Le proposte teoriche per la gestione del siste- ma di

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Le proposte teoriche per la gestione del siste- ma di
Proposte teoriche per la gestione del sistema di controllo interno
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Capitolo 1
Le proposte teoriche per la gestione del sistema di controllo interno
Stefano Garzella, Daniela Mancini, Luigi Moschera 1
1.1. Percorsi scientifici per l’interpretazione dei processi di outsourcing del sistema di controllo
interno. – 1.1.1. La gestione del controllo interno e le teorie organizzative. – 1.1.2. Il controllo interno e la gestione strategica dell’azienda. – 1.1.3. La gestione del controllo interno e
le relazioni tra aziende. – 1.1.3.1. Dalla coesistenza al coordinamento, alla collaborazione. –
1.2. La posizione degli internal auditor. – 1.3. La metodologia della ricerca.
1.1. Percorsi scientifici per l’interpretazione dei processi di outsourcing
del sistema di controllo interno
L’obiettivo prioritario di questo lavoro di ricerca è di investigare le modalità
organizzative adottate dalle aziende per la gestione (progettazione, implementazione, funzionamento, monitoraggio e sviluppo) del sistema di controllo interno. Il processo finalizzato a presidiare, in azienda, il sistema di controllo interno è quello di audit. Pertanto questa ricerca mira, in particolare, ad indagare
le ragioni e le determinanti della scelta di gestire il servizio di audit internamente, cioè facendo leva sulle risorse “di proprietà”, o esternamente, cioè mediante
il supporto di una società di consulenza o di revisione, oppure mediante forme
di collaborazione.
Operativamente i servizi di audit possono essere organizzati in diversi modi.
Da un lato, è possibile ricorrere al mercato e acquistare tali servizi contro il pagamento di un compenso, generalmente commisurato al tempo e all’impegno
richiesto dalle verifiche da svolgere. Tale modalità organizzativa viene, utilizza1 Pur essendo frutto delle riflessioni congiunte degli autori, S. Garzella è autore del par.
1.1.2; D. Mancini dei parr. 1.1, 1.1.3, 1.2, 1.3; L. Moschera del par. 1.1.1.
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ta per la revisione contabile, dato che esiste un obbligo di legge che impone alle
aziende di rivolgersi alle società di revisione per l’espressione di un giudizio
qualificato sul bilancio di esercizio. In contrapposizione l’azienda può utilizzare
una struttura interna per sviluppare le attività di audit che ritiene significative,
di anno in anno, sulla base del piano di audit concordato tra il responsabile di
funzione e il Comitato di audit. Normalmente i revisori esterni possono avvalersi della collaborazione dei revisori interni. Tra queste due posizioni estreme
(mercato e gerarchia) si colloca una terza soluzione, l’outsourcing 2, che consiste
nell’affidare ad una società esterna tutta la gestione dei processi di audit, fermo
restando la destinazione alle società di revisione dell’audit finalizzato alla certificazione del bilancio. Nella realtà la società di audit può essere una società indipendente, oppure una azienda appositamente creata che gestisce, a favore di
un gruppo di aziende, i servizi di audit.
Nello specifico, però, un’azienda può combinare risorse esterne con risorse
interne in modi diversi, dando vita a forme organizzative che presentano un
differente grado di intensità di outsourcing (IIA, 2005):
a) outsourcing totale quando il 100 per cento dei servizi di internal auditing
sono ottenuti da fonti esterne normalmente su base continuativa, in tal caso il
responsabile della funzione è un dipendente della società di consulenza;
b) outsourcing parziale quando meno del 100 per cento dei servizi di audit interno sono ottenuti da fonti esterne normalmente su base continuativa;
c) co-sourcing quando le risorse esterne e lo staff interno di audit partecipano
congiuntamente all’attività di audit, tale impegno può essere continuativo o con
una scadenza specifica, in tal caso il responsabile della funzione di audit interno
coordina le attività e riporta i risultati al top management;
d) sub appalto quando uno specifico compito o parte di esso è svolto da un
soggetto esterno, tipicamente per un periodo di tempo limitato. La gestione e il
controllo dell’impegno sono normalmente seguiti dallo staff di internal audit aziendale.
Nella letteratura scientifica nazionale e internazionale le scelte organizzative
anzidette sono state interpretate mediante diversi modelli teorici quali la teoria
dell’agenzia (Williamson, 1985), quella della catena del valore (Porter, 1987) e la
resource based view (Grant, 1994). Ciò ha consentito di indagare, sia a livello teorico che empirico, quali siano le ragioni alla base di tali scelte organizzative, quali
siano i vantaggi e gli svantaggi delle diverse soluzioni possibili. In Italia, però, la
tematica della gestione in outsourcing dei servizi di audit non è stata oggetto di un
2 «Specifically it is the performance of an organization’s function by another organization that
is not integrally a part of the basic organization structure» (Sawyer et al., 2003, p. 1305).
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approfondimento specifico, maggiore attenzione ha ricevuto l’investigazione in
generale dell’organizzazione assunta dalla funzione di internal auditing in ambito aziendale (D’Onza, 2006; Allegrini, D’Onza, Meini, 2007). Nei prossimi paragrafi vengono esaminate alcune delle teorie elaborate in letteratura per interpretare il fenomeno dell’outsourcing.
1.1.1. La gestione del controllo interno e le teorie organizzative
I contributi di taglio organizzativo nella letteratura accademica per l’analisi
della funzione di internal auditing nelle aziende sono numerosi ed eterogenei.
Gli studi si concentrano, adottando differenti matrici disciplinari, principalmente su due macro aree tematiche:
– assetto organizzativo della funzione di internal auditing;
– scelta di gestire in autonomia e all’interno le attività di internal auditing versus scelta di esternalizzare in parte o in tutto le stesse attività.
Queste due aree, che si influenzano reciprocamente, rappresentano l’oggetto della ricerca condotta e presentata in questo volume.
La prima macro area è direttamente collegata alla volontà di gestire in autonomia le attività di internal auditing, utilizzando strumenti organizzativi e procedure più o meno strutturate.
Le tematiche organizzative che rientrano in questa macro area sono legate
principalmente alla costituzione di una funzione o di un’unità organizzativa di
internal auditing, alla sua collocazione nella struttura aziendale, alla sua dimensione, alle responsabilità collegate.
Tali scelte di progettazione organizzativa sono fondamentalmente ancorate
all’impostazione strategica che si vuole dare alle attività di internal auditing in azienda e ai principi di progettazione organizzativa più generali che sono alla base
della struttura organizzativa dell’azienda. Ma sicuramente il ruolo operativo o
strategico che si vuole dare alle stesse impatta notevolmente in termini di assetto organizzativo della funzione. Nell’ambito dell’audit, l’entità degli investimenti allocati e la dimensione e collocazione della funzione dipendono, tra gli altri,
infatti, da due fattori: dalla natura dell’attività di audit da svolgere e, dunque,
dalla complessità dell’incarico (si pensi, ad esempio, ad un audit standard di tipo contabile rispetto ad un audit gestionale su un progetto specifico); dal ruolo
attribuito all’attività di audit nell’organizzazione (si pensi, ad esempio, ad una
visione di mero guardiano dell’affidabilità dei dati finanziari a quella di servizio
a valore aggiunto nei diversi ambiti del controllo, della valutazione dei rischi e
della corporate governance).
In una logica simile, ma più generale, la scelta sarà anche influenzata dal modello di corporate governance dell’azienda. Le attività di internal auditing posso-
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no svolgere un ruolo importante nelle comunicazioni e nelle fasi di pianificazione e controllo nei rapporti tra proprietà e management. In tal senso, alla luce
della teoria dell’agenzia (Jensen, Meckling, 1976), la funzione di internal auditing
si inserisce nella gestione dell’asimmetria informativa tra principale (proprietà) e
agente (management). Proprietà e management sono, infatti, entrambi incentivati
a investire in sistemi informativi e di controllo per ridurre i costi di agenzia collegati all’asimmetria informativa (Sarens, Abdolmohammadi, 2007). L’approccio
della teoria dell’agenzia è stato anche utilizzato per tentare di trovare una correlazione tra esigenze di controllo della proprietà e dimensione della funzione internal auditing in azienda (Sarens, Abdolmohammadi, 2007).
Le altre variabili che giocano un ruolo essenziale nelle scelte di progettazione
organizzativa e principalmente nella collocazione, nel ruolo, nel potere e nella
dimensione sono variabili di tipo contingente: il settore in cui opera l’azienda, la
dimensione aziendale, se l’azienda è quotata in Borsa o non lo è, l’età dell’azienda
e della funzione.
Il filone più ricco di contributi è, però, quello che analizza l’alternativa insourcing/outsourcing nella gestione della funzione.
È possibile distinguere i molteplici e numerosi contributi sulla base dell’impianto teorico di riferimento e dell’oggetto di analisi privilegiato:
– approcci di economia dell’organizzazione;
– approcci di sociologia dell’organizzazione.
Il modello interpretativo teorico utilizzato in modo più diffuso per spiegare
il progressivo ricorso all’esterno per svolgere l’attività di audit è rinvenibile negli approcci di “economia dell’organizzazione” ed è rappresentato dalla c.d. teoria dei costi di transazione (Williamson, 1975; Widener, Selto, 1999; Spelkè, van
Elten, Kruis, 2007). Adottando questo approccio si ritiene che le aziende abbiano la possibilità di scegliere tra due modalità opposte di gestione dell’attività di
audit che si differenziano per il meccanismo di controllo adottato:
a) il governo dell’attività di controllo facendo leva sulla gerarchia, mediante
la gestione interna dei servizi di audit;
b) il governo dell’attività di controllo basata sul mercato, mediante l’acquisizione all’esterno delle risorse necessarie.
Guardando queste due modalità come gli estremi di un continuum, è possibile individuare, inoltre, anche ulteriori soluzioni intermedie in cui solo alcune
delle attività di internal auditing vengono ad essere esternalizzate in una sorta di
co-sourcing.
Analogamente al modello generale di Williamson (1975; 1985) assumono
importanza le variabili della frequenza delle transazioni, dell’incertezza delle
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stesse e della specificità degli investimenti e degli asset richiesti; anche per l’analisi
dell’internalizzazione/esternalizzazione delle attività di internal auditing tali variabili giocano un ruolo chiave negli studi che analizzano la scelta alla luce del
modello dei costi di transazione.
Prescindendo dall’esame delle singole variabili sono comunque rinvenibili
dei costi generali tipici della transazione in oggetto: costi di negoziazione, costi
di pianificazione e preparazione del singolo contratto, di revisione dello stesso, di
controllo dell’operato dell’auditor esterno, costi generici e difficilmente quantificabili legati a comportamenti opportunistici, costi-opportunità su eventuali minori performance correlate a controllo imperfetto esercitato dall’auditor prescelto (Spelkè et al., 2007).
Per quanto attiene alla “specificità” della transazione, essa è direttamente
collegata alla specificità degli investimenti messi in atto per il governo delle attività di internal auditing.
La specificità degli investimenti è generalmente correlata al grado di differenziazione dei servizi/prodotti offerti e/o dei processi. L’entità di asset specifici da destinare alla funzione o in generale alle attività di internal auditing sono
correlabili all’esigenza o alla volontà forte di creare un insieme di attività più o
meno firm specific. Prescindendo, infatti, dal contesto (ad esempio grado di differenziazione del business aiendale), le attività di internal auditing si potrebbero
governare con procedure formalizzate e standardizzate che richiederebbero
una minore specificità di investimenti. Analogamente si potrebbero creare
strumenti e procedure definite ad hoc per la singola azienda con un elevato livello di specificità. Logicamente tra i due estremi si collocano differenti soluzioni
con diversi gradi di specificità. La scelta del grado di specificità è, quindi, anche
funzionale alla strategia che l’azienda intende perseguire con le sue attività di
internal auditing: dal mero rispetto degli adempimenti formali fino ad arrivare
ad una centralità dell’internal auditing a supporto delle strategie aziendali. Analogamente impatta sulla specificità degli investimenti richiesti il grado di dettaglio delle informazioni che si vogliono ottenere, produrre e monitorare: da informazioni operative a informazioni strategiche.
In considerazione di ciò, la specificità della transazione sarà associata direttamente al livello di profondità e “personalizzazione” che l’azienda e il provider
esterno concordano. Logicamente una forte specificità richiede forti investimenti del provider esterno, giustificabili solo da una relazione contrattuale di
lungo periodo che gli permetta di ammortizzare gli investimenti specifici (in
conoscenze, strutture, procedure ecc.). Ma in ogni caso lo stesso contratto dovrà prevedere le modalità e i termini per sottolineare e “pretendere” l’elevato
grado di specificità: contratti incompleti potrebbero dar luogo a comportamenti opportunistici del provider di servizi (Spelkè et al., 2007). Un così forte legame (firm specific e di lunga durata) potrebbe costituire, inoltre, una barriera al-
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l’uscita della relazione per l’azienda: gli switch cost per sostituire il fornitore di
servizi con un altro non dotato nella fase iniziale della necessaria conoscenza
specifica dell’azienda risulterebbero molto elevati.
Alla luce di queste riflessioni, pertanto, e con il supporto da una consolidata
evidenza empirica (Wiedener, Selto, 1999; Spelkè et al., 2007) è possibile affermare che la specificità influenza negativamente il ricorso all’esternalizzazione: tanto
maggiore è la specificità, tanto maggiore sarà il ricorso ad una gestione “gerarchica” e internalizzata della funzione e delle attività di internal auditing.
La variabile della frequenza è collegata alla specificità: transazioni con un
maggior grado di specificità richiedono una maggiore frequenza nei rapporti tra
azienda e società di consulenza esterna. In generale, anche in questo caso bisogna considerare il “ruolo” più o meno strategico che si vuole dare alla funzione
e alle attività di auditing. Una visione e un utilizzo dell’internal auditing in chiave strategica richiede una più elevata frequenza delle transazioni. La frequenza
sarà, quindi, analizzabile in base al volume e al valore intrinseco (strategico versus operativo) delle singole transazioni. Generalmente, infatti, più che la ripetitività delle transazioni e il numero relativo delle stesse, nell’approccio williamsoniano (Williamson, 1975) assume importanza, ai fini dell’analisi della frequenza, l’incidenza in termini di importanza della transazione (valore strategico-operativo ad esempio) e l’entità della transazione. In questi termini risulta
facilmente correlabile la scelta di internalizzare le attività a fronte di un’elevata
frequenza. Anche in questo caso gli studi empirici (Wiedener, Selto, 1999;
Spelkè et al., 2007) confermano in tal senso l’impatto della frequenza sulla scelta di make or buy delle attività di internal auditing.
Più complessa è l’analisi della variabile dell’incertezza. Generalmente si fa riferimento a incertezza ambientale o del contesto e incertezza dei comportamenti.
Nel primo caso, l’incertezza deriva dal grado di prevedibilità delle situazioni di
contesto e contingenti: bisogna valutare quanto si è in grado di prevedere ex ante
l’output delle attività di internal auditing e delle singole transazioni. Anche in
questo caso, laddove si imposti la funzione in senso strategico aumenta notevolmente l’incertezza nella definizione della transazione e in generale dell’oggetto
delle attività di internal auditing. All’estremo opposto per attività operative, dotate di elevata possibilità di essere operazionalizzate o standardizzate, diminuiscono i rischi di incertezza e si può dar luogo a contratti per la regolazione della
transazione più completi.
La estrema incertezza sul contenuto della transazione rende, da un lato, impossibile o perlomeno difficile la definizione di contratti completi e abilita potenzialmente, dall’altro, comportamenti opportunistici. Quest’ultimo punto è
ricollegabile all’incertezza sui comportamenti: in presenza di contratti incompleti o aperti è difficile operare un controllo della prestazione (osservabilità e
verificabilità delle performance) e si può dare origine anche in questo caso a com-
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portamenti opportunistici o devianti (moral hazard, asimmetrie informative, manipolazione delle informazioni; cfr. Spelkè et al., 2007).
In sintesi, pertanto, è possibile affermare, anche sulla base di ricerche empiriche 3, che: al crescere dell’entità degli investimenti specifici tende ad essere più
conveniente la gestione dell’attività di audit internamente; l’incertezza non ha
nessun effetto sulle decisioni di gestione dei sistemi di controllo interno e al
crescere della frequenza delle transazioni tende ad essere più conveniente la gestione interna dell’attività di audit.
Se invece di analizzare le transazioni poste in essere e le relative alternative di
make or buy, si focalizza l’attenzione sulle competenze interne dall’azienda per gestire in autonomia le attività di internal auditing può risultare utile ai fini interpretativi l’approccio della resource based view (Barney 1991; Prahalad, Hamel 1990).
Acquisire, creare, e sviluppare capacità e competenze chiave ha implicazioni importanti per la scelta delle attività da svolgere all’interno delle organizzazioni e
quelle da esternalizzare. L’idea che ci sia una relazione tra le core competencies e il
fenomeno dell’outsourcing è sottolineato dal contributo di Prahalad, Hamel
(1990): gli autori sostengono che la fonte del vantaggio competitivo delle organizzazioni risieda nell’abilità del management a consolidare gli skills, le conoscenze e le tecnologie in competenze tali da costituire un vantaggio competitivo. Molti approcci relativi al tema dell’oustourcing utilizzano l’approccio delle
core competencies come punto di partenza: ad esempio, Quinn e Hilmer (1994) sostengono che l’organizzazione debba concentrare le sue risorse su una serie di
competenze core, che possano costituire la base per il raggiungimento di un
vantaggio competitivo e esternalizzare, invece, le altre attività per lo svolgimento delle quali non si abbiano competenze specifiche. In generale, nel contesto
dell’outsourcing, le attività core hanno le seguenti caratteristiche: sono quelle
che contribuiscono maggiormente a creare valore per il cliente, rappresentano
un elemento distintivo rispetto ai competitors sul mercato, l’organizzazione ha
particolari competenze per lo svolgimento delle stesse.
Una crescente parte della letteratura focalizza l’attenzione sul tema delle relazioni interorganizzative per analizzare e spiegare il raggiungimento e il mantenimento del vantaggio competitivo. Si evidenzia, infatti, una tendenza al coinvolgimento di attori esterni per lo svolgimento di attività prima svolte all’interno
della singola impresa.
L’approccio relazionale sostiene che le organizzazioni possono sviluppare
risorse chiave attraverso la gestione delle relazioni con diversi attori esterni ai
confini dell’organizzazione quali clienti, fornitori, enti di ricerca, istituzioni etc.
Lo studio delle relazioni e del loro contenuto è spinto dalla convinzione che la
fonte del vantaggio competitivo risieda nella capacità di individuare e utilizzare
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Per un approfondimento cfr. Wiedener, Selto, 1999; Spelkè et al., 2005, 2007.
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le conoscenze create nel sistema nel suo complesso (Lipparini, 1995).
Secondo questo approccio assumono un significato fondamentale, quindi, il
ruolo dei meccanismi di governance come la fiducia (Lorenzoni, Lipparini 1999)
e le risorse e le capacità dei clienti e dei fornitori (Kaufman et al., 2000).
Il tema della fiducia appare importante anche negli altri approcci teorici finora presentati. Sia nella teoria dell’agenzia, sia nell’approccio dei costi di transazione, sia in generale nelle relazioni interorganizzative la fiducia può: diminuire i rischi di comportamenti opportunistici, ridurre la complessità nella formalizzazione del contratto, rendere più agevole il controllo il coordinamento
della relazione con il fornitore di servizi di auditing (sia esso interno sia esso
soprattutto esterno all’organizzazione).
Un altro approccio teorico che consente un’analisi interpretativa sia delle logiche di progettazione organizzativa interna legate alla funzione internal auditing,
sia della scelta di internalizzare/esternalizzare le attività è quello neoistituzionalista (Meyer, Rowan, 1977; Di Maggio, Powell, 1983, 1991). Secondo questa
prospettiva l’organizzazione deve essere concepita come un sistema inserito e
avvolto da un contesto sociale e culturale (ipotesi dell’embeddedness, Granovetter,
1985), il quale a sua volta è il risultato prodotto dall’interazione fra le azioni poste in essere dai singoli attori, a loro volta condizionati e/o vincolati dalle caratteristiche strutturali del contesto (Barley, Tolbert, 1997; Giddens, 1984). Il livello
di analisi di tale approccio è costituito dal “campo organizzativo”, nel quale sono
comprese tutte quelle organizzazioni che costituiscono, nel loro insieme, una riconosciuta area di vita istituzionale (Di Maggio, Powell, 1983: 148). Due sono le
tipologie di ambienti istituzionali utili ai fini della ricerca presentata in questo
volume. Da un lato quello dei diversi “settori societari” (Scott, Meyer, 1983) in
cui operano le singole aziende che necessitano (im misura maggiore o minore)
di attività di internal auditing; dall’altro quello dell’ambiente istituzionale che
caratterizza le società fornitrici di servizi di internal auditing.
Su entrambi i campi organizzativi insistono una serie di pressioni competitive (che innescano processi imitativi) e di pressioni istituzionali (che attivano
processi coercitivi e normativi) (Di Maggio, Powell, 1983, 1991). Tanto maggiore sarà la forza condizionante di queste due tipologie di condizionamenti,
tanto più forte sarà il grado di istituzionalizzazione del campo e, quindi, la tendenza all’isomorfismo.
Alla luce dell’approccio neoistituzionalista, sul versante delle scelte di progettazione organizzativa interna le pressioni istituzionali agiscono in modo differente e variegato. Le aziende potrebbero essere influenzate nelle scelte di
progettazione organizzativa sia da pressioni coercitive, sia da pressioni imitative
sia, infine, da pressioni normative.
Le pressioni coercitive sono essenzialmente legate alla legislazione vigente nel
Paese in cui l’organizzazione opera e alle caratteristiche della singola società (ad
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esempio se quotate in borsa o meno). Nella ricerca condotta, circa il 70% delle
aziende quotate intervistate collega l’istituzione di una funzione interna di internal
auditing derivante da adempimenti normativi, regolamentari o di Gruppo. Più nel
dettaglio, per quanto riguarda le modalità organizzative prescelte, solo il 40% ritiene di avere agito in completa autonomia, mentre ben un’azienda su due rileva
una risposta organizzativa influenzata da adempimenti legislativi o da logiche dettate dalla (eventuale) holding di riferimento (vd. infra per approfondimenti).
Valore percentuale
Figura 1.1. – Ritenete che l’istituzione della funzione del controllo interno derivi da
vincoli normativi, regolamentari o di Gruppo?
80
70
60
50
40
30
20
10
0
Aziende quotate
Società di consulenza
si
no
non saprei
Figura 1.2. – Come ritenete che le vostre aziende abbiano deciso di istituzionalizzare la funzione del controllo interno
20%
autonomamente
40%
10%
in risposta ad adempimenti di legge
in risposta ad esigenza della Capogruppo
altro
30%
Ma anche la pressione imitativa può giocare un ruolo di rilievo ai fini delle
scelte di progettazione interna o della scelta tra gestione della funzione in autonomia o esternalizzazione in outsourcing. Le organizzazione tenderanno, nella
logica neo istituzionale, ad imitare le scelte e le forme organizzative delle altre
organizzazioni (concorrenti) che ritengono essere maggiormente legittimate nel
contesto esterno.
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Stefano Garzella, Daniela Mancini, Luigi Moschera
A rafforzare ulteriormente le scelte di progettazione organizzativa della
funzione internal auditing e l’assetto interno versus outsourcing della stessa agiscono anche le pressioni normative. La tendenza all’isomorfismo è anche
frutto dell’elevato grado di professionalizzazione nel campo delle attività di
internal auditing. Numerosi studi (si vedano tra gli altri Rittenberg, Covalesky
2001; Covalesky, Dirsmith, Rittenberg, 2004) testimoniano in tal senso la forza della pressione normativa derivante dal tipo e dall’alto livello di professionalizzazione del campo.
1.1.2. Il controllo interno e la gestione strategica dell’azienda
Il successo dell’azienda ed anche il suo perdurare nel tempo sono strettamente legati alla capacità strategica e alla bontà della sua azione di governo
(Bertini, 1995; Galeotti, 2001; Reboa, 2002; Garzella, 2006).
Attraverso il processo di governo le idee e la visione imprenditoriale prendono forma e si materializzano determinando i fatti e gli andamenti di gestione
(Miolo Vitali, 1993; Bertini, 1995; Bianchi Martini, 2008) .
La bontà dell’azione di governo, da parte sua, si concretizza in una superiorità quali-quantitativa dei processi sistematicamente coordinati e dei prodotti
rispetto ai competitor che, percepita dal cliente, è in grado di generare ritorni adeguati in termini economico-finanziari (Porter 1987, 1996, 1997; Saloner, Shepard, Podolny, 2002).
La superiorità competitiva e gestionale trova il suo fondamento nel possesso di
alcune risorse distintive che opportunamente attivate ed utilizzate conferiscono
alle diverse attività ed ai processi che scaturiscono dalla loro interrelazione la capacità di generare valore (Barney, 1991; Buttignon, 1996; Grant, 2003; Garzoni,
2004; Garzella, 2005; Bianchi Martini, 2009).
È noto infatti che la sistematica gestione dell’azienda può essere utilmente
suddivisa in processi a loro volta “scomponibili” in attività (Porter, 1987; Brusa,
1995; Brimson, Antos, 1999; Giannetti, 2006; Kaplan, Anderson, 2007).
È la superiorità nello svolgimento sistematico e simultaneo di tali attività e
di tali processi che rende l’azienda in grado di sovra-performare.
Nel pieno convincimento di quanto detto, riteniamo che l’azienda debba
organizzare la propria azione di governo e la propria attività gestionale risolvendo una serie di scelte decisionali di carattere e natura strategica, tra le quali
possono trovare posto – accanto ad azioni tipicamente competitive, economico-finanziarie, sociali, ecc. – anche le decisioni di make or buy (Ricciardi, 2000;
De Paolis, 2000; Culliton, 1942; Oxenfeldt, Watkins, 1956).
Ossia le decisioni concernenti quali attività svolgere internamente e quali esternamente.
Nei fatti, le aziende si trovano costantemente di fronte ad opzioni di make or
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buy qualunque sia l’oggetto interessato, e tali scelte, che come detto rivestono in
alcuni casi un valore perfino strategico, si fondano su di una complessità di variabili da valutare in modo sistematico.
Tra queste assumono principale rilievo la necessità di presidiare le risorse distintive, evitare la diffusione di conoscenze strategicamente rilevanti, la complessità tecnica e il grado di specializzazione delle attività, il legame tra alcune
attività e le attività considerate “core”.
Per riuscire a individuare le risorse strategicamente rilevanti e per deliberare
le modalità per la loro attivazione, valorizzazione e difesa sono stati sviluppati
diversi modelli e strumenti.
In gran parte, sono strumenti che collegano le tecniche di analisi e mappatura dei processi con i concetti tipici dell’analisi strategica (Ostinelli, 1995; Ceppatelli, 2000).
Nel tempo tali modelli e applicazioni si sono moltiplicati, diffusi e affinati.
Ciò nonostante, tra i più noti, diffusi ed efficaci nell’incrociare le attività compiute nella ricerca del vantaggio competitivo con il controllo delle risorse e delle competenze distintive, vi sono quelli che, in modo più o meno diretto, possono essere ricondotti alla catena del valore.
Originariamente intuita da McKinsey e compiutamente elaborata e definita
da Porter si sostanzia, nella sua “versione generale”, in una “freccia” caratterizzata in cinque attività primarie e quattro di supporto.
Il modello generale, poi, potrà – ma forse è più corretto dire dovrà – essere
personalizzato in relazione alle peculiarità dell’azienda oggetto di analisi e in relazione alle esigenze di analisi.
Spiega infatti lo stesso Porter che: “Per diagnosticare il vantaggio competitivo è necessario definire la catena del valore propria di un’impresa per competere in un particolare settore industriale. Cominciando dalla catena generica, bisogna identificare le specifiche attività generatrici di valore per quella particolare azienda. […]«dovrebbero essere isolate e separate le attività che hanno logiche
economiche diverse, che possiedono un alto impatto o differenziazione potenziale, oppure che rappresentano una porzione di costo crescente o significativa.
Nell’uso della catena del valore vengono effettuate poi delle disaggregazioni più
sottili per alcune attività […]; altre attività vengono combinate, in quanto governate da logiche economiche simili […] Il giusto grado di disaggregazione dipende dalle caratteristiche economiche delle attività e dagli scopi per cui viene
analizzata la catena del valore» 4.
La complessa e sistematica attività aziendale, pertanto, può essere utilmente
4 Porter, 1987: 56. Cfr. anche Miolo Vitali, 2000; Shank, Govindarajan, 1996; Bain Cuneo &
Associati, 1992; Grant, 2003; Valdani, 2000.