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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 19-34 (2014)
STUDI E RICERCHE
ENDOMETRIOSI E FEMMINILITÀ
Rossella Ardenti
Riassunto
Abstract
L’endometriosi è una malattia infiammatoria cronica femminile
enigmatica e complessa. Nonostante la sua incidenza sia superiore al 10% della popolazione femminile in età fertile e la sua
scoperta da quasi un centennio, è una malattia poco conosciuta, soprattutto su un piano eziopatogenetico, e i numerosi studi
scientifici in campo internazionale non hanno ancora risolto i
molti interrogativi sulla malattia, sulla ricorrenza dei sintomi,
sulla recidiva e sulle modalità diagnostiche e terapeutiche più
efficaci. Psicologicamente, le ricadute dell’endometriosi sulla
qualità della vita e sulla dimensione personale e relazionale della personalità sono di notevole rilevanza e già riconosciute dalla
comunità scientifica internazionale. Questo lavoro vuole mettere in luce la profondità e la reciprocità del legame inscindibile
tra endometriosi e femminilità.
ENDOMETRIOSIS AND FEMININITY. Endometriosis is a
complex and mysterious inflammatory chronic disease affecting women. It’s still a little known disease especially on aetiopathogenic level, despite the fact that more than 10% of the
women in fertile age are affected by it and that it was discovered
almost a hundred years ago. Furthermore, the numerous international scientific studies which have been carried out haven’t
yet solved the many questions on the disease, on the recurring
symptoms, on the relapse and on the most effective diagnostic
and therapeutic methods. From a psychological point of view,
the effects of endometriosis on the quality of life as well as on
the personal and relational sizes of personality, have a remarkable importance and have already been recognized by the international scientific community. This work aims at highlighting
the depth and the reciprocity of the close connection between
endometriosis and femininity.
Parole chiave
Keywords
ENDOMETRIOSI, FEMMINILITÀ, UNITÀ BIOPSICHICA/
PSICOSOMATICA, STILE DI VITA
ENDOMETRIOSIS, FEMININITY, BIOPSYCHOLOGICAL
UNIT/PSYCHOSOMATIC, LIFESTYLE
I. L’endometriosi: una malattia enigmatica
L’endometriosi è una malattia cronica femminile enigmatica, subdola e ancora poco conosciuta
(Adamson, 2011; Guo, 2009; Jacobson, 2011; Serracchioli, Frascà & Matteucci, 2012; Vercellini,
1997; Vercellini et al., 2008). In questa malattia, l’endometrio (la mucosa che ricopre la cavità interna
dell’utero) è presente in modo anomalo in altri organi, quali per esempio le ovaie, le tube, il peritoneo,
la vagina e talvolta anche l’intestino, la vescica, il sigma, il Douglas. Per questa presenza anomala, gli
organi in cui sono presenti i nuclei di endometrio sono sottoposti a un’infiammazione ciclica e cronica
segnalata da un forte dolore, spesso invalidante. La diagnosi arriva molto tempo dopo l’esordio dei
sintomi, in media dopo 9 anni, e questo per ragioni multiple: la tendenza erronea a normalizzare il
dolore, senza riconoscerne il carattere patologico, sia da parte delle donne, sia da parte del medico
di medicina generale; la sintomatologia aspecifica (ad esempio: disturbi gastro-intestinali, disturbi
urinari, infertilità, dispareunia) che spesso porta ad ipotizzare altre forme di malattia; le tecniche
diagnostiche non invasive non evidenziano efficacemente e chiaramente l’endometriosi, l’unico strumento attualmente riconosciuto a livello internazionale come l’unico attraverso cui si può fare con
certezza questa diagnosi è la laparoscopia (Ballard et al., 2006; Farquhar, 2007; Giudice & Cao, 2004;
Giudice, 2010; Serracchioli et al., 2012; Vercellini et al., 1990).
L’endometriosi incide sul 10% delle donne in età infertile, ma la comunità scientifica nel suo
complesso ritiene che questo sia un dato che sottostima la realtà, proprio perché è riferito alle dia19
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gnosi accertate attraverso laparoscopia (Fauconnier et al., 2005; Farquhar, 2007; Giudice et al., 2004;
Viganò et al., 2004). Per rendere più breve il ritardo diagnostico, così da ridurre l’aggravamento della
malattia ad esso correlato, è grande l’impegno medico-scientifico per affinare tecniche diagnostiche
meno invasive, ma altrettanto efficaci rispetto alla laparoscopia.
Sono molti gli interrogativi sull’endometriosi che la ricerca scientifica internazionale non ha
risolto. Oltre agli interrogativi sull’incidenza, l’eziologia, la ricorrenza, le localizzazioni e la clinica
diagnostica, terapeutica e chirurgica, il principale punto oscuro, che molto fa dibattere, riguarda la
patogenesi dell’endometriosi. La teoria più accreditata, perché riesce a spiegare la maggior parte delle
localizzazioni della malattia, è quella cui è giunto Sampson (1921, 1922, 1927) dopo i suoi studi, secondo cui la presenza di endometrio al di fuori delle pareti dell’utero è dovuta al rigurgito attraverso
le tube e alla disseminazione di frammenti di cellule di sfaldamento durante la mestruazione. Gli studi
più recenti, pur avendo mantenuto la validità di questa teoria, hanno rilevato la complessità di questa
condizione, riconoscendo nella patogenesi dell’endometriosi anche anomalie immunologiche e alterazioni endocrine, sulle quali la ricerca medica sta effettuando importanti approfondimenti scientifici
(Farquhar, 2007; Giudice et al., 2004; Serracchioli et al., 2012; Vignali et al., 2002).
II. L’endometriosi nella polarità psichica
La complessità dell’endometriosi nella polarità organica si riflette così visibilmente nella polarità psichica da essere stata oggetto di altrettanto interesse scientifico. Si è studiato l’effetto del dolore
rispetto alla qualità della vita (Denny, 2009; Eriksen et al., 2007; Nnoaham et al., 2011; Siedentopf et
al., 2008), l’impatto della malattia sul lavoro e sulla partecipazione sociale (Gilmour, 2008; Malkovic
et al., 2008), le sue ripercussioni sulla vita sessuale (Ferrero et al., 2005), gli effetti stressanti dell’ospedalizzazione e della tendenza all’isolamento (Gammon, 1998), le strategie di coping delle donne
affette da endometriosi (Kaatz et al., 2010), l’influenza dei sintomi depressivi e ansiogeni (Herbert et
al., 2010; Sepulcri et al., 2009).
Ho iniziato a conoscere parzialmente l’endometriosi negli anni ’90, per la componente di infertilità a cui a volte conduce, durante la mia lunga attività di psicologa volontaria presso il Centro
di Procreazione Medicalmente Assistita della Divisione di Ostetricia e Ginecologia dell’Azienda
Ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia. Ne ho approfondito più pienamente la conoscenza
nella successiva esperienza all’interno dell’Associazione Progetto Endometriosi- A.P.E. onlus, nata
nel 2003 da un piccolo gruppo di donne reggiane e diventata presto un punto di riferimento nazionale
per le donne affette da endometriosi.
Sin dalla sua nascita, ma non senza difficoltà (Ardenti, 2010a), ho scelto di accogliere la loro
richiesta e così di mettere al servizio delle donne affette da endometriosi le mie conoscenze, la mia
esperienza, la mia professionalità e parte del mio tempo. In questi anni ho ascoltato storie e vissuti,
raccolto testimonianze (Sanders, 2009), accompagnato alcune donne in gruppo nel tortuoso percorso
di accettazione della malattia, risposto ai loro bisogni emotivi attraverso il forum, curato una rubrica
nella rivista interna. Alcune donne, inoltre, si sono rivolte a me privatamente per fare un lavoro più
profondo e abbiamo iniziato un percorso di psicoterapia analitica (Ardenti, in press) e con altre abbiamo fatto un’esperienza di terapia breve di gruppo (Ardenti, 2012).
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Da subito, mi è apparso uno scenario psichico molto articolato e complesso, in cui orientarsi,
risultava un’impresa irta di difficoltà; gli insegnamenti adleriani sono stati la mia bussola e i fondamentali concetti di unicità e di unità biopsichica dello Stile di Vita sono stati la mia stella polare
(Adler, 1912, 1920, 1927, 1933; Ansbacher & Ansbacher, 1964) Per lungo tempo sono rimasta in
posizione d’ascolto empatico, con l’obiettivo di arrivare a sentire dentro di me più chiaramente la loro
sofferenza emotiva (Alder, 1931, 1928-1932; Ansbacher & Ansbacher, 1997; Parenti, 1983) e i miei
interventi, inizialmente fondati sulla mia ancora breve esperienza terapeutica e sul buon senso, sono
diventati mirati, specifici ed anche incisivi solo progressivamente.
Negli incontri di gruppo, facilitate soprattutto dal sentirsi all’interno di un contesto favorevole
perché composto da donne nella stessa condizione, dopo alcune mie brevi considerazioni introduttive, le donne hanno iniziato a raccontarsi ampiamente, con dovizia di particolari clinici e con grande
partecipazione emotiva, mettendo così in luce un caratteristico stile di narrazione (Good, 1994; Grassi, 2010). Al centro della narrazione iniziale c’è stato sempre il corpo con il suo periodico o costante
dolore invalidante o con le sue modificazioni a seguito delle importanti terapie ormonali e degli
interventi a volte ripetuti nel tempo; un corpo che assume più le sembianze di un nemico da combattere piuttosto che una parte di sé malata di cui prendersi cura; un corpo che utilizza un linguaggio
assordante, che disturba e spaventa e che, per questo, vuole essere allontanato; un corpo odiato perché
veicola solo dolore e sensazioni spiacevoli.
Nella narrazione è stato utilizzato il canale razionale, privilegiando la descrizione precisa di fatti,
visite, interventi, terapie, recidive, complicanze; le emozioni difficilmente venivano spontaneamente
nominate o esplicitate, ma sono state veicolate molto chiaramente attraverso il canale non-verbale.
Tra le donne diventava visibile la reciproca immedesimazione e la forte suggestionabilità.
Stimolate a parlare più delle proprie emozioni, quella che ha preso molti spazi è stata la rabbia:
per una malattia che non si riesce a controllare e che rende più difficile il concepimento; per un corpo
così malato; per il loro essere donna; per un dolore che non passa; per non essere capita dai propri
familiari o dalle donne che non hanno l’endometriosi o dai loro partner; per non essere state ascoltate
dai medici di medicina generale e dai ginecologi che, invece, hanno a lungo sottovalutato l’entità e
l’intensità dei sintomi, insistendo sul loro essere isteriche, dunque bisognose di supporto psicologico; per il loro aver peregrinato nei vari centri specializzati e da diversi specialisti che davano scarse
informazioni sulla malattia o sulla prognosi e prospettavano interventi diversi tra loro con poche
certezze di risultato; per il loro essere state lasciate da sole con la loro incomprensibile, inspiegabile
e imprevedibile malattia. Si tratta di una rabbia molto profonda e radicata ma altrettanto controllata
e repressa, che trova spazio di condivisione solo nelle relazioni in cui la donna sente di essere veramente capita, quindi, con donne che condividono la stessa malattia. Nella loro quotidianità, le donne
indossano una “maschera”, quella in cui “tutto va bene”
Le altre emozioni che s’intrecciano alla rabbia sono: senso di mortificazione, per tutte le volte
che il loro dolore è stato sottovalutato e svilito o sul quale si è anche ironizzato; senso di frustrazione,
per tutti i tentativi terapeutici o chirurgici non andati a buon fine; senso d’impotenza, per una malattia
difficilmente gestibile anche clinicamente; profondo sentimento d’inadeguatezza in quanto donna,
per non riuscire sia ad avere una vita sessuale soddisfacente sia a coronare il pressante desiderio di
maternità; schiacciante vissuto di colpa, per non essere in grado di condurre una vita “normale” nelle
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quotidiane attività, per costituire un peso per la famiglia o per il partner, per non dare un figlio al
proprio partner; senso di diversità e di “unicità” per avere una malattia così particolare e invalidante;
senso di solitudine, perché nessuno può capire le difficoltà che stanno vivendo e che devono affrontare; senso di vergogna, per avere un ciclo così doloroso e per non riuscire a rimanere incinta; profondo
senso di vuoto, sentito come incolmabile, per una maternità negata (Ardenti, 1999, 2000, 2001, 2011,
Ardenti & La Sala, 2003). Schiacciate da questo carico emotivo, le donne hanno mostrato di vivere un profondo scoraggiamento nei confronti della propria inferiorità d’organo con un conseguente
evitamento, come se l’unica possibilità fosse quella di compensare rinunciando alla vita; e rispetto al
sentire di non poter contare su qualcuno con cui condividere, e da cui sentirsi compresa, il chiudersi
e il compiangersi in solitudine diventano la soluzione privilegiata (Ardenti, 2008, 2010a).
Sin dai primi incontri mi fu chiaro che mi trovavo insieme a donne con una profonda sofferenza
emotiva e mi colpiva il fatto che fossero state lasciate a se stesse dai medici con i quali avevano fino a
quel momento interagito. A parte qualche eccezione, mi arrivava la descrizione di medici che si occupavano solo della dimensione organica e qualora riconoscevano il loro bisogno emotivo lo rilevavano
con atteggiamento svalorizzante e colpevolizzante.
In una variabilità organica molto ampia di sintomatologia, di localizzazioni, di gravità e di estensione dell’endometriosi, il funzionamento psichico delle donne che ne sono affette si presenta in
modo molto più uniforme. Avere dato spazio di ascolto in un clima di accoglienza e di comprensione
ha consentito alle donne di sentire la libertà di esprimere la gravosità dei propri vissuti e sperimentare
il sollievo che deriva dalla condivisione; per me ha significato conoscere il loro Stile di Vita (Ardenti,
2009; Ferrero, 2010; Ferrigno, 2005; Mascetti & Maiullari, 1983) e provare empaticamente il carico
della sofferenza emotiva espressa a tutto tondo dalle donne, una sofferenza troppo profonda e intensa per essere solo una reazione alla malattia (Ferrigno, 2008, 2010). «Depressione e senso di vuoto,
mancanza di senso della vita, paura dell’impoverimento psichico e solitudine, continua a rivelarsi
come la tragedia della perdita del Sé, ossia dell’autoestraniazione, che prende sempre avvio nell’infanzia» (Miller, 1996, p. 43).
III. La visione della medicina psicosomatica
In linea con la rivoluzione psicoanalitica, nella prima metà del XX secolo nasce la medicina
psicosomatica, una disciplina scientifica che ha come scopo l’indagine delle cause e degli effetti delle
relazioni fra mente e corpo, nello specifico la ricerca dell’eziologia di natura psicologica di un disturbo somatico. Partendo dall’innovativo concetto di unità mente-corpo, la medicina psicosomatica ha
svolto le sue ricerche su un modello dualistico e con un principio di determinazione. Ed è sulla base
di questo principio metodologico che si è giunti a differenziare una condizione clinica organica, in
cui è documentabile una lesione d’organo, da una condizione clinica funzionale, in cui è colpita una
funzione d’organo senza evidenza di danno d’organo, ed anche a distinguere una malattia in cui è
nota l’eziologia (infettiva, genetica o ambientale) da quella in cui il disturbo non è determinato da un
agente causale noto.
Seppure si tratti di diversificazioni categoriali chiaramente definite, si è acceso un dibattito molto
appassionato sulla “collocazione” di una malattia in una specifica categoria, che ha portato ad una
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lotta di appartenenza di una malattia tra le scienze biologiche e quelle psicologiche. Ne è un esempio
la posizione non uniforme sull’ulcera peptica: oggi è ritenuta una patologia organica poiché endoscopicamente è visibile un danno d’organo causato da un agente esterno, il batterio Helicobacter pylori;
tuttavia ci sono casi di ulcere senza il riscontro del batterio e casi di ulcere causate da stress psicologico. Il modello dualistico rende impossibile una netta distinzione di appartenenza, poiché persegue
una logica autoescludente, che consiste nel trovare le evidenze che dimostrino che una malattia abbia
una causa organica oppure psichica. Un’obiezione che circola nel dibattito interno della medicina psicosomatica (Lipowski, 1989; Todarello et al., 1992) e che ha portato a definire la psicosomatica come
un “paradosso epistemologico”, proprio perché intende analizzare l’unità mente-corpo attraverso il
modello dualistico (Porcelli, 2012).
Le prime teorie psicosomatiche vedevano applicare alla medicina i concetti fondamentali della
psicoanalisi: il nucleo centrale dei disturbi psicosomatici è un conflitto intrapsichico; sulla base di
questo conflitto e dei meccanismi di difesa ad esso riferiti, vennero individuate alcune patologie che
non erano spiegate dalla medicina e che vennero identificate come disturbi psicosomatici. La psicoanalisi ha avuto la sua influenza anche sull’aspetto terapeutico: così come per il nevrotico, anche per
il paziente con disturbo psicosomatico, il trattamento elettivo è quello analitico (Alexander, 1950;
Deutsch, 1959).
In ambito psicoanalitico il rapporto mente-corpo è stato costante oggetto d’attenzione e di studio (Assoun, 2004; Buzzatti & Salvo, 1998; Carignani & Romani, 2006; Chasseguet-Smirgel, 2005;
Zannini, 2004).
Fuori dal contesto psicoanalitico, fra il 1920 e il 1950, si diffuse l’ipotesi psicogenetica, secondo la quale le malattie fisiche potevano essere determinate da costellazioni specifiche di personalità
(Porcelli, 2009) e nella seconda metà del novecento ci sono stati importanti contributi per la moderna
concezione della psicosomatica. Per esempio, il contributo di Kissen (1963), secondo cui le malattie sono entità eterogenee e multifattoriali, non entità omogenee come fino a quel momento erano
considerate; secondo l’Autore, il punto fondamentale non può essere individuare se una malattia è
organica o psicosomatica, ma identificare quali sono i fattori, organici e psichici, che sono alla base
della malattia di quel paziente. Di rilievo anche il contributo di Engel (1977, 1980), riconosciuto per
il suo modello biopsicosociale, secondo cui la malattia è il risultato dell’interazione multifattoriale di
vari sistemi (cellulare, tissutale, organico, interpersonale e ambientale) e a più livelli: comprenderne
l’origine vuol dire trovare il contributo e il “peso relativo” che ha ciascun fattore e ciascun sistema
nel co-determinarla.
Eppure, già all’epoca di Freud, Adler aveva espresso a gran voce le sue critiche al modello psicoanalitico. Adler (1912) aveva compreso la complessità dell’essere umano e non poteva riconoscersi
nel riduzionismo a cui la teoria del conflitto e il suo conseguente riduzionismo conducevano. Per
Adler l’individuo è un’unità biopsichica; corpo e psiche non possono essere scissi, così come la psiche non può essere scissa in topiche. Quindi, l’individuo non è l’insieme di parti tra loro scisse, legate
solo da una relazione lineare causa-effetto, ma è un’unità complessa le cui componenti sono tra loro
interconnesse e dialogano in modo circolare. «Tanto la mente quanto il corpo sono manifestazioni
della vita: sono parti della vita nella sua totalità e quindi cominciamo a comprendere i loro reciproci
rapporti all’interno di questa totalità» (Adler, 1931, p. 39).
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Anche lo sviluppo dell’individuo è un processo complesso, che non avviene solo all’interno
dell’intrapsichico, ma in un mondo di relazioni: è la risultante di eredità, genetica, contesto ambientale e Sé creativo. Le malattie o le anomalie di comportamento non sono l’esito di un conflitto, ma di
una carenza, di un deficit e tra queste Adler riserva un posto di gran rilevo alla trascuratezza affettiva
(Adler, 1908a, 1908b, 1912, 1920, 1927). «Fra tutti i fenomeni psichici che divengono chiaramente
percepibili, il bisogno di affetto compare molto precocemente» (Adler, 1904-1913, p. 76).
Un bambino che cresce in un contesto educativo in cui è negato il bisogno di affetto è lasciato
«solo con la sua personale perduta ricerca d’amore. Privato di tutti gli oggetti d’amore, al bambino
non rimane come scopo della sua ricerca nient’altro che la propria persona, i sentimenti sociali restano rudimentali e prevalgono solo le tendenze di soddisfazione che hanno come oggetto l’amore di sé
in tutte le sue forme. Oppure il bambino assume la posizione aggressiva. Ogni istinto non soddisfatto
finisce per orientare l’organismo in modo tale che esso opponga al proprio ambiente aggressività.
I caratteri violenti, i bambini senza freni, resistenti a ogni educazione, possono insegnarci che se il
bisogno di tenerezza resta a lungo insoddisfatto, sollecita e stimola le vie dell’aggressività» (Adler,
1908b, p. 10). Come Adler, altri Autori contemporanei hanno rilevato le importanti conseguenze
sulla salute psichica delle carenze affettive in infanzia (Ferrero, 1995; Miller, 1996; Schellembaum,
1988; Valcarenghi, 2011).
A parte la critica concettuale al corpo teorico della psicoanalisi, di cui è piena la letteratura
internazionale, e le critiche che si sono sollevate a seguito dei riconosciuti fallimenti della psicoanalisi come cura per le malattie psicosomatiche, diversi sono stati gli psicoanalisti le cui obiezioni
traevano forza propulsiva dalla pratica clinica e dalle relative evidenze. Non trovando alcuna forma
di armonizzazione tra la visione teorica psicoanalitica e quanto da loro osservato nella quotidianità
delle analisi con i pazienti, alcuni Autori ne hanno preso parzialmente le distanze, pur rimanendovi
all’interno, ed altri si sono definitivamente distaccati dando origine a un pensiero autonomo. Tra questi ultimi, ci sono quelli che hanno rivalutato il rapporto mente-corpo e che hanno dato al corpo un
ruolo di rilievo nel lavoro terapeutico. Ne sono un esempio A. Lowen (1980, 1983, 1985) e A. Miller
(1980, 1981, 1996, 2002, 2004, 2007).
Lowen è esplicito nel ritenere che l’inefficacia o il fallimento dei trattamenti psicoanalitici sia
ascrivibile alle difficoltà inerenti al rapporto corpo-mente «finché persiste la tesi del dualismo corpo
mente, la difficoltà resta insuperabile» e che «nella sua espressione emotiva l’individuo è un’unità. Non
è la mente che va in collera né il corpo che colpisce; è l’individuo che si esprime» (Lowen, 1985, p. 3).
Miller ritiene che il corpo sia la “fonte di tutte le informazioni vitali”, che la malattia sia l’esito
di una scissione avvenuta nel corpo delle emozioni vissute nel corso della propria vita e che si può
uscire dal vincolo che lega al proprio passato solo facendo luce nella propria “verità storica” e arrivando a percepire e a vivere liberamente quelle emozioni rimaste prigioniere nel corpo. Le carenze
affettive vissute nell’infanzia generano un «vuoto che si aspetta di essere colmato: […] il bambino
che ha ricevuto poco amore, che si è sentito negato ed è stato maltrattato con il pretesto dell’educazione, in età adulta dipenderà tanto dai genitori o dai suoi sostituti, dai quali si aspetta tutto ciò che
gli hanno sottratto nel momento decisivo» (Miller, 2004, p. 12). Il corpo conserva la memoria, quindi
sa che cosa manca, di che cosa si ha bisogno, ciò che è stato sopportato a fatica e cerca per tutta la
vita il nutrimento di cui avrebbe avuto bisogno e che gli è stato negato. «Le funzioni corporee, come
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il respiro, la circolazione del sangue, la digestione, reagiscono soltanto alle emozioni vissute. […] Il
corpo si attiene ai fatti» (Ibid., p. 20).
IV. Le nuove evidenze scientifiche del complesso rapporto tra mente e corpo nella malattia
Nonostante l’ampia Letteratura scientifica a supporto dell’unità biopsichica, il modello dualistico è persistente e di difficile superamento; inoltre, gli specialisti si adoperano con tecniche d’indagine
e di studio sempre più sofisticate per dimostrare l’organicità o l’ereditarietà genetica delle malattie.
Gli anni ’90 segnano un grande passaggio, poiché è in questo decennio che, anche grazie alle
neuroscienze, si sviluppano progetti di ricerca volti a rendere evidente il legame inscindibile tra mente
e corpo. Il più autorevole riferimento è lo studio ACE (The Adverse Childhood Experiences Study)
iniziato nel triennio 1995-1997 a San Diego e svolto su un campione superiore ai 17.000 adulti che
stavano effettuando degli accertamenti clinici; lo studio è poi proseguito anche negli anni successivi e,
attualmente, conta un campione di 50.000 soggetti (Anda et al., 2002, 2006, Dube et al., 2003; Felitti et
al., 1998). In questi studi è dimostrato che «�����������������������������������������������������������
l’esposizione precoce a esperienze sfavorevoli altera l’an�
damento dello sviluppo cerebrale che, a sua volta, determina disabilità cognitiva e socio-emozionale,
seguita dall’adozione di comportamenti rischiosi per la salute» (Lanius et al., 2010, p. 189).
Nello studio ACE sono riconosciuti e differenziati diversi tipi di eventi traumatici: abuso fisico,
abuso sessuale, testimonianza di violenza domestica, abuso verbale/minacce da parte dei genitori e
interazioni genitore-figlio interrotte o disturbate (ad esempio situazioni familiari in cui un membro
ha problemi mentali o abusa di sostanze o è in carcere e perdita di un genitore per morte, divorzio o
separazione). Quindi, eventi traumatici e/o disregolazione nella qualità della relazione genitore-figlio
sono “esperienze infantili sfavorevoli”, le quali aumentano in modo sostanziale il rischio di malattia
ischemica, cancro, bronco-pneumopatia cronica ostruttiva, malattie epatiche, obesità, fratture ossee e
malattie sessualmente trasmissibili (Felitti et al., 1998); esse accrescono anche il rischio di alcolismo,
abuso di sostanze tossiche, depressione e suicidio (Anda et al., 2002; Dube et al., 2003); portano a un
uso precoce di tabacco, alcool e droga, come a comportamenti sessuali a rischio (Anda et al., 2006);
aumentano il rischio di morte prematura (Brown et al., 2009).
Lo studio ACE ha dimostrato: che la presenza di eventi avversi nell’infanzia amplifica il rischio
di malattie organiche e psichiatriche in modo direttamente proporzionale al numero e alla gravità degli eventi avversi stessi; che il punteggio ACE è correlato positivamente con i fattori di rischio per le
principali cause di morte (all’aumentare del primo corrisponde un aumento del secondo). Pertanto le
persone con un elevato punteggio ACE con il passare del tempo saranno maggiormente a rischio per
le condizioni sia di salute che di malattia.
I rimedi che sono stati “scelti” a seguito degli eventi avversi nell’infanzia per alleviare il dolore
affrontato e vissuto, che nel breve termine sono stati efficaci, portano in sé un elevato potenziale per
serie problematiche di salute nel lungo termine, quali: malattie cardiovascolari, cancro, AIDS e altre malattie a trasmissione sessuale, malattie croniche polmonari, malattie del sistema immunitario,
eccetera. «Le cause di questi problemi hanno una elevata probabilità di rimanere nascoste a causa
della vergogna, del “segreto” e di tabù sociali, e allo stesso tempo la loro esistenza permane anche nel
setting di cura a causa degli stessi meccanismi. Anche se può non essere così indispensabile lo sve25
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lamento e la condivisione di questi eventi, i curanti devono però essere consapevoli del meccanismo
che questi fattori hanno nell’eziopatogenesi di queste malattie e offrire ai pazienti degli strumenti di
cura che permettano di trovare delle modalità di adattamento più salutari» (www.synergieaosta.com).
Attualmente, l’interesse scientifico internazionale nei confronti dello studio ACE è in aumento.
A Puerto Rico la correlazione tra gli abusi emozionali, fisici o sessuali vissuti in infanzia e la malattia
cardiovascolare femminile è stata riscontrata. In Canada, Cina, Giordania, Norvegia, nelle Filippine
e nel Regno Unito si stanno effettuando ricerche analoghe (www.cdc.gov).
Lo stretto legame tra eventi traumatici e dissociazione è oramai ampiamente riconosciuto (Liotti & coll, 2011): «la dissociazione somatoforme può manifestarsi tipicamente con la comparsa di
dolori acuti e cronici. Le memorie degli abusi fisici e sessuali possono presentarsi attraverso la sola
componente somatica (implicita) del ricordo, dissociata dagli eventi che l’hanno prodotta […] anche
se la mente non ricorda l’abuso il corpo ne ha memoria, ne tiene conto» (Ibid., pp. 57-58). Quando
gli eventi traumatici si verificano in tenera età, «può diventare adattivo un processo che può creare i
presupposti per un disturbo dissociativo di personalità. Infatti, è necessario dimenticare l’abuso per
mantenere l’attaccamento coi membri della famiglia» (Casonato, 2001, p. 9). Inoltre, sono anche am�
piamente riconosciuti gli effetti neurobiologici dell’abuso fisico, sessuale o dell’abbandono (Lanius
et al., 2010). Per esempio, si è dimostrato che l’ippocampo è particolarmente sensibile ai danni indotti
da stress precoce e le regioni mielinizzate come il corpo calloso sono vulnerabili all’impatto della
precoce esposizione a livelli eccessivi di ormoni dello stress.
Un altro filone di studi ha confermato che non è tanto l’espressione negativa o positiva delle
emozioni ad avere un effetto riscontrato sulla salute, come per lungo tempo teorizzato e ancora oggi
troppo facilmente sostenuto, quanto piuttosto la loro elaborazione che si integri armonicamente con
i fatti ed i pensieri. «Un’emozione può diventare “negativa” non per il suo contenuto, ma quando,
insufficientemente elaborata, viene negata, dissociata, confinata in un’area isolata della mente o, al
contrario, emerge in forma violenta perché insufficientemente elaborata» (Solano, 2013, p. 262).
Gli studi, tuttavia, stanno anche portando alla luce la complessità delle interconnessioni, attive
reciprocamente, tra mente e corpo. «������������������������������������������������������������
Il concetto di unità corpo/mente […] può apparire molto con�
vincente, e a qualcuno, quasi scontato, nell’attuale prospettiva culturale. Quello che le definizioni
non esprimono è l’enormità dei problemi che pongono, e che ha fatto sì, e fa sì tuttora, che nel pensiero e nel linguaggio questa posizione, che abbiamo definito “monismo non riduzionista unito a un
dualismo conoscitivo”, venga utilizzata in concreto molto raramente. Affermare che la mente e il
corpo sono la stessa cosa significa infatti attribuire al corpo le stesse caratteristiche che siamo soliti
attribuire al mentale; significa concepire un corpo che sente, risponde, soffre, gioisce, ha delle motivazioni; si costruisce nello sviluppo, fin dalla vita uterina, come un precipitato di relazioni; presenta
dei movimenti che possono avere, o assumere, un significato; presenta dei movimenti direzionali non
solo all’interno del soggetto, ma che mostrano anche una componente relazionale» (Ibid., pp. 67-68).
Secondo questa visione, «�����������������������������������������������������������������������
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il corpo, come la mente, si sviluppa all’interno delle relazioni primarie, e il suo funzionamento sarà fortemente influenzato da come queste si svolgono, fin dalla situazione intrauterina» (Ibid., p. 71). Da qui ne deriva che «il senso del somatico può essere compreso
soltanto all’interno di una relazione, come quella analitica, in cui sia possibile analizzare i movimenti della relazione stessa» (Ibid., p. 73). «Il significato di un sintomo somatico non esiste in partenza,
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
né può quindi essere considerato universale, ma può essere co-costruito, all’interno della relazione
analitica, esattamente come avviene per l’interpretazione di un sogno» (Ibid., p. 75).
Quanto finora scritto non è che una sintesi alquanto riduttiva della mole dei lavori che sono stati effettuati nell’ultimo ventennio (Lanius et al., 2010; Liotti & Farina, 2011; Solano, 2013; Porcelli, 2009).
Questi studi gettano nuova luce nella visione delle malattie nel suo complesso e mostrano l’ampia panoramica di un territorio ancora poco esplorato. Comunque, nonostante queste evidenze abbiano fatto assumere una posizione attiva e propositiva al Governo degli Stati Uniti d’America (www.
cdc.gov/ace), gli specialisti continuano a spendere le loro energie e a sostenere con sempre maggiore
forza quanto le malattie organiche e le sofferenze psichiche degli adulti siano riconducibili ad agenti
patogeni o a eredità genetiche e non alle offese concrete ricevute nell’infanzia.
Oggi possiamo riconoscere in Alfred Adler la grande capacità di conoscere l’uomo, l’acutezza
delle riflessioni cliniche, lo spiccato intuito innovativo e lungimirante ed anche una grande umiltà.
Adler aveva capito la complessità del rapporto mente corpo: «Non si è mai esplorato abbastanza
profondamente per stabilire in che modo il corpo venga influenzato e probabilmente non si avrà mai
una spiegazione esatta e completa di questo fenomeno. La tensione mentale influenza tanto il sistema
nervoso volontario quanto quello vegetativo. Nel sistema volontario, se c’è tensione c’è azione. L’individuo tamburella sulla tavola, si tormenta le labbra, fa a pezzetti un foglio di carta. Se è molto teso,
deve muoversi in qualche modo: masticare una matita o un sigaro fornisce uno sfogo alla sua tensione. Questi movimenti ci dimostrano che egli sente di non essere all’altezza della situazione. Lo stesso
si può dire se, quando si trova fra estranei, arrossisce, comincia a tremare o mostra con evidenza un
tic: sono tutti effetti della tensione. Il sistema vegetativo comunica la tensione a tutto il corpo, e così,
a ogni emozione, è l’intero corpo che viene a trovarsi in una situazione di tensione. Le manifestazioni
di questa tensione, però, non sono sempre così chiare, e noi possiamo chiamare sintomi solo quegli
aspetti di cui si possono individuare gli effetti. A un esame più accurato noi scopriamo che ogni parte
del corpo è coinvolta in un’espressione emotiva, e che queste manifestazioni fisiche sono la conseguenza dell’attività della mente e del corpo. È sempre necessario prendere in considerazione questo
interscambio di influenza della mente sul corpo e viceversa, dato che entrambi sono parti dell’insieme
di cui ci occupiamo» (Adler, 1927, pp. 51-52).
Per Adler, era proprio l’analisi dei casi a mostrare «molto bene l’influenza che la mente esercita
sul corpo: con ogni probabilità la mente non influisce soltanto sulla scelta di un particolare sintomo somatico; esso governa e influenza tutta la struttura del corpo. Noi non abbiamo prove dirette per confermare questa ipotesi ed è difficile vedere in che modo si potrebbe trovare una prova: gli indizi, tuttavia,
sembrano abbastanza chiari» (Ibid., p. 50). Oggi siamo, invece, molto più vicini alle “prove dirette”,
dunque alla comprensione scientifica di quanto Adler aveva osservato nella clinica un secolo fa.
V. Endometriosi e femminilità
«Il corpo è il custode della nostra vita e fa in modo che ci sia possibile vivere con la verità del
nostro organismo. Con l’aiuto dei sintomi, ci costringe ad ammettere tale verità anche a livello cognitivo, per consentirci di comunicare con il bambino che è vivo in noi e che in anni lontani è stato
disprezzato e umiliato» (Miller, 2004, p. 19).
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
Cosa sta comunicando attraverso l’endometriosi il corpo della donna che ne è affetta? Quale “verità” custodisce quel corpo, che lascia trasparire attraverso quei sintomi? Qual è il significato di una
sofferenza così profonda e acuta che colpisce, prevalentemente, gli organi sessuali interni?
Ascoltare le donne consente di cogliere alcune relazioni tra mente e corpo (Ardenti, 2006a,
2006b, 2010b) e di dare risposte a questi interrogativi; la testimonianza di Anna sintetizza molte
esperienze (Ardenti, 2013).
Anna è una giovane donna che all’età di ventinove anni, in un giorno come tanti, sente un dolore
acuto nel basso ventre che si irradia fino alla gamba. Il giorno successivo il dolore ������������������
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persistente e decide di andare al pronto soccorso. La prima ipotesi è appendicite, così viene ricoverata d’urgenza in
chirurgia, ma c’è qualcosa che insospettisce il chirurgo, il quale ritarda l’intervento e chiede un parere
a un collega ginecologo. Il consulto, tuttavia, conduce ad una diagnosi troppo evasiva per Anna che,
grazie al suo carattere determinato, non accetta una tale diagnosi e spinge perché i medici intervengano chirurgicamente. Al suo risveglio la diagnosi è più precisa: il suo dolore era l’esito di una rottura
di una ciste endometriosica.
In quel momento sono poche le spiegazioni che le vengono date sulla malattia: viene a sapere
che si tratta di una malattia con ampi cicli di remissione e ricorrenza, le viene caldamente suggerito di
cercare quanto prima una gravidanza e le viene prescritta una cura ormonale. Anna è una donna molto
esigente per accontentarsi di queste brevi informazioni: inizia cercando in internet, acquista alcuni
libri sulla malattia e contatta un’associazione di donne affette da endometriosi. In pochi mesi raccoglie una vasta quantità d’informazioni, molte delle quali fanno apparire uno scenario sfavorevole
fatto d’infertilità, recidive, interventi e menopausa farmacologica. Poche certezze e molta angoscia.
Vuole saperne ancora di più! Il suo impegno all’interno dell’associazione diventa sempre più
attivo e partecipativo, raccoglie le storie di numerose donne e, nonostante all’apparenza si tratti di
storie molto diverse tra loro, Anna si domanda se esista qualcosa che accomuni tutte le donne con
endometriosi. L’interrogativo rimane in sospeso per qualche anno e la risposta arriva casualmente.
Per un problema di salute indipendente dall’endometriosi consulta una naturopata che, attraverso la
raccolta delle informazioni anamnestiche, viene a sapere della malattia di Anna e le fa leggere ciò che
Dahlke (2000) ha scritto sull’endometriosi: «femminilità (inconscia) nel luogo sbagliato; il proprio
ritmo viene imposto ad ambiti problematici (ciclo dove è fuori luogo); gli aspetti collaterali della femminilità su un piano sbagliato sono indomabili (l’eliminazione dei prodotti di rifiuto del mutamento
ritmico della mucosa può avvenire solo chirurgicamente); la femminilità deviata (attività tipicamente
femminili in luoghi inadatti) costringe il polo opposto ad intervenire (la medicina attiva chirurgica,
come aspetto tipicamente maschile); dolori durante i rapporti dimostrano la presenza di conflitti in
quest’ambito; la femminilità a livelli inadeguati porta al blocco della fertilità femminile» (Dahlke,
2000, p. 249).
Per Anna si tratta di quella spiegazione che cercava, nella quale si riconosce pienamente e che
può essere quel denominatore comune, da lei cercato, alle tante storie di donne così diverse che
negli anni ha raccolto. Questa breve lettura porta Anna ad elaborare la sua sintesi sull’endometriosi: «femminilità impazzita che colpisce le donne che si sottraggono inconsciamente ad un compito
archetipicamente femminile. Spesso sono colpite donne che lottano su molti fronti e che per questi
conflitti fondamentali si sono private, per così dire, della veste femminile dell’anima, per essere meno
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
vulnerabili. Spesso tendono a prendersi troppe responsabilità e a tenere il proprio lato femminile severamente sotto controllo, per poter assolvere a ruoli così esigenti. Ma la ferita alla loro femminilità
continua a sanguinare anche di più a livello fisico e attrae così la loro attenzione su questo aspetto,
per lo meno una volta al mese» (Ardenti, 2013).
Anna inizia a riflettere su di sé e sulla sua storia e riconosce di avere ricevuto prematuramente
responsabilità da adulta che lei ha fatto sue e che ha portato avanti positivamente e con serietà; riconosce di essere diventata una “donna guerriera” e di esserlo ancora; e riconosce anche che l’endometriosi ha avuto il suo esordio in un momento della sua vita in cui la sua femminilità era particolarmente repressa, un periodo in cui teneva soffocato il suo desiderio di maternità. Per lei l’endometriosi
ha significato dare spazio a questo desiderio e, seguendo le indicazioni a lei date nel post operatorio,
dopo il ciclo di terapia ormonale a lei prescritto, cerca una gravidanza e circa un anno dopo Anna
diventa mamma di una bimba.
«Se nel corpo di una persona si manifesta un sintomo, questo attira più o meno l’attenzione su
di sé e spezza sovente in modo brusco la continuità della vita. Un sintomo è un segnale che calamita
attenzione, interesse ed energia e mette quindi in discussione tutta la normale esistenza. Un sintomo
esige da noi osservazione, che lo vogliamo o no. Questa interruzione, che sembra venire dall’esterno,
noi la percepiamo come un disturbo e in genere abbiamo soltanto uno scopo: far sparire al più presto
ciò che disturba (il disturbo). L’uomo non vuole avere disturbi, e in questo modo comincia la lotta
contro il sintomo. Anche la lotta significa attenzione e dedizione, e così il sintomo riesce a far sì che
ci occupiamo di lui. Dai tempi di Ippocrate la medicina ufficiale cerca di convincere l’ammalato che
il sintomo è un fatto più o meno casuale, la cui causa è da ricercare nei processi funzionali, che ci si
sforza tanto di studiare. La medicina ufficiale evita con cura di interpretare il sintomo e toglie quindi
importanza sia al sintomo stesso che alla malattia. In questo modo però il segnale perde la sua autentica funzione: i sintomi si sono trasformati in segnali insignificanti» (Dethlefsen & Dahalke, 1990,
pp. 20-21).
Anna, invece, ha fatto altro, ha cercato di capire qualcosa di più del proprio sintomo, andando un
po’ più in profondità per trovarne un significato (Dethlefsen, 1986). Con la sua testimonianza, Anna
mette in luce le elaborazioni e le considerazioni personali, frutto di un percorso di ricerca interiore,
caratterizzato anche da incontri e condivisione, orientato a una comprensione dell’endometriosi che
va oltre la sola spiegazione organica. Attraverso di esse, Anna ha mostrato la “voglia di verità” e la
recettività con cui ha accolto e fatto proprie interpretazioni psicologiche della malattia organica che
più spesso e per varie ragioni sono respinte e/o rifiutate e/o sottovalutate. Tuttavia, la sua ricerca si
è fermata a un primo livello di profondità; altro può venire scoperto approfondendo la ricerca nella
verità della propria storia attraverso un’analisi personale.
L’individuo non è solo un’unità indissolubile fatta di corpo e psiche, ma è anche un essere, si
evolve all’interno di relazioni con altri esseri umani e con l’ambiente. Il legame che unisce il corpo
alla psiche non è di causalità (un conflitto psichico causa una malattia organica), ma è di reciprocità
(corpo e psiche s’influenzano vicendevolmente); inoltre, un legame di reciprocità lega l’individuo
sia al contesto relazionale e ambientale in cui cresce, sia alle esperienze che vive nella propria storia.
Sul piano scientifico, l’endometriosi è una malattia complessa che potrà certamente beneficiare
degli approfonditi e innovativi studi multidisciplinari e, attraverso questi, potranno essere trovate
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
risposte scientifiche ai numerosi interrogativi che tuttora rimangono sospesi. Non sono ancora state
pubblicate ricerche scientifiche sulla relazione tra eventi sfavorevoli dell’infanzia ed endometriosi;
tuttavia, è già stata riconosciuta e provata la correlazione tra abusi sessuali e dolore pelvico cronico e
sessualità femminile (Weaver, 2009).
Sul piano della vita, una donna che ha l’endometriosi può cercare di scoprire molto della propria
malattia se, come è accaduto ad Anna, oltre alla propria dimensione organica, si apre alla propria dimensione psicologica e relazionale, collocandole entrambe all’interno della propria “verità storica”.
Il dinamismo inconscio (cioè ricordi, emozioni e bisogni che sono rimossi, negati o scissi) «di
ogni essere umano coincide, a mio giudizio, con la sua storia, che è interamente depositata all’interno
del corpo ma rimane accessibile alla coscienza soltanto per piccoli frammenti» (Miller, 2004, p. 9).
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lare a se stessi la propria verità, riconoscere le proprie compensazioni fittizie
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e le finzioni rafforza�
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te per poi confutarle, comprendere le proprie emozioni ed avviare un’elaborazione più autentica sono obiettivi irraggiungibili in solitudine, ma realizzabili all’interno di una relazione terapeutica sicura,
attraverso un percorso che conduca verso un’armonia bio-psichica complessiva, che corrisponde a un
migliore stato di salute integrata, sia psichica sia fisica, e a una riconciliazione con il proprio passato.
Ed è attraverso il percorso di analisi, che alcune donne hanno deciso di intraprendere, passando
anche attraverso molte difficoltà e prove (Weiss, 1993; Casonato, 2001; Miller, 1996) che sono
emersi i ricordi delle esperienze infantili sfavorevoli ed i relativi vissuti, svelando così a se stesse la
“propria verità”.
L’endometriosi è una malattia che segnala la sua presenza attraverso sintomi corporei localizzati
prevalentemente negli organi sessuali interni, che sul piano psico-relazionale coinvolge aspetti dell’identità e del ruolo sessuale, di cui la femminilità occupa una parte importante, e che sul piano sociale
richiama il contesto culturale e familiare in cui la donna è cresciuta e da cui ha molto assorbito. La
sofferenza emotivo-affettivo-relazionale è troppo grande per essere sminuita considerandola solo una
reazione a una malattia complessa oppure considerando “isteriche” le donne che ne sono affette. Si
tratta di una sofferenza psichica molto profonda e variegata e di un corpo particolarmente sofferente,
quindi di un’unità biopsichica che chiede a gran voce di essere ascoltata e compresa.
«Il corpo è il palcoscenico di eventi psicologici nascosti. […] Si tratta quindi di scoprire che cosa
abbia offeso l’anima e, a tal fine, il corpo fornisce le indicazioni necessarie» (Dahlke, 2000, p. 8).
«Che ci piaccia o no (e che piaccia o no alla medicina ufficiale) i pesi del corpo e dell’anima, sui piatti
della bilancia della vita, sono simili. Se non riusciamo a superare psichicamente qualcosa, il corpo
interviene e lo fa a suo modo. Solo così, evidentemente, è possibile mantenere i piatti della bilancia
in posizione orizzontale. Se poi, alla fine, cominciamo ad elaborare psichicamente il tema, il corpo
può allentare i suoi sforzi sintomatici, la bilancia rimane in equilibrio e noi parliamo di guarigione.
L’anima ritorna alla sua responsabilità e vive consapevolmente la tematica che, prima, è dovuta essere
rappresentata inconsciamente nel corpo, mediante il quadro clinico» (Ibid., p. 28).
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
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