nuovo centro
per la TBC con 50 posti letto e tre sottocentri dove c’è la
possibilità di curare 600 ammalati a domicilio con controlli e terapia. In questo lavoro sono aiutati da personale
paramedico locale ben preparato.
L’apertura della sezione per la cura della tubercolosi,
avvenne il 1990 grazie all’interessamento di padre Piero
Parolari del Pime, medico e missionario, che spiega:
«Questi malati vengono curati come minimo per sei mesi
con adeguata terapia; fino a quando possono ritornare alle loro capanne in discrete condizioni. Molti sono seguiti
dai sottocentri e altri, un buon numero, non sono mai meno di una trentina, vengono ricoverati al sanatorio governativo dove noi dobbiamo provvedere a rendere più sostanzioso il cibo e a far fronte ad eventuali altre spese. Il
costo dei medicinali è alto e i malati di TBC, oltre alle medicine, abbisognano di un cibo particolare.
La tubercolosi è una malattia molto diffusa in Bangladesh. Colpisce l’1% della popolazione (quindi circa un milione di persone all’anno, metà delle quali infettive), per
questo si è vista l’urgenza di iniziare questo nuovo centro.
Qui a Rajshahi ci sono 40 posti letto dove vengono accolti
i malati, viene diagnosticata la malattia e poi vengono
mandati al TBC Hospital. Lì danno la cura poi tornano al
centro, dove vengono seguiti fino a guarigione raggiunta,
spesso per mesi e mesi con terapie altamente costose, tanti casi vengono seguiti anche dopo la guarigione perché
necessitano di aiuto per una discreta alimentazione. Molti
sono poverissimi, direi miserabili».
Padre Piero Parolari, 54 anni, laureato in medicina nel
1979 ed entrato nel Pime l’anno successivo, partito per il
Bangladesh nel 1985, era intenzionato a fare il missionario piuttosto che il medico. Ma ben presto si accorse della
necessità di far qualcosa per i malati di tubercolosi, ancor
oggi il peggior malanno che colpisce i bengalesi, causato
dalla malnutrizione, dal clima caldo umido, dalla sporci-
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zia. Non ci sono specialisti, né alcuna attenzione e prevenzione da parte degli operatori del servizio sanitario nazionale. Non ci furono scusanti: si sentì sempre più interpellato a testimoniare Cristo e il suo amore mediante la sua
professione di medico. Formò la sua équipe di infermiere
e personale paramedico e fondò il TBC Center accanto al
Sick Shelter, lavorando con suor Silvia, a cui è ancor oggi
grato per averlo introdotto in questa realtà.
È lui stesso a ricordare: «Ho incontrato per la prima
volta suor Silvia al mio arrivo in Bangladesh nel settembre 1985. Ho avuto poi il dono di lavorare con lei quando,
nel 1990, aprimmo insieme la “sezione dei tubercolosi”,
un’estensione del centro di accoglienza per gli ammalati
poveri.
Nel riportare al cuore quegli anni passati, lavorando
fianco a fianco con questa suora, sento una grande riconoscenza verso il Signore per il dono che lei è stata per la mia
vita missionaria: posso anche dire di aver imparato molto
da lei. Fin dagli inizi, lavorando assieme, coglievo piano
piano i tratti del suo modo di dedicarsi agli ammalati: dinamica, instancabile, determinata. Ciò che mi meravigliava di continuo era come lei riuscisse, dentro alle situazioni
umane più difficili e intricate degli ammalati, a trovare
sempre una soluzione pratica e fattibile per aiutarli. Con
forte senso pratico e grande intuizione del cuore andava al
centro del problema e, oltre che risolverlo, convinceva
l’ammalato stesso che quella era la soluzione migliore per
lui. Gli ammalati poi conoscevano bene il suo cuore. Lo si
vedeva quando un ammalato, in preda a nostalgia, scappato dall’ospedale per andare a casa anzitempo, ritornava
una seconda volta; suor Silvia lo rimproverava e, a parole,
affermava che non lo avrebbe più aiutato. L’ammalato rimaneva lì fermo a sentirsi tutti i rimproveri e non se ne andava, certo che poi la suora lo avrebbe accolto. Il giorno
dopo, presso i medici dell’ospedale, faceva opera di convincimento per ricoverarlo di nuovo e riusciva immancabilmente nel suo intento, mettendosi dalla parte dell’ammalato stesso, anzi, scusandolo presso i medici.
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Capitava spesso che i malati avessero delle crisi di
sconforto, oltre che a causa della malattia, anche per solitudine. Suor Silvia li ascoltava e con il suo unico senso
dell’umorismo riusciva in pochi minuti a far tornare il sorriso sui loro volti. E io – sottolinea p. Piero – ho imparato
da lei l’importanza del sapere ascoltare. Bisogna far sentire a casa la persona malata. Ciò richiede tempo e disponibilità, ma è questo che fa la differenza: il malato è per noi
prima di tutto un fratello da ascoltare e amare nel suo dolore, nella sua sofferenza».
Credo che sia questo il grande aiuto e il sostegno che la
presenza e il lavoro dei missionari e delle missionarie offrono qui in campo sanitario. Non solo danno professionalità e competenza, ma anche attenzione per la cura integrale della persona.
Seduta sotto i portici del Centro per malati di tubercolosi, iniziano le danze in mio onore – come si usa in tutto
il Bangladesh ogni volta che arriva un ospite straniero –
mi sento imbarazzata, mentre con tanta disinvoltura bambine e ragazze si muovono suadenti al ritmo della musica.
A guardarle, con occhi misti di tristezza e ammirazione, ci
sono anche gli altri pazienti del reparto.
Mi colpisce soprattutto Beauty, ragazzina avvolta nel
suo splendido sari rosso fiammante, ben truccata e sorridente: insieme alle sue amiche mi offre un profumatissimo giglio bianco. È musulmana, di una famiglia molto
povera e proviene da un villaggio della zona di Gulta, vicino a Sirajgonj. Era affetta da tubercolosi polmonare, con
molte fistole toraciche (se la TBC non è infatti curata per
tempo, il pus della caverne tubercolari si crea uno spazio
per spurgare).
Beauty si trova al Centro da quasi un anno e mezzo.
«Sai, la cura e la terapia le hanno restituito l’entusiasmo. È una bambina molto affettuosa e sensibile e ha sofferto molto. Quando è arrivata al Centro era molto timorosa sia perché musulmana sia perché particolarmente
sofferente. Oltre che amministrarle la terapia, ogni giorno
le venivano pulite e disinfettate le ferite. Ora sta bene e
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presto andrà a casa, è rifiorita, la vita è nuovamente nelle
sue mani», dice p. Francesco Rapacioli, anch’egli missionario e medico, che attualmente, da Dinajpur, segue il
programma sanitario del centro e si prende cura anche del
personale, facendo incontri di formazione e aggiornamento, al posto di p. Piero, richiamato temporaneamente per
un servizio di formazione in seminario a Roma.
Accanto a lei, organizzatrice di questo spettacolo, suor
Agostina, bengalese delle suore di Maria Bambina, insieme a suor Berchmans, la superiora della comunità, indiana, e ad altre tre suore che lavorano al Sick Shelter. Un bel
team a servizio dei sofferenti, sulla scia di suor Silvia Gallina.
Uno sguardo furtivo a p. Francesco Rapacioli. Sono
fiera di queste persone che “sprecano” il loro tempo e le
loro energie migliori a servizio di questi emarginati dalla
società. Mi commuovo di fronte a tanta delicatezza.
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Arrivo e presenza delle suore in Bangladesh
Fin dal principio p. Albino Parietti, scrivendo in Italia
al suo Superiore, aveva parlato della necessità di avere le
suore a lavorare con loro in missione, con questa convinzione: “Se volete delle famiglie veramente cristiane, dovete
prima far cristiana la donna. Se volete far cristiana la
donna, chiamate le suore”. Passarono cinque anni prima
che si trovasse un Istituto disposto ad accogliere questo
invito.
Il 7 febbraio 1860 partono da Lovere, in provincia di
Bergamo, cinque suore della Carità, meglio conosciute come suore di Maria Bambina, insieme a p. Enrico Longa,
anch’egli destinato in Bangladesh. Arrivano a Calcutta
via nave l’11 marzo 1860: sono le prime suore italiane in
Bengala. Da subito aprono una scuola-orfanotrofio femminile a Krishnagar.
“Prima le ragazzine dell’orfanotrofio erano la mia disperazione – scrive p. Limana – ora la mia consolazione. Ammiro le suore che hanno tanta pazienza, tanto ardore di lavorare questa vigna molto faticosa. Eppure ci riescono”.
Le suore si affiancano ai padri per completare la loro
opera di apostolato.
Visitano i villaggi dispersi e si curano del bene fisico,
sociale e spirituale delle donne e delle ragazze: catechesi,
educazione di base, igiene, economia domestica, aiuto sanitario.
Da allora le suore si sono sempre dimostrate veramente provvidenziali per lo sviluppo della Chiesa locale e la
solidarietà ai poveri. Attualmente contano numerosi conventi nelle varie diocesi bengalesi, gestiti quasi tutti da
suore locali.
Nel 1953 arrivano a Dinajpur anche le prime tre suore
Missionarie dell’Immacolata (popolarmente conosciute
come “le suore del Pime”), rispondendo all’invito rivolto a
questo nascente Istituto – fondato nel 1936 – da mons.
Obert, allora vescovo della diocesi.
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Le Missionarie dell’Immacolata in Bangladesh oggi
sono una comunità numerosa e variopinta. Le più anziane sono quasi tutte italiane, la “vecchia guardia” che ha
dato forma e forza alla loro presenza qui, e che ancora
porta il peso delle responsabilità più gravose nella comunità come nel servizio missionario. Le più giovani sono
quasi tutte bengalesi: alcune studiano, altre lavorano nelle missioni. Ma ci sono anche sr. Eli, brasiliana dell’Amazzonia, e alcune italiane arrivate recentemente; con loro il passaggio da una comunità tutta italiana a una comunità internazionale avviene gradualmente, ed è più facile integrarsi, condividere il carisma.
Dieci suore impegnate direttamente nell’annuncio e
nella pastorale, due ospedali per i malati di lebbra, quattro dispensari medici, tre ostelli con centinaia di ragazze,
tre centri di cucito, sei scuole... questa è la lista degli impegni delle Missionarie dell’Immacolata in Bangladesh, e
non importa se le opere sono dell’Istituto o della diocesi.
Al tutto si aggiungono due case di formazione per le giovani che entrano.
Ci sono pure le bengalesi che... non ci sono, perché si
trovano in missione fuori: Oceania, Africa... Specialmente a loro tocca tener vivo lo spirito di un Istituto che è nato per i non cristiani e per andare ovunque, anche oltre i
confini del proprio Paese.
Ed è sempre mons. Obert a fondare nel 1951 una Congregazione diocesana, le suore catechiste del Cuore Immacolato di Maria (C.I.C., chiamate in bengalese suore
Shanti Rani. “Regina della Pace” dal nome del primo loro
convento-casa madre) aiutato anche da suor Enrichetta
Motta delle suore di Maria Bambina.
Cominciarono con cinque novizie che fecero la loro
professione religiosa nel 1953. Gli inizi furono molto
umili, non avevano niente di niente. Non avevano una
casa propria, non c’era una clausura per il noviziato e vivevano insieme alle ragazze della scuola. Nella loro povertà avevano convertito una parte del dormitorio comu-
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ne in un luogo separato per il convento, ma le giovani erano piene di fervore e questo le aiutò a superare molte difficoltà.
Il piccolo granello è cresciuto rigoglioso fino a raggiungere attualmente 100 suore con 11 conventi su tutto
il territorio bengalese, impegnate nell’educazione religiosa
e umana delle ragazze e nel servizio sanitario.
Oggi la Chiesa in Bangladesh è composta da più di seicento suore – di cui due terzi locali – appartenenti a diciotto congregazioni religiose differenti.
Mariagrazia Zambon e
p. Franco Cagnasso
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7. SCUOLE E CASE PER I TRIBALI
Ci alziamo presto questa mattina. Non è ancora l’alba e
p. Paolo Ciceri ha già acceso il motore della sua Toyota:
mi aspetta in macchina per portarmi a visitare la scuola
per i tribali e alcuni villaggi appena fuori Rashjahi, da lui
voluti e costruiti.
Più ci inoltriamo tra campi e canneti e più la nebbia
che avvolge ogni cosa si fa fitta. Qui di notte, durante i mesi invernali, la temperatura scende parecchio e fa freddo.
Frettolosi e infreddoliti, avvolti nei loro panni di lana, alcuni bambini camminano velocemente verso la scuola.
Molti di loro non hanno né calze né scarpe, ma semplici
infradito di plastica. Alla nostra vista accelerano il passo
per non far tardi a scuola.
Edificio che, attraversando palme e banani, ci appare
all’improvviso: a più piani, nuovo, tutto pitturato di rosa.
È la “Virgin Mary School”, costruita nel 2001 grazie al
finanziamento ricevuto dalla “Siderurgica Fiorentina”:
una scuola solo per tribali, composta dalle otto classi della pre-scuola e delle elementari, di cui p. Paolo va altamente fiero.
Missionario del Pime sessantatreenne, brianzolo, dal
1973 in Bangladesh a servizio dei tribali, per i quali ha da
subito lottato perché non si sentissero emarginati nella società bengalese.
Per farli maturare nell’autostima e per promuovere la
loro qualità della vita sentì l’esigenza di costruire per loro
case e scuole. Desiderio che riuscì ad attuare grazie all’aiuto di tanti benefattori.
Entriamo in una classe dove una maestra molto elegante nel suo sari verde brillante sta indicando sulla lavagna i caratteri della lingua bengalese ad una squadra di
bambini e bambine attentissimi, seduti ben ordinati nei
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loro banchi in legno. Appena ci vedono scattano in piedi e
in un coro all’unisono salutano con grande rispetto.
P. Paolo improvvisa qualche domanda in bengalese e
loro rispondono a gara tutti eccitati e fieri.
«Sai, – dice mentre la maestra riprende la lezione in un
silenzio assoluto – per questi tribali la lingua madre e la
cultura seminomade sono una grande palla al piede. Hanno bisogno di una scuola speciale prima di poter accedere
alla scuola governativa, dove essere apprezzati e sentirsi
alla pari degli altri studenti, altrimenti continuano a portarsi dentro un forte senso di inferiorità, dato che vengono
presi in giro dai compagni bengalesi, perché sbagliano la
pronuncia, perché puzzano di maiale… e presto o tardi
abbandonano la scuola.
Quando sono arrivato a Rajshahi questi aborigeni si
autodisprezzavano: “Siamo gente di giungla, non valiamo
niente”, poi hanno cominciato a vedere che i loro figli parlavano il bengalese, facevano discorsi logici, erano meno
emotivi e ora sono ben orgogliosi di averli mandati a scuola. Ma non ti dico che fatica per convincerli… all’inizio mi
sono dovuto imporre, obbligandoli e controllandoli a vista
d’occhio.
Io stesso vengo da una famiglia poverissima e ho sperimentato cosa vuol dire essere “ultimo” a scuola ed essere
preso in giro. A partire dalla mia esperienza voglio dar loro
dignità e una carica positiva per il futuro, puntando in alto.
Pensa che proprio quest’anno con immensa gioia sono
riuscito ad iscrivere alla Bangladesh National University, e
per di più nella facoltà di inglese, una nostra studentessa
paharia che aveva terminato l’Intermediate College con i
massimi voti. Si tratta di una facoltà così ambita e affollata che vi entrano solo i super raccomandati o i migliori: su
8.000 domande accettano solo 250 studenti. Non è un bel
segno di speranza?
Ma non pensare che sia facile. Qui ci devi stare una vita per vederne i frutti».
Per far crescere un popolo e offrire un futuro dignitoso, però, non è sufficiente l’istruzione, occorre educare,
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formare, dare la possibilità di avere stabilità e di possedere un’abitazione.
È per questo che fin dall’inizio della presenza dei missionari del Pime a Rajshahi si è pensato di aiutare i tribali
ad avere un loro spazio dove vivere in maniera dignitosa.
P. Pinos, nel suo libro Il mercato delle stelle, ricordando
l’arrivo nei tribali in città, di ritorno dopo la guerra d’Indipendenza, racconta: «La scarpata della ferrovia divenne
luogo di sosta dei nuovi arrivati. Altri più coraggiosi si accomodarono sotto gli alberi di qualche frutteto, per esserne ben presto scacciati dai padroni armati di bastoni e
aiutati dai loro cani. Tra l’altro questi luoghi di sosta diventavano in men che non si dica maleodoranti, per il
semplice fatto che nella cultura tribale non era mai esistita quella cosa che noi chiamiamo latrina.
A Rajshahi gli uomini erano riusciti a trovare lavoro
come sterratori e in altre umili incombenze, ma molto
spesso, tornando a casa alla sera (se casa si può chiamare
la scarpata di una ferrovia), scoprivano che durante la
giornata le loro donne e i loro bambini erano stati allontanati da essa chissà da chi ed erano finiti chissà dove.
La Caritas riuscì a comprare un bel frutteto dall’altra
parte della ferrovia: proprio il frutteto dal quale varie volte i Santal erano stati scacciati a bastonate.
P. Faustino Cescato, l’allora direttore della Caritas locale, senza abbattere una sola pianta vi eresse 70 casette
con muri di terra e con tetto e veranda di lamiera e, senza
badare alla cultura tribale, provvide ogni casetta della sua
latrina. Vi costruì anche una scuola con ampio cortile, vi
sistemò pompe d’acqua potabile e diramò regole di vita.
Il villaggio nel frutteto servì a richiamare altra povera
gente e p. Faustino si vide costretto a comprare altri tre terreni per sistemarvi altrettante comunità tribali inurbate.
A suo tempo, dopo il trasferimento di p. Faustino a Dinajpur, il nuovo parroco p. Paolo Ciceri costruì altri sei villaggi suburbani. Il risultato è stato che questa povera gente, invece di divenire la zavorra di una suburra, ha avuto la
grazia di trovare una sistemazione umana, lavoro, assistenza religiosa, scolastica e medica».
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«È vero, – conferma p. Ciceri – con un catechista ho
cominciato a girare per la zona a scovare cristiani tribali,
sparpagliati tra i musulmani, che erano i padroni delle
terre su cui risiedevano e per cui lavoravano. Sembrava di
essere ai tempi dei feudatari: ricevevano una paga miserabile e avevano la proibizione di costruirsi una casa regolare, vivevano in tuguri come cucce di cani ai confini dei terreni da proteggere, non erano liberi di mangiare carne di
maiale o altri animali considerati impuri dall’islam. “Bisogna radunarli e restituire loro dignità!” pensai immediatamente. E così è stato. Monta in macchina che ti porto a vedere».
Lasciati i bambini intenti a scrivere sui loro quadernetti, saliamo nuovamente sulla Toyota.
Le strette strade di campagna sono asfaltate, il traffico
non è intenso, ma occorre stare attenti e soprattutto bisogna avere una grande pazienza: si può incontrare di tutto.
Il sole si è alzato e lungo i bordi pascola tranquillo il bestiame, mentre galline scorrazzano correndo all’impazzata da una parte all’altra della strada. Inoltre tratti d’asfalto
vengono usati come aia dove battere e seccare il raccolto.
Allora ci si ferma e si aspetta che gli uomini con tutta calma radunino i grani di riso per aprirci un varco.
È così che giungiamo a Miapur: un gruppetto di poche
case in muratura, piccole ma asciutte, con i cortiletti ben
spazzati e puliti; stuoie e coperte stese al sole, bambine con
le treccine ben fatte, maschietti con i nasini puliti e i vestitini poveri ma ben curati, un gran dispiego di occhioni infantili, qualche donna accoccolata sui talloni ha acceso il
fuoco in un angolo del cortiletto, pronta a preparare un pasto frugale per la sua famiglia, a base di riso e cavolo.
È un villaggio di Paharia, tribù giunta dalle montagne
i cui membri, probabilmente ingaggiati ai tempi degli inglesi come legionari del Bengala, con la partenza degli inglesi cominciarono a vivere come randagi, dove capitava,
cacciati e odiati da tutti.
Da sette anni queste quindici famiglie abitano in casette dignitose e linde. Dapprima le capanne erano in fango e
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paglia, ma dovevano essere rifatte ogni anno dopo le piogge e inoltre erano apportatrici di malattie, in primis la tubercolosi.
È stata suor Silvia Gallina a spronare il cambiamento.
Lei stessa, nel 1991, scriveva ad amici e benefattori: «Il
motivo che ci ha portato a iniziare e promuovere questo
progetto è stata l’enorme diffusione della TBC e della kalajho. Malattie che portavano la morte a molti bambini. Si
è visto che dove abbiamo costruito casette in muratura tale malattia è scomparsa, i medici ci hanno detto che il piccolo insetto, diffusore della kalajho, si annida nelle fessure
delle case costruite con il fango e durante la notte punge le
persone che abitano al loro interno. Tutto serve per promuovere l’uomo, creatura tanto amata da Gesù Cristo, fino a dare la vita per noi. Questo villaggio quando piove si
allaga con molta facilità e le capanne trasudano umidità.
Questa povera gente dorme sul pavimento perché spesso è
priva di letto e di stuoia. Il pavimento è fatto di fango battuto e quando piove diventa melmoso.
Potete immaginare in quali condizioni si vengono a
trovare questi nostri fratelli. Pensate quando piove per sette mesi… se questa gente avesse una casa soffrirebbe meno e anche molte malattie sarebbero debellate, almeno in
parte. Dove abbiamo costruito le casette in mattoni l’infezione della “febbre nera” è scomparsa e questo è stato davvero un dono della provvidenza».
«Adesso vedi tutto secco, solo terra e un gran polverone, ma durante le piogge è tutta un’altra cosa – riprende p.
Paolo. – L’alluvione dell’anno scorso, per esempio, ci ha
messi a dura prova: i piedi sempre a mollo nell’acqua, il
cielo sempre plumbeo, i nervi logorati dalle piogge senza
tregua, senza corrente elettrica.
Benché non fossimo nelle zone di maggior devastazione, pure noi siamo andati sott’acqua diverse volte e abbiamo dovuto ricorrere alle pompe giorno e notte.
Nei villaggi di Miapur, Kolimnogor, Kadipur, Morsul,
Koikuri, dove a suo tempo sgobbammo tantissimo per alzare il livello del terreno e costruire case in muratura alla
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nostra gente, non ci sono stati danni, nessuno è morto,
nessuno si è ammalato. Quante lacrime invece nei villaggi
con le case di terra e di paglia: il 40% delle case sono crollate e che pena andare a cercare bambù sotto la pioggia e
rimediare alla meglio con teloni di plastica. Nell’emergenza le nostre chiese e scuole, sempre molto alte, sono state
un’ancora di salvezza per molti, e non solo cristiani.
Quanto correre nell’acqua e nel fango per procurare cibo e
acqua. Ma ce l’abbiamo fatta: la gente si è salvata. Nei momenti di maggior scoraggiamento e depressione sono stati i bambini a infondere coraggio con la loro invincibile
gaiezza e voglia di vivere: invece di lamentarsi si mettevano a pescare i pesciolini con ogni sorta di mezzi, come sari dismessi, pezzi di zanzariera, con incredibile fantasia.
Nel novembre del 2003 è stato ancora peggio.
Ho dovuto fare letteralmente il buon pastore che va in
cerca delle pecorelle smarrite e in serio pericolo di vita. Si
trattava di decine di famiglie Santal, Paharia e Oraon finite su alcune isole in mezzo al Gange, a mezz’ora di barca a
motore dalla sponda di Rajshahi. Circa un anno prima le
autorità governative, servendosi dei militari, avevano fatto
sloggiare con la forza tutti gli occupanti abusivi appollaiati sulla sponda del Gange, considerata il Belvedere della
città, per farne un luogo di commercio e di attrazione turistica. Per convincere gli abusivi ad andarsene usarono
anche l’inganno dicendo loro che se fossero andati ad abitare le “ciore” (isole), ancora terra di nessuno, ne sarebbero divenuti un giorno proprietari legittimi con tanto di documenti regolari. Ai loro uomini fu anche promesso un lavoro ben pagato sui barconi che fanno la spola tra l’India
e il Bangladesh con ogni genere di merci e tante altre promesse, insomma, avrebbero trovato la montagna d’oro
che da sempre sognavano che li avrebbe fatti ricchi e felici. I tribali credono ancora alle favole e abboccano facilmente.
In realtà si trattava di banchi di sabbia instabili, non
coltivabili, di nessun valore. Infatti è bastato che la corrente del fiume cambiasse direzione perché si ritrovassero
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nel serio pericolo di essere spazzati via. Se un loro bambino prendeva la dissenteria non aveva scampo. Erano tagliati fuori dalle scuole, dagli ospedali e da qualsiasi forma di vita civile, senza parlare dell’isolamento che narcotizza il cervello.
Dopo 34 anni di Bangladesh pensavo di aver visto tutta
la miseria di questo paese ma mi sbagliavo. Quello che ho
visto sulle “ciore” è quanto di più assurdo e disumano abbia
mai visto in vita mia. Nelle stalle delle missioni le vacche sono alloggiate molto meglio. Non avevamo altra scelta e non
potevamo certo cavarcela con sorrisetti di simpatia.
Li abbiamo accolti nei nostri villaggi e li abbiamo aiutati a costruire piccole e semplici case di bambù e paglia, con
la lamiera per tetto, e li abbiamo forniti di coperte e zanzariere. Ora sono molto contenti e i loro bambini possono andare a scuola. Ho inoltre aiutato parecchi di loro a comprarsi un risciò che, anche se faticoso, dà un lavoro sicuro.
Questo è uno dei tanti esempi che si potrebbero raccontare.
Quel villaggio laggiù è composto da 120 famiglie raccolte lungo la ferrovia, negli edifici abbandonati, ai margini delle scuole. Piano piano hanno imparato a stare con
altri, a rispettarsi, a credere in se stessi, a conoscere il Dio
della misericordia e dell’amore. E dove si vede Dio comincia veramente la vita.
Erano pagani amorali: abbiamo dato loro credibilità,
abbiamo tentato l’assurdo nel nome del Signore e abbiamo vinto. Vedono lavorare te per loro e a poco a poco vincono la loro pigrizia e il loro egoismo.
Da violenti ubriaconi di alcolici hanno cominciato ad
ubriacarsi di voglia di vivere.
Qui come altrove, abbiamo iniziato con gente emarginata, reietta da tutti, ma dopo una sistematica e cocciuta
cura abbiamo cominciato a vederne i frutti.
Adesso “danno la birra” ai bengalesi, in lingua, cultura,
stile di vita.
Realmente li ammiro – dice il missionario con gli occhi
luccicanti. – Questa gente sta facendo notevoli progressi
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su tutti i fronti, sia morale che spirituale, sia educativo
che economico. Notiamo maggiore stabilità e armonia
nelle famiglie, una pacifica convivenza delle varie etnie,
cresce sempre più il numero di giovani che ottengono
buoni impieghi nelle industrie della capitale e di ragazze
che lavorano come infermiere o maestre.
C’è anche un cambiamento positivo di mentalità: per
esempio i Santal una volta vivevano alla giornata senza
preoccuparsi del domani, senza un progetto per il futuro e
se capitava di guadagnare qualcosa in più lo spendevano
subito nel bere. Oggi invece hanno imparato a risparmiare
regolarmente, per poi comprarsi un letto, invece che dormire per terra, una zanzariera, una bicicletta, migliorare
la casa per avere più luce e più aria, comprare una capra o
un vitello da allevare.
Ma soprattutto oggi non c’è più bisogno di infiniti sforzi per persuadere i genitori a mandare i figli a scuola, anzi
sono disposti a spendere e a fare qualsiasi sacrificio pur di
dare ai loro figli l’educazione migliore possibile».
Mentre guida per rientrare in missione guardo questo
uomo dai tratti burberi: spesso distrutto dal caldo o dall’umidità, dalla fatica o dallo scoraggiamento, ma ancor oggi
pieno di speranza e di gioia perché venuto in questo piccolo, sconosciuto angolo del mondo a restituire dignità e
libertà, nel nome del Signore, scommettendo su queste
persone perché in Lui tutto è possibile.
Mi tornano in mente le parole di p. Cesare Pesce: «Su
una di quelle strade, una fangosa strada del Bengala, io ho
incontrato un uomo. Era solo. Mi sono fatto suo compagno di viaggio e l’ho condotto tra quella folla immensa.
Era pellegrino, sfinito dalla fame. Gli ho insegnato a liberarsi da quello spettro col lavoro onesto, umano, non massacrante. Era angariato dai potenti, dai ricchi. L’ho aiutato a liberarsi. Era in preda all’odio e gli ho dato amore.
Era disperato e io, messaggero di gioia, gli ho donato la
gioia di vivere. Davvero ho fatto così? Almeno ho tentato?
Se sì, sono anch’io nel numero dei costruttori del regno
dei giusti. Se no, ahimè, ho sbagliato tutto».
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Nascita della diocesi di Rajshahi
Le missioni sono una storia infinita di sofferenze, di
vani tentativi, di sangue sparso, ma anche di successi. Ve
ne presento uno.
Il 1947 portò l’indipendenza alla grande colonia inglese dell’India, ma anche lacrime e sangue a milioni di persone perché essa non portò all’esistenza di un unico stato
indipendente, bensì di due: il giorno stesso della liberazione nazionale milioni di induisti, invece di trovarsi liberi,
scoprirono di essere abitanti indesiderati in un territorio
assegnato ai musulmani… e viceversa. Iniziò l’esodo dei
non-musulmani verso l’India e dei musulmani verso il
Pakistan: 17 milioni di persone in movimento, con violenze, assalti, saccheggi e massacri che in pochi giorni fecero mezzo milione di morti. In mezzo a questa paura generale, numerosi tribali si diressero verso le città e molti si
stabilirono a Rajshahi.
In quei tempi io risiedevo nella missione di Andharkota, a circa 8 chilometri da quella zona, e non c’era nulla
che potessi fare per quella gente se non comperare per essa un terreno (tre quarti di ettaro) su cui stabilirsi. Fatta
la compera, il lotto divenne immediatamente un brulichio
di gente, la quale pian piano vi costruì un gruppo di capanne traballanti. Io non fui da meno: vi costruii una
chiesetta con muri di terra e tetto di paglia.
Quando fu pronta, quei poveri figli d’Israele ebbero finalmente la loro prima messa e ci fu gran festa. Era il 16
luglio 1957, festa della Madonna del Carmine.
Noi abbiamo l’impressione che le cose belle, quando
arrivano, arrivino con grande lentezza. Ma non fu così a
Rajshahi: tante ottime cose sono successe in fretta. Anche
se questa città, fino a quel 16 luglio, non aveva mai figurato sulle mappe della Chiesa cattolica, pure essa era una
città importante, perché capoluogo di provincia. E fu appunto per la sua importanza politica che la Caritas del
Bangladesh decise di stabilirvi un suo centro e bontà vol-
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le che la gestione di detto centro fosse assegnata al missionario trevigiano p. Faustino Cescato. Non era un uomo di
molte parole, in compenso aveva buon occhio e dalla finestra del suo centro non poté non notare la miseria che regnava nel nostro lotto. Notò e agì.
Il tempo passò, la tettoia venne raddoppiata, vi si costruì a fianco un convento vero e proprio, poi una scuola,
la chiesetta nel 1983 diventa parrocchia e nel 1990 cattedrale della nuova diocesi di Rajshahi.
Nuovo vescovo fu nominato p. Patrick D’Rosario, nato nella diocesi di Chittagong nel 1943, pastore di ventitremila cattolici, di cui undicimila bengalesi e dodicimila
di varie tribù, quali Santal, Mahali, Munda e Oraon.
p. Luigi Pinos
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8. LA NOVARA TECHNICAL SCHOOL
È pomeriggio inoltrato.
Nel grande complesso del Novara Centre di Suihari
formato da officine, edifici di diverse misure, campi coltivati, vialetti ben puliti e prati all’inglese, vige una quiete
che sorprende.
Dopo essersi abituati a vedere gente spuntare da tutte
le parti, sempre in movimento (immaginatevi 140 milioni
di abitanti su un territorio grande quanto il nord Italia:
questo è il Bangladesh), questo ampio spazio vuoto impressiona. Si respira pace, ordine, tranquillità.
Spuntano le prime stelle e dai capannoni fuoriesce lo
scintillare delle saldatrici, il rumore acuto dei torni, il parlottare sommesso di giovani ancora al lavoro.
Le esercitazioni pratiche, dopo le lezioni teoriche del
mattino, sono terminate, ma c’è chi, per guadagnare qualcosa da inviare a casa, impiega parte del suo tempo libero
nei lavori di produzione che la scuola esegue su commissioni esterne.
Sono alcuni degli 80 ragazzi che studiano, lavorano e
abitano, durante i tre anni di corso in meccanica, falegnameria, motoristica o elettrotecnica, in questa che “tuttora è
l’unica scuola tecnica di tutto il nord Bengala: la Novara Technical School”, mi dice trionfante Massimo Cattaneo –
missionario laico del Pime, in Bangladesh dal 1999 e attuale direttore della scuola – accogliendomi nel suo studio,
mentre sta preparando al computer gli orari delle lezioni e
la programmazione didattica per il nuovo anno scolastico.
È lui ad introdurmi nella storia di questo complesso e
multiforme Centro, situato nella periferia settentrionale di
Dinajpur.
“La geniale intuizione è nata in collaborazione coi cittadini di Novara più di quarantacinque anni fa.
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Era l’anno 1960 quando la FAO lanciava la prima
“Campagna contro la fame nel mondo” e denunciava con
termini e statistiche impressionanti la realtà del sottosviluppo e della sottoalimentazione di gran parte dell’umanità.
Tra i tanti a raccogliere questa provocazione, a Novara
ci fu anche don Ercole Scolari, assistente diocesano dei
giovani dell’Azione Cattolica. Con lui, numerosi studenti si
resero conto che di fronte alla drammatica situazione di
gran parte dell’umanità non si poteva restare indifferenti o
limitarsi a facili commozioni o a inutili analisi sociologiche, scaricando cause e responsabilità a una storia passata.
La prima raccolta di fondi, avvenuta con il coordinamento della FAO, diede risultati sorprendenti e così si cominciò a progettare un’opera destinata a restare nel tempo, che contribuisse alla costruzione economica e sociale
di un popolo, cooperando con personale italiano presente
sul luogo.
Si optò per l’allora Pakistan Orientale, considerato uno
dei paesi più poveri del pianeta, ideando una sorta di gemellaggio tra la diocesi e la città di Novara e la diocesi di
Dinajpur per realizzare quello che sarà chiamato il Novara Centre, che ora comprende la Novara Technical School
(scuola tecnica professionale con 120 studenti, in prevalenza di origine tribale e provenienti dai villaggi del nord
bengala), la scuola elementare (con 400 alunni), la scuola
di economia domestica per le ragazze, la parrocchia con i
suoi servizi sociali, il seminario minore e il noviziato delle
suore Shanti Rani.
Si trattò allora di una scommessa che poteva sembrare
persa in partenza, ma che, grazie alla costante generosità
di molti novaresi e grazie alla pazienza e all’impegno generoso e competente dei missionari del Pime è divenuta
una scuola professionale tra le più stimate di tutta la nazione, dalle autorità civili e dai direttori di industrie e officine.
Il Novara Centre iniziò con una scuola elementare in
capannoni in bambù, a poco a poco sostituiti da costru-
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zioni in muratura; poi nacquero gli ostelli per gli studenti,
gli edifici scolastici, le abitazioni dei padri e delle suore, la
chiesa, le casette per insegnanti e collaboratori, i campi da
gioco.
Dal 1966 gli sforzi si concentrarono nella costruzione
dei capannoni laboratorio della scuola tecnica, pensata e
costruita da p. Faustino Cescato e da p. Angelo Villa, ma
poi diretta dai missionari laici del Pime.
Fu l’arrivo di fratel Mario Fardin che consentì l’avvio di
un primo corso regolare di falegnameria in una minuscola
casetta che poi diventerà un laboratorio ben attrezzato.
Due volontari inglesi, Roger e John, collaborarono come ingegneri e insegnanti per gettare le basi di un corso
meccanico.
Sarà poi fratel Giovanni Pessina, perito meccanico, ad
impostare e strutturare il corso. Giungevano intanto dall’Italia i primi macchinari, tra cui quattro torni, due saldatrici, una fresatrice, una limatrice e tutta la strumentazione necessaria per le lavorazioni base del corso di falegnameria.
Gli spazi non erano mai abbastanza e fervevano i lavori per nuove costruzioni. Necessitavano mattoni, sassi,
ferro per il cemento armato. Il ferro giunse dall’Italia; i
mattoni si fecero in una fornace realizzata all’interno del
Novara Centre: mattoni di fango, cotti al sole, con la sigla
NTS. I sassi si recuperarono spaccando i mattoni. Dai villaggi vennero uomini e donne e qui trovarono un lavoro,
un salario, un piatto di riso.
Anche gli alunni della scuola tecnica vennero via via
aumentando e per loro sorse il primo ostello con dormitori, cucina e aule.
Alla fine del 1969 al corso di falegnameria si diplomò il
primo gruppo di nove giovani, che lasciarono la scuola
muniti di una cassetta di attrezzi che permise loro un primo lavoro artigianale nei propri villaggi. Uno di essi restò
alla scuola come istruttore, iniziando così quel lungo percorso che porterà ad avere un corpo docente interamente
bengalese.
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Si perfezionò anche l’attività didattica con un’iniziativa importante per questa realtà: fratel Pessina tradusse in
bengalese il manuale per il corso di motoristica.
Fratel Enrico Bertazzoli impostò anche il corso di elettrotecnica. Dall’India arrivò fratel Ettore Caserini, perito
meccanico, che assunse la direzione del corso di meccanica e di motoristica, nuova specializzazione resa necessaria
dal progresso della motorizzazione agricola. Si costruì il
quarto capannone destinato a tale specializzazione, il cui
sviluppo costituì anche un aiuto alla ricostruzione del
Paese.
La Novara Technical School risultò così completa nelle
sue quattro sezioni: falegnameria, meccanica, elettrotecnica e motoristica.
Anche gli alunni aumentarono e si provvide a dare loro
ospitalità: nel 1973 venne costruito un nuovo stabile a due
piani in cui trovano tuttora spazio aule e dormitori, per
una capacità totale di 120 alunni, di cui ottanta interni. Ad
alcuni di essi, al termine dei tre anni di corso, venne offerta la possibilità di corsi sussidiari e integrativi, sia alla
scuola sia in altri centri. Continuò così la formazione di
istruttori che, con il passare degli anni, diventeranno la
struttura portante della scuola.
Nello stesso anno si diplomò il primo gruppo di allievi
meccanici. Le autorità locali civili, invitate per la cerimonia di distribuzione dei diplomi, lodarono largamente la
Novara Technical School per l’attrezzatura, l’organizzazione e l’ordine.
Gli anni successivi furono un continuo consolidamento della struttura. Venne aperta una sotto-sezione di radiotecnica e installato un generatore elettrico, dono dell’associazione Mani Tese, che tuttora consente l’uso dei macchinari anche nelle (tante) ore in cui si interrompe l’erogazione dell’energia elettrica.
Per dare continuità all’insegnamento e rendere stabili
gli insegnanti, nel 1974 iniziò la costruzione di un quartiere residenziale per gli istruttori, che mise a disposizione
12 appartamenti in muratura».
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Bussa alla porta un uomo. Scuro di carnagione, longilineo, sembra ancora più magro avvolto nel suo longhi –
tipico vestito maschile, una striscia di stoffa lunga fino ai
piedi che si gira attorno alla vita con un gran nodo all’altezza dell’ombelico, – occhi di un marrone profondo, sorriso accogliente.
«Ecco – ne approfitta Massimo – questo è Lazarus, il
responsabile della produzione e del rifornimento materiale e attrezzature nella sezione Meccanica, un uomo molto
prezioso per noi, semplice e onesto. È cresciuto qui fin da
ragazzo, ci si può fidare di lui ciecamente, ha passione ed
entusiasmo. Considera questo luogo suo, ci tiene alla
scuola, ai ragazzi, all’ambiente. Pensa, è nato a Jessore,
nella zona meridionale del Bangladesh, ma poi è venuto
qui per studiare (è stato uno dei primissimi alunni della
scuola tecnica) e qui è rimasto. Ora è sposato e ha due figli: un maschio (Shetu) in quarta elementare e una femmina (Chiara) che l’anno prossimo andrà in prima elementare.
Ha visto passare la lunga fila di tutti i direttori di questa scuola e di questa scuola ha vissuto tutte le vicende del
passato, gioendo per quelle belle e rammaricandosi per
quelle tristi. È uno dei più fidati e affidabili membri dello
staff della scuola tecnica, uno dei fedelissimi, che ha davvero a cuore le sorti della scuola in cui è cresciuto e da cui
ha ricevuto tanto. Uno stipendio dopo l’altro ha messo via
quello che è servito per costruirsi piano piano una bellissima casa in muratura; ha cominciato le fondamenta più di
dieci anni fa e alcuni dettagli ancora adesso non sono finiti. Tutto è predisposto per costruire il secondo piano, dove
un giorno andrà ad abitare la famiglia del figlio primogenito, ma questa è storia del futuro».
Lazarus capisce che sta parlando di lui e saluta con un
ampio sorriso, incrociando le mani al petto. Si scusa per
aver interrotto, si scambiano qualche battuta e se ne va silenziosamente.
«Vedi, è importante uno scambio di opinioni, la collaborazione con il personale, il continuo aggiornamento per
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migliorare l’insegnamento, le strutture, le attrezzature, soprattutto qui in Bangladesh, in un Paese in piena fase di
sviluppo, in cui il progresso tecnologico sta facendo passi
da gigante. È quanto mai indispensabile per una scuola
restare al passo con i tempi e dare agli studenti gli strumenti necessari per rispondere al meglio alle richieste del
mondo del lavoro.
L’ultimo intervento di ristrutturazione è stato avviato
nel 2000 da p. Giovanni Beretta con l’appoggio di p. Giulio
Berutti. Nuovi macchinari e attrezzature sono stati introdotti per migliorare il livello tecnico dei corsi, soprattutto
nei settori della meccanica e della motoristica. Sono stati
ampliati i capannoni dei quattro settori per dare spazio ai
magazzini, alle zone per i lavori di produzione e ai nuovi
macchinari inviati dall’Italia. È stato costruito e inaugurato nel 2003 un nuovo edificio di tre piani per ospitare le
classi e gli uffici. È stato ristrutturato l’ostello, attrezzandolo di nuovi servizi igienici e della cucina.
In questi ultimi anni l’attenzione della scuola non si è
fermata alla sola durata del corso scolastico; stiamo cercando di seguire i nostri studenti anche nella successiva e
non semplice ricerca di un lavoro. Per aiutare concretamente gli studenti appena diplomati e in cerca del primo
impiego abbiamo avviato corsi di tirocinio in collaborazione con ditte esterne. Il tirocinio è collocato all’interno
del programma del terzo anno e nella maggior parte dei
casi si conclude felicemente con l’assunzione dello studente da parte della stessa ditta che lo ha ospitato.
Agli studenti che si recano a Dhaka per la prima volta
in cerca di lavoro viene inoltre garantito un temporaneo
supporto logistico per l’alloggio e il vitto, in modo da rendere più agevole la permanenza in una metropoli già problematica per molti altri aspetti».
Mi soffermo a guardare questo missionario laico, ultimo di una lunga serie a prendere in mano il “testimone” di
questa scuola.
Nato 44 anni fa a Saronno, in provincia di Milano, appassionato di montagna e di deltaplano, il viso scolpito
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dall’ebbrezza del vento, occhi di un celeste che conquista –
non a caso qualche suo amico l’ha soprannominato “occhi
di cielo” – ma cosa ci fa qui, in questo angolo di mondo?
«Sono passati ormai parecchi anni, ma ricordo ancora
molto bene la domanda che rincorreva continuamente il
mio vagabondare tra i voli in deltaplano e le arrampicate in
montagna, gli studi al Politecnico e il lavoro nell’officina
meccanica di famiglia, le corse in camper con gli amici e le
sciate d’alta quota in solitaria: che cosa c’entra quel Gesù
di cui sento parlare fin dalla mia infanzia con le cose che
faccio, con il mio lavoro, con i miei studi, con quello che
mangio, con quello che guardo, che ascolto, che dico…
A quei tempi in ogni modo ero troppo indaffarato per
occuparmi di queste faccende, adatte piuttosto a specialisti della teologia: c’erano un sacco di posti ancora inesplorati tutti da visitare, c’era da cavalcare l’ascendenza che ti
porta più in alto dell’ultimo volo, c’era da superare il quinto, il sesto, il settimo grado in parete e la ricerca di nuovi
confini da oltrepassare andava sempre più in là.
Durante i miei primi viaggi in Africa intanto facevo
esperienza diretta di situazioni di povertà e di bisogno così estreme da non riuscire più a restarne indifferente. Perché io avevo ricevuto così tanto e altri così poco? Il Vangelo indicava con assoluta chiarezza la via da seguire: il servizio e l’attenzione agli altri.
Il mio studio, la mia professione, l’amicizia con molte
persone care, tutto diventava un nuovo strumento da mettere al servizio. Gratuitamente avevo ricevuto ed era arrivato il momento di restituire gratuitamente.
Adesso mi trovo in Bangladesh a lavorare nella Novara
Technical School. Gli attrezzi che ho tra le mani sono gli
stessi che usavo nella mia officina meccanica: martello,
saldatrice, trapano, tornio, ma a muoverli c’è un motore
che trasforma profondamente il modo di lavorare: non per
guadagno o per far carriera, ma solo per il gusto di servire. E il sapore della giornata cambia radicalmente!
La scelta laicale porta l’annuncio del Vangelo nella vita
concreta, fatta di lavoro, di condivisione delle fatiche quo-
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tidiane. Si realizza mettendo a disposizione la propria
professionalità, le proprie competenze in modo differente
da quello a cui il mondo facilmente ci abitua. Qualcuno
prima o poi comincerà a chiedersi perché invece di arrabbiarti sorridi, perché la porta della tua stanza resta sempre aperta a chi vuole incontrarti, perché continui a fidarti anche in mezzo a una moltitudine di imbroglioni.
Da sempre la scuola ha puntato non solo alla preparazione tecnica dei nostri studenti, ma anche alla loro formazione umana. La vita dell’ostello che accoglie i giovani allievi è ritmata da momenti di lavoro, di gioco, di preghiera
insieme. È dentro queste attività quotidiane che vengono
passati i valori cristiani della lealtà, dell’aiuto reciproco,
della fedeltà agli impegni. Ultimamente ho tenuto i contatti con parecchie ditte esterne per preparare l’industrial training agli studenti del terzo anno. Con grande soddisfazione ho scoperto che molti dirigenti apprezzano i nostri ex
studenti, ora impegnati presso di loro, soprattutto per il
comportamento, l’onestà, la dedizione al lavoro.
La Chiesa, come il Vangelo, non sta sospesa nel cielo,
ma ha i piedi ben ancorati su questa terra, è fatta di persone concrete, unite tra loro da rapporti di svariatissimo tipo: sociale, economico, politico, religioso, affettivo… È attraverso questi rapporti che il laico può arrivare a tutti i livelli in quel grande universo che è l’umanità. La sua competenza e la sua professione diventano uno strumento formidabile per portare una testimonianza anche negli ambienti più lontani. Quanti volti di manager, direttori, capireparto ho visto stupirsi perché il mio lavoro non viene retribuito con uno stipendio, non mi faccio le ferie tutti gli
anni, non ho una casa tutta per me dove abitare stabilmente con la mia famiglia, perché ho rinunciato ad avere
moglie e figli per consacrarmi a Dio…
Qualcuno forse avrà pensato che in mezzo agli stranieri ricchi ogni tanto può capitare anche qualche sciocco
sconclusionato, ma qualcun altro potrebbe anche essersi
posto domande più interessanti sui motivi e sugli effetti di
una scelta un po’ diversa da quella a cui solitamente siamo
abituati a pensare.
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Certo non tutto funziona come nelle fiabe. A volte il
nostro lavoro appare insignificante, del tutto inutile di
fronte a situazioni tanto ingiuste e tanto compromesse da
togliere ogni speranza. Il Bangladesh è conosciuto come il
Paese più corrotto del mondo e non è sempre facile accettare i compromessi da cui ti trovi circondato o l’impossibilità di far valere i diritti più semplici della persona.
Spesso la ragione vincente è solo quella di chi ha più soldi.
A tenere sempre ingranata la marcia non è l’illusione
che il mio lavoro cambierà le sorti del mondo, ma la consapevolezza che se in questa giornata non metto a disposizione quello che posso dare, resterà un buco che nessun
altro riempirà. È con le nostre azioni di oggi che il Signore costruisce il futuro di domani».
Un ragazzo in cortile sta terminando di verniciare di
bianco le porte da calcio che serviranno per i tornei dei ragazzi di un ostello nel nord del Bangladesh. Ammira il suo
lavoro soddisfatto.
La sua qualifica tecnica speriamo lo aiuti in seguito a
trovare un posto di lavoro dignitoso per affrontare con sicurezza il futuro di una nuova famiglia.
Il cielo ormai è un tappeto di stelle. Mi riecheggiano
nelle orecchie le ultime parole di questo missionario laico
che ha deciso di donare tutta la sua vita a Dio e ai fratelli
in questa terra dimenticata: “È con le nostre azioni di oggi
che il Signore costruisce il futuro di domani”.
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9. LE COOPERATIVE DI CREDITO
Mentre la città di Dinajpur, centomila abitanti, povera
e laboriosa, è un continuo brulichio di gente affaccendata,
un via vai di persone, un turbinio coloratissimo e molto
rumoroso di uomini, donne e bambini indaffarati in tante
piccole attività, in un’interminabile economia di sussistenza che si regge sull’ingegnosa operosità di chi vive di
mille espedienti per campare, in campagna il ritmo cambia, di colpo tutto rallenta. I bufali, con il loro incedere
lento, trascinano pesanti carri stracarichi di spighe di riso,
i bambini bagnano un fazzoletto di terra passandosi l’un
l’altro piccoli secchielli di pelle riempiti dal fosso accanto,
le donne, in un monotono ritmo di schiene che si alzano e
abbassano per ore sotto il sole cocente, tagliano e raccolgono le fascine, gli uomini con rozzi aratri di legno preparano le nuove zolle di terra.
Molti sono braccianti delle loro stesse terre. Tribali ingenui che hanno perso i loro campi per via di debiti non
pagati. E gli usurai senza remore né pietà gliele hanno requisite.
Unica speranza: poterle recuperare grazie a nuovi prestiti.
Ma chi può dar loro credito e credibilità?
Ecco allora l’intervento della chiesa locale, la cui azione
non si limita solo alle grandi opere (ospedali, scuole, ostelli)
o ad interventi di emergenza, ma si basa anche su una rete
di iniziative che partono dalle parrocchie e tendono ad aiutare i poveri attraverso un’animazione e un’educazione che
li sproni a diventare protagonisti del loro sviluppo e capaci
di gestire i propri capitali, pur pochi e piccoli che siano.
La commissione sociale costituita dal consiglio parrocchiale svolge varie attività, tra cui un sostegno indispensabile durante i processi avviati per salvare le terre ingiusta-
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mente espropriate e per liberarsi dagli usurai, la terribile
piaga delle campagne bengalesi.
Il comitato parrocchiale studia caso per caso, concede
prestiti al 12% di interesse, si impegna a pagare i debiti
agli usurai portandoli, se necessario, in tribunale. Il contadino restituisce il prestito non più all’usuraio, ma al consiglio parrocchiale e contemporaneamente si impegna a risparmiare per eventuali future necessità ed emergenze.
È da questo concetto che è nata l’idea di aiutare i tribali attraverso le cooperative di credito, le “Credit Unions”.
Non si tratta di fare assistenzialismo, ma di offrire ai più
poveri l’accesso al credito. Piccole somme in prestito possono bastare a rimettere in piedi un’esistenza, ma come
dare la possibilità di affrancarsi dalla miseria a coloro ai
quali è negato l’accesso ai prestiti bancari, perché impossibilitati a dare le garanzie che le banche pretendono?
Le cooperative di credito forniscono un supporto che
le banche non possono o non vogliono dare: sono le stesse
persone, gli stessi poveri, che ricevono prestiti e a loro volta prestano soldi, che sono alternativamente debitori e
creditori, in un contesto in cui tutti si conoscono e dove
esistono rapporti di solidarietà e di aiuto reciproco, oltre
che di controllo sociale. È la comunità che si fa carico di
sé e dei propri problemi.
Il consiglio parrocchiale amministra anche un fondo
per lo sviluppo e concede prestiti a basso interesse a chi
vuole avviare un’attività commerciale o acquistare del bestiame o un terreno. La gente si fida della missione e così i
risparmi arrivano e con essi si possono aiutare altri soci.
Certo, i fondi di risparmio e di prestito non sono una ricetta magica che risolve i grossi problemi economici del
paese, l’“autosviluppo” è un sogno, visto che mancano le
strutture portanti, cioè un sistema democratico e una formazione scolastica che educhi alla creatività e alla responsabilità, ma, lasciando alla politica la soluzione di problemi più profondi e radicali, le casse di risparmio possono
rappresentare una tappa verso lo sviluppo integrale e un
cambio di mentalità.
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A farci entrare nei meccanismi di questa micro-economia è p. Giulio Berutti, missionario del Pime originario di
Busto Arsizio, cittadina lombarda che vanta una lunga
esperienza di cooperative di credito. In Bangladesh dal
1972, ha preso in carico questo progetto nel 1996 e ad esso dedica tempo ed energie.
«Le Credit Unions, almeno nella loro forma attuale,
sono nate nella diocesi di Dinajpur nel 1992 da un’ideaispirazione dell’allora vescovo Theotonius. Precedentemente vi erano state altre forme di risparmio tra cui la più
nota è la così detta “banca del riso”. Vari tentativi furono
fatti a Dhanjuri, anche partire dagli anni 1930-31 e a Boldipukur e Mariampur negli anni ’60; ma si trattava di tentativi personali, senza continuità né supervisione e quindi
legati soltanto al padre della Missione. Nel 1996 si è pensato di organizzare le Credit Unions su base diocesana,
con un responsabile centrale, Gabriel Costa, che poi è stato destinato alla Caritas di Rajshahi, ed ora eccomi qua,
tocca a me.
Per partire sono stati necessari un po’ di fondi e provvidenziale è stato l’intervento di Mani Tese, che ha contribuito con un finanziamento a fondo perduto di cinque anni più altri tre.
Mani Tese ha finanziato, inoltre, un progetto di 20.000
dollari per il riscatto dei terreni dati in pegno dai tribali
agli “strozzini” locali, prevalentemente musulmani.
Ancor oggi il prestito è sempre agricolo. Infatti la maggior parte dei nostri clienti è diventata povera perché ha
messo in pegno il proprio terreno e vi deve lavorare come
bracciante. Uno dei nostri scopi principali è il riscatto di
questi terreni da parte dei legittimi proprietari: il prestito
serve a riprendersi la terra, poi con il raccolto si potrà ripagare il debito.
Altri prestiti servono per l’acquisto delle sementi, dei
fertilizzanti, dell’acqua per irrigare.
Quando nel 1993 venni inviato nella missione di
Pathorgata, trovai un gruppetto di persone che il mio predecessore, padre Cesare Pesce, aveva già avviato al rispar-
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mio. Io operai con loro in modo efficace, forte di quanto
avevo appreso in un corso diocesano sul funzionamento
delle cooperative di credito. Quattro anni dopo noi padri
del Pime lasciammo la missione di Pathorgata al clero
diocesano e io tornai in città, a Dinajpur, dove iniziai ad
occuparmi a tempo pieno dell’ufficio centrale delle cooperative di credito diocesane, fondato nel 1991, e della loro
diffusione nei villaggi.
Le Credit Unions di Dinajpur sono oggi una realtà con
circa 12.000 risparmiatori e 8.000 soci possessori di azioni, sparsi in tutta la diocesi in 15 centri e ben 450 villaggi.
Il capitale sociale ha ormai raggiunto i 13.000.000 di taka
(circa 160.000 euro) e vi sono 27 dipendenti oltre a tre supervisori diocesani».
Alla sua gente p. Giulio ha fatto capire, con pazienza e
determinazione, che una cooperativa di credito è un modo
per insegnare a un gruppo di persone ad aiutarsi reciprocamente, risparmiando il proprio denaro e prestandolo ai
membri del gruppo per uno scopo valido e a un tasso d’interesse ridotto.
«Il nostro scopo è quello di far cambiare la mentalità
tribale, perché non vivano alla giornata, ma programmino
la loro esistenza. Il tribale, per natura, è cacciatore, non
contadino, e ancora si porta dentro l’ancestrale mentalità
del predatore, anche se ormai di foreste non ce n’è più e
deve fare i conti con il mondo agricolo, ma spesso non sa
stare al passo con i tempi e basta poco per farsi fregare e
per rimanere povero in canna. Quando un cacciatore ha
fame che fa? Va a caccia, non si mette ad allevare polli! Il
tribale non sa cosa vuol dire risparmiare, programmare,
guardare avanti. È uno spirito libero, per indole non si lega a schemi formali: è solo attraverso esperienze come
questa che apprende la disciplina, la programmazione e a
tenere fede alla parola data.
È difficile insegnargli a risparmiare, a non fare spese
pazze per le feste, a non sperperare subito un guadagno…
la vecchia mentalità è dura a cambiare, ma quando questo
avviene è una grande soddisfazione per tutti.
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Ho assistito a dei veri e propri miracoli: quelli tra loro
che si assumono responsabilità in seno alla cooperativa
imparano anche a scrivere rapporti, tenere la contabilità,
prendere decisioni insieme agli altri, condurre riunioni.
Nella loro personalità avviene un cambiamento inimmaginabile.
Pensa che il versamento mensile minimo richiesto è di
10 taka (20 centesimi di euro): per il povero è comunque
un capitale da investire, che crea un’abitudine positiva.
Io sono responsabile di questo progetto da dieci anni e
funziona in molte missioni, anche se i frutti non dappertutto sono entusiasmanti.
Alcuni centri sono già autosufficienti, sia economicamente che amministrativamente, altri dovranno ancora
crescere e sarà naturalmente necessario un aiuto esterno,
nella fase di avviamento.
Resta fondamentale il coinvolgimento degli agenti pastorali (preti, suore, catechisti), dal momento che le Credit
Unions sono un programma sociale e non soltanto economico; ed è così anche per le altre Organizzazioni non governative attive in questo settore.
Per i prestiti vi è un coinvolgimento di tutta la comunità, che si rende garante. In caso di inadempienza è lo
stesso gruppo sociale del villaggio che prende i necessari
provvedimenti».
Dalla cassaforte estrae un plico di fogli, sono i registri
di varie missioni: tutto schedato e ben ordinato, clienti, cifre, prestiti e restituzioni, rigorosamente scritti a mano in
bengalese.
«Sai – prosegue questo missionario lombardo, imprenditore per amore – ci sono due forme di risparmio: il fondo-risparmio che ognuno può ritirare quando vuole, e le
azioni, ovvero risparmi vincolati, che si possono ritirare
sotto forma di prestiti per una cifra anche tre volte superiore rispetto al deposito. Può anche essere imprestato ad
un altro socio in modo che abbia un prestito maggiore
(sotto garanzia di altri soci, sviluppando così il concetto di
aiuto vicendevole).
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E tutto ciò non ha solo un risvolto sociale. Attraverso
questo progetto tanti maturano anche nella loro fede.
Queste casse di risparmio sono un buon fondo per le comunità cristiane di base: convincerli a mettere insieme i
loro soldi è un modo per tenerli uniti e creare comunione
e solidarietà tra loro, piuttosto che aspettare aiuti dall’esterno. Non è solo, quindi, uno strumento economico, ma
anche pastorale: segno concreto di vita cristiana.
In alcuni casi propongo la cooperativa come passo
propedeutico al battesimo ed elemento importante di un
cammino di comunione. Chiedo alla gente di dimostrare
attraverso di essa la volontà di compiere un percorso serio
e impegnativo.
Le loro relazioni interpersonali sono normalmente limitate a una strettissima cerchia di persone e vedono
l’ambiente esterno come caratterizzato dallo sfruttamento. In loro c’è grande sfiducia, pessimismo e paura poiché
hanno sperimentato che l’intero mondo dei più ricchi è
basato sul profitto; tutte le iniziative, tutte le relazioni sono di sfruttamento.
Qui in parrocchia imparano una nuova mentalità, un
nuovo modo di relazionarsi: la chiesa locale è la piattaforma per incontrare gli altri senza sfruttarli, è uno strumento per educarsi ad aiutarsi reciprocamente nelle relazioni
con gli altri: attraverso la scuola, l’ostello, gli incontri comunitari, gli aiuti di assistenza legale, aprono la loro mente e i loro cuori.
La parrocchia diventa importante anche come autorità
spirituale e morale: per la prima volta trovano che al di
fuori della loro comunità vi è un’istituzione o qualcuno
che crede in loro senza sfruttarli.
Una volta al mese c’è l’incontro tra i soci, danno rapporto di quanti soldi raccolgono, come li hanno impiegati,
chi aiutare, come gestire il patrimonio. Anche questa fedeltà agli incontri crea mentalità e struttura la persona,
contro l’improvvisazione nel vivere e nel gestire.
È ovvio che in questo lavoro bisogna mettere in conto i
tempi lunghi e i piccoli numeri: se nei miei trent’anni di
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missione sono riuscito a formare anche solo quattro laici
onesti, maturi, responsabili, pur tra i 4.000 approfittatori,
mi posso ritenere soddisfatto e speranzoso. Ma quanti sono stati salvati dalla miseria e dalla disperazione, dal pessimismo e dal disfattismo, dall’ingenuità e dalla sconsideratezza, dagli imbrogli e dagli inganni. Uomini e donne
nuove a cui sono state consegnate nuove esistenze. Nel nome del Signore. Una nuova vita, ora, è nelle loro mani».
Seduto alla sua scrivania, sommerso da scartoffie di tutti i
tipi, fumando una sigaretta dopo l’altra, si infervora, racconta di famiglie tirate fuori dal profondo senso di inferiorità e restituite alla dignità e si sente missionario così.
Tra la montagna di libri e rapporti ingialliti, si intravede il
breviario.
Chissà perché mi viene in mente questa preghiera di p.
Pesce, scritta quando era a Pathorgata: “Signore, ricordati
di me che sto tentando di cogliere fiori tra le spine. Forse
è necessaria qualche goccia di sangue, è la legge della natura. Ma ne vale la pena: inebriarmi del profumo di questi
fiori, anche se punzecchiato da qualche maligna spina della giungla. Tu solo ricordati di me. Tu che mi hai mandato
qui a cogliere i fiori, non le spine”.
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Le minoranze etniche in Bangladesh
La popolazione di lingua e cultura bengalese è un miscuglio di tribù diverse che si sono fuse lungo i secoli.
Anticamente il Paese era abitato da un popolo di cacciatori di probabile origine autralo-asiatica, presenti ancor oggi con la tribù Santal.
In seguito arrivò dall’India centro meridionale un popolo di coltivatori di origine dravidica, gli Urao, e quasi
contemporaneamente, da est, si infiltrarono popolazioni
di origine mongolica, tra cui i Garo o Mandi. Tutti questi
gruppi di Adhibasi (aborigeni) hanno conservato lingua,
usi e costumi propri.
Anche dal punto di vista religioso non hanno assimilato, pur avendovi aderito, né l’induismo né il buddhismo, neppure l’islam o il cristianesimo. La maggior parte
conserva ancora la religione tradizionale.
Le popolazioni indo-ariane migrarono nella pianura
gangetica molto più tardi, ma la loro civiltà contribuì a
formare il fulcro della lingua e della cultura bengalese. Ancor oggi, infatti, l’80% delle parole bengalesi deriva dal
sanscrito, la lingua madre dell’India antica. Alla fine del
XII secolo il Bengala venne invaso e conquistato da afghani, persiani, arabi e turchi di religione musulmana; fu
così che gradualmente, specie a causa di fattori sociali e
politici, fra le classi più povere ci furono conversioni in
massa all’islam. Il declino del buddhismo e il rifiuto, da
parte dei tribali, di sottomettersi ad un sistema di caste
che li relegava in una posizione degradante, portò la maggior parte della popolazione a scegliere l’islam come fede
alternativa. Soltanto le caste alte rimasero fedeli all’induismo e, dato che ad esse appartenevano le persone più
istruite e più potenti, questa religione ebbe un ruolo preminente in tutte le sfere della vita sociale, nonostante l’islam fosse diventato la forza dominante del paese.
Se per quanto riguarda la religione si può constatare
una buona tolleranza verso i tribali, la loro posizione so-
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ciale ed economica è invece molto precaria. Tutti i gruppi
di Adhibasi sono oggetto di pesanti discriminazioni,
sfruttamenti ed angherie proprio perché tribali. Anche se
il governo si è impegnato a proteggere le minoranze e ad
integrarle nella vita nazionale, spesso esse si trovano indifese nei tribunali, di fronte alla polizia e alle autorità locali.
Come minoranza etnica non devono essere dimenticati i Bihari, musulmani di lingua urdu che emigrarono
dall’India al tempo della spartizione del 1947. Hanno
sempre rifiutato di essere integrati nel Bangladesh perché
si considerano pakistani e chiedono perciò di essere rimpatriati, ma non è una cosa semplice: sono circa 250.000
e la maggior parte di loro vive in campi profughi. Finora
non c’è stata alcuna seria trattativa tra i due paesi interessati per risolvere questa situazione anomala.
Tratto dal libro di M. Lattanzi Bangladesh, Paese d’acqua
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10. CASA DI SPIRITUALITÀ A BOGRA
Ricordo ancora come se fosse ieri il mio primo arrivo a
Bogra.
Gli impettiti vigili urbani brandivano in aria i loro
manganelli di legno per cercare di mettere ordine al caotico zigzagare delle biciclette variopinte. Ma, abili più che
mai, i risciòmen, pedalando vertiginosamente nel traffico
della città, non si lasciavano intimorire e continuavano la
loro corsa, suonando a tutto spiano il campanello per farsi strada tra la folla. I passeggeri, per nulla spaventati dall’equilibrio sempre precario, beatamente impicciati tra
pacchi di ogni genere, si godevano lo “spettacolo”. Un brulichio di uomini avvolti nel loro longhi si destreggiavano
su e giù dai marciapiedi invasi da negozietti e venditori
ambulanti. Poche le donne, che, con i loro coloratissimi
sari, camminavano spedite tra la folla, “trascinandosi” i
bambini ben aggrappati alle loro mani affusolate.
I grandi occhi marroni di chi ci vedeva non sapevano
togliere lo guardo dalla nostra auto e ci squadravano in
lungo e in largo incuriositi. Eravamo alla ricerca di padre
Achille Boccia, ma dove cercarlo in mezzo a quel caos?
Quale delle migliaia di case era la sua?
Ci allontanammo dallo stradone principale e per un
po’ girammo a vuoto tra gli stretti vicoli, prima di fermarci a chiedere indicazioni. Non avevamo l’indirizzo preciso,
ma tentammo lo stesso.
«Lo straniero bianco? Andate di là, poi girate a destra
e...», per filo e per segno l’uomo che avevamo fermato ci
indicò il tragitto da percorrere. Più ci avvicinavamo e più i
ragazzini, senza essere interpellati, facevano a gara nel
darci le giuste segnalazioni, sbracciandosi a destra e a sinistra. Chi l’avrebbe mai detto? Credevamo che sarebbe
stato difficile come cercare un ago nel pagliaio e invece...
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In un batter d’occhio ci ritrovammo nel cortiletto della
piccola casa bianca dalle veneziane gialle. Che Padre
Achille fosse l’unico occidentale in tutta la città, fu per
noi, dunque, una fortuna!
Ormai il trillo dei campanelli era lontano, il vociare
delle persone e le urla dei ragazzini attutiti. La pace sembrava scesa per incanto in questa stradina racchiusa tra fila di mura. Si udiva solo il canto armonioso di un piccolo
coro bengalese, proveniente dalle finestre della casa. Era
domenica sera e padre Achille stava celebrando la Messa
per lo sparuto gruppetto di cristiani di Bogra. Non osammo interrompere e aspettammo nel cortiletto.
Ci guardammo attorno: quella era la missione di p.
Boccia. Non una parrocchia, con tanto di chiesa, convento, scuola, dispensario, ma una comunissima casa bengalese, che si perdeva, nascosta tra le altre, in un quartiere
musulmano e indù. Un centro di spiritualità voluto dal vescovo.
Bogra è un centro di centomila abitanti, luogo di passaggio e incrocio di molte strade, situato nel nord-ovest
del Bangladesh. Città musulmana, con una buona presenza di indù, non ha mai avuto una missione cattolica. E padre Boccia fu invitato ad andare lì non tanto per portare
avanti progetti sociali, ma per vivere la sua fede tra persone di altre religioni. Così la sua presenza diventò punto di
riferimento per i cristiani che desideravano mettersi in
ascolto di Dio.
La Messa domenicale è uno dei momenti principali
della settimana per le famiglie cristiane che vivono in
città.
«Ma la mia porta è sempre aperta a tutti», ci disse p.
Achille, mentre salutava i suoi amici bengalesi che lentamente si disperdevano tra i vicoli. Sorridente e allegro ci
fece accomodare nella sala da pranzo e ci offrì una tazza
di tè caldo. Quando gli chiedemmo di spiegarci il nome e
il programma scelto per il suo centro ci indicò il disegno
affisso sulla porta: una linea continua che, in caratteri
bengalesi, racchiudeva la parola Emmaus.
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«Un nome divenuto famoso – ci raccontò il missionario – perché un giorno due discepoli di Gesù, sconvolti e
delusi dalla morte del maestro, avevano deciso di dirigersi
verso quella località per lasciarsi alle spalle l’amara esperienza della crocifissione. Ma lungo la strada uno sconosciuto li aspetta e si unisce a loro. Cammin facendo li aiuta ad accogliere il mistero della croce aprendo loro il cuore a comprendere le Sacre Scritture. Nel momento culminante dell’incontro, quando lo sconosciuto spezza il pane
della cena, i due riconoscono in lui Gesù vivo e la loro vita
si trasforma. Leggendo e rileggendo queste pagine del
Vangelo di Luca ho trovato un programma di vita per me e
per la casa di spiritualità: dobbiamo ridare a noi stessi la
possibilità di incontrarci con Dio».
Si interruppe e mentre sorseggiava il tè la casa sembrava risuonare delle sue parole, che quotidianamente
prendevano vita tra quelle pareti. La sua voce assorta e pacata ci affascinò, diventando segno di un intimo rapporto
con Dio, coltivato con fedeltà nel silenzio e nell’attesa.
«La mia è una storia semplice, senza nulla di straordinario, fatta di persone concrete che bussano alla porta. Ci
sono ospiti attesi, suore, preti, laici che vengono per un ritiro o per un corso di esercizi spirituali e che in preparazione all’incontro mi segnalano i temi su cui riflettere e
pregare insieme; ci sono quelli che si fermano per una breve sosta lungo il loro viaggio; ci sono gli incontri settimanali con i pochi cristiani che lavorano in città e gli incontri quotidiani con i vicini musulmani. Poi giungono visite
inattese: è un povero, un ammalato, uno che cerca lavoro,
un confratello di passaggio, un giovane musulmano che
non si sente soddisfatto della sua religione, un indù che
vuole farsi cristiano. Anche le lettere di parenti, amici e
conoscenti mi portano la stessa gioia di un incontro».
Ma quando non c’è nessuno?
«L’attesa in silenzio diventa preghiera... faccio il monaco!», gli venne da rispondere spontaneamente con una gustosa risata, ma subito aggiunse: «Comunque vi assicuro
che non sono mai con le mani in mano. Oltre a dover pre-
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parare i diversi ritiri, scrivo anche un bollettino in inglese
e bengalese: come gli amanuensi ho cominciato a trascrivere dei brani della Bibbia e tradurre qualche commento
dei Padri della Chiesa per estendere il mio servizio della
casa di spiritualità». Ci condusse nel suo studio e cominciò a scartabellare tra fogli. Ne uscì un bollettino ciclostilato su quella tipica carta giallina bengalese: scritto tutto a
mano (con quella scrittura che sembra un ricamo) con anche i disegni fatti da lui. A mano tutte queste pagine?
«In un tempo in cui siamo sommersi dai libri stampati
tanto da non riuscire a leggere più nulla con attenzione, mi
pare che il ritorno alla scrittura a mano possa essere, almeno per me, un metodo per riflettere con più calma. Iniziata
l’impresa mi ritrovai in breve tempo a gustarne i primi frutti. Ricopiando anche dei brani di autori bengalesi piano
piano mi accorsi che stavo imparando un po’ meglio la loro
lingua. Adesso il giornale è diventato anche un mezzo di
scambio e spesso ricevo articoli di suore e padri, un collegamento, dunque, tra il centro di spiritualità e ogni cristiano».
Era l’ora dei vespri.
Ci ritirammo al piano superiore dove l’ampia sala su
cui si affacciano le varie camere degli ospiti era stata trasformata in una cappella calda e accogliente. Iniziammo
la recita dei salmi, mentre i vicini, incuriositi come sempre, sbirciavano dalle finestre, cercando di comprendere
cosa stava accadendo.
Sono tornata a Bogra dieci anni dopo.
La casa non è più la stessa, i missionari si sono alternati, ma il desiderio di far conoscere agli uomini l’amore
di Dio è il medesimo. Stavolta è p. Franco Cagnasso che
mi aiuta e ricomporre i tasselli di questo sogno, ritornando indietro nel tempo.
«Era la fine degli anni ’70 e ci trovavamo da non molto
in Bangladesh p. Achille Boccia, di Borgomanero, p. Gianni Zanchi di Crema e io, amici di quelli veri, dai tempi del
seminario.
Il Bangladesh è affascinante e scomodo insieme. Tantissima gente, per la stragrande maggioranza musulmani,
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povertà estrema, disgrazie e calamità a catena, e insieme
tanto amore per il bello, la poesia, tanta voglia di imparare a vivere, tanta forza d’animo. I cristiani sono pochi, pochissimi: meno dello 0,03%.
Ai missionari non manca il lavoro, anche se non ci sono
conversioni dall’islam, sostengono le piccole comunità cristiane, fanno del loro meglio contro la fame, le malattie, l’ignoranza, accostano le popolazioni aborigene aperte alla
predicazione del vangelo: si mettono al servizio di tutti.
Non sapevamo che fare; alla fine però decidemmo di
andare a Bogra, semplicemente per starci. Di cristiani là
non ce n’erano, solamente due famiglie cattoliche venute
da fuori città per lavorare e una missionaria americana
protestante, in una città di forse 100 mila abitanti, tutti
musulmani, salvo una consistente minoranza indù.
All’inizio non trovavamo casa, poi un proprietario ci
affittò un appartamento nell’edificio che ancora non aveva
finito di costruire. Fu un gesto criticatissimo da amici e vicini. Ci raccontò in seguito che per farsi perdonare, aveva
ripreso ad andare regolarmente alla moschea.
P. Gianni, che aveva seguito un corso di medicina preventiva per i villaggi, iniziò a ispezionare la città per rendersi conto di com’era la situazione sanitaria. P. Achille
prese contatto con alcune famiglie che tenevano nascosti
bambini con handicap fisici o mentali. Iniziò a visitarli, a
fare amicizia, a combattere la vergogna e lo scoraggiamento, a mostrare che si poteva affrontare la situazione
con atteggiamento positivo. Io avrei dovuto prendere contatti con i capi religiosi, tentare la via del dialogo.
Nell’82 p. Gianni venne eletto superiore del Pime in
Bangladesh, p. Achille si ammalò e dovette andare ad
Hong Kong per un lungo periodo di cure e operazioni e io
– che non me la sentivo proprio di rimanere a Bogra da solo – fui mandato in seminario come insegnante e padre
spirituale, e la nostra esperienza si interruppe.
Di Bogra mi rimase una grande nostalgia, specialmente la nostalgia dei tramonti, quando dalla malandata terrazza di cemento ci arrivava il richiamo dei cento mina-
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reti della città. Mentre il caldo si faceva meno opprimente, si levava la voce dei muezzin per chiamare alla preghiera, nelle moschee povere e soffocanti e in quelle grandi e antiche, dagli altoparlanti, da voci stonate, o forti, o
stanche. Un coro che mi toccava come la voce dell’umanità che raccoglie la fatica della sua giornata e la offre al
cielo, e cerca Dio.
Ci sono ritornato la mattina del 19 novembre 1998, venerdì e perciò – in paese islamico – giorno festivo. Strade e
vicoletti sono sempre quelli, ma il numero dei risciò è ancora aumentato e il brulichio della gente s’è fatto più intenso. Girando tra quelle stradine, p. Mariano che mi guidava
s’è fermato davanti a due case nel cuore della città, riparate da poco, vicine vicine, con un minuscolo pezzo d’orto.
“Emmaus” era la scritta che campeggiava su una di esse, in
bengalese e in inglese. E p. Achille era là a ricevermi.
Malattia, interventi chirurgici, convalescenza non gli
avevano tolto la voglia di ricominciare! C’era la comunità
cristiana (nel frattempo aumentata di numero) vestita a
festa, c’erano ospiti protestanti, c’erano musulmani. Abbiamo cantato nel piccolo cortile e tagliato il nastro che
inaugurava ufficialmente la nuova casa, dove ora i padri
saranno due, e l’altra con le tre suore bengalesi. Case nostre del Pime – anche se non ancora finite di pagare – da
dove non c’è rischio di essere mandati via.
Dissi alla gente venuta per la festa che anche questa
era una prova che le cose belle nascono dalla sofferenza,
che il seme deve morire per dare frutto. La prima esperienza era finita nella sconfitta, per rinascere diversa ma
più robusta, e lentamente crescere.
Quella sera sono tornato sulla terrazza della nuova casa Emmaus e di nuovo ho ascoltato i muezzin lasciandomi andare alla nostalgia e alla gioia. Ho pregato anch’io
insieme a tanti musulmani convinto che il Signore Gesù è
in mezzo a loro con la sua misericordia. Anche se non se
ne accorgono, proprio come i due discepoli di Emmaus».
Emmaus: casa di spiritualità missionaria, così dice l’intestazione di questa palazzina – ristrutturata ed ampliata –
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ed è con questo obiettivo che fin dall’inizio sono stati impostati e vissuti i ritiri e gli esercizi spirituali.
Da subito chi si recava lì sapeva che avrebbe fatto il ritiro in città e in mezzo ai musulmani. Qui, a Bogra, la missionarietà non è mai stata un discorso teorico, ma un’esperienza pratica, meditazione per le strade, al mercato,
in mezzo a chi ancora non ha conosciuto Gesù e il suo
Vangelo. Presenti in città per scoprire Dio presente e operante, per imparare ad aprire il cuore al progetto di Dio…
e piano piano sono giunti ad Emmaus anche quanti sentivano il desiderio di diventare missionari. Il cammino di
Emmaus non si ferma: ora la casa è un luogo dove giovani
in ricerca possono contare su un accompagnamento vocazionale quotidiano, fatto di preghiera, di incontri, di colloqui personali, di studio e condivisione.
Sono loro, gli otto aspiranti missionari del Pime, ad accogliermi questa volta, e con loro p. Emanuele Meli. Seduti a cena intorno ad una fumante e gustosa pizza si parla
del futuro, con grande gioia e speranza nel cuore. E il Signore sicuramente è tra noi. Come quella sera ad Emmaus.
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Seguaci di Dio
“Il nostro è un paese profondamente religioso, ma non
fanatico, e atteggiamenti estremisti non potrebbero durare”. Così dichiarò in un’intervista il generale Ershad, expresidente del Bangladesh. Aveva ragione. Questa terra ha
infatti conosciuto nella sua storia tre grandi religioni che
si sono succedute lasciando ciascuna la sua eredità e le
sue tracce.
Il buddhismo, l’induismo e poi l’islam hanno alimentato la religiosità bengalese.
Il buddhismo è ora quasi scomparso. Ci sono ancora
circa 600.000 buddhisti in Bangladesh, quasi tutti nelle
aree meridionali e ai confini con la Birmania e la maggior
parte di loro sono tribali. Ma ovunque si trovano tracce di
antichi templi e monasteri.
L’induismo invece è presente circa nel 10-15% della
popolazione. La cifra esatta è difficile da conoscere perché
le statistiche sono sempre poco degne di fiducia e perché
lentamente la comunità indù si sta riducendo. Gli indù
erano proprietari terrieri, gli imprenditori industriali, gli
avvocati al tempo degli inglesi, ma la scissione dall’India
li ha messi in una posizione difficile.
Erano culturalmente e religiosamente legati al paese
“nemico” e non riuscivano a farsi dare uno spazio soddisfacente nel paese in cui vivevano.
Ancor oggi nel calendario ufficiale del governo sono riconosciute come feste nazionali diverse celebrazioni indù,
che questa comunità può seguire liberamente. Sono inoltre riconosciute una festa buddhista e una cristiana (il
Natale) e, ovviamente, le feste musulmane.
L’islam, arrivato in Bengala in modi ed epoche diverse, appare dall’esterno una religione unita e compatta,
ma di fatto non è così. I musulmani vivono al loro interno divisi in innumerevoli correnti, gruppi, sette, confraternite, ecc.
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In Bangladesh – si dice – solo il 3% è seguace del vero
islam ortodosso, strettamente aderente al Corano. Il 97%
ha una religione che è sempre musulmana, ma che ha subito forti influssi dai mistici persiani ed afghani (i sufi) e
dall’induismo.
Tratto dal libro di M. Lattanzi Bangladesh, Paese d’acqua
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11. DIALOGO COME CONDIVISIONE DI VITA
Alla metà degli anni ’90 incontrai p. Enzo nel sud delle
Filippine, più precisamente sull’isola di Zamboanga, all’Euntes, centro di spiritualità missionaria, voluto per aiutare gli operatori pastorali provenienti dai vari paesi d’Asia a valutare – alla luce del Vangelo, dei documenti del
Magistero della Chiesa universale e delle conferenze episcopali asiatiche – la propria esperienza e a pianificare il
proprio futuro. L’idea di fondo era di far vivere ad essi
un’esperienza di Dio in modo che potessero comunicarla
con gioia ai fratelli, una volta tornati nei loro Paesi d’origine.
Seduto sulla veranda di una delle casette in legno di
cocco e con il tetto in lamiera, stava preparando la liturgia
serale, contemplando le alte palme che si stagliavano in
cielo. Aveva da poco finito di zappare il suo orticello. Subito capii che era un uomo particolare: un mistico.
Pacioso, faccia bonaria, p. Enzo Corba, classe 1931,
originario di Montefiascone, in provincia di Viterbo, dopo
quasi 50 anni di missione non aveva perso la sua pronuncia romana; paziente, serafico, ma non per questo non determinato o appassionato.
Ritrovo ora la sua inconfondibile impronta visitando il
villaggio di Singra, a 43 chilometri da Dinajpur: confinante con una foresta, su un terreno di circa quattro ettari,
per metà coperto da alberi, e l’altra metà coltivato, luogo
molto silenzioso e appartato, senza corrente elettrica, raggiungibile solo percorrendo una strada sterrata fangosa,
dopo aver attraversato gruppi di capanne – ben pulite e ordinate – di un centinaio di famiglie santal, di cui solo una
decina cristiane.
Questo l’ashram di p. Enzo, un centro di “rigenerazione” spirituale, fisica e mentale, formato da otto casette
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con due stanze ciascuna, la chiesa, molto semplice ma altrettanto accogliente, e una sala utilizzata per i pasti, per
le lezioni e gli incontri serali.
È proprio al ritorno dalla Filippine che cominciò ad
ideare questo centro, inaugurato nel 1997.
«Il vescovo mi invitava a pensare a qualcosa che aiutasse gli operatori pastorali ad approfondire la loro fede –
scrive p. Corba. – La diocesi di Dinajpur ne ha oltre 500,
sono laici e laiche, in particolare catechisti di villaggio o
prayer leaders (guide della preghiera) che guidano i servizi
domenicali quando non c’è il sacerdote, che di solito si
può recare al villaggio solo tre o quattro volte all’anno. La
vita spirituale della comunità, dunque, è interamente guidata da loro.
Così ho pensato di offrire loro un luogo appartato, silenzioso, dove possano spendere alcuni giorni lontani dalle preoccupazioni quotidiane, alla ricerca di Dio e sperimentare un rapporto personale con Lui.
La mia proposta si rifà al motto benedettino “Ora et
Labora”: la ricerca di Dio si fa attraverso il silenzio, la meditazione, la preghiera, il lavoro.
I gruppi arrivano la domenica pomeriggio e si fermano
cinque giorni, ritornando ai loro villaggi al sabato. La domenica sera il gruppo viene introdotto alla vita dell’ashram. Fondamentalmente si fa capire che le persone devono venir qui alla ricerca di Dio attraverso il silenzio, lo studio e la meditazione del Vangelo, la preghiera, il lavoro.
Tutta la vita parliamo, creiamo rapporti con gli uomini. In
questi cinque giorni parliamo con Dio, sviluppando un
rapporto d’amore e comunione con Lui. Il lavoro stesso
nei campi deve essere fatto in modo tale che non ci allontani da Dio, anzi ci aiuti a vivere la nostra relazione con
Lui.
I parroci vedono i gruppi tornare contenti dall’esperienza dell’ashram, pieni di entusiasmo, con la voglia di ritornare. I partecipanti apprezzano molto lo zen seating, lo
studio e la meditazione del Vangelo e l’ambiente: il vescovo l’ha voluto e l’apprezza. Quest’anno abbiamo già tutte
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le settimane prenotate fino al prossimo Natale. E perciò
penso che l’iniziativa rimarrà in vita. Io sono contento anche se come missionario ad gentes vorrei fare qualche cosa
di diverso: Singra è bello, importante, utile. A servizio di
Dio e degli uomini. Ma non è Rajapur».
E già, Rajapur.
In realtà, infatti, quando nel 1997 tornò in Bangladesh,
p. Corba aveva in mente di continuare il suo servizio missionario come dialogo di vita così come lo aveva vissuto
per 17 anni nel villaggio di Rajapur, nella diocesi di Chittagong. E il suo cuore è ancora là, nel sud bengalese più
profondo e fangoso, là dove i mille intrighi dei fiumi si incrociano senza ritegno con il golfo del Bengala e la terra è
una specie di zattera salvata alle acque con estremi espedienti.
È lì che approdò nel 1975 ed è lì che imparò cosa vuol
dire dialogare.
Ma andiamo con ordine.
Passato dal seminario diocesano al Pime, ne uscì prete
nel 1956 e nel 1958 venne destinato al Bangladesh. Da allora il suo modo di vedere gli altri e di concepire l’evangelizzazione è molto maturato.
È lui stesso a raccontare: «Da giovane partii con l’idea
tradizionale del missionario. La mia attesa entusiasta era
l’annuncio diretto del Vangelo, il messaggio cristiano divulgato alla gente e, di conseguenza, i battesimi e l’ampliamento della Chiesa di Cristo. Pensavo che l’annuncio
del Cristo, del Dio fattosi per amore uomo, per amore
morto e resuscitato, di questo grande Uomo Dio che ha
compassione dei poveri, dei sofferenti, che non esclude
nessuno, che morendo prega per i suoi uccisori, avrebbe
attratto tutta la gente. In realtà mi sono presto accorto che
queste idee erano irrealizzabili o quasi: milioni e milioni
di indù e musulmani a tutto pensavano fuorché a cambiare religione. Annuncio e Vangelo non sembravano affatto
un bisogno per il popolo, soddisfatto della sua fede tradizionale. Il contatto con musulmani, indù e tribali cambiò
il mio modo di pensare e aggiustò la mia fede. Scoprii che
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i valori evangelici quali fratellanza, uguaglianza, amore
per tutti, distacco dalle cose, rispetto per tutti, giustizia e
via dicendo, non sono del tutto assenti da quelle culture e
religioni. La gente in genere è profondamente religiosa:
Dio è mescolato nella loro vita, in tutto ciò che capita.
Scoprii che l’evangelizzazione, intesa come conversione
agli ideali evangelici, è necessaria a me non più che al musulmano, all’indù e al tribale.
All’inizio degli anni ’60 il movimento delle conversioni
al cristianesimo era ormai molto esiguo: due o tremila catecumeni l’anno in una diocesi come Dinajpur. E tutti provenienti dalle minoranze etniche animiste o dai “fuori casta”. Io stesso inizialmente mi impegnai molto in una parrocchia di 35 villaggi con numerosi nuclei cristiani di etnia santal, oraon, mundari, mahali e paria. Ci si dava da
fare senza stanchezze, visitavamo regolarmente i villaggi e
non era affatto un lavoro frustrante: i nostri cristiani ci accoglievano – benché poverissimi – con garbo regale, letteralmente ci facevano sentire il loro affetto profondo e tutti, proprio tutti, partecipavano alle funzioni religiose, al
rosario, ai riti per l’amministrazione dei sacramenti».
Ma p. Enzo, “cercatore di Dio in tutti gli uomini”, non
tarda a intuire che intorno al suo sparuto gregge di battezzati le grandi masse sono assolutamente impermeabili.
In lui si fa strada un profondo ripensamento: «Il mio
sguardo si rivolgeva all’enorme maggioranza di non cristiani, con i quali venivo a contatto nel corso delle visite
nei villaggi”.
È la primavera conciliare che gli apre nuove prospettive e gli spalanca nuove orizzonti: «Gli insegnamenti del
Vaticano II e del post concilio mi aiutarono a scoprire il
senso religioso della missione, intesa come incarnazione,
condivisione, dialogo, testimonianza».
Così, nel 1974, inizia la prima esperienza interreligiosa
in tutta la nazione.
«Il vescovo di Chittagong, mons. Joachim Rozario,
aveva il desiderio di incrementare le iniziative di dialogo
tra i cristiani e i fedeli di altre religioni e chiedeva preti a
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questo scopo. Io, che vivevo con questa mia profonda inquietudine, accettai la proposta».
E, con una lampada a petrolio, un lenzuolo, una coperta, tre pentole e molti propositi in testa, partì per Rajapur,
un’isola sul delta del Gange, cinquanta chilometri quadrati circondati da una diga di terra per 6.500 pescatori e contadini, gente abituata a convivere col periodico accanirsi
delle alte maree, dei tifoni, delle inondazioni. Al suo arrivo
i cristiani erano circa 1.000, tra cui 600 battisti, pochi anglicani e avventisti e circa 300 cattolici, inoltre c’erano
musulmani e indù in numero tra loro equilibrato.
«Con il vescovo, con il quale ero in grande consonanza
spirituale e amicizia – prosegue p. Enzo con il suo sguardo luminoso – si era convenuto un principio: non usare
mai mattoni. Non ero mandato a fondare nulla, né chiese,
né scuole, né ospedali. Nemmeno fui incaricato della cura
pastorale dei cristiani del villaggio, perché il parroco – un
bengalese – continuava a passare periodicamente a Rajapur per il ministero, mantenendo lui stesso la responsabilità pastorale del villaggio. Io dovevo semplicemente essere lì non per un gruppo, ma per tutti gli uomini, seguendo
tre principi: essere uomo di preghiera come segno visibile
della mia fede; essere uomo di tutti, dei cristiani come degli indù e dei musulmani; essere uomo come tutti, vivere i
problemi della gente sulla mia pelle, condividere la vita e
il lavoro esattamente come uno dei 6.500 abitanti di Rajapur».
Il contadino non lo aveva mai fatto, e a 45 anni inizia
una seconda vita, facendosi aiutare e consigliare dalla sua
stessa gente.
Impara a coltivare ortaggi, pianta un centinaio di alberi da frutto – mango, palme da cocco, albero del pane – alleva due mucche, qualche gallina e pesci.
E ammette: «Il lavoro ha trasformato il mio corpo ma
anche la mia anima e mi ha reso più sano intellettualmente: trovo che il mio modo di pensare sia diventato assai più
pratico ed essenziale».
Inoltre era a disposizione della gente che lo andava a
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cercare: «Come regola, in qualsiasi momento ero disponibile ad ascoltare chiunque avesse una necessità, in genere
malattie, problemi scolastici, vita del villaggio, problemi
personali. Interrompevo il lavoro e ascoltavo, ma se ero in
preghiera loro stessi aspettavano finché avessi finito. Nessuno veniva a chiedermi direttamente aiuti materiali perché avevano imparato che il mio metodo era un altro.
Ognuno si sentiva libero di venire in casa mia – una capanna con muri in lamiera e tetto in tegole – e io ero accettato e rispettato da tutti.
Feci in modo che ogni intervento sociale superasse il
“parrocchialismo”. Istituimmo cooperative composte da
musulmani, indù e cristiani, e l’aiuto ai poveri, agli ammalati, ai senza terra, era gestito da comitati misti. Mi
preoccupai che ogni atto sociale fosse espressione di tutti
e non di un solo gruppo e ciò mantenne – e mantiene tuttora – un clima di pace tra i diversi gruppi religiosi. Il dialogo tra comunità fa crollare le barriere di ogni tipo, culturali, religiose, sociali. Dal dialogo tra comunità nasce il
mutuo rispetto, la stima reciproca, la solidarietà tra i diversi gruppi. Le diversità, allora, sono percepite come ricchezza e non come cause di divisione».
La gente di Rajapur ancor oggi dice di lui: “Padre Enzo
è stato il maestoso banyan tree, il fico del Bengala: alla sua
ombra potevamo riposare”.
In tanti anni di presenza silenziosa a Rajapur, l’umile e
tenace p. Corba è riuscito in “imprese” apparentemente
insignificanti nella loro umiltà, ma grandiose e durature,
perché hanno creato la coscienza dell’unità nel rispetto
delle diversità.
Curò anche parecchi incontri di studio e di preghiera
interreligiosi e formalizzò un appuntamento ecumenico
annuale a Pentecoste.
«Con cristiani, musulmani e indù abbiamo organizzato diversi incontri di preghiera – racconta p. Enzo con sano orgoglio. – Duravano di solito tre giorni: pregavamo
leggendo insieme il Corano, il Vangelo e la Gita indù. Poi
ognuno esponeva il suo punto di vista e ci scoprivamo
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spesso a non capire se chi parlava era un cristiano o non
piuttosto un indù o un musulmano. C’era una sorprendente unità sul senso di Dio e sull’abbandono totale dell’uomo
in Lui. Ci scoprivamo con un’impressionante sintonia dei
cuori, pur rimanendo fedeli al nostro credo.
Io stesso imparai moltissimo dai miei amici non cristiani. Ad esempio diventai fraterno amico di un pir musulmano, una specie di asceta o sufi. Si chiama Rajak Cisti
e lo considero tuttora un vero santo.
È sposato, ha figli, eppure ha venduto tutti i suoi terreni regalandone il ricavato a una scuola. Inoltre mantiene
un orfanotrofio per 70 bambini. Non ha conto in banca,
vive poverissimo e completamente abbandonato ad Allah;
sperimenta quotidianamente la Provvidenza con vera
profondità. Ha fatto il voto di non chiedere mai nulla, eppure dice che lui e i suoi orfani hanno sempre mangiato
tre volte al giorno. Il suo orfanotrofio è una casa come le
altre, non ha neppure un’insegna, non si fa pubblicità.
Tra gli indù conto un altro amico straordinario. Si
chiama Dilip Biswas, insegnava in un college finché ha deciso di dimettersi a motivo dell’atmosfera corrotta che vi
si respirava. È religiosissimo. Vive con tanto distacco che
una volta, capitata in casa una banda di ladri, non solo ha
consegnato gli oggetti preziosi, ma ha persino rimproverato la moglie che non voleva dare una collana: “Coraggio!
Tu ormai l’hai portata per 15 anni…”. Risultato: tre giorni
dopo i ladri sono tornati per rendere tutto, dicendo che
avevano deciso di cambiare vita.
Vedi, un tempo, in seminario, pensavo che unità significasse volersi bene in parrocchia, venire tutti in chiesa,
eccetera. Più tardi, come aspirante missionario, credevo
che unità volesse dire che tutte le religioni si facessero cristiane. Adesso prego perché indù, cristiani e musulmani
amino Dio, facciano di Lui il centro della vita, si conformino alla sua volontà. E si mettano insieme perché non ci
siano più fame né povertà; che l’unità sia fatta nella uguaglianza della vita, con un rispetto vicendevole in tutti i settori, dallo spirituale al sociale».
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Ora p. Corba non è più lì, eppure Rajapur non ha disperso l’eredità da lui lasciata. Nell’aprile del 2004 fu celebrato il 30° anniversario dell’arrivo di p. Corba a Rajapur.
Furono valutati i cambiamenti avvenuti e stabiliti alcuni
obiettivi per gli anni a venire. Furono tre giorni indimenticabili. Ancora una volta insieme sotto la grande samyanatenda. I tre gruppi, musulmani, indù e cristiani continuano, nella solitarietà, il loro cammino di sviluppo economico e sociale. E, quel che più conta, la gente è cambiata.
Non scorderà facilmente il banyan tree che si porta nel
cuore.
Intanto a Singra p. Enzo prosegue la sua missione, cercando di trasmettere la sua passione per Dio e per gli uomini, la bellezza di dialogare con gli altri, con il diverso, a
chi poi dovrà tornare nel suo villaggio, a servizio del Vangelo.
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12. STRANIERO TRA GLI STRANIERI
È domenica mattina. La nebbia è ancora fitta quando
raggiungiamo Sirajgonj e a stento riusciamo a trovare
l’imponente cancello grigio davanti al quale ci ha dato appuntamento p. Carlo Buzzi. Aspettiamo, ancora addormentati e infreddoliti. Pochi i passanti avvolti nel loro tipico chador (scialle) ricamato e con un grosso interrogativo negli occhi: non riescono a toglierci gli sguardi di dosso; silenziosamente si fermano anche loro ad attendere.
Fortunatamente, il poco più che sessantenne missionario milanese non tarda ad arrivare sulla sua vecchia moto
Suzuki, occhialoni e berretto di lana d’altri tempi, maglione a scacchi indossato in fretta su una camicia a quadrettini, per ripararsi dal freddo e dall’umidità.
Baldanzoso e sorridente, con grande orgoglio ci apre il
grande portone del cimitero.
Infatti, la prima cosa che desidera mostrarci è il cimitero cristiano della città. Del resto è stata la sua prima
“faccenda” – o meglio, la sua prima preoccupazione –
giunto qui nel 1997.
«Lo so, vi sembrerà strano, ma il mio primo impegno
in questo luogo è stato ripristinare il cimitero. Mandato
qui a prendermi cura della comunità cristiana e constatato che di cristiani vivi non ce n’erano, mi sono occupato di
quelli morti e qui sepolti!».
Non c’è nulla da ridere, e il ragionamento non fa una
grinza.
Mentre giriamo tra i vialetti pieni di fiori e di cespugli
ci mostra le tombe ben sistemate e pulite: «Ai tempi degli
inglesi questa città, posta sulla riva occidentale del Bramaputra, era uno snodo nevralgico tra il sud e il nord del
Bengala. Era qui che finiva la ferrovia e si proseguiva in
battello fino ad Assam: la navigazione durava quattro
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giorni e, già provati dalla malattia, dal clima micidiale,
dall’acqua malsana e dalla malnutrizione, diversi passeggeri morivano a bordo, durante il tragitto. È così che pensarono di fondare nel 1870 questo luogo, da subito chiamato “il cimitero degli inglesi”, perché qui venivano sepolti tutti gli stranieri, in gran parte inglesi e scozzesi, che lavoravano nelle ferrovie, nel commercio della juta, nei vari
uffici governativi. Ed essendo l’unico cimitero cristiano di
tutta la città furono seppelliti qui anche tanti cristiani
bengalesi, che qui erano di passaggio per lavoro, sia cattolici che protestanti, senza fare troppo riferimento al diritto canonico che lo proibisce.
A quei tempi gli inglesi stipendiavano un custode musulmano perché in città non c’era mai stata una vera e
propria comunità locale stabile cristiana.
Partiti gli inglesi nel 1947, i pakistani non vollero certo
spendere soldi per il cimitero cristiano e così neppure il
governo quando divenne bengalese. Il custode, però, non
lasciò il cimitero e si autoricompensava con la legna e i
frutti degli alberi. Morto lui, suo figlio continuò il mestiere del padre e quando il fiume – durante una forte alluvione – travolse la sua casa, si prese la libertà di costruirsi
una casetta all’interno del cimitero. Ebbe quattro figlie
che presto si sposarono, continuando ad abitare lì, tanto
che il cimitero stava diventando un piccolo villaggio… e
nessuno più quasi si ricordò delle tombe che custodiva. Il
colmo è stato quando sono venuto a sapere che, morto il
padre, le figlie si sarebbero divise il terreno, quasi fosse loro eredità!
Allora è scattato il campanello d’allarme: il cimitero è
un luogo sacro cristiano e come tale va mantenuto e rispettato».
Così, grazie ad aiuti giunti dall’Italia, p. Buzzi si è mobilitato per riparare, fare la cinta, abbellire, seminare fiori
e mettere aiuole.
Ora questo cimitero è diventato un’oasi di pace, tanto
che anche diversi amici musulmani vorrebbero essere seppelliti qui.
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«Il 20 novembre 2001 è morto il primo bambino battezzato qui. Si chiamava Pius Roy, aveva quattro anni, nato spastico con crisi epilettiche. È stata la prima salma
messa nel nostro cimitero rinnovato. È certamente in paradiso: i suoi genitori sono stati esemplari nel curarlo e
tutti i musulmani sono stati molto edificati dal loro esempio. E così, anche grazie a questo e ad altri eventi dolorosi, piano piano ci siamo conquistati la fiducia e la stima
dei non cristiani».
Ma l’inizio non è certo stato pacifico. L’arrivo del missionario suscitò non solo scalpore ma avversione e sospetto: «In questa zona, dalla nascita di Gesù non c’è mai stata una presenza cristiana locale. Io sono qui proprio per
questo: dare testimonianza, esserci. Abito in una semplice
e modesta casa presa in affitto da una famiglia musulmana e ora sono stimato e ben visto dai miei vicini. Però, credetemi, solo dopo due anni e mezzo di mia presenza qui
ha cominciato ad esserci bonaccia su tutti i campi: ora
non c’è più opposizione e “tortura morale” da parte della
gente, ma ne ho dovute passare delle belle, ve lo assicuro».
All’inizio ti tirano sassi, ti ostacolano, ti insultano e minacciano... Poi, quando te li fai amici e vedono che sei venuto solo per aiutare, incominciano a nutrire simpatia.
E lui, p. Carlo, se li è conquistati così. Non si è perso in
prediche e sermoni, non ha fatto grandi discorsi, ma la
sua instancabile quotidianità ha interrogato, attirato,
coinvolto.
Con quel suo desiderio nel cuore di dare attenzione
agli emarginati, ai disprezzati e diseredati, da subito si è
interessato dei fuori casta indù, specialmente degli spazzini, venuti dall’India per la manutenzione della ferrovia al
tempo degli inglesi – e poi qui fermatisi – e dei calzolai,
che formano una delle sottocaste poste agli ultimi gradini
del codice sociale indù, accomunati con i conciatori di
pelle per il mestiere che fanno. Infatti, mentre loro tentano di realizzare e riparare scarpe e ciabatte, i pellai procurano loro le pelli conciate. Secondo la mentalità e i costumi indù, toccare un morto è considerato un atto altamen-
125
te impuro e lavorare le pelli, resti di una bestia morta, rende perennemente impuri sia calzolai sia pellai. Così, questi poveracci che, per guadagnarsi uno scarso piatto di riso, fanno il faticoso, insalubre mestieraccio di lavorare le
pelli di animale, sono gli emarginati, gli impuri, gli intoccabili, che vivono ai margini della società, chiusi nei loro
slum fatti di capanne di latta e paglia, costruiti su terrapieni posticci, pronti ad essere spazzati via da una delle
annuali consuete alluvioni. E lo stesso vale per gli spazzini che lavorano con e tra la sporcizia.
P. Carlo non si è lasciato scandalizzare dai costumi
indù, si è rimboccato le maniche e si è messo a fare scuole
per i loro bambini, le loro donne, per loro stessi, poveri e
analfabeti.
Così è nata la scuola “Grazia dal cielo” per i bambini dei
calzolai e la scuola “Sogno dei sogni” per i bambini degli
spazzini comunali, la scuola “Angela” per gli spazzini della
ferrovia in onore alla mamma di p. Paolo Ciceri, che gli ha
donato i soldi per costruirla. Nomi altisonanti che indicano
però strutture di estrema semplicità: tra il labirinto fitto di
baracche, si trovano semplici prefabbricati in lamiera dove
i bambini, pigiati all’inverosimile, molto dignitosi e disciplinati, seduti per terra con il loro quadernetto e la penna
mangiucchiata, imparano a scrivere e a leggere in bengalese grazie ai segni fatti dal maestro musulmano sulla vecchia lavagna nera appesa alla parete. Pochi metri quadrati
di suolo strappato al fiume e rinforzato con strati di sacchi
di terra, nulla di particolare, ma davvero una grazia dal cielo per poter realizzare un piccolo grande sogno.
Ci sono poi altre tre scuole in case affittate per un
gruppo di donne indù e due gruppi di donne analfabete
musulmane.
Oltre che al bengalese, queste ultime vogliono imparare la matematica, l’inglese e anche l’arabo, per poter leggere il Corano e pregare con più intensità.
Appartengono tutte a quelle famiglie sfollate dalle rive
dove il fiume ha distrutto ogni cosa: terreno, case, averi,
alberi, bestiame.
126
«Ultima, ma non meno importante, è la scuola serale
per i ragazzi. È una scuola in cui tutti si sacrificano: sia gli
alunni, perché lavorano tutto il giorno, sia gli insegnanti
perché anche loro hanno una giornata di lavori e di impegni. A far aumentare i meriti è di aiuto la compagnia dell’elettricità, che immancabilmente toglie la luce dalle otto alle nove di sera. E in quell’ora tocca accendere le lanterne.
Con l’aiuto della Caritas ho iniziato anche i corsi di specializzazione che durano sei mesi: cucito e lavori in bambù
per donne, elettronica, motoristica e ciclistica per ragazzi».
Ma dove trova tempo ed energie per seguire tutto questo?
«Ho messo sotto la protezione del Sacro Cuore di Gesù
tutte queste persone e il loro lavoro, non importa se sono
indù, musulmani o cristiani.
Mi sento forte della quinta promessa del Sacro Cuore
di Gesù che dice: “Per quelli che mi onorano nel mio nome, prometto di benedire qualsiasi progetto o impresa che
vogliono intraprendere”».
E la fedeltà e la tenacia nel nome del Signore cominciano a dare i loro frutti.
Anche i cristiani hanno iniziato ad essere più coraggiosi. Attualmente ci sono quattro famiglie cristiane in città,
una delle quali, grazie all’intraprendenza e alla genialità di
p. Carlo, ha messo in piedi una piccola fabbrica artigianale di statue religiose.
Queste attività basterebbero da sole a riempirgli le
giornate, ma, in realtà, non sono il vero motivo per cui si
trova quaggiù. Ci invita a casa sua a mangiare un chapati
(frittella di pane), mentre ci racconta la sua storia.
Ordinato nei caldi anni del sessantotto, prete di punta,
coraggioso e pieno di energia, dopo cinque anni di parrocchia in diocesi di Milano chiede di entrare nel Pime – per
essere missionario a servizio dei più diseredati e discriminati – e di partire per il Bangladesh, scelto perché considerato il Paese più povero e più popoloso del mondo.
Parte nel 1975 e si impegna anzitutto nella Caritas a
Rajshahi, poi in un villaggio oraon con un lavoro sociale
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ed educativo, riuscendo a vincere in tribunale – nonostante inimicizie e bastonature – ben 75 casi riguardanti le terre dei tribali e dei musulmani poveri.
Dopo tutto questo grosso impegno economico-sociale,
riemerse lo spirito sessantottino e chiese di fare un’esperienza fra i musulmani di Naogaon. Insegnava in una
scuola per musulmani e gli volevano bene: viveva poveramente, in un autentico dialogo di vita.
Ma non era ancora finita. Un bel giorno si fece avanti il
vescovo di Rajshahi sostenendo che qualcuno doveva andare ad assistere le centinaia di tribali “garo” cattolici che
erano a Sirajgonj per lavoro.
«Dovete sapere che i Garo, di origine mongolica, provenienti dall’India centro-meridionale, popolo di coltivatori,
sono una tribù particolare, fra cui vige la famiglia matriarcale, molte delle tradizioni sono capovolte, perché la successione ereditaria passa non di padre in figlio, ma di madre in figlia, e tutti i figli portano il cognome della madre.
La proprietà della terra non viene divisa ed è la madre stessa che decide quale delle figlie sarà la proprietaria.
L’uomo, quando si sposa, lascia la casa della madre e
va in quella della moglie. Nelle famiglie si preferisce far
studiare le ragazze piuttosto che i ragazzi, perché tanto
questi se ne andranno, mentre la ragazza resterà in casa.
Ebbene, questa tribù è ormai quasi tutta cristianizzata e
quindi è giusto che qualcuno si occupi anche di loro…
E così eccomi qui, per una grossa bugia detta al vescovo. I cristiani tribali garo che qui lavorano come immigrati, lontani dalle proprie famiglie, fecero credere al vescovo
che loro erano qui in 4.000. Cifra confermata dal vicario
diocesano dopo aver visitato la zona e dopo essersi convinto, dietro altre bugie dette sul luogo, che erano realmente così tanti. Volevano che qui ci fosse un sacerdote e
che ci fosse assistenza religiosa. Venuto qui, dopo un censimento, ho scoperto che erano a mala pena 400… ma ormai era cosa fatta. E non mi sono certo pentito!».
Ci fa salire sulla Toyota e mentre percorriamo le tortuose strade fuori città, prosegue:
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«Il primo Natale mi sono organizzato con un paio di
suore e abbiamo preparato una gran bella festa natalizia e
poi con la moto facevo centinaia di chilometri per visitare
i gruppetti di Garo cattolici, sparpagliati nella campagna
fuori città. Alla fine, attraverso mille peripezie, umiliazioni e spese ho comprato per loro un terreno. Adesso hanno
tutta l’assistenza religiosa che vogliono: Messa domenicale, incontri mensili, seminari due o tre volte all’anno».
E anche loro, che lavorano soprattutto la notte come
guardiani delle piccole fabbriche tessili della zona, ora si
possono radunare e pregare Dio, in un luogo – un capannone che diventa chiesa o sala per gli incontri a seconda
del caso – fatto apposta per la comunità. Si sentono a casa. Uno di loro con grande commozione confessa: «Io sono venuto dai monti dell’India vent’anni fa. Ho pregato
tanto che ci mandassero un pastore per noi pecore smarrite. Non avete idea di quanto sono grato al Signore per la
presenza di p. Carlo tra noi».
P. Buzzi abbozza un sorriso sornione, e inizia a celebrare la Messa tra canti e preghiere.
Al termine, dopo una solenne foto di gruppo con tutti
questi giovani uomini, piccoli, esili, ma dai forti corpi con
toraci larghi e dalle facce rotonde, i tratti somatici lievemente mongoli e la carnagione giallastra e liscia, il missionario continua la sua storia, portandoci sull’altra riva del
Bramaputra.
«Da anni si stava costruendo il nuovo e maestoso ponte, lungo cinque chilometri, a nord di Dhaka, per attraversare il Bramaputra (che in Bangladesh prende il nome di
Jamuna), proprio presso Sirajgonj. E così mi sono ritrovato a fare assistenza religiosa anche ad un’altra categoria di
stranieri che hanno lavorato per la costruzione del Jumona. Con loro ho celebrato tutte le feste liturgiche più importanti… Specialmente a Natale li ho tenuti su di giri dato che erano lontani dalle loro famiglie.
E c’è stato un bello scambio di amicizia, nutrito da
qualche bistecca, un bicchierino di whisky ogni tanto,
cantate con la chitarra, una bella spaghettata.
129
C’erano i coreani della compagnia Hundai, responsabile di tutto il lavoro del ponte. Sapevano pochissimo o
niente di inglese, eppure sono riusciti a far funzionare
un’impresa così difficile ed avanzata, con alle dipendenze
5.000 persone. C’erano gli inglesi pagati dalla Banca Mondiale per controllare la messa a punto dei lavori; gli olandesi espertissimi e velocissimi nell’imbrigliare le sponde; i
filippini, suddivisi in tre diversi campi, impegnati per la
costruzione della nuova strada e della nuova ferrovia, tutti ingegneri di vario ramo, assunti dai coreani perché laboriosi e competenti. C’erano anche gli italiani, di due ditte di Padova e Bologna, che hanno fabbricato e montato le
parti più delicate, gli “ammortizzatori” del ponte. E infine
i bengalesi che hanno lavorato specialmente come cuochi
e autisti.
Ora il ponte è terminato. Tutti se ne sono andati, ma
nel compound sono rimasti i bengalesi e alcuni coreani a
sorvegliare che tutto proceda per il meglio. Per loro, la domenica, nella palestra di squash p. Carlo, incurante del linoleum che scricchiola ad ogni passo, dell’aria condizionata accesa al massimo, dell’acustica che attutisce ogni
cosa, continua a celebrare l’Eucarestia, sul piccolo altare
preparato con tanta cura e abbellito con tovaglia ricamata
a mano, fiori freschi e incenso, per questo sparuto gruppetto di persone ben vestite a festa.
Ma appena lasciato l’ambiente del ponte, dotato di
macchinari modernissimi, computer, sistemi di controllo
sofisticatissimi, fuori dalla cinta di sicurezza sembra di ripiombare indietro anni luce…
Incredibile come questo missionario “poliedrico”, lavoratore tenace, con una resistenza e una salute di ferro,
amante dell’umanità, sappia adattarsi ai più diversi contesti. Mi richiama alla mente il Paolo delle genti che scrive
ai Corinzi: “Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti. Debole con i deboli, mi sono fatto tutto a tutti,
per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto faccio per il Vangelo, per diventare partecipe con loro”.
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Paese d’acqua
L’acqua ha costruito il Bangladesh.
Nei secoli, lo scorrere lento ed impetuoso del Gange,
del Brahmaputra e di innumerevoli altri fiumi sparsi a ragnatela nell’immensità del delta, ha trasportato tonnellate
di sabbia e terriccio. Così, lentamente, conquistando spazio all’oceano, si è formata la grande pianura del Bengala:
un intrico di canali e di fiumi, terra fertilissima.
Alcuni geologi hanno elaborato la teoria che questa
immensa distesa piatta non sia ancorata, ma che galleggi
su una specie di cuscinetto spugnoso imbevuto di acqua.
Ancor oggi i fiumi continuano il loro lavorio di millenni
e, ogni tanto, nella Baia del Bengala, affiora qualche nuovo isolotto. Subito la gente del litorale si affretta a piantarci il riso e a costruirci una capanna per prenderne possesso prima degli altri. A volte purtroppo l’acqua, invece
di costruire, distrugge. Gli argini non sono protetti o
rinforzati e spesso, quando l’acqua sale, i vortici fanno
franare e sommergono chilometri di sponde, con case,
campi e popolazione. La corrente farà poi riaffiorare altra
terra, magari in mezzo al fiume, o sull’altra sponda. Un
intreccio di speranza e di tragedia, come il groviglio dei
fiumi nella sconfinata pianura.
I due più grandi fiumi del Bangladesh sono il Brahmaputra, che scende dall’Himalaya orientale, e il Gange
che, con le sue acque sacre all’induismo, arriva dall’Himalaya occidentale attraversando gran parte dell’India del
nord. Gange e Brahmaputra si incontrano proprio in territorio bengalese e, mescolandosi, spezzano in due il paese, percorrendo insieme l’ultimo tratto prima dell’oceano.
Fino al 2004 non c’erano ponti fra l’est e l’ovest del
Bangladesh. Arrivati ad una sponda, i treni si fermavano
mentre i passeggeri dovevano attraversare il fiume su un
battello per prendere la coincidenza col treno che attendeva sull’altra sponda. I camion facevano la fila a volte per
giorni interi prima di ottenere un passaggio sui traghetti
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per una traversata di due-quattro ore, secondo il livello del
fiume. Questa barriera naturale ostacolava seriamente lo
sviluppo della zona nord-ovest, che non avendo neppure
porti, non aveva rapide comunicazioni con il resto del
Paese, e un solo confine con l’India, per di più chiuso.
Un’impresa sud-coreana ha costruito un enorme elettrodotto, creando così una rete nazionale unificata e il gigantesco ponte Jamuna, lungo 5 chilometri, serve contemporaneamente da strada, da linea ferroviaria, metanodotto ed elettrodotto, favorendo così lo sviluppo dell’intero
Paese.
Tratto dal libro di M. Lattanzi Bangladesh, Paese d’acqua
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13. A SERVIZIO DEL CLERO LOCALE
Solo il ritmo cadenzato dei miei passi rompe il silenzio
che incombe nell’ampio porticato del seminario minore di
Dinajpur. Un lungo corridoio all’aperto, su cui si affacciano diverse porte ben protette da zanzariere.
Classico edificio degli anni sessanta, ideato e voluto da
p. Ovidio Nebuloni che – 40 anni, due lauree in scienze sacre, insegnante nel seminario teologico del Pime a Milano
– fu incaricato di ridare vita al seminario diocesano, mentre ancora studiava le lingue. Nel 1959 si buttò a capofitto
nella nuova avventura, consapevole della necessità di nuove strutture e di un urgente rinnovamento, visto che il piccolo seminario aperto dalla diocesi fin dai suoi inizi non
reggeva più alle esigenze dei nuovi tempi.
Già il precedente seminario aveva formato diversi sacerdoti locali (il primo prete santal è del 1939, p. Lambert Kisku; poi altri due negli anni ’40 e altrettanti negli anni ’50),
così come è stata da subito attenzione e preoccupazione del
Pime: formare un clero locale a cui affidare il servizio della
Diocesi, secondo il carisma di questo Istituto Missionario.
Non si potevano più ospitare i ragazzi in luoghi di fortuna,
occorreva una sede moderna, adeguata, per educare al meglio quei giovani che si sentivano chiamati alla vocazione
sacerdotale, un investimento non da poco, calcolando che
magari da cinquanta ragazzi forse solo uno sarebbe diventato prete. Ma ne valse la pena. Questo edificio, in cemento
armato a due piani, con porticato ben arieggiato e ben articolato nei vari blocchi, ha “sfornato” da allora 13 sacerdoti
tuttora sparpagliati sul territorio della diocesi di Dinajpur.
Il seminario fu inaugurato nel 1965, dall’allora vescovo
mons. Giuseppe Obert.
Fu il nuovo rettore p. Paolo Poggi, classe 1930, lodigiano, con una trentina di ragazzi ad entrare ufficialmente
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nella nuova sede, lasciando – in calesse – il vecchio seminario di fianco alla cattedrale.
Subito scrisse un nuovo regolamento, l’orario giornaliero del seminario, un nuovo libretto di preghiere, insomma nuova vita di seminario. La pace però fu turbata presto.
Nel 1971 scoppiò la guerra d’indipendenza. Visto il pericolo continuo di finire ammazzati, p. Paolo, su pressione
dei seminaristi – il giorno stesso in cui i militari davano
inizio all’attacco per riconquistare la città di Dinajpur –
con i più piccoli dei suoi seminaristi, percorrendo venti
chilometri a piedi, passò il confine con l’India.
«Io non mi pento di essere scappato da Dinajpur –
scrisse poi dall’India – quando i militari il 13 aprile sono
tornati: non riuscivo più a dormire per le scene di crudeltà
viste, il cibo non mi andava giù, non ne potevo più. Forse
mi sono lasciato prendere dal panico, quando ho sentito
sparare di nuovo quel pomeriggio: alle due dopo pranzo
sono fuggito con i miei 32 seminaristi, nonostante l’ottimismo di altri padri che dicevano di rimanere. Io non voglio giudicare gli altri, anzi ammiro il loro coraggio e la fede che hanno avuto: ma per me ogni colpo di fucile era
una scossa al sistema nervoso. Ho deciso all’improvviso,
quando i seminaristi hanno visto la gente fuggire e mi
hanno detto: “Padre, noi scappiamo con loro”, e sono fuggiti per la strada dietro il seminario. Allora corro in camera, prendo il passaporto e li raggiungo. Ora qui a Rajipur
(campo profughi al di là del confine indiano, dove si trovò
anche p. Vanzetti) mi accorgo che la mia presenza è utile a
tanti, cristiani e non, che provengono da Dinajpur e dintorni. Solo al nostro campo ci sono 1.200 famiglie di cristiani, indù, musulmani. Aiutiamo tutti indistintamente,
cercando di organizzare il lavoro».
Ora tutto questo è solo un brutto ricordo lontano, custodito da queste mura silenziose, che a poco a poco sono
state ripopolate da nuove “leve”.
Nelle aule i ragazzi stanno studiando e si respira aria
di pace e tranquillità.
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P. Carlo Calanchi, seduto alla sua scrivania, mi accoglie con un sorriso benevolo e cordiale.
Attualmente il seminario è retto da un prete locale e
lui, quasi ottantenne missionario milanese, continua ad
essere – da venticinque anni e più, – l’anima della struttura, con l’assistenza spirituale agli alunni e con la formazione liturgica sulle orme del Vaticano II.
Dalla faccia gioviale, autoironico nelle sue espressioni
dialettali, pungente nelle sue osservazioni, ordinato sacerdote del Pime nel 1952 e destinato a Dinajpur quattro anni dopo, così si descrive: «Dei cinquant’anni di vita di missione, di cose da raccontare ce ne sarebbero tante, anche
per uno come me che ha speso gli ultimi venticinque anni
lontano dai “pericoli e dalle fatiche” di cui parlano le nostre preghiere del mezzogiorno. Mi sono spesso paragonato a una “sitting duck”, ovvero ad un’anatra seduta, facile
preda anche di inesperti cacciatori.
Come ho speso i miei anni seduti? Impegnato nella formazione dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa».
P. Calanchi, giunto in Bengala nel 1956, dopo lo studio
delle lingue (bengalese e santal), dal 1958 al 1967 fu mandato nella parrocchia di Nijpara. Da subito, il suo pallino:
“formare il Popolo di Dio e la Chiesa”. Ogni settimana preparava in santal, con un duplicatore a spirito, i fogli con le
letture da distribuire alla domenica, componeva i responsori cantati e traduceva in santal le orazioni della Messa.
«Fu alla fine del 1965, nei tre mesi di domicilio coatto
a Dhaka (durante e dopo la guerra India-Pakistan del settembre 1965) che mi misi a predicare la necessità assoluta
di formare i prayer leader per dirigere le preghiere domenicali nelle centinaia di cappelle delle nostre diocesi del
nord, dove ogni domenica la gente si radunava. Ho lavorato tanto: ero riuscito a preparare tutti i servizi domenicali,
muniti anche di tre letture, per i miei dodici semi-analfabeti prayer leader, nella sola lingua santal. Come una formichina, con lo stesso sistema, successivamente ho preparato le meditazioni sui vangeli di ogni giorno della settimana… Solo un maniaco delle carte conservate in cartel-
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lette, – lo riconosce lui stesso – poteva non arrendersi fino
alla fine. I cinque volumetti delle meditazioni, per un totale di settecento pagine, furono pubblicati entro l’anno
1998. Li distribuì alla case dei diocesani e dei religiosi e
religiose».
Questa passione per la formazione lo accompagnò
sempre negli anni successivi, nonostante spostamenti di
sede e di incarichi, finché nel 1979 si ritrovò nel seminario
minore di Dinajpur, col titolo di direttore spirituale. A
questo compito si aggiunse gradualmente l’animazione e
la direzione spirituale di novizie e di suore, specialmente
della congregazione diocesana “Shanti Rani”, oltre che
l’accompagnamento spirituale dei seminaristi dell’“Intermediate seminary”.
«Devo dire che, per il noviziato, il lavoro è cominciato
quasi per sbaglio: “Padre, può fare una conferenzina settimanale ai due gruppi di novizie riunite?”. I primi tempi la
tenevo nella cappella del seminario minore, mentre i seminaristi erano a scuola. Poi, col passare degli anni ho cominciato a scrivere per esteso quello che dicevo e ne ho fatta
una traduzione scritta su quaderni. Lo stesso va detto per la
direzione spirituale delle suore: “Non potrebbe dire due parole personalmente a qualcuna che le chiede?”. Non mi sono pentito di aver preso sul serio questa provocazione.
Il lavoro con i ragazzi del ginnasio è stato più profondo
e incisivo anche dal lato strettamente spirituale: anzitutto
posso assistere i giovani nella loro meditazione quotidiana
e solitamente la maggior parte ha contatto regolare per un
cammino spirituale e vocazionale. Soprattutto in questi
ultimi anni ho l’impressione che i ragazzi riescano meglio
a pregare, ad imparare da soli e a maneggiare il Nuovo Testamento con coraggio e iniziativa».
E se, per la sua graduale difficoltà fisica e motoria dovuta a una forte artrite, non è più riuscito a recarsi nei villaggi come faceva nei primi anni della sua vita missionaria, non si sente di certo menomato. Forse i risultati sono
meno appariscenti, ma non per questo meno veri e
profondi.
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«Anch’io, arrivato in Bangladesh, avevo l’esaltazione
del convertire, poi vedi che è tutto difficile, sperimenti i
fallimenti, ti vengono crisi, scoraggiamenti… che si superano vivendoli appieno, con la forza della Parola di Dio.
Per questo credo che lo studio della Parola che lavora in te
sia fondamentale. E grazie a questa mia ricerca e approfondimento personale mi sono appassionato io stesso
alla Bibbia. Quel che faccio, mi rendo conto sempre di
più, è un guadagno prima di tutto per la mia persona. E
per gli altri? Cerco di rendermi utile come posso. Le mie
gambe si muovono poco, ma la mia testa – e il mio cuore –
sono in continuo movimento. Non mi sento meno missionario degli altri miei confratelli, perché lavoro alla formazione degli apostoli come Gesù. Speriamo che Dio sia dello stesso parere».
Mentre ripercorro il silenzioso porticato sembra che
riecheggino le parole di p. Paolo Manna, grande missionario e Superiore Generale del Pime: «Scopo dei missionari
non è solo annunciare il Vangelo alle genti, ma soprattutto
preparare fra esse la Chiesa di Gesù Cristo, formata dalla
comunità dei fedeli con i loro pastori. Una sola cosa deve
dunque importare: le missioni devono lavorare per rendersi superflue; i missionari devono lavorare per poter
presto scomparire e lasciare in loro luogo la Chiesa di Gesù Cristo, retta dai vescovi e dai sacerdoti naturali dei Paesi evangelizzati».
Ripenso all’arrivo dei padri Albino Parietti, Luigi Limana, Antonio Marietti e del catechista Giovanni Sesana
nel 1855 in Bengala.
Ripenso alle attuali sei diocesi con i loro vescovi locali
e gli oltre cento sacerdoti locali, sparsi sul territorio bengalese. L’opera di Dio è misteriosa e grandiosa.
E per realizzare tutto questo si può servire anche di
“anatre sedute”. Perché no?
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14. CARRIERA AL CONTRARIO
Banani, quartiere periferico di Dhaka. Seminario filosofico-teologico nazionale “Holy Spirit”, unico seminario
maggiore in tutto il Bangladesh.
È qui che nel grande refettorio gentili e premurose
suore mi servono un saporito torkari di maiale, pesce con
cavolfiori e patate, verdure miste, papaia, e riso in abbondanza, mentre attendo che p. Franco finisca la sua lezione
di ecclesiologia ad un gruppetto di seminaristi.
Ho proprio voglia di rivedere questo mio amico conosciuto in altri contesti e responsabile di questo mio viaggio quaggiù.
Dopo essere rimasto per ben 19 anni in Italia, p. Franco Cagnasso – nato a Susa nel 1943 – nel 2001 è tornato in
Bangladesh, dove era già stato dal 1978 al 1983. Un ritorno molto atteso che l’ha subito messo a confronto con i
notevoli cambiamenti che, nel tempo, hanno interessato
la società e la Chiesa bengalesi.
Un abbraccio e subito ci sediamo all’ombra a raccontarci le rispettive novità.
Sembra ieri quando entrambi, nel settembre del 2001,
abbiamo ricevuto il “crocifisso dei partenti” al tradizionale Congressino del Pime a Milano.
«Nel ripartire – confessa – mi sentivo come fosse la prima volta e sono rimasto perplesso nel constatare che invece molte cose erano cambiate e che quaggiù tutti s’aspettavano un uomo diverso, un anziano, un saggio.
Quanti mutamenti in un ventennio! Città con la popolazione quadruplicata, più industrie e più sviluppo, più investimenti esteri e non solo occidentali, più lavoro per le
donne considerate “manodopera obbediente” da sfruttare
al massimo con paghe basse e orari massacranti.
Questa è “la vera rivoluzione” del Bangladesh: quelle
centinaia di migliaia di donne che vanno a lavorare lonta-
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no dal villaggio di provenienza e che spesso non ricevono
stipendi anche da sei-sette mesi! Donne che a volte si sposano per avere una protezione e pagano il marito perché
accetti un matrimonio formale che, non necessariamente,
comporterà il vivere sotto lo stesso tetto. L’importante è
solo il poter dire, all’occorrenza, “sono la moglie di...” e
sentirsi protetta e rispettata. Il Bangladesh del Duemila,
insomma, conta una maggiore ricchezza oltre che una
“spaventosa corruzione in tutti i campi”, ma la miseria è
ancora più evidente con tutti quei poveri e disoccupati costretti a vivere in baracche perché senza soldi per una vera
casa... Anche se sono migliorati i mezzi di trasporto e c’è
un raccolto in più all’anno, in tantissimi sognano di emigrare, di andare a lavorare fuori, all’estero, magari in Italia, per fare fortuna e cambiare vita. Spesso si fanno debiti per pagare il viaggio della speranza, anche se molti non
riusciranno mai a partire perché il mediatore scompare
nel nulla dopo aver incassato il denaro... Rispetto al passato, l’istruzione è più diffusa e i genitori si preoccupano
di far studiare i figli sperando che questo serva a cambiare il loro destino.
Nelle città si respira maggiore violenza di un tempo,
sia a livello politico-economico che sociale e religioso.
Non mancano attentati e si teme, a ragione, un crescere
del fondamentalismo e del fanatismo.
La Chiesa bengalese – prosegue – ha visto aumentare il
numero delle diocesi, passate da 4 a 6. Pur se lentamente,
cresce anche il numero dei cristiani così come quello di
preti e suore locali che vanno a ricoprire ruoli di responsabilità in campo pastorale. È molto vivace con i suoi centri parrocchiali, le scuole, l’attenzione alla spiritualità,
l’aiuto alle realtà non cristiane. Diminuiscono, invece, i
missionari provenienti dall’estero, anche se i più numerosi restano quelli del Pime e i Saveriani».
È in questo clima generale, insomma, che padre Franco ha ripreso a svolgere la sua missione.
«Sono un tranquillo insegnante – mi dice, precedendo
la mia curiosità – mi occupo di futuri preti e religiosi. So-
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no anche il padre spirituale ufficiale e insegno materie ecclesiastiche. Ci sono una quindicina di seminari minori in
Bangladesh (includendo quelli dei religiosi), ma un unico
seminario di filosofia e teologia, alla cui scuola vengono
tutti i religiosi che però vivono nelle loro comunità. In tutto, con ovvie variazioni annuali, abbiamo circa 60 residenti e altrettanti studenti esterni. Dopo il diploma di B.A. (un
equivalente della laurea di primo livello in Italia), c’è un
anno di spiritualità, poi i seminaristi vengono qui e studiano due anni filosofia e un anno teologia. Segue un anno di esperienza pastorale nelle parrocchie delle rispettive
diocesi. Dopo quest’anno, tornano per concludere con altri tre anni di teologia. C’è poi un mese di speciale preparazione (di cui sono il responsabile) in un “ashram” immediatamente prima dell’ordinazione al diaconato, che
eserciteranno nelle rispettive diocesi. La data dell’ordinazione al presbiterato è decisa dal vescovo, solitamente circa un anno dopo. Un lungo cammino, come vedi!».
Mi fermo a fissare questo mio amico di vecchia data.
Nella Direzione generale del Pime a Roma per quasi
vent’anni, Superiore per dodici, ed ora eccolo qui. Una camicia color crema stropicciata fuori dai pantaloni, ciabattine infradito, più magro che mai, etereo, occhi luccicanti
che risplendono mitezza e serenità. Strana carriera al contrario, per questi missionari italiani!
Ma cosa è venuto a fare qui? Perché ha voluto tornare
proprio quando, dopo tutte le responsabilità sostenute, gli
impegni affrontati, le fatiche vissute, era ora di andare in
pensione e godersi la vita forse in un modo più agiato?
Scoppia in una sonora risata. So che da lungo tempo
covava il desiderio di tornare nel “suo” Bangladesh e a volte la nostalgia davvero si faceva forte. Soprattutto quando
si sentiva imprigionato dalla formalità e dal benessere. Ma
perché proprio con questo incarico?
«La Conferenza episcopale bengalese me lo aveva chiesto ancora prima che terminasse il mio mandato come superiore generale e anche il Consiglio regionale del Bangladesh vedeva di buon occhio questo mio possibile incarico.
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Io mi sono fidato di loro e di altri che mi dicevano che c’era davvero bisogno di qualcuno che ricoprisse questo ruolo. Ho anche pensato che in tutti gli anni passati ho sempre dato tempo alla direzione spirituale e a insegnare (brevissimi) corsi. Alla mia età, e dopo 19 anni di assenza, non
sarei stato capace di fare grandi attività missionarie “di
prima linea”, e perciò era meglio accontentarsi di qualcosa di più modesto.
Ora che sono qui, credo che la scelta sia stata giusta.
Siamo in una fase in cui questa Chiesa sente il bisogno di
qualche aiuto “mirato” per rendersi ulteriormente capace
di gestirsi.
La Chiesa in Bangladesh ha un numero abbastanza alto di persone con lauree e diplomi in materie ecclesiastiche o comunque che si insegnano nei seminari (ad esempio islamologia, sociologia), ma è ancora molto carente di
persone che abbiano una preparazione specifica, o almeno un’esperienza matura di lavoro formativo come tale. In
questo momento, ad esempio, se io dovessi smettere di insegnare non sarebbe difficile sostituirmi, se smettessi la
direzione spirituale troverebbero difficoltà.
Diversi seminaristi hanno persino chiesto la presenza
di un numero maggiore di stranieri nello staff (attualmente siamo due residenti e tre insegnanti non residenti stranieri su un totale di 6 residenti e 20 non residenti).
Il Pime, inoltre, nei decenni passati ha preso coscienza
che il compito di formare i “leader” delle Chiese in cui
operiamo è un aspetto del dovere missionario che dobbiamo tener presente. In Bangladesh lo stiamo facendo (ora e
negli anni scorsi: p. Calanchi, p. Livio Prete, p. James Fannan, p. L’Imperio, p. Meli, p. Bozzini e altri) e devo dire
che l’Istituto è stimato e guardato con riconoscenza anche
per questo.
Di direzione spirituale ultimamente si parla molto negli ambienti formativi di questa Chiesa, ma la si pratica
poco, sia perché non c’è esperienza e ci sono ancora notevoli resistenze da parte di molti, – le persone di queste culture sono generalmente poco abituate all’introspezione e a
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parlare di sé – sia perché è oggettivamente difficile trovare
persone capaci e che diano tempo a questo servizio. Oltre
a quelli citati, ci sono altri missionari del Pime che si rendono utili prestandosi alla direzione spirituale di seminaristi, suore e preti (p. Dotti, p. Gualzetti, in passato p. Goduto, p. Boccia), con un lavoro silenzioso, ma utile e apprezzato».
Attività che assorbono molto, insomma.
«Sì, ma qualcos’altro ci sta, anche per cambiare un poco aria. Faccio parte del Gruppo Animazione Missionaria
del Pime, che realizza un programma di ricerca vocazionale per giovani.
Per mezza giornata la settimana vado in Nunziatura
per alcuni servizi, su richiesta del Nunzio.
Insegno una volta la settimana a tre noviziati uniti
(Maria Bambina, Pime e Luigine).
Sono incaricato della pastorale degli stranieri, che fa
capo alla chiesa del nostro seminario: sono circa 300 persone che regolarmente “girano” attorno alla chiesa dove si
celebrano Messe e si è disponibili per altri servizi pastorali in inglese. Un “gregge” eterogeneo e mobile, come puoi
immaginare, composto per lo più da filippini, indiani, srilankesi, ma anche latinoamericani, inglesi, americani ed
europei. Per i coreani c’è un servizio a parte svolto dal
Nunzio, che è appunto coreano.
La Direzione Generale del Pime, inoltre, forse pensando alla vicinanza geografica, mi ha affidato un compito
che non riguarda direttamente il Bangladesh ma il Myanmar. Coordino un programma di appoggio al Seminario
Nazionale di Spiritualità St. Michael’s Seminary di
Taunggyi, dove convergono i seminaristi di tutte le diocesi
del Myanmar. In pratica, valuto con lo staff locale i programmi annuali, e preparo con loro i nuovi programmi,
aggiorno la biblioteca, provvedo ai professori esterni. Si
tratta di missionari del Pime (o collegati con questo istituto), per lo più operanti in Asia, che si prestano per tenere
brevi corsi. Il progetto coinvolge una quindicina di persone, ed è un altro aspetto del servizio del Pime alla forma-
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zione di leader di queste Chiese. Per me comporta molto
lavoro di posta elettronica, e uno o due brevi viaggi in
Myanmar all’anno.
Infine, ci sono le attività nate senza che avessi nessun
incarico in proposito.
Non avendo io attività religiose, sociali, caritative, educative che mi impegnino finanziariamente, ho iniziato ad
usare le risorse che spontaneamente mi mandano amici e
conoscenti per aiutare preti locali, altri missionari e “casi”
particolari di poveri, ammalati, studenti in difficoltà. Con
il tempo, circostanze varie mi hanno messo in contatto
con persone del luogo che si stanno impegnando per il bene della loro gente. Ho ritenuto e ritengo che aiutarle sia
un modo adatto alla mia situazione: non ho nessuna responsabilità diretta, ma consiglio e sostengo opere che reputo ben fatte, in mano a laici che difficilmente trovano
sostegno da strutture ecclesiastiche o da Ong internazionali.
In particolare, aiuto tre iniziative.
La prima è il “Betchara Shishu Sadan”, un ostello per
studenti poveri avviato da un bonzo buddhista in un remoto villaggio del sud, Betchara, nella provincia di Bandarban. Ci sono 50 studenti, buddhisti del gruppo etnico
“Marma” (di origine birmana) dalla prima elementare all’ottavo anno di “High School”, affidati dal bonzo alla responsabilità di un giovane maestro, Mongeyo Marma. È
pieno di buona volontà e di ideali, ma senza risorse. Mi è
sembrato degno di fiducia, ho avuto riscontri che sta facendo bene; lo assisto soprattutto grazie agli aiuti di una
parrocchia di Bergamo e di amici di Roma. Questo mi dà
anche occasione di conoscere qualcosa del mondo
buddhista, che in Bangladesh consiste in una minoranza
piccola (circa 800.000 persone), ma più consistente di
quella cristiana. Non credo valga la pena di sprecare la parola “dialogo”, ampiamente logorata da usi propri e impropri. Semplicemente si interagisce in amicizia e con rispetto, venendo a conoscersi un poco di più reciprocamente. Ciò vale per me, per le persone dell’ostello di Bet-
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chara, e un poco anche per i benefattori italiani, che cerco
di tenere informati e interessati.
Il secondo è un altro ostello, “Alex Home”. Si tratta di
una coppia di cattolici bengalesi, Tomas e Noyon Sorkar,
con 5 figli che, qualche tempo fa, ha iniziato a raccogliere
ragazzi poverissimi per mantenerli e mandarli a scuola
con l’aiuto di un benefattore americano che conosceva e
stimava questa coppia. Morto il benefattore, si sono trovati nei guai, e io li ho aiutati ad uscirne. Ora hanno 35 ragazzi, per lo più indù ma anche cristiani, molto ben seguiti ed educati. L’ostello si trova a Dhaka, relativamente vicino al seminario, ma per il prossimo mese di giugno lo trasferiamo in un villaggio del sud, dove i costi sono minori e
l’ambiente più adatto ai ragazzi, quasi tutti originari di
quelle zone. Ho avuto aiuti sostanziali per quest’opera da
Genova, Bologna e Bergamo.
Infine, Dino e Rotna Halder, una coppia giovane, simpatica. Vivono in due stanze, hanno ciascuno un buon lavoro come insegnanti, e tengono in casa nove giovani donne ciascuna in gravi difficoltà, ma per ragioni diverse: ripudio, vedovanza, ragazze madri, ecc. Hanno avviato
un’attività di appoggio a donne in difficoltà, insegnano loro cucito e ricamo, vendono i loro prodotti, le ospitano in
casa quando c’è bisogno. Raggiungono un centinaio di
donne, qui a Dhaka dove abitano e dove hanno il loro lavoro di insegnanti, e in vari luoghi del Bangladesh, aiutandole a sopravvivere e a sperare. Quando qualcuna arriva
da lontano per portare la sua merce, la invitano a fermarsi due o tre giorni. Schiacciate come sardine nel piccolo
appartamento, sperimentano un po’ di compagnia, un tetto, la televisione, tempo per pregare (ognuna a modo suo),
lavoro tranquillo, la vicinanza di un uomo e di una donna
istruiti che le rispettano, qualche pettegolezzo, il cibo garantito, l’amicizia e il raccontarsi i propri guai… insomma, un pezzo di paradiso in terra!
Mi pare che Dino e Rotna abbiano il dono naturale, alimentato dalla loro convinzione e dalla loro fede, di trattare con queste persone in difficoltà.
145
“Ho fatto la fame da ragazzo – dice Dino – e quando
penso alla disperazione di certi giorni mi riprende l’angoscia. Vedo qualcuna di loro, mi chiede aiuto, rivivo quei
tempi…”.
Rotna organizza la vita in casa e il lavoro, Dino passa
tutto il tempo libero girando da un club a un convento, da
un negozio a una parrocchia, per cercare affannosamente
di vendere ricami e artigianato vario che le donne producono. Pagare tutte, e tirare a fine mese è un’impresa!».
Lavoro ce n’è tanto, dunque. Niente male per un Superiore in pensione.
Padre Franco ringrazia Dio per essere tornato qui a vivere una seconda giovinezza. Proprio nel Paese più corrotto del mondo, qui dove la stampa non è libera e la voce
della Chiesa cattolica conta quanto il mormorio di una
zanzara...
«Faccio quello che posso – conclude sorridendo – perché credo che essere missionari, oggi, voglia dire innanzitutto amare quest’umanità in tutte le sue sfaccettature, così come fa Dio e così come imparo ogni giorno dalla gente
semplice dal cuore grande.
E mi posso ritenere contento se riesco a dare anche solo una mano a questa Chiesa piccola e spaventata da tante
cose più grandi di lei che le avvengono intorno, comprese
le grandi tensioni internazionali in cui le minoranze sono
come fili d’erba in un prato in cui gli elefanti si scontrano
fra loro».
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Una Chiesa piccola ma varia
Una delle occasioni in cui meglio si apprezza l’incontro di culture diverse è l’ordinazione sacerdotale di giovani tribali. È una festa in cui si trovano riunite le antiche
cerimonie della popolazione santal (il bagno, l’unzione di
purificazione, la benedizione dei genitori, ecc.), con le antiche cerimonie della Chiesa cattolica.
Dopo la liturgia tutti danno sfogo al loro entusiasmo,
e sul grande prato di fronte alla chiesa, in un unico colpo
d’occhio e in una grande confusione di suoni e di colori, è
possibile assistere alle vivacissime danze dei Munda, con
i grossi tamburi rimbombanti, alle lente e ripetitive danze
delle donne santal, a quelle aggressive degli uomini urao,
e ai “kirton”, canti tradizionali indù accolti e rielaborati
dalla comunità cristiana bengalese.
Queste feste, che riuniscono in poco spazio i vari
esempi delle culture del Bengala, possono ricordare la
chiesa del Bangladesh: molto piccola numericamente, ma
molto varia dal punto di vista storico e culturale.
I primi cristiani sono stati convertiti dai portoghesi,
commercianti e pirati, nel ’500 e ’600. Portano nomi portoghesi (Gomes, Costa, Rozario) e sono bengalesi. Hanno
di solito una fede con molte pratiche devozionali simili a
quelle dell’Europa meridionale, ma vi hanno anche introdotto liberamente canti, feste, tradizioni prese dall’induismo o create autonomamente. Da questo gruppo provengono la maggior parte dei preti locali e sette degli otto vescovi che dirigono le sei diocesi di questo paese.
I nuovi cristiani provengono soprattutto dalle varie
popolazioni tribali già ricordate.
Una Chiesa piccola piccola (lo 0,04% della popolazione totale), dunque, molto attiva, divisa, varia e in crescita.
Attiva e in crescita non solo numericamente. In questi
anni si è andata strutturando sempre più, e si è quasi
completato il passaggio delle responsabilità dagli stranieri
ai locali. I missionari non sono certo superflui, ma cerca-
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no strade per andare oltre ciò che già c’è, per stabilire nuovi contatti, servire bisogni a cui finora non si è potuto
prestare attenzione.
Divisa. Sì, purtroppo, pochi ma divisi! I cattolici sono
di gran lunga la maggioranza, ma non mancano i battisti,
molto dinamici nel primo annuncio, la Chiesa del Bangladesh legata alla Comunione anglicana, i luterani e numerosi altri gruppi minori. Non diamo un bell’esempio,
anche se qua e là si fa qualche timido sforzo per conoscersi, rispettarsi, realizzare qualcosa insieme.
Molto varia, e questa è una caratteristica unica nella
società del Bangladesh. La stragrande maggioranza della
popolazione infatti è compatta, di religione islamica e di
razza bengalese; c’è una consistente minoranza indù, anch’essa bengalese di lingua e cultura, e poi piccole minoranze aborigene e buddhiste, ognuna isolata dall’altra. I
cristiani invece sono un arcobaleno: meno del 50% di origine bengalese, e poi – come si è detto – Santal, Orao,
Mandi e numerosi altri gruppi. Una convivenza per la
quale in futuro potrebbero manifestarsi problemi seri,
perché non è facile comporre la fedeltà alla propria cultura con l’appartenenza ad una comunità più vasta, cristiana, che a sua volta è dentro la più vasta realtà islamica
del Bangladesh. Ma insieme ai rischi, c’è anche la ricchezza di questa situazione, che spezza visioni chiuse, mentalità di ghetto, per vivere e testimoniare la forza unificante
della fede in Gesù e dell’amore reciproco.
Lo sforzo attuale della Chiesa, dunque, è di formare
una comunità fortemente unita nella fede, ma che lasci a
ciascuno un’identità culturale propria.
Tratto dal libro di M. Lattanzi Bangladesh, Paese d’acqua
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15. PASTORALE CITTADINA
È l’“Eid Ul Fitr”, la più grande festa dell’islam, che segna la gioiosa fine del sacro digiuno dopo il mese di Ramadan. Oggi la gente si sveglierà con calma, i musulmani
indosseranno i vestiti nuovi, parteciperanno alle grandi
riunioni di preghiera nelle piazze della città. Poi faranno
visita ai propri parenti e conoscenti, insieme pranzeranno
in allegria. I poveri, mendicanti sui bordi dei marciapiedi
o accovacciati ai muretti delle moschee, lanceranno il loro
grido pietoso, confidando nell’elemosina oggi a loro dovuta come prescrive il Corano. Molti potranno gustare i
pranzi serviti per loro da benefattori e moschee.
Dalla tarda mattinata fino a notte inoltrata tutti si riverseranno per le strade, ma per ora – sembra un miracolo –
la grande caotica Dhaka appare deserta. Botteghe e botteghini sprangati, il sole è già caldo ma il grande sonno veglia ancora sulla città. Niente gas asfissianti dei baby taxi,
niente scampanellio dei risciò, nessuno sfrecciare rumoroso di veicoli di ogni tipo: autocarri, autobus e fuoristrada.
Nulla di tutto ciò. Niente ingorghi, né sterzate improvvise:
sembriamo i padroni della strada. Solo noi, una piccola comitiva di ragazzi su un minibus guidato da p. Gian Paolo
Gualzetti: destinazione Savar, una grande area industriale
a 30 chilometri da Dhaka, zona che con la costruzione di
numerose fabbriche, soprattutto straniere, si è trasformata
in un formicaio di migliaia e migliaia di giovani – tra cui
numerose ragazze – venuti a fare gli operai, sopportando
anche pesanti turni notturni pur di guadagnare qualcosa.
Qualcuno riesce a mandare qualche spicciolo al villaggio,
altri tirano la cinghia perché lo stipendio è ancora misero.
È qui che ogni quindici giorni viene il missionario lecchese a celebrare la Messa per uno sparuto gruppetto di
cristiani che in questo luogo vivono e lavorano.
149
Sono una trentina, alcuni sposati, altri no, che abitano
– in tre o quattro – in queste casette tutte uguali allineate
strette strette lungo viottoli in cemento, confinanti con le
alte mura degli stabilimenti. Non c’è ancora un centro pastorale per loro e così, per l’Eucarestia domenicale, ci si ritrova in una stanza.
Un grande letto in legno che domina l’ambiente – servirà per tutti noi fedeli e per i suonatori del tipico organetto bengalese – una piccola credenza con i bicchieri di vetro in bella vista, un tavolino allestito con gusto e finezza –
una tovaglia bianca ricamata a mano, un lumino, un crocifisso, un vaso di fiori freschi – ed ecco pronta una piccola “domus ecclesia”. Padre Gian Paolo indossa una leggera
stola variopinta e inizia la celebrazione. Guardo questi
giovani che – accoccolati con le gambe incrociate accanto
a me su quest’unico lettone – poco prima con grande gioia
ed entusiasmo hanno cantato il loro Alleluja; guardo questo sacerdote, la faccia da guida alpina, che con pacatezza
spiega il Vangelo di oggi.
Parla di Zaccheo. Non comprendo cosa racconta il padre lisciandosi la folta barba nera, ma nella stanza – ne sono sicura – riecheggiano le parole di Gesù: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”.
Questa la missione di p. Gualzetti: radunare le pecore
sperdute e con loro formare un’unica “cordata” attorno alla Parola e al Pane, affinché siano comunità.
Questo da sempre il fulcro che ha trasformato la sua
vita: Gesù Cristo, il Verbo di Dio fatto carne.
Originario di Lecco, classe 1959, dopo il servizio militare cominciò a sentire il desiderio di fare qualcosa di bene per gli altri, desiderio che a poco a poco diventò “voglia
di testimoniare l’amore di Dio, manifestatosi agli uomini
attraverso Suo Figlio”.
Entrò nel Pime con l’idea di andare in missione, però
dovette attendere ben sei anni dopo l’ordinazione sacerdotale prima che il suo sogno potesse realizzarsi, nel 1992.
Destinazione Bangladesh.
«E io che ogni tanto sognavo la vita nei villaggi, eccomi
150
qui alle prese con la grande città», mi dice tornando a
Dhaka per visitare il sottocentro dove opera: Mirpur.
Città satellite vastissima, ha circa due milioni di abitanti e fa parte della municipalità di Dhaka. Quartiere periferico in pieno boom edilizio, ma con baraccopoli ancora ben presenti, dove si riversano le persone provenienti
dai villaggi o di ritorno nel Paese natio dopo un’esperienza
fallita all’estero. Fino a non molto tempo fa una delle aree
malfamate di Dhaka, ora Mirpur ha le sue cento moschee
e le sue sette chiese cristiane (sei protestanti e una cattolica), ha ospedali e cliniche, ha un grandioso stadio per il
gioco del calcio e persino una piscina per le gare di nuoto,
ma anche numerose capanne ammassate tra vicoli malsani. Le famiglie cristiane che ci vivono (almeno quelle finora scoperte) sono circa 350. Sono di tutte le estrazioni e
provengono dalle più svariate località del Bangladesh, ma
soprattutto dal sud: ci sono famiglie ferventi e dotate di
documenti da parte delle loro parrocchie di origine e ci sono famiglie nate da irregolarità matrimoniali. Ci sono uomini soli, con mogli e figli al villaggio e c’è anche qualche
donna sposata con un musulmano.
«Sono tante le situazioni in cui siamo immersi. Molte
persone giungono dalla campagna in cerca di lavoro, altre
provengono dall’estero, dove sono stati magari da clandestini, vendendo quel poco che avevano e indebitandosi.
Rimpatriati a forza, senza aver trovato là alcuna occupazione, con quale faccia possono rientrare nel proprio villaggio d’origine? La periferia della grande città garantisce
l’anonimato che tanto cercano, mentre tentano di rifarsi
una vita in condizioni precarie».
Una missione difficile, dunque, dove ci sono miseria,
arretratezza, emigrazione e mobilità interna, problemi legati all’eccessiva popolazione, all’analfabetismo (il 66%), a
un inizio di industrializzazione che facilmente porta allo
sfruttamento e a una colonizzazione mediatica selvaggia.
In questa zona cominciò a venire p. Gianantonio Baio,
mentre era parroco della chiesa di santa Cristina, anch’essa
parrocchia giovanissima, fondata nel 1990 e affidata al Pime.
151
Da subito p. Baio si diede da fare per strutturare e formare la nuova comunità che contava l’appoggio di un
buon numero di istituti religiosi presenti nella medesima
zona, l’Asad Avenue, non a caso chiamata anche “Vatican
Road”. Ma da buon missionario non si accontentò di chi
già veniva in chiesa e si prodigò a cercare quelle pecore
che erano senza pastore. Così iniziò la piccola comunità
di Mirpur.
La Messa domenicale veniva celebrata, per la sparuta
comunità disseminata nel territorio, al terzo piano di un
deposito per spedizioni – in uno stanzone della cooperativa dei lavoratori di juta, – poi nel refettorio del noviziato
delle suore missionarie dell’Immacolata, finché, radunato
pian piano un discreto numero di cristiani, giunse il momento di costruire assieme una chiesa, segno visibile del
loro essere comunità.
«Se noi saremo fissi, aiuteremo anche loro a stabilizzarsi. Se troveranno un centro dove recarsi, sarà anche
per loro un punto di riferimento in questa caotica città dove non hanno radici e vivono con un gran senso di precarietà e provvisorietà, se sapremo offrire un luogo dove la
catechesi e la liturgia sono belle e gustose, potranno sentirsi a casa, maturando il desiderio di tornare e stare»,
questa l’intuizione che ha spinto i padri del Pime a investire in questa zona di periferia. Ed è stata un’idea vincente.
La posa della prima pietra fu fatta nel giorno della festa di Maria Regina degli Apostoli e questo diventò il nome del nuovo sottocentro.
P. Gian Paolo ricorda ancora bene l’avvenimento: era il
29 maggio 1993.
«Dalla nostra chiesa di santa Cristina, dopo venti minuti di traffico sonoro di Dhaka arrivammo alla casa delle
suore missionarie dell’Immacolata. A piedi ci inoltrammo
nel quartiere di Mirpur. Aperto il recinto della chiesa, non
c’era la banda e neppure le autorità cittadine ad aspettarci, davanti a noi c’era solo un grande prato con una montagna di mattoni rossi e tanta gente. Tutte le maestranze
erano al gran completo con a capo il proprietario dell’im-
152
presa edile. Si diede inizio ai preparativi della posa della
prima pietra. Il nostro Superiore regionale (p. Zanchi) impacchettò in una busta di plastica tre oggetti da incementare nelle fondamenta della nuova chiesa: un rosario, il
documento della chiesa bengalese, la “Nuova Evangelizzazione verso il 2000” e un disegno, Gesù sulla barca. Nei
nostri cuori c’era il desiderio che questa nuova chiesa fosse luogo di preghiera e di incontro con Dio, una sorgente
di evangelizzazione affinché tutti potessero conoscere
quanto è grande l’amore di Dio. La maggioranza dei presenti era musulmana e anche loro si fecero intorno al
profondo buco, ascoltarono le nostre preghiere e vollero
gettare un po’ di cemento. Scattammo le foto di rito e poi
dolci per tutti, dal capomastro allo spaccapietre, offerti
dall’impresario che, da bravo musulmano, ci tenne che i
suoi lavoratori si sentissero come una grande famiglia».
«Sai, – prosegue p. Gualzetti – la sfida delle grandi
città è una delle sfide del nostro tempo per l’evangelizzazione dei popoli. Come Pime in Bangladesh ci stiamo interrogando e riflettiamo su come accogliere questa grande
provocazione.
Mirpur vuole essere un ulteriore passo nella crescita della consapevolezza che non basta costruire una bella chiesa,
ma ciò che conta è formare una comunità aperta agli insegnamenti di Gesù e al soffio del suo Spirito per sapersi
prendere cura del fratello che busserà alle nostre porte».
E così fu.
Questo sottocentro piano piano crebbe, sia di numero
di presenze sia di attività.
«Stiamo puntando molto sulla formazione a tutti i livelli di età (con la catechesi del venerdì) compresi gli adulti (al mercoledì sera) e sulla conoscenza personale visitando le famiglie. L’obiettivo è di formare una comunità capace di aprirsi al bisogno degli altri. Un cammino lungo,
che richiede molta pazienza viste le diverse provenienze e
mentalità della gente, e una giornaliera conversione alla
volontà di Dio. Sono l’unico prete stabile, ma ho la fortuna
di avere vicino due comunità di suore, con annesso novi-
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ziato, una del Pime, l’altra delle Luigine di Alba, che danno una grossa mano. Tra loro c’è suor Golapi (Rosa, in lingua bengalese) che si dedica a tempo pieno alla parrocchia e in particolare alle famiglie. Anche la valtellinese
suor Maria Assunta, essendo sempre reperibile perché
malata, è un validissimo aiuto e punto di riferimento.
Poi c’è il fedele catechista a tempo pieno: Sawpon, discepolo di p. Zanchi ai tempi in cui fondò la nuova missione di Gulta. Papà di famiglia con due bei bambini, è l’unico convertito della sua famiglia, tribù Oraon. Da giovanissimo ha frequentato i nostri ostelli e con perseveranza
ha superato prove e difficoltà, solo dopo tanti anni ha ricevuto il battesimo. Ora mi aiuta nel sottocentro: con lui
mi consiglio e mi confronto; con lui programmo la catechesi del mese, i vari incontri e le visite alle famiglie. È il
mio braccio destro.
Con lui, sfogliando le schede del sottocentro di Mirpur,
nel 1999 ho scoperto che ben 35 famiglie provenivano dalla missione di Narikelbari, nel sud del Bangladesh, diocesi
di Chittagong, missione per sei mesi all’anno nell’acqua.
Con la lista alla mano, quindi, mi sono incamminato per i
sentieri di questa missione – dove era parroco il mio confratello p. Ezio Mascaretti – per visitare i loro parenti, conoscere le loro radici e condizioni di vita. Sono in molti,
specialmente gli uomini e i giovani, che lasciano quelle
terre – dove vivono di pesce durante le piogge, di raccolti
durante la stagione secca – in cerca di lavoro nelle grandi
città. L’accoglienza è stata eccezionale, con p. Ezio ho trascorso delle belle giornate confrontandoci e incoraggiandoci a vicenda sulle nostre attività apostoliche. La visita
ha portato il frutto di una maggiore collaborazione e comunicazione tra noi.
Ha aiutato a comprendere meglio ferite e dolori di questa gente. E ora insieme cerchiamo di toglierli dalla clandestinità, dalle irregolarità familiari, restituendo loro dignità». Per loro si svolgono catechesi e incontri nelle aule
sopra la chiesa, edificio di tre piani simile ad un grande
parallelepipedo che svetta sulle case tutt’attorno.
154
E per “far sentire le persone a casa”, nel retro di questo
sottocentro è stato allestito anche un piccolo ambiente per
l’accoglienza degli ammalati provenienti dalle missioni,
bisognosi di cure speciali negli ospedali di Dhaka.
Hanno bussato alla porta ed è stato loro aperto.
«Chi viene in capitale con un malato è veramente perso e spesso anche maltrattato: dare ospitalità all’ammalato e ai parenti significa dare appoggio e sicurezza.
Il giovane Thomas è l’attento accompagnatore che ben
si destreggia nelle corsie degli ospedali per procurare medicine o il sangue per l’operazione del caso. Il numero degli ospiti è ridotto, abbiamo solo sei letti disponibili, ma a
volte c’è il pienone. Per esempio un mese fa avevamo due
uomini, una donna, due fratelli e sorelle e una mamma
con due bambini. Visto che la loro permanenza si prolungava, per verificare la reazione ad alcuni farmaci e per altri esami, abbiamo organizzato per loro anche qualche attività, in particolare per i bambini che sentivano nostalgia
di casa: visita allo zoo, concorso di pittura e qualche piacevole ricreazione.
Come se non bastasse, recentemente il comitato del
servizio mi ha proposto di riunire tutte le persone della
nostra comunità che sono coinvolte nel settore salute. All’invito hanno risposto più di cinquanta infermiere, operatori sanitari e anche un veterinario. La domanda centrale
dell’incontro era: “Che cosa potete dare alla comunità di
Mirpur e noi cosa possiamo fare per voi?”. Dai diversi interventi emerse che uno dei più grossi problemi per chi si
ammala sono i costi. È veramente una tragedia! Non c’è
nessuna assicurazione sanitaria pubblica e la tendenza comune di molti dottori è di prescrivere molti esami (a volte
inutili) da farsi nel laboratorio da loro raccomandato, di
far comprare medicine all’ultimo grido (costosissime) e di
operare anche quando non c’è bisogno. Perciò a loro abbiamo chiesto di collaborare per evitare abusi e sperperi.
Un aiuto prezioso specialmente per i più poveri. Un altro problema che è emerso è per le infermiere appena diplomate e non sposate. Per loro è difficilissimo trovare
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una casa perché i padroni non affittano volentieri le loro
stanze a due o tre ragazze non sposate. Troppi problemi in
vista, in particolare con i giovanotti che ronzano intorno.
Perciò è nata la proposta di creare un piccolo ostello per
infermiere e studentesse. Speriamo di sapere muovere i
passi del servizio nella logica dell’amore e della gratuità».
Costruire una comunità accogliente e solidale?
Sul territorio c’è una comunità telegu, di origine indiana. Ed ecco che è stata aperta la porta anche a loro. Per
aiutare i bambini ad integrarsi nella scuola bengalese, una
insegnante prepara i più piccoli ad essere ammessi alla
prima elementare senza troppe paure e complessi per la
lingua. Tra di loro c’è anche qualche grandicello che ha
perso il treno precedente per diversi motivi familiari. Gli
scolari sono una ventina, tutti pieni di energia e la nostra
maestra ha un bel da fare, ma i risultati non sono niente
male.
Occorrono strutture? Nonostante retrosie, non si esita
a idearle.
Anche questo è aprire la porta a chi bussa.
«Quando sono arrivato a Mirpur mi dicevo: io qui non
fonderò mai una scuola perché ci sono troppi problemi da
affrontare e poi in questa zona ci sono abbastanza scuole.
I nostri cristiani sono ben serviti. Ma a volte non si fanno i
conti con l’oste. Una scuola cristiana gestita in proprio da
un fratello cattolico dovette chiudere perché non aveva
più soldi per pagare gli insegnanti e l’affitto della casa.
Processione dal padre, prima i genitori, poi gli insegnanti
e infine qualche membro del Consiglio pastorale mi tampinarono perché facessi qualcosa, soprattutto affinché gli
studenti potessero concludere l’anno scolastico. Io risposi
che da solo non potevo far nulla, ma se si formava un comitato si sarebbe potuta valutare la cosa… ed ecco il comitato fu fatto in quattro e quattr’otto.
Ahimè, il Signore mi prese per i capelli e così mi ritrovai anch’io alle prese con orari, stipendi per gli insegnanti,
stemma per la scuola, gessi, affitto da pagare… e chi più
ne ha più ne metta, ma anche questa è missione: le esigen-
156
ze del momento ti indicano la strada da percorrere per
condividere i problemi della tua gente e testimoniare l’amore del Padre.
Avevamo iniziato anche un doposcuola per i ragazzi
disseminati nelle diverse scuole governative o private dei
rioni. Con i nostri giovani, studenti del College, facevamo
il doposcuola ad alcuni ragazzi e ragazze delle elementari. Per le distanze, i diversi orari di scuola e la paura di
qualche incidente sulla strada, il doposcuola era a domicilio con gruppi di due o tre ragazzi. Ai giovani davamo
una paga mensile come contributo ai loro studi, contributo non elevato per stimolarli alla logica del servizio verso
i piccoli. Poi, viste queste diverse attività scolastiche, dopo sette anni di presenza a Mirpur e con l’appoggio del
parere dei miei confratelli, mi sono deciso ad aprire un
cantiere per il bene di questo rione della periferia della
capitale.
Abbiamo pensato ad una costruzione che potesse ospitare la nostra scuola, il doposcuola per i poveri, il corso di
alfabetizzazione per gli adulti, il corso di taglio e cucito
della san Vincenzo, l’ostello per le lavoratrici non sposate
e qualche iniziativa per i giovani (corso di computer, corso
di inglese, opportunità di ritrovarsi e riflettere insieme).
Nel 2003 finalmente abbiamo benedetto la prima pietra della costruzione, sorta di fronte alla nostra chiesa.
Nelle fondamenta abbiamo messo un piccolo crocifisso,
l’immagine del nostro mosaico della Regina degli Apostoli
e l’immaginetta di p. Luigi Pinos. Qui si usa così. Il primo
simbolo è chiaro: Gesù Cristo nostra roccia, è su di Lui
che vogliamo costruire la nostra casa. Il secondo richiama
la presenza di Maria con i dodici apostoli, la sua protezione e la loro unità sono indispensabili per affrontare un’opera così grande. Infine p. Pinos che in vita mi ha incoraggiato a lanciarmi in questa avventura e ora spero che dal
cielo abbia uno sguardo particolare non solo sui lavori ma
soprattutto sulle motivazioni e lo spirito dell’opera».
Anche gli studenti diplomati alla Novara Technical
School di Dinajpur che vengono a Dhaka per la prima vol-
157
ta in cerca di lavoro hanno cominciato a bussare alla porta di Mirpur. Che fare? Viene loro garantito un temporaneo supporto logistico per l’alloggio e il vitto, in modo da
rendere più agevole la permanenza in una metropoli già
problematica per molti altri aspetti.
E se non sono gli emarginati che bussano, li si va a cercare.
Grazie all’attenzione indagatrice del giovane missionario, l’aiuto assume la forma di una benevole piovra dai
mille tentacoli, capace di insinuarsi anche nelle pieghe più
nascoste della vita cittadina e tirar fuori dall’isolamento
chiunque abbia bisogno di solidarietà e affetto.
Così in parrocchia è stato formato anche un piccolo
gruppo di Fede e Luce (sulla scia di Jean Vanier) per handicappati. Una volta all’anno partecipano al pellegrinaggio diocesano, composto da un centinaio di handicappati
con i loro rispettivi genitori e un gruppo di volontari e durante l’anno continuano ad incontrarsi tra loro mensilmente.
«Nella nostra parrocchia abbiamo tredici handicappati, scovati grazie a una fisioterapista di Parma che viene
ogni anno a fare volontariato qui: in questa cultura l’handicap è considerato una maledizione e quindi, anche se un
figlio non viene rigettato, non viene neppure aiutato ad
uscire dalla sua situazione: c’è e sta lì. In un angolo». Ma
p. Gian Paolo, che ancor prima di scoprire la sua vocazione missionaria, a Lecco lavorava presso La Nostra Famiglia come insegnante in un corso professionale per handicappati, non poteva non lasciare emergere questa sua sensibilità e così ha iniziato ad indagare quanti bambini sono
colpiti da handicap, e di quale tipo, come aiutarli e dove
indirizzarli insieme ai loro genitori.
Anche per loro, dunque, si cerca di creare un gruppo
capace di strappare i singoli e le famiglie dall’emarginazione e di offrire un senso di appartenenza. Anche a loro si
è aperta la porta.
Ma quante attività ha in ballo questo affabile missionario dalla tempra montanara?
158
«Mi sono trovato con una cosa nuova tra le mani e ho
aperto tante porte, sto buttando tanti semi, vediamo un
po’ cosa germoglierà. Una cosa è certa: mi piace il mio servizio in tutte le sue sfaccettature, a contatto con le famiglie seguo la loro evoluzione, sento che la vita va avanti,
cammino con loro. Gusto lo Spirito Santo che agisce in loro e mi metto al Suo servizio, attento a chi bussa al mio
cuore.
Non sia mai che mi capiti di non udire il Suo autoinvito: “Oggi devo fermarmi a casa tua”».
159
16. LA FAMIGLIA SI ALLARGA
Dinajpur: casa regionale del Pime.
Non manca proprio nessuno.
È iniziata l’assemblea di tutti i membri del Pime presenti in Bangladesh.
Un’occasione preziosa di ritrovo, di scambio, di ricarica fisica e spirituale.
Sono arrivati da ogni angolo delle quattro diocesi in
cui lavorano ed è subito festa intorno alla tavola imbandita con una grande spaghettata, birra ghiacciata e abbondanza di salumi, introvabili altrove, arrivati da poco dall’Italia insieme a p. Quirico Martinelli.
Tra gli altri c’è p. Gregorio Schiavi, ormai più tribale
che bergamasco, con il suo longhi variopinto, capelli lunghi e sigaretta sempre accesa; c’è il seriosissimo e impeccabile p. Dino Giacominelli, parroco a Bonpara; c’è il mitico ottantenne p. Angelo Canton, ancora in pista nella nuova parrocchia di Fuljana; c’è il missionario-architetto p.
Ezio Mascheretti con p. Arturo Speziale, nel suo abito
bianco da guru – reminiscenza dei tanti anni passati con
gli indù – accanito traduttore e redattore di libri in bengalese; c’è l’asciutto e iperattivo p. Giovanni Beretta e il serafico p. Giancarlo Bozzini, e poi i tanti già incontrati sul loro “posto di lavoro”. Una quarantina di missionari italiani
che, chi da poco, chi da più di mezzo secolo, ha lasciato la
propria città, il proprio paese, a servizio di questa minuscola chiesa bengalese nelle più svariate attività sociali e
pastorali, seguendo la grande fantasia dello Spirito.
Tra loro due preti colombiani, associati al Pime dal
2000.
La famiglia del Pime ha spalancato le braccia a questi
Fidei Donum (preti diocesani a servizio in missione) e li
ha accolti come due dei suoi.
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E loro paiono ben inseriti in questa “combriccola” italiana.
P. Arcila Giraldo Fabio, 54 anni, ciuffo bianco che spicca sulla folta chioma nera, pacato e riflessivo mi racconta:
«Sono stato ordinato sacerdote 15 anni fa e ho cominciato
a lavorare nel seminario che dipende direttamente dalle
Pontificie Opere Missionarie, dove si formano sacerdoti
per le diocesi della Colombia più carenti di clero. Nel seminario diocesano di Sonson-Rio Negro sono rimasto nove anni come professore, direttore spirituale e, negli ultimi cinque anni, come rettore. Grazie al lavoro che svolsi
in quegli anni con i gruppi missionari, crebbe in me lo spirito missionario, così che mi misi a disposizione del vescovo per questa mia prima esperienza diocesana di missione “ad gentes”, ma non mi aspettavo che solo un mese
dopo la presentazione della mia lettera, sarei stato inviato
qui in Bangladesh.
Fin da piccolo avvertivo questa tensione missionaria,
alimentata in famiglia, in parrocchia e poi nel seminario
intermissionario a Bogotá. Ho tanto parlato di missione… non volevo che fosse solo teoria, da qui il desiderio
di farne io stesso esperienza. E il Signore mi ha preso in
parola.
Sai, – mi dice in un buon italiano imparato a Busto Arsizio, in provincia di Varese, dopo essere stato a Detroit a
studiare l’inglese, – l’idea che tutta la diocesi debba sentirsi responsabile dell’evangelizzazione nel mondo e non soltanto nel proprio territorio in Colombia è andata crescendo nel tempo, ma si rese esplicita sotto l’invito del cardinal
Tomko, Prefetto della congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, durante l’ultimo Convegno missionario, tenutosi nel Paraná, in Argentina.
Il cardinal Tomko nel 1999 era in Colombia quando si
riunirono la Conferenza episcopale, le congregazioni e gli
istituti missionari e, ricordando ciò che aveva affermato
Puebla, che cioè “l’America Latina deve dare della sua povertà”, disse che la Colombia stava dando missionari alla
Chiesa, ma non nella misura che avrebbe potuto e dovuto
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dare. Ci stimolò quindi ad essere più generosi. Il nostro
vescovo domandò al card. Tomko dove avrebbe potuto inviare sacerdoti ed egli suggerì il Bangladesh, perché è un
paese che ha molto bisogno di missionari e propose che
ci legassimo al Pime che da tanto tempo lavora in quel
Paese.
Ben 163 preti della nostra diocesi stanno lavorando
fuori, in altre diocesi, sempre in Colombia dove il clero è
più scarso e in altri 17 paesi in progetti di “Chiese sorelle”,
ma finora nessuno era stato mandato in diocesi veramente ad gentes. Quelli che lavorano fuori della Colombia si
trovano quasi tutti in paesi dell’America Latina e alcuni
pure in Europa.
Fino al 1965 la missione era solo prerogativa delle congregazioni e degli istituti religiosi. Nelle parrocchie si facevano solo iniziative e raccolta di denaro per aiutare i
missionari. È a partire dal Concilio Vaticano II che le diocesi hanno preso coscienza del dovere di impegnarsi nella
missione, anche più delle congregazioni e degli istituti
missionari. E ciò lo sta percependo non solo il clero ma
tutta la comunità cristiana».
«Anche per me la partenza per il Bangladesh è stata
una grande sorpresa – interviene p. Lopez Jimenez Luis
Ferney, 31 anni e la faccia da bambino. – Come seminarista feci pastorale fuori Paese, in America Latina, infatti ho
studiato nel seminario missionario dello Spirito Santo,
dove si formano preti sia per le diocesi che hanno pochi
sacerdoti, sia per le diocesi che ne hanno molti, come la
nostra, con l’obiettivo di lavorare un giorno in altre aree
missionarie.
Quindi c’era la mia disponibilità, ma quando si iniziò a
parlare del Bangladesh dentro di me pensai: “Poveracci
quelli che andranno lì!”. Lo stesso giorno della mia ordinazione mi arrivò la proposta di partire…
Per noi l’Estremo Oriente era tutto un mistero, un
mondo lontano mille anni luce.
Ma se prima dicevo: “Poveracci coloro che andranno
là”, ora dico: “Siamo fortunati”. È vero che il Bangladesh è
163
molto più povero della Colombia, è vero che ho lasciato il
poco per trovare il nulla, ma qui sto ricevendo molto di
più di quello che riesco a dare.
Mi sento un privilegiato: stare qui ti cambia la vita e ti
arricchisce culturalmente e spiritualmente. Si apprezza di
più quello che si è lasciato.
Dalla condivisione con i più piccoli e poveri, si impara
la loro fede e religiosità. Ho scoperto Dio Padre come
esperienza propria cristiana (visione lontana ed eresia per
i musulmani) e che tutti gli uomini sono uguali e fratelli
(eresia per gli induisti): è una riscoperta forte della nostra
fede nei confronti di Dio e degli uomini.
Tante cose per noi scontate qui non lo sono più.
Ora capiamo meglio i missionari che stanno da noi:
pensiamo che vivono situazioni molto più difficili rispetto
alla nostra qui (guerriglia, foresta, vita difficile).
Pensate che attualmente in Colombia c’è un bengalese
in missione: Parimal Rozario (lavora a Medellín), interessante no?
La notizia della nostra partenza ha avuto molto impatto
su tutta la diocesi, perché si trattava di un’esperienza rischiosa, difficile, ma c’era anche entusiasmo per questa generosità e disponibilità. Ci sembrava di essere tornati ai primi tempi del cristianesimo, quando tutta la Chiesa era missionaria e inviava senza scrupoli i suoi alle Chiese sorelle».
È p. Fabio che continua dopo una bella forchettata di
pasta: «Siamo convinti che non è un caso il nostro essere
missionari qui in Bangladesh, è Dio che ha provveduto da
molto tempo a spingere l’America Latina fuori dai suoi
confini. E non è stato un caso neppure l’essere venuti qui
con il Pime, Istituto che ha una lunga esperienza di lavoro
di missione ad gentes come missionari diocesani».
Per noi concretamente cosa significava? Cosa comportava? Quali rapporti avere con la propria diocesi, con la
diocesi d’accoglienza, con il clero locale?
Staremo lontani dal nostro paese 6 anni, compreso il
tempo trascorso per imparare le lingue, l’inglese prima, l’italiano e il bengalese dopo. Come Fidei Donum speriamo
164
che questa esperienza abbia continuità e dopo di noi altri
ci sostituiscano (due sono già in Italia per prepararsi a venire qui!).
Il nostro impegno inoltre non si concluderà con il rientro in Colombia: una volta tornati il nostro dovere sarà condividere l’esperienza missionaria vissuta e svolgere animazione missionaria perché davvero tutta la chiesa colombiana si senta corresponsabile dei propri fratelli al di là del globo. Così il nostro servizio non si esaurirà certo in sei anni».
Fabio ha lavorato un anno a Boldipukur come assistente pastorale e ora si trova a Khalisha da due anni insieme a un prete santal, per la pastorale ordinaria in parrocchia e nei 15 villaggi vicini.
Luis è invece a Ruhea – la storica missione del Pime situata all’estremo nord del Bangladesh, parrocchia ora
molto grande, – 115 villaggi su un territorio molto vasto,
seguito da tre preti più nove suore e catechisti. Visitano
tutte le comunità, soprattutto in occasione del Natale e
della Pasqua, e in quegli incontri si amministrano i sacramenti, si discute, si ascolta la gente, mentre per la pastorale parrocchiale c’è un prayer leader che porta avanti le
attività e celebra una para-liturgia la domenica.
Ci sono quindici villaggi catecumeni, un centro con
ostelli, scuole, suore e due sottocentri.
Certo è che per questi latinoamericani il salto non è
stato indifferente.
In Colombia l’85% degli abitanti è cattolico e il resto appartiene ad altre confessioni cristiane, o a varie sette (fenomeno nuovo che si sta sviluppando molto ultimamente).
«È vero – afferma con foga Luis, sgranando gli occhi con
entusiasmo – convivere con persone di altre religioni è un’esperienza completamente nuova e a volte anche faticosa,
ma, dobbiamo riconoscerlo, è molto utile per la nostra fede,
messa a confronto in particolare con l’induismo e l’islam.
E spesso mi stupisce il rispetto e la simpatia che c’è nei
nostri confronti».
Per esempio a Ruhea p. Luis ha vissuto varie esperienze interessanti.
165
Un uomo anziano, un tipico musulmano nel modo di
vestire, di tenere il copricapo e nel seguire le pratiche religiose, si autodefinisce “amico della missione” da decenni.
«A volte viene con me a visitare le comunità cristiane, così
quando capita che mentre siamo in viaggio il muezzin dal
minareto chiama alla preghiera, io fermo la mia moto e gli
do cinque dieci minuti per la sua preghiera rituale e al termine: “Ho finito, possiamo proseguire”, mi dice con tanta
spontaneità. Una volta si è unito a noi per la celebrazione
eucaristica e con pazienza e rispetto si è seduto sulla porta della cappella a guardare.
Il direttore della madrassa (la scuola coranica) vicina alla parrocchia quest’anno ha aiutato la missione a raccogliere fondi per riparare una cappella. È riuscito persino ad ottenerne un po’ dal governo. Un gesto significativo, ti pare?
Un altro nostro amico è il capo della moschea di
Ruhea: ci aiuta molto e anche noi cerchiamo di aiutarlo.
Un venerdì la sua motocicletta era fuori uso e così mi ha
chiesto di accompagnarlo alla moschea per la preghiera
del pomeriggio e lungo la via molte persone, con estrema
naturalezza ci salutavano sia alla musulmana “Assalam
Alaikum Hujur” sia alla cristiana “Jeshu Pronam Father”.
Questi e tanti altri esempi mi dimostrano che il più
delle volte le persone religiose hanno rispetto del diverso,
dell’altro. Anche se non abbiamo l’unica stessa fede, crediamo nell’unico Dio».
Argomento scottante, di questi tempi, il dialogo interreligioso. Si mettono a parlare calorosamente un po’ in inglese, un po’ in bengalese – intercalando l’italiano – con i
commensali di fianco. E la discussione si fa accesa.
P. Livio Prete, che di seminaristi e sacerdoti ne ha visti
passare molti nei suoi lunghi anni di “carriera in vari seminari”, li incoraggia con una bella pacca sulla spalla, e rivolgendosi a me con quella sua tipica espressione che mi
rimanda ai tempi in cui lo conobbi a Monza: “Sono anime
belle”, mi dice. Mi accorgo che non è una frase banale.
Condivido, sono anime belle. E coraggiose, aggiungo io.
166
17. SULLA VIA DEL RITORNO
Dall’oblò dell’aereo che mi riporta a casa lancio un ultimo sguardo a questo “cantuccio della vigna del Signore
tra i più abbandonati” (come venne definito il Bangladesh
dai primi missionari del Pime).
Mi lascio incantare dalla vastità dei campi verdeggianti tra il groviglio di fiumi: un intreccio di speranza e di tragedia, terra vulnerabile e debole ma con una gigantesca
forza interiore che aiuta la gente a ricominciare sempre
da capo, nonostante pericoli, difficoltà, problemi inimmaginabili, lavoro massacrante.
Ripenso ai diversi missionari che ho incontrato e che
qui stanno spendendo la loro vita: tutti, chi in un modo
chi in un altro, con un fiume di parole o mostrandomi
semplicemente il proprio operato, si sono raccontati lasciandomi intuire qualcosa della loro vita, dei loro pensieri, del loro cuore. E io ho raccolto frammenti delle loro
esistenze.
Chi ha ideato un ostello modello, chi una fattoria
esemplare, chi si è messo a progettare cattedrali e santuari, chi ha costruito – oltre la chiesa – piccole abitazioni più
asciutte e sicure. Chi non ha costruito proprio nulla, ma si
è messo a condividere. Tutti si arrangiano in mille modi
per dare sollievo alle persone, nel corpo e nello spirito, nei
villaggi e nelle città, nei dispensari e nelle scuole, nei seminari e nei centri di spiritualità.
Li ringrazio tutti, per il loro esempio, la loro tenacia, la
loro disponibilità, nella consapevolezza che non potrò
scrivere su tutti. E di questo mi rammarico. Perché tutti
avrebbero qualcosa di prezioso e di utile da raccontare,
così come è stato per me.
Come una carrellata scorrono davanti ai miei occhi i
loro volti, le loro storie, la loro calda, semplice – a volte un
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po’ spiccia, ma pur sempre cordiale e sincera – accoglienza, che lascia trasparire quel desiderio di andare subito al
nocciolo, senza troppi fronzoli, senza troppi complimenti.
Ed è così che da sempre ho conosciuto i membri del Pime:
non troppe smancerie, tenaci, cocciuti e caparbi nei loro
obiettivi ma dal cuore grande e appassionato.
Uomini incarnati nel tempo e nella storia, non santi
eterei da altare.
Ognuno con il proprio pallino e le proprie stravaganze,
ma uniti da un’unica passione: l’amore per Dio e per la
gente, soprattutto se povera, emarginata, dimenticata o
sfruttata dai ricchi e dai benpensanti.
E io, che mi trovo ad abitare in terra di Turchia, non
stento ad immaginare e a condividere i loro desideri, le loro passioni, i loro fallimenti e le loro fatiche.
Certo, non ci sono più gli ostacoli di una volta: l’isolamento, la difficoltà di comunicazioni e di spostamenti,
l’incomprensione linguistica, l’inesistenza di comunità
cristiane, di comodità, di cure mediche; ma le sfide sono
sempre quelle. Come parlare di Gesù crocifisso, morto e
risorto, come essere lievito nella pasta, come far incontrare Dio e le persone, come saper vedere e valorizzare l’opera dello Spirito Santo che agisce ovunque e in chiunque,
come far emergere la dignità dei Figli di Dio, in un mondo
alle prese con la sopravvivenza, la corruzione, l’arroganza,
la violenza.
E poi sfide nuove: come mettersi da parte ma nello stesso tempo accompagnare e sostenere con discrezione e vicinanza la Chiesa locale, ancora molto giovane, che comincia
a camminare da sola; come aprirsi a nuove attività per incontrare il diverso, il lontano e annunciare il Dio di Gesù.
Come rapportarsi con la gente della città, la gente colta, la gente – la maggior parte – che ancora non conosce il
Vangelo.
La missione in Bangladesh, dunque, dopo centocinquant’anni, continua.
L’aereo ormai è in alta quota. Mentre il grande schermo in cabina manda immagini surreali di un tipico film
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americano – villa con piscina, biondona accattivante, bellone abbronzato – e mi risucchia lontano verso valori artificiali e bisogni indotti, le case laggiù sono impercettibili,
piccoli agglomerati in un’immensità verde. Anche quel
brulicare frenetico di 140 milioni di bengalesi si fa invisibile, puntini che perdono consistenza. Svaniti di colpo ai
miei occhi, quasi non fossero mai esistiti. Basta un istante
per dimenticarli, nuovamente immersa nella mia esistenza, nelle mie preoccupazioni. Ma non è così agli occhi di
Dio. E dei suoi discepoli che, ascoltandolo, sono venuti fin
quaggiù a prendersi cura – appassionandosi – proprio di
questo popolo.
Grazie a tutti loro.
Grazie perché mi ricordano che la vita non è solo arrivismo e ricerca del benessere personale.
“Come sono belli i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia
la salvezza”, scrive Isaia.
Piedi forti ed energici, piedi stanchi e affaticati, piedi
giovani e scattanti, piedi lenti e gonfi, piedi che camminano e che pedalano, che inciampano e saltellano, tentennano e vanno spediti, piedi in movimento sotto il sole e sotto
la pioggia.
Grazie perché da centocinquant’anni ci sono piedi che
camminano lungo i sentieri – fangosi o polverosi che siano – della vita.
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18. DAL BANGLADESH ALLA COSTA D’AVORIO
I suoi confratelli del Pime missionari in Bangladesh li
ho visti nei loro luoghi di missione e lui, che è bengalese,
l’ho dovuto incontrare a Monza.
Perché p. Gabriel Costa, 44 anni, nato nei dintorni di
Dhaka, da 8 anni missionario del Pime, attualmente è vice
rettore ed economo nel seminario di questo Istituto, in
Italia.
Mi riceve in parlatorio, alle spalle un bellissimo enorme quadro-icona dipinto dal missionario del Pime p. Fulvio Giuliano. Rappresenta la Pentecoste, ambientata in
Africa. Mi colpisce l’esplosione dei colori degli uccelli variopinti, dei vestiti dei personaggi, del paesaggio e degli
strumenti musicali. Mette gioia nel cuore, così come deve
essere stato quel giorno a Gerusalemme: la discesa dello
Spirito Santo ha invaso i cuori, ha messo le ali alla Parola,
ha dato agli apostoli il coraggio di uscire ad annunciare la
Buona Novella fino agli estremi confini della terra. E da
allora i missionari hanno viaggiato. Senza tregua. Penso
che questa immagine ben si addice a padre Gabriel. Anche
il suo cuore è stato conquistato, colpito dal desiderio e
dall’urgenza di partire per evangelizzare.
Solare, sorridente, colletto da sacerdote e crocetta appuntata sul cardigan blu, come si addice al suo ruolo, ma
spontaneo e semplice, come i sandali che indossa senza
calze pur nell’ormai freddo autunnale.
Nato il 1° gennaio 1961 a Rangamatia, un villaggio alla
periferia di Dhaka, penultimo di cinque fratelli e due sorelle, figlio di contadini, da subito ha imparato cosa vuol
dire darsi da fare per vivere.
Famiglia non certo ricca, ma forte nella fede e piena di
buona volontà e di speranza, pur avendo tanti figli, i suoi
genitori hanno trasmesso il valore dell’istruzione e della
171
cultura, tanto che, nonostante i pesanti sacrifici da affrontare, hanno mandato tutti a studiare: sia maschi che femmine fino ad ottenere almeno un diploma. Certo è che per
questo, fin da piccoli, tutti hanno imparato a dare una
mano nei lavori.
«Dalla terza elementare, appena terminata la scuola –
mi racconta in un italiano perfetto p. Gabriel, ridendo di
gusto – io andavo a pascolare le mucche, cercavo l’erba e
aiutavo la mamma a casa. Però, pur lavorando, mamma e
papà erano molto esigenti con noi nello studio e dovevamo essere tra i primi della classe e ci riuscivamo anche.
Per questo motivo, da bambino non ho mai avuto tempo
per giocare… quasi non so neanche cosa voglia dire, ma
non mi dispiaceva, il mio vero divertimento era cercare
l’erba migliore per le mucche e riuscire bene a scuola!
Posso dire di essermi divertito a lavorare con i miei genitori e con i miei fratelli e sorelle».
E anche la fede gli è stata comunicata per “contagio”:
«La prima vera educazione cristiana l’ho ricevuta dai miei
genitori, – prosegue orgoglioso, e ci tiene a precisare –
ogni sera con loro recitavamo il rosario e leggevamo un
brano della Bibbia. Senza un motivo serio, nessuno poteva mancare alla preghiera serale, altrimenti si saltava la
cena.
Così, prima di iniziare il catechismo avevo già imparato tutte le preghiere della Chiesa cattolica, conoscevo tanti episodi dell’Antico Testamento e tanti brani del Vangelo.
Conoscevo anche diverse vite dei santi. Siccome a casa
mia non c’era né la televisione né la corrente elettrica, la
sera il papà e la mamma ci raccontavano le storie della
Bibbia e dei santi e noi ascoltavamo a bocca aperta, incantati.
Casa mia è abbastanza vicina alla parrocchia e così,
ogni mattina alle 6, prima di andare a scuola, andavo a
Messa con la mamma a fare il chierichetto. Sono stati i
miei genitori i modelli della vita cristiana e la mia fede è
maturata camminando insieme a loro, alle maestre della
scuola, alle suore e al parroco. Tutto ciò mi ha portato ad
172
avere una sensibilità religiosa che mi spinse ad entrare nel
seminario minore diocesano».
Ottenuto il diploma liceale, decide però di uscire per
continuare gli studi universitari, e così si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio presso l’Università di
Dhaka.
«Lì ho incontrato compagni di altre religioni e ho cominciato a dover dar ragione della mia fede, poiché il mio
cognome di lingua portoghese tradiva le mie origini. Ma
io non me ne vergognavo e anche il crocifisso portato al
collo destava curiosità e stupore, nonché una serie di domande. Con alcuni miei compagni d’università ho trascorso momenti molto belli e intessuto rapporti profondi. Ho
ancora adesso un bel ricordo di quegli anni.
Dopo la laurea – avevo allora 28/29 anni – ho trovato
lavoro in una Ong per l’assistenza e lo sviluppo delle classi
più povere, analizzavo e verificavo progetti locali. Questo
mi ha dato la possibilità di visitare diverse zone del Bangladesh, prendendo contatto anche con le missioni del Pime, e rimasi colpito da questi stranieri disposti a spendere
la loro vita in zone sperdute e difficili (come per esempio
padre Corba)».
Una vita piena, dunque. A questa si aggiunse il desiderio di metter su famiglia: aveva già preso contatti con i genitori della sua fidanzata, quando cominciò a sentire che
avrebbe “perso” qualcosa. Insistente tornò il desiderio di
spendersi per il Signore attraverso il sacerdozio e la missionarietà.
La molla fu un poster appeso in parrocchia: dei giovani che guardano il futuro, con la frase di san Paolo ai Corinzi, “Guai a me se non predicassi il Vangelo”. Sembrava
che quella frase fosse per lui. Rimase scosso profondamente: il mondo ha ancora bisogno di missionari.
Entrò in crisi: da una parte capiva sempre più nitidamente che il Signore gli chiedeva qualcosa di particolare,
dall’altra gli piaceva tanto il suo lavoro, la sua famiglia, i
suoi amici e l’impegno sociale che aveva.
Dopo una lunga lotta interiore vinse il Signore.
173
«Chiesi consiglio al mio vescovo, Michele Rozario, –
racconta serio p. Gabriel – che rimase stupito di questa
chiamata: “Va bene sacerdote, ma perché missionario?
Noi abbiamo bisogno di missionari e tu vuoi lasciare il
Bangladesh?”, mi obiettò.
Eppure mi venne da rispondere: “Sono passati 400 anni da quando siamo stati evangelizzati dagli europei, è ora
che usciamo e anche noi andiamo agli altri: perché io che
sono bengalese non posso andare a condividere la mia fede con chi ancora non la conosce?”.
Era proprio questo quello che mi piaceva del Pime:
ognuno lascia il proprio Paese d’origine per evangelizzare,
anch’io desideravo andare “dall’altra parte del mondo” ad
annunciare Gesù.
E pensare che il Pime all’inizio non voleva accettarmi,
sostenendo che era un istituto solo per italiani e in effetti a
quei tempi non c’erano stranieri tra i suoi seminaristi e
non prendeva vocazioni missionarie dai luoghi dove si trovava in missione.
Fu la mia insistenza e la conoscenza che avevano di me
i padri (“Se è disposto a lasciare il lavoro che gli piace e gli
dà soddisfazione, nonché l’elevato stipendio che ha, la vocazione è genuina”, si dicevano) a convincere i superiori
del Pime in Italia ad aprirsi e ad avviare anche attraverso
di me il processo di piena internazionalizzazione dell’Istituto e concretizzare una riflessione già in atto. Una nuova
epoca, dunque, e una nuova sfida, iniziava anche per questo Istituto missionario.
Non esistevano seminari “pimini” in Bangladesh e così
gli studi dovetti farli in Italia, lasciando il lavoro, la famiglia, il paese, tutto.
L’inizio è stato molto difficile. Tutto era nuovo. Tra i 50
seminaristi, solo io e un cinese, Giovanni Ding, eravamo
stranieri. Pensa che non conoscendo l’italiano non potevamo comunicare neanche tra noi».
Inizi molto duri, insomma. Arrivò nell’estate del 1991
in piena vacanza, quando il seminario era ancora deserto,
abitato solo da alcuni padri anziani. Non sapeva dove e
174
come muoversi, gli sembrava di essere in una gabbia. Una
settimana dopo era già deciso a tornare a casa.
«Davvero, “qui la vita è troppo difficile, non ce la farò
mai”, mi dicevo. “Non voglio soffrire così per tutta la mia
vita”. Mi sentivo così triste e in crisi che non riuscivo neppure a pregare. Mi ripetevo solo che avevo sbagliato tutto.
Invocai il Signore che mi aiutasse a capire. Un padre missionario amico mi invitò a non avere fretta, ad aspettare e
così decisi di darmi tempo qualche mese. Allora, per imparare la lingua e la cultura italiana, con tanta pazienza
ed umiltà, pur con una laurea in tasca, tornai bambino. E
ora sono contento di non essere scappato via subito. Le
difficoltà e le sofferenze sono state preziose occasioni di
crescita. Se non fosse stata la mia strada sarei già crollato
tante volte. Finora ho visto che il Signore mi ha aiutato
tanto: di fronte alla mia piccolezza, sento la grazia e la forza di Dio, attraverso l’aiuto delle persone – che mi hanno
voluto bene, – dai formatori agli altri seminaristi, dai parroci alle famiglie e ai giovani delle varie parrocchie dove
prestai servizio come seminarista e diacono.
C’è stata in particolare una famiglia che mi ha aiutato
molto».
È Alfonso Siniscalchi a ricordarlo sulle pagine di «Missionari del Pime»: «Nell’ottobre 1991 feci visita ad un carissimo amico: padre Enrico Viganò, missionario del Pime
in Bangladesh e nativo di Caronno Pertusella (Va), il mio
paese. Mi presentò Gabriel, spiegandomi che era un giovane seminarista presso il Pime di Monza. Mi raccomandò
vivamente di andare a trovarlo per scambiare quattro
chiacchiere con lui e tirarlo su di morale. Da allora abbiamo intessuto un buon rapporto e aver conosciuto Gabriel
è stato un grande dono. Io lo considero come un fratello».
Pacato, umile, ottimista, Gabriel non fa fatica a conquistarsi la simpatia degli altri. Anche i suoi compagni gli diventano amici e lo aiutano a studiare, soprattutto filosofia:
materia ostica sia per i nuovi concetti che per la lingua.
Nel 1997 viene ordinato sacerdote in Bangladesh. A
Dhaka il 24 ottobre è grande festa, e i più commossi sem-
175
brano proprio i missionari del Pime. Un grande traguardo, ma anche un nuovo inizio.
Finalmente la destinazione: Costa d’Avorio, paese africano con una percentuale del 27% di cristiani (cattolici e
protestanti) in un mondo animista e musulmano.
Già prima di essere prete p. Costa aveva fatto un’esperienza di missione di due mesi in Costa d’Avorio. Fu un’esperienza molto forte. «Avevo tanta paura dell’Africa, per
l’idea che mi ero fatto fin da bambino: foreste, malattie…
e così all’inizio stavo molto attento a quello che mangiavo,
bevevo… ma poi l’accoglienza della gente fece scomparire
i miei timori.
Così quando tornai lì nel 1998 ero già preparato, pronto a scendere in campo a M’Bahiakro, nella diocesi di
Bouakè, città a 380 chilometri dalla capitale. La mia era
una missione molto vasta (su un territorio di 55 villaggi),
dinamica e piena di attività, svolte soprattutto su tre settori: la pastorale ordinaria per bambini, giovani e adulti, la
formazione dei catechisti, la promozione umana, soprattutto in campo sanitario. Inoltre, in questi ultimi anni venne curata con particolare attenzione la formazione dei
giovani, mediante la creazione di centri di aggregazione e
biblioteche.
Più tardi, si creò una situazione molto difficile perché
scoppiò la guerra civile, eppure ho vissuto molto la condivisione con la gente.
Ho trovato un campo molto aperto e fecondo, grande
soddisfazione e gratitudine. Venendo dal Bangladesh, non
rimasi colpito dalla povertà, anzi, la terra in Costa d’Avorio è ricca e dà molto, la gente non muore di fame, di cibo
se ne trova, ma è la mancanza di medicinali e di soldi il
problema più grave. Anche la vita amorale mi stupì e sentii il bisogno di aiutare le coppie a sentirsi famiglia e a
educare i propri figli.
Ho contattato la malaria diverse volte, tanto che l’ultima volta sono stato persino ricoverato in ospedale alcuni
giorni con la flebo: ho scoperto la solidarietà della gente,
la loro premura e attenzione: non ci si sente mai soli.
176
Posso dire che durante i miei anni in Costa d’Avorio mi
sono divertito molto. Ho iniziato una coltivazione di patate, per creare un fondo comune con i catechisti della ventina di villaggi che seguivo. Immaginati 80 giovani, alti e
ben piazzati: io mi divertivo a vederli lavorare insieme, superando così concretamente le varie tensioni tra i villaggi.
Anche nell’aiutare i profughi durante la guerra c’è stata
molta solidarietà tra i laici. Mi ha colpito la loro gratuità e
la stretta collaborazione con noi.
Eppure, sai – si fa serio – durante la guerra civile abbiamo vissuto momenti terribili.
Sono bastate poche settimane per distruggere e smembrare un Paese che fino a pochi anni prima veniva chiamato
la “Svizzera dell’Africa occidentale”, uno dei più stabili ed
economicamente avanzati paesi del continente africano».
Inizia a raccontare e mi sembra di riascoltare quanto i
suoi confratelli hanno vissuto proprio nella sua patria decenni prima. La vita davvero è un grande mistero.
«Fin dal principio abbiamo assistito ad un esodo in
piena regola, abbiamo partecipato al dramma di un intero
popolo distrutto dalla guerra. Come potevamo restare a
guardare? Quello che abbiamo visto ci ha costretti a diventare protagonisti e a giocare un ruolo di primo piano
nella crisi della Costa d’Avorio. Abbiamo aperto la nostra
missione a tutti: donne, bambini, uomini, vecchi, intere
famiglie. Disperati che avevano lasciato tutto alle spalle:
casa, lavoro e anche qualcuno della famiglia. Ogni giorno
circa sette-ottocento persone bussavano alla nostra porta,
chiedendo cibo e un posto per dormire. A tutti abbiamo
garantito per mesi tre pasti al giorno e un posto dove riposare. Solo nella nostra missione abbiamo accolto circa
venticinquemila persone.
Abbiamo inoltre aperto un dispensario perché l’ospedale era chiuso (tutto il personale era fuggito) e così abbiamo curato quasi settemila malati.
Abbiamo corso anche dei rischi, soprattutto quando
andavamo in giro con furgoni e autobus noleggiati per recuperare le persone rimaste vittime della guerra.
177
Per fare tutto ciò eravamo ben organizzati: con i giovani della missione avevamo formato un gruppo di volontari
che lavoravano molto e bene nell’accoglienza, in cucina,
nel dispensario.
Questa guerra ci ha dato tanto lavoro, però è diventata
un’occasione di grande testimonianza davanti ai non cristiani. I profughi, arrivando da noi e sentendosi accolti dicevano: “Questa è la vera casa di Dio, dove c’è posto per
tutti”.
Quando nel 2003 sono stato richiamato in Italia, il Paese era ancora in guerra, eravamo in tre in missione ed eravamo molto affiatati tra di noi, si lavorava bene insieme,
io seguivo i catechisti di venti villaggi e loro erano molto
dispiaciuti per la mia partenza: ero diventato per loro padre, fratello, amico. In segno di gratitudine per quello che
ho fatto per loro, mi hanno regalato una delle loro tipiche
sedie in legno massiccio: “Tu ti sei seduto con noi, ci hai
accolto e dato consigli saggi”, mi hanno spiegato. Mi sono
commosso. Lo stesso vescovo mi ha lasciato venir via a
malincuore.
Nella gioia e nel dolore ho cercato di condividere la loro vita e loro hanno capito che ero lì per loro, per amarli e
per camminare insieme.
Ho sempre cercato di vivere con gioia e serenità, sforzandomi di trasmettere questa gioia agli altri.
Il momento di comunione più forte lo vivevamo nella
preghiera insieme e la preghiera è sempre stata la mia forza. Ancor oggi di fronte a difficoltà e sofferenze prego il
Signore perché faccia ardere ancor di più il mio cuore purificandolo, perché possa essere sempre fedele al sì che ho
pronunciato una volta per sempre.
Qui ora è ricominciata la fatica: là ero sempre impegnatissimo, sempre fuori nei villaggi e adesso qui che faccio? Sto in seminario, come vice rettore ed economo… eppure, mi dico, anche questa è missione: aiutare i seminaristi – italiani e non – a prepararsi ad essere buoni missionari, ovunque andranno».
Mi fissa negli occhi, e poi la sua bocca si apre in un sor-
178
riso smagliante che spicca ancor di più sulla sua carnagione scura: «Già due anni sono passati, ancora quattro, se
tutto va bene, e poi tornerò tra i miei amici africani». Mi
sembra di sentire il canto degli uccelli e il suono della korà
(l’arpa-liuto africana) provenienti dal quadro sulla parete.
Un richiamo forte.
Chi ha nel cuore il fuoco della missione, difficilmente
riesce a “stare fermo”.
179
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Libri
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Centro Libri – Punto d’Incontro, Varallo, 1993
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Gallina, Pro Manoscritto, Meda, 2003
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Bangladesh, PIME, Pozzuoli (Na), 1993
GHEDDO PIERO, Cesare Pesce, una vita in Bengala, EMI, Bologna, 2004
L’IMPERIO ADOLFO, Lettere dal Bangladesh, Pro Manoscritto,
Formia (Lt), 2000
PESCE CESARE, Strade della vita, Cooperativa editoriale Oltrepò, Novi Ligure, 1989
PINOS LUIGI, Catholic Beginnings in North Bengal, PIME,
Dhaka, 1994
PINOS LUIGI, Il mercato delle stelle, EMI, Bologna, 2000
TRAGELLA GIOVANNI B., Le Missioni Estere di Milano, vol. I –
II – III, PIME, Milano, 1950 – 1959 – 1963
ZAMBON MARIAGRAZIA, A causa di Gesù, EMI, Bologna, 1994
Articoli
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1990, pp. 675-694
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BERETTA ROBERTO, “L’oro del Bangla”, Mondo e Missione,
marzo 1989, servizio speciale, pp. 171-190
BOCCIA ACHILLE, “Bogra: una missione diversa”, InforPime,
gennaio 2000, pp. 35-40
BORDIGNON SANDRO, “Bangladesh: la Chiesa a servizio dello
sviluppo”, Mondo e Missione, ottobre 1984, pp. 523528
CALANCHI CARLO, “Nozze d’oro”, InforPime, luglio 2002, pp.
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CALEGARI FABRIZIO, “Il riso moltiplicato”, Missionari del Pime, aprile 2005, p. 1
CAVAGNA GIUSEPPE, “Missionari dell’Istituto: p. Francesco
Rocca”, Vincolo, n. 130 –1980, pp. 150-153
COLOMBO GUGLIELMO, “Santal e attività Pime in Bangladesh”,
InforPime, novembre 1982, pp. 44-50
CORBA ENZO, “Centro di spiritualità di Singra”, InforPime,
ottobre 2004, pp. 17-19
GARUTI ALBERTO, “Associati al PIME della Colombia per il
Bangladesh”, InforPime, settembre 2000, pp. 53-57
GHEDDO PIERO, “Testimonianze di Missionari dal Bangla
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GHEDDO PIERO - BORDIGNON SANDRO, “I miei 44 anni di missione in Bengala”, Mondo e Missione, ottobre 1974, servizio speciale, pp. 501-522
POLITI GIANCARLO - SANDIONIGI GIAMPIERO, “Qui Bangladesh, la
tbc uccide più dell’Aids”, Mondo e Missione, gennaio
1996, pp. 52-54
ROSARIO JOACHIM, “Presenza e testimonianza dei cristiani tra
i musulmani del Bangladesh”, InforPime, dicembre
1985, pp. 15-21
SANDIONIGI GIAMPIERO, “L’inviato speciale”, Mondo e Missione, febbraio 1993, p. 117
182
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ZAMBON MARIAGRAZIA, “Pietre miliari”, Missionari del Pime,
gennaio 2000, p. 6
Siti web
www.atma-o-jibon.org
www.pime.org
http://xoomer.virgilio.it/bguizzi/bangladesh
183
INDICE
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Introduzione (p. Francesco Rapacioli) . . . . . . »
5
7
1. Vita da pionieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I primi missionari . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
»
11
20
2. Dopo gli anni Cinquanta . . . . . . . . . . . . . .
Un confine tracciato in fretta . . . . . . . . . . .
»
»
21
28
3. Martire per amore . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
31
4. Ricostruzione umana e spirituale . . . . . .
Diocesi di Dinajpur . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
»
39
48
5. Impegno educativo negli ostelli . . . . . . . .
»
53
6. Impegno sanitario a Rajshahi . . . . . . . . .
Arrivo e presenza delle suore in Bangladesh
»
»
63
71
7. Scuole e case per i tribali . . . . . . . . . . . . .
Nascita della diocesi di Rajshahi . . . . . . . .
»
»
75
83
8. La Novara Technical School . . . . . . . . . . .
»
85
9. Le cooperative di credito . . . . . . . . . . . . .
Le minoranze etniche in Bangladesh . . . . .
»
»
95
102
10. Casa di spiritualità a Bogra . . . . . . . . . . .
Seguaci di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
»
105
112
11. Dialogo come condivisione di vita . . . . . .
»
115
12. Straniero tra gli stranieri . . . . . . . . . . . . .
Paese d’acqua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
»
123
131
13. A servizio del clero locale . . . . . . . . . . . . .
»
133
185
14. Carriera al contrario . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Una Chiesa piccola ma varia . . . . . . . . . . . »
139
147
15. Pastorale cittadina . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
149
16. La famiglia si allarga . . . . . . . . . . . . . . . .
»
161
17. Sulla via del ritorno . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
167
18. Dal Bangladesh alla Costa d’Avorio . . . . .
»
171
Note bibliografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
181
186
PIERO GHEDDO
CESARE PESCE
1919-2002
Una vita in Bengala
Quando la Santa Sede mandò i missionari del PIME in Bengala
(1855) quel territorio dell’India veniva definito dai colonizzatori
inglesi “la tomba dell’uomo bianco”. Oggi non è più così, ma vivere
in Bengala (Bangladesh) non è facile.
Eppure padre Cesare Pesce, originario di Novi Ligure, vi arriva nel
1948 e vi rimane fino al 2002, anno della sua morte: 54 anni spesi per
il popolo bengalese con la gioia nel cuore, nonostante le difficoltà e
le sofferenze patite. Durante una vacanza in Italia, alla domanda se si
stia meglio qui o in Bangladesh, risponde: “La mia vita è laggiù, dove
ho piantato la mia vocazione e dove il sacerdozio assume dimensioni
così sconfinate che non saprei concepirlo né più bello, né più entusiasmante”. Sempre vivace, appassionato e innamorato di Gesù
Cristo, ha speso la vita in un popolo fra i più poveri della terra, ma
anche fra i più cordiali, geniali, simpatici.
Ha dimenticato se stesso e si è dato tutto agli altri; e nel vangelo chi
fa così “riceverà cento volte di più e in eredità la vita eterna” (Mt
19,29).
La sua biografia non ha nulla di strabiliante, ma proprio per questo
dimostra la grandezza e la bellezza della vocazione missionaria.
Cesare, sempre sereno, realizzato, ha avuto una bella vita. Come gli
eroi della fede, con le loro avventure più affascinanti di un romanzo
di fantasia.
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MARK ARDENBURG
LA FIRMA DEL
CAMBIAMENTO
L’attività della Grameen Bank
Il Bangladesh, con i suoi 120 milioni di abitanti, è uno dei paesi più
popolati del mondo. La maggioranza della popolazione, a prevalenza
islamica, vive nelle campagne. Benché i terreni siano molto fertili,
l’85% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà a
causa dell’elevata densità umana e dei frequenti disastri naturali.
Il professor Muhammad Yunus fonda nel 1983 la Grameen Bank, che
presta i soldi unicamente ai poveri e ai senzaterra. Nonostante l’ostilità dell’ambiente islamico e la diffidenza dei ricchi, oggi la banca
opera in 35.000 villaggi con più di 2 milioni di prestiti, il 94% dei
quali sono concessi alle donne. Attualmente la Grameen Bank opera
in oltre 40 paesi. Sulla Grameen Bank EMI ha pubblicato anche il
Denaro della speranza.
Premi e riconoscimenti: Presentato all’Amnesty International Film
Festival 1998.
Produzione: Movie Trons, Olanda - Versione: inglese/bengali, sottotitoli e commento in italiano.
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LUIGI PINOS
IL MERCATO
DELLE STELLE
52 anni in Bangladesh
Il fascino di queste pagine sta nel fatto che raccontano la
vita. Quella di padre Luigi Pinos, missionario del Pime, in
primo luogo, ma soprattutto del suo popolo bengalese.
In questo libro è racchiusa l’avventura di un missionario
che ha trascorso 52 anni in Bangladesh e il panorama di
quella Chiesa e di quel paese.
Padre Pinos, in questo testo che è quasi un’autobiografia,
racconta semplicemente la vita sua e del suo popolo, da
cui discendono molti insegnamenti.
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PIERO GHEDDO (a cura)
CLEMENTE VISMARA
IL SANTO DEI BAMBINI
Padre Clemente Vismara (1897-1988), missionario in Birmania per 65
anni, nella sua missione viveva con 200-250 orfanelli e orfanelle. Nel
1996 è stata iniziata la sua causa di canonizzazione. La Chiesa di
Birmania già lo invoca il “Santo dei bambini”. Questo libro offre una raccolta di 40 suoi articoli sui bambini e ragazzi, che mettono in risalto il suo
metodo educativo: per educare bisogna amare il bambino, rispettarlo
nelle sue libere scelte, nella sua maturazione psicologica e nel cammino
di fede. Bisogna dargli buoni esempi e grandi ideali di vita, ma poi
lasciarlo libero di realizzarli a modo suo.
“Il Santo dei bambini” può insegnare qualcosa anche a noi, poiché come
educare i minori è senza dubbio uno degli interrogativi più ardui e difficoltosi del nostro tempo.
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ALFREDO CREMONESI (1902-1953)
Un martire per il nostro tempo
A cinquant’anni dal martirio, ricordiamo padre Alfredo Cremonesi, missionario del Pime in Birmania (Myanmar), “Martire del nostro tempo”
perché era un missionario santo. Moderno e autentico. Il martirio è stato
il dono di Dio a un uomo che era già tutto suo: preghiera, mortificazioni,
donazione totale al prossimo più povero e abbandonato. I santi non invecchiano mai.
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GIANNI CRIVELLER
MASCHERE E VOLTI
DELLA CINA DI OGGI
Taiwan, Hong Kong e Cina continentale nel
loro incontro con l’Occidente e il cristianesimo
La “Grande Cina” è composta da Taiwan, Hong Kong e Cina Popolare.
Complesse vicende politiche le hanno tenute separate per oltre cent’anni,
causando gravi diversità sociali, culturali, economiche e religiose.
Diversità che qui vengono descritte attraverso l’esperienza personale dell’autore e le testimonianze di molte persone convertite al cristianesimo.
Un libro sull’attualità della cultura e della politica, della religione e dell’evangelizzazione nella Cina di oggi...
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SEBASTIANO D’AMBRA
TESTIMONE DEL DIALOGO
Salvatore Carzedda missionario martire nelle Filippine
«Le altre religioni costituiscono una sfida positiva per la Chiesa... il movimento per il dialogo Silsilah mette in evidenza questo concetto incoraggiando i cristiani a diventare cristiani migliori e i musulmani a diventare
musulmani migliori, entrambi più impegnati con le loro rispettive fedi.
Questo significa che, mentre entrano con apertura in dialogo con i seguaci
di altre tradizioni religiose, i cristiani devono permettere a se stessi di essere messi in discussione e nello stesso tempo di mettere in discussione i contenuti di altri credi con spirito pacifico, in speranza e amore».
Padre Salvatore Carzedda
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