Progetto Facciamo un libro as 2010-2011

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Progetto Facciamo un libro as 2010-2011
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE,DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA
UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE PER IL LAZIO
LICEO GINNASIO STATALE
“ORAZIO”
Via Alberto Savinio,40 – 00141 – ROMA — 06/82.49.56  06/868.91.473 C.F. 80258390584
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Roma, 1 aprile 2011
Anche nel corrente anno scolastico il nostro liceo ha ottenuto un importante risultato nell’ambito del
progetto “Facciamo un libro” promosso dalla Fondazione Bellonci.
Flavia C. della classe III A e Giulio A. della classe II A sono gli autori di due racconti selezionati tra i
quindici scelti in tutte le scuole di Roma e Provincia, per costituire un libro edito dalla Fondazione.
I quindici autori prescelti esprimeranno un voto per l’attribuzione del Premio Strega, dopo aver ricevuto
in dono i romanzi di tutti i finalisti.
La manifestazione avrà il suo apice nell’incontro tra gli studenti e gli scrittori in una delle sale
dell’Auditorium Parco della Musica, con la partecipazione del Presidente della Fondazione, professor
Tullio De Mauro.
Si allegano i racconti dei due studenti ai quali vanno i complimenti di tutto il liceo.
Il Dirigente Scolastico
(prof. Massimo Bonciolini)
Antologia di Malcarne
Squali
Maria Giulia è morta dilaniata dagli squali. E pensare che tutto era iniziato
come un gioco. Una ragazza di Bologna, ma non di Bologna, perché se
imprecava lo faceva in pugliese, se pensava lo faceva in pugliese, e se nuotava
lo faceva in pugliese. Ho sempre pensato fosse vissuta per milioni di anni,
tempo impiegato dal suo corpo per evolversi e raggiungere la forma più adatta
a tagliare i mari, come il primo delfino che, stanco di camminare sulla
terraferma, sprofondò in volontario esilio nelle acque. Ho sempre pensato fosse
lei l’anello di congiunzione tra la terra e il mare: ossa cave e sottili, per
scivolare sull’acqua e per ballare sulla terraferma, mani minuscole ma
palmipedi, dita quasi inesistenti per fendere onde nell’acqua e per stringere
sigarette sulla terraferma, un seno da far girare mezza spiaggia, nell’acqua le
serviva a tenerla a galla, sulla terraferma anche. Tutto in lei levigato, dai
capelli d’alghe fino all’affusolata punta dei piedi, tutto in lei erosione del tempo
e dell’acqua… milioni d’anni d’evoluzione. Trovava il suo essere nella sua
trasformazione. Lo stesso viso di lei sembrava il risultato di chi ha immerso la
faccia in una bacinella di lentiggini. Se ogni persona è incatenata a una forma
di tempo, lei lo era senza dubbio al passato; ma un passato deformato e
modellato in funzione di qualcos’altro, come le sue mani. Lei era nata per
tenersi a galla.
Le sue incursioni sulla terraferma erano rare, ma seminavano sempre
scompiglio, tra gli abitanti della spiaggia. Periodiche incursioni, finalizzate a un
motivo preciso: il suo sostentamento. Tutti i più freddi giorni d’estate, rapiva un
ragazzo della spiaggia e lo portava al largo, per sempre; la spiaggia pagava
così il suo tributo al mare. Sempre stato così, per lei: emergere, riprendere aria
dopo l’ultima immersione, passare la spiaggia al setaccio, prendere un altro
ragazzo e portarlo laggiù, in faccia a qualcosa, non si sa cosa, più vasto
dell’orizzonte, più profondo del mare. C’era chi come me, spaventato da tutto
questo, si nascondeva nelle cabine; c’era chi si vantava di voler combattere il
mostro, e domarlo; c’era chi sarebbe volentieri morto affogato.
Venne a cercare me, il più freddo pomeriggio di quell’estate, e io stavo a fianco
al muretto bianco, avvolto in un asciugamano, il vento lo portava via. Appena
arrivata mi disse di togliermi l’asciugamano; poi mi domandò se sapevo degli
squali. Quali squali? – Chiesi io.
- Hanno trovato uno squalo, sotto la diga, alla spiaggia accanto.
- Non ci sono squali in Puglia! E se ci sono, sono piccoli. – Era un giorno in
bianco e nero, i bambini giocavano nudi nella sabbia.
- No, no, bello, mio cugino mi ha detto che era grandissimo! Almeno così!
Allargò le braccia, ma la piccolezza delle sue braccia non rese giustizia alla
lunghezza dello squalo. Se era stato il cugino, a dirglielo, allora non poteva
essere altrimenti. Lei e il suo cugino-orso erano nati lo stesso giorno dello
stesso anno, gemelli astrali, o qualcosa del genere. La parola di un gemello
astrale, per lei, era avvolta da una tale magia, da renderla credibile.
- Perché non te lo fai ammazzare da tuo cugino? Quello se li mangia a
colazione, gli squali.
- Io non voglio ammazzarlo. Io li amo, gli squali. Voglio vederlo… lo squalo.
- Senti… se tu vedi lo squalo, vuol dire che lo squalo vede te. Se lo squalo vede
te, ti ammazza. Ma andare all’acquario di Genova, no?
- Quelli sono squali finti. Lo squalo dev’essere libero, deve girarmi intorno.
- E tu? Nella gabbia?
- No, senza gabbia. Anch’io devo essere libera.
Mi tolsi l’asciugamano, lo lasciai cadere nella sabbia. Mentre mi avviavo con lei
verso il bagnasciuga, la spiaggia si girava raccolta, come si girava sempre
quando vedeva l’ennesimo ragazzo rapito prendere il largo. Non c’era un filtro
di sole, le conchiglie riflettevano il grigiore delle nuvole.
- Ma tu hai paura degli squali? – Ripresi io, mettendo i primi piedi nei ciottoli
acquosi.
- Tantissima. E’ la mia più grande paura da quando ero piccola. Nei miei incubi
c’è sempre uno squalo. Però li amo. Tu? – Disse scendendo i suoi gradini.
- Io no, non ho paura. Perché non ci sono squali, in Puglia. Attenta a non
calpestare i granchi.
- Come fai a saperlo, se non sei mai stato al largo? Fin dove sei arrivato,
nuotando?
- Fino alla boa rossa… non sono mica nato in acqua come te. Mica sono un
delfino, io. – L’acqua mi schiaffeggiava il principio delle cosce.
- Scapucchione! – Seminava termini pugliesi, per raccogliere concetti
universali. L’acqua le riempiva l’ombelico.
- Fin dove vuoi arrivare, all’Albania? – Petto immerso. Per chi ha l’Albania
dall’altra parte dell’Adriatico, questa è divenuta una terra leggendaria dove
finiscono tutte le nuotate chilometriche. Tesoro, attento alla corrente, se no
finisci in Albania! Ragazzi, puntiamo all’Albania! Andiamo a trovare i nostri
amici albanesi, Vincè! Albania, ritrovo dei naufraghi, noi, emigranti al contrario.
- Non è importante arrivare all’Albania… - disse lei sciogliendosi i capelli - più
che altro il percorso che ti lega all’Albania, la linea che percorre il mare e si
conficca nell’orizzonte lontano. E’ come quando usciamo la sera: c’è chi vuole
andare al biliardo, chi vuol andare alla marina, ai rimorchiatori, chi vuole
andare a Ostuni a ballare, e non ci si decide mai, dove andare. Però nel
frattempo la serata è passata, e anche piacevolmente, no? Dio, odio quando la
gente non si decide dove andare, ma alla fine è di quelle serate che d’inverno a
Bologna sento più nostalgia. – Abbandono della postura eretta della camminata
per lanciarsi nel sentimento orizzontale della nuotata.
- Non ho capito. Hai detto che hai una paura matta degli squali, no?
- Sì. Ma morire dilaniata dagli squali è una bellissima morte, se ci pensi. –
Vedevo i suoi piedi battere ritmicamente davanti al mio naso, schizzarmi
schiuma.
- Tu hai paura degli squali, perché sono sempre stati nei tuoi sogni. Ora che ci
penso, anch’io ho paura degli squali, perché ho paura più che altro di tutto ciò
che sta al di là della boa rossa… che ne so io, magari tuo cugino aveva ragione.
Magari c’è una colonia di squali, più in là, e saremo noi a scoprirla per primi.
Non credo andrò molto lontano, se continuerò a pensare agli squali. Ma come
fai a non pensarci? – dissi staccando l’ultima punta di piedi dal fondale marino.
– Come fai a non pensarci, Maria Giulia?
Si girò indietro, verso di me - Facciamo così: noi nuotiamo, superiamo quei
bambini che giocano col materassino, poi superiamo i salvagente, poi la
bandierina gialla di quel sub, poi quella coppia in canoa, poi quel vecchietto
che nuota tutto solo, poi la boa rossa, poi usciamo dalla baia, poi il mare
aperto, poi verso l’Albania… superiamo tutti. Ogni tanto urliamo quanto
abbiamo paura da uno a dieci, tanto non ci sente nessuno. Quando urliamo
tutti e due – DIECI! – torniamo indietro, squali o meno.
- Lo sai che urlerò –DIECI!- quasi subito…
- Tu non fai testo, sei un cagasotto! Vuoi un consiglio? Non guardare l’acqua
sotto di te. Specialmente l’acqua nera. Capisci che ti sei veramente allontanato
quando l’acqua da blu diventa nera. Non vedi quello che succede sotto, potresti
anche avere uno squalo che ti annusa i piedi, capito? L’unica cosa che mi fa più
paura degli squali, è il mare nero sotto di me. Se lo vedo, impazzisco.
- Sempre avanti, mai sotto. Però ho paura lo stesso.
- Quanto?
- Due.
- Io zero.
Mi lasciava sempre indietro, in ogni sua mossa. Ogni sua bracciata lasciava uno
spazio incolmabile a dividerci; lei ha sempre trovato tutti gli appigli nel mare,
conoscendo a memoria la strada, mentre io arrancavo come una macchina
inceppata, un cieco a cui hanno spostato i mobili di casa. Lei sciava, io
sbattevo gli stinchi. Pur compiendo gli identici movimenti, lei si spostava
sempre mezzo metro più di me. A volte mi fermavo a guardarla, per poterne
poi replicare i passi. A volte il mio orgoglio maschile mi spingeva a superarla
con uno sforzo di gambe, ma subito dopo il mio senso di smarrimento infantile
la lasciava tornare davanti. Non importava io fossi alto due metri e lei quaranta
centimetri di meno, non contavano le braccia lunghe e le spalle possenti, il 50
di piede potenzialmente capace di spostare mezzo Mar Adriatico, quando si
capiva benissimo che lei era nata per tenersi a galla, io per affondare.
- Conosco mia madre, se mi vede nuotare verso il largo si preoccupa. Le viene
l’asma, porca miseria. – Dissi io, e nel parlare bevvi un po’d’acqua, come quelle
ragazze che, mentre fai il bagno con loro, parlano, bevono, tossiscono, parlano,
ansimano, bevono, e pur di continuare a parlare rischiano la morte per
annegamento; penso sia il loro sogno, affogare parlando, parlando, parlando…
Lei in quel caso non mi degnò di risposta, continuando impassibile a nuotare in
una rana rudimentale, ma che mi lasciava sempre mezzo metro dietro. – No,
dico, sto parlando con te!
- Quanta paura hai da uno a dieci? – Disse superando con un guizzo da delfino
la boa rossa, sfiorandola con la mano.
- Cinque! Ma perché mia madre mi starà guardando, si starà chiedendo dove
voglio andare. Tu?
- Due. Io non ho nessuno dall’altra parte.
Per i successivi cinque minuti nuotammo. Per tutto il tragitto fui taciturno di
parola, ma non di pensiero: se solo per un attimo tutti i miei pensieri in testa si
fossero fatti solidi, sarei andato a fondo spezzandomi il collo. La traiettoria di lei
disegnava una linea retta sul pelo dell’acqua, la mia un percorso a zigzag,
perché a nuotare con gli occhi aperti non ci riuscirò mai. Il sale mi ha sempre
mangiato gli occhi. A volte finivo fuori rotta, e rialzando la testa mi sentivo uno
scemo. A volte andavo a finirle addosso, rischiando di farle male. Di tanto in
tanto lei ispezionava il fondo, riemergeva riferendo il tempo impiegato a
toccare gli scogli con la punta delle dita.
- Non sono riuscita a toccare il fondo, questa volta.
- Pensa quanto siamo lontani. – Dovevo crederle sulla parola; l’ultima volta che
ci avevo provato, ad andar giù con lei, ero sceso quel tanto che bastava per
poter dire di aver partecipato all’immersione. La guardavo dall’alto, non
riuscendo a spingermi oltre i due metri, mentre lei ispezionava il fondo.
Cercavo di mantenere quella posa controllata più tempo possibile, di
aspettarla, ma l’aria finiva subito, gli occhi urticanti di sale, l’urlo acuto nelle
orecchie. Il mio orgoglio affogava, uscivo fuori, ansimando.
- Ancora niente squali. – Sembrava dispiaciuta.
- Non ci sono gli squali, in Puglia!
- E invece sì, stiamo entrando nella loro zona, abbiamo superato la baia, siamo
in mare aperto. E’ da queste parti che hanno trovato lo squalo.
- Dai, torniamo indietro! Non ci sono squali! Ho paura del mare aperto,
veramente!
- Cagasotto! Quanta, da uno a dieci?
- Sette!
- Io pure sette, lo sai?
- Allora torniamo a riva!
- Solo quando urliamo dieci…
- Oddio, è mia madre quella sul pontile?
- Non la vedo!
- Ma è me che sta chiamando? Chi è quella sagoma alta accanto a lui?
- Il bagnino! E’ Gian Marco, il bagnino!
- Oddio, torniamo a riva! Mia madre… le prenderà l’ansia! Starà guardando il
mio puntino urlando: Dove cazzo va!
- Hai paura?
- Sono preoccupato, è diverso…
- L’hai mai vista Malcarne da questo punto? Da fuori la baia?
Mi girai - No, ma mio padre sì. Mi ha raccontato che la prima volta che ci entrò,
a sei anni, arrivò dal mare, con la barca del nonno. Per le successive diecimila
dal parcheggio di polvere rossa, dalla terra, ma la prima… la prima fu dal mare.
Pazzesco. Il nonno la indicava da lontano, costeggiando il litorale,
presentandogliela come una delle tante; scommetto che nemmeno si ricordava
il nome. E’ un po’ come quando ripensi alla festa dove ti presentarono per la
prima volta tua moglie. – La spiaggia sempre più lontana, lontana…
Cominciavo a non veder nulla davanti a me e sotto di me, il mare cominciava a
dare le prime, piccole dimostrazioni dei suoi leggendari muscoli; si divertiva a
spaventarmi, sapendo che ormai ero suo, piccoli schizzi in faccia, ma che erano
puro terrore, una potenza celata; ero pronto a implorargli perdono per averlo
sottovalutato, ero pronto a maledire la mia pazzia. Poi, la paura scomparve
insieme alle sagome sfocate dietro di me. Non vedevo più niente, ora.
- Giulio… comincio ad avere molta paura. Otto.
- Io invece no. E’ stranissimo. Cinque, quattro! Sai cos’è? Da quando non riesco
a veder più la gente dietro, mi sento tranquillo! Potrei nuotare fino in Albania!
Tre, due…
Non so perché lo feci. Mi sentivo così felice, avevo voglia di cazzeggiare.
Rovinai tutto.
- Ehi! Cos’era? L’hai visto? - le urlai da dietro.
- Cosa!? – fece una giravolta verso di me.
- Ho visto qualcosa muoversi, sotto! – Non so perché lo feci.
- Oddio! – Cominciò a girare su se stessa, tre, quattro, cinque volte. Guardò
sotto di sé. – Giulio, l’acqua nera!
Aveva ragione. Il mare era nero.
- Dai, stavo facendo lo scemo! Non ci sono squali!
- Oddio, Giulio, il mare nero! Cos’era, sotto, cos’era? Qualcosa s’è mosso!
DIECI! DIECI!
- Calmati! Sei un delfino, non devi avere paura degli squali! – Ridacchiavo, ma
cominciavo a pensare il suo terrore non fosse finzione, stavolta.
- Oddio Giulio, gli squali! Urla dieci! Urla dieci! – Continuava a girare su se
stessa.
- Ma stavo…
- Urla dieci!
- Ma siamo venuti fin qui!
- BONA, GIULIO, URLA DIECI!
- DIECI! DIECI!
- DIECI!
Fu la prima volta che vidi la predatrice divenire preda inseguita. Mi travolse
ciecamente, a testa bassa verso lo scoglio più vicino, la prima terraferma
disponibile. Cominciò a mulinare verso la riva, raggiungendo velocità mai viste.
Le venni dietro, inseguendola come avevo fatto per tutto il viaggio d’andata.
Malcarne divenne una signora sempre più grande, sempre più grande…
Cercando di starle dietro, mi sentivo tremendamente in colpa per quello che
avevo fatto. Se fossi riuscito a raggiungerla le avrei chiesto perdono; ma come
facevo a raggiungerla? Il ritorno si consumò in fretta, e consumò insieme a sé
anche il viaggio di andata.
Posò la piccola mano sopra lo scoglio della mia cabina. Si arrampicò
goffamente sulle rocce, arrivò in cima, rischiando di cadere. Poi si voltò verso di
me, che uscivo barcollando in quel momento dall’acqua, mentre un bimbo col
retino mi faceva – Ehi, sei andato in Albania, eh!
- Giulio, ma mi dici che sei andato a fare al largo? - Disse mia madre
guardandomi dall’alto delle scale. Stringeva il mio asciugamano.
Gli squali… non lo dissi, ma lo pensai. Mi girava la testa da impazzire. Sempre
così quando esco dall’acqua. Salii le scalette.
- Giù, non per niente, lo so che sei grande e grosso, ma non devi superare la
boa rossa. Tua madre si preoccupa, e a me mi si inculano! – disse il bagnino
Gian Marco con la maglietta rossa del salvataggio infilata al contrario.
Mi girai a guardarla, mi fermai a due metri da lei. Lei gocciolava sulle piastrelle,
guardandosi i piedi. Le vennero incontro dei ragazzi, circondandola, colsi poche
frasi, uè dove stavi, che stavi facendo malandrina, dài vieni con noi, ti
aspettavamo. Lei ferma, e loro che le giravano intorno.
Se ne andò sbattendo i piedi palmipedi sulle piastrelle. Guardandola
allontanarsi, l’ennesima volta in quel freddo pomeriggio d’estate, mi sentivo
allora più in colpa che mai. La vedevo allontanarsi indebolita tra i ragazzi,
cosciente di come il suo più grande atto di morte e d’oblio non fosse stato
entrare in acqua, quanto uscire dall’acqua. La vedevo prendere il largo…
Questa è la storia di Maria Giulia, Maria candida vergine meridionale, Giulia
infiammata rampolla latina, ragazza di Bologna sulla terraferma, ragazza
pugliese nell’acqua, sopravvissuta agli squali di mare, per venir dilaniata dagli
squali di terra. Lei mi ha insegnato che tenersi a galla, è la cosa più difficile.
Giulio Armeni
II A
Le regole del gioco
Boris E. non aveva mai amato le stanze troppo illuminate. Appoggiò il sigaro spento accanto al
candelabro, unica debole fonte di luce.
L’ombra della poltrona su cui era seduto assumeva le dimensioni di un enorme trono sulla parete
alle sue spalle, mentre quella di Ludmila si distingueva appena, completamente sovrastata dalla sua.
“Non metti più quell’abito azzurro, Luda.”
La giovane raggomitolata di fronte a lui stirò pigramente una gamba tenendola in alto; lasciò che la
vestaglietta le scivolasse dolcemente più in basso. “E’ vecchio ormai.” Sbadigliò.
Le rughe del volto di Boris si fecero più pronunciate; ma fu questione di un istante.
Provò il desiderio di chiudere al più presto quel discorso. “Ti donava molto…” mormorò a bassa
voce. Erano passati solo pochi istanti e i fonemi appena pronunciati gli apparivano già distanti.
Il silenzio che si era ristabilito fra loro era così netto da rendere distinguibile il tocco leggero dei
polpastrelli di Luda sulle sue gambe. L’uomo seguiva con lo sguardo le sue dita fresche e minute
arrampicarsi dal collo del piede e accarezzare velocemente il polpaccio latteo, fino a scomparire
sotto l’orlo dell’abito. Piegò l’altra gamba sul bracciolo della poltrona fino ad assumere una curiosa
posizione diagonale. A Boris venne in mente il soggetto di un quadro, ma non riusciva a farsi
tornare in mente il titolo o l’autore; pensò con rammarico che forse le avrebbe fatto piacere un
paragone di quel genere. Luda sbadigliò ancora, marcatamente.
O forse neanche ci avrebbe badato. “E’ come una bambina”si disse l’uomo fra sé. “abbiamo
viaggiato appena due ore in carrozza e ha già sonno, sebbene abbia poltrito tutto il giorno e non le
abbia fatto mancare nulla di ciò che chiedeva.”
La candela disegnava piccoli giochi di luce sui suoi occhi chiusi. Sembrava ancora più fragile di
quanto già non fosse, una debole e precaria fogliolina secca. Boris si chiese se non fosse frutto della
sua immaginazione. Non era la prima volta che se lo domandava. Anche stavolta non seppe
rispondersi.
Ludmila tossì e il suo petto sussultò violentemente. “Sai, questo sciroppo miracoloso del tuo amico
stregone non serve a molto.”
“E’ per sottoporti alle cure di un altro specialista che siamo qui, Ludji.” le ricordò l’uomo con aria
assorta e non troppo convinta. Schiarì la voce.
“Vedrai che risolveremo presto questo problema.” cercò di assumere un tono rassicurante anche se
in realtà era il primo a essere preoccupato per quella brutta bronchite. Entrambi i genitori di
Ludmila se n’erano andati per malattie respiratorie. Di certo il medico a cui si erano rivolti, se mai
avessero trovato i soldi per farlo, non era un luminare come quelli che abitualmente frequentava lui.
Ma il sospetto di una particolare predisposizione o di un crudele destino comune che si sarebbe
portato via anche la sua giovane pupilla non faceva dormire sonni tranquilli a Boris.
Per questo quando si erano presentati i primi sintomi aveva deciso di contattare il migliore
specialista nella città più vicina - per un caso fortunato aveva fatto la conoscenza di quest’uomo
appena poche settimane prima, nel salotto di un avvocato- e cercare di far visitare la sua pupilla
quanto prima.
Dal canto suo quest’ultima dimostrava di non preoccuparsene, ed era probabile che cercasse di
accentuare i suoi piccoli attacchi di tosse quando si presentavano. Spesso l’uomo aveva la
sensazione che una volta percepito l’arrivo di un attacco dei suoi la giovane trattenesse il respiro per
farlo esplodere con maggiore violenza.
“A ogni modo se evitassi di girare sempre scoperta forse sarebbe meglio…”. Lo disse senza troppa
convinzione, come se dovesse riportare parole di qualcun altro. La ragazza sorrise divertita. “Non
cercare di convincermi che ti dispiaccia che io stia sempre così…” voltò il capo a indicare la sua
spalla.
Il cuore di Boris ebbe un lieve sussulto, come se ci avessero soffiato delicatamente dentro.
“Puoi stare come più ti piace, lo sai…”. “Lo so, Borja caro. Posso fare tutto ciò che desidero…”la
sua voce s’era fatta più flebile, poco più di un sussurro. Attorcigliò una ciocca di capelli con le dita
e alzò gli occhi fino a incontrare il suo sguardo. “anche morire…”, finse un’espressione corrucciata.
L’uomo abbassò lo sguardo. Perché doveva rendere le cose più difficili di quanto già non lo
fossero? “andarmene così…sparire con un soffio del tuo vento del nord.” Ludmila mimò con il
braccio un alito di vento.
Le piaceva tirare in ballo quel genere di discorsi. Il suo tutore, il barbuto e imponente professor
Boris Godunov. sembrava sgretolarsi fino a diventare polvere davanti ai suoi occhi.
“Senti, Mila, smettila con queste storie…basta…”.
La ragazza ammiccò, compiaciuta. Al leggero movimento della testa da un lato i capelli le
scivolarono sul petto. “Sai che sarei capace di farlo. Anche se non lo vuoi ammettere…” Alzò le
braccia fino a portarsele dietro la nuca. La fiamma nella stanza danzava debolmente agitata dai
movimenti delle vesti di Ludmila. Boris la teneva d’occhio, temeva che da un momento all’altro il
fuoco potesse scottare quelle morbide gambe affusolate.
“Non scherzare, dai…” - si piegò in avanti, quasi a dar segno di voler proteggere il corpo della sua
pupilla da quelle fiamme danzanti. Serbava la remota speranza che presto il gioco sarebbe
terminato: se c’era una caratteristica particolare che contraddistingueva Ludmila era la propensione
a farsi venire a noia velocemente gli svaghi in cui sembrava trovare fino a poco prima tanto
interesse. Boris questo lo sapeva bene.
Ma stavolta Ludmilla continuava a tenerlo d’occhio con la stessa espressione divertita. Dalla
poltrona scivolò sul tappeto e si mise a sedere, lasciando che la camicia da notte le scoprisse una
spalla. Spiò la reazione di Boris, che cercava di mostrarsi impassibile. Il tessuto leggero arrivò quasi
a mostrarle il seno. “Ma io non scherzo affatto, Borja”. La sua voce s’era fatta ferma d’un tratto.
Come un soldato che torna sull’attenti.
La candela stava per spegnersi del tutto, le braci nel caminetto si erano raffreddate da tempo;
ormai la stanza era quasi del tutto al buio.
Tuttavia il calore lì intorno sembrava essersi fatto ancora più intenso. Non riuscivano a smettere di
fissarsi l’un l’altra. L’uomo provò la stessa sensazione di poco prima, le parole appena pronunciate
erano già state rimosse, come qualcosa di ingombrante e scomodo. Se gli avessero domandato quali
fossero non avrebbe saputo rispondere.
A un tratto Ludmila si rimise in piedi con un guizzo. Avanzò verso di lui canticchiando sottovoce
una nenia, con le vesti che dondolavano a ogni suo passo.
Boris seguiva il profilo di quell’abito, come poco prima osservava la fiamma della lampada.
“Non è affatto uno scherzo, no. E lo sai perché?” . Si appoggiò sul bracciolo della poltrona, accanto
alla mano di lui. “perché qui qualcuno sta rischiando…” seguì con le dita il contorno delle sue
falangi robuste. “…e quel qualcuno non sono io.” Si rivolgeva al suo tutore come se fosse un
infante in attesa di un rimprovero.
L’uomo sentiva il sudore imperlargli la fronte. E il desiderio che fossero quelle soffici mani ad
asciugarlo non faceva che aumentare la sua eccitazione.
“Tu vaneggi, Ludji, dev’essere la febbre…vieni, perché non andiamo a riposare ora?” la voce
tremava un poco.
“E invece sai bene di cosa sto parlando…”
Boris credette che Ludmila stesse per rizzarsi a sedere. Invece si abbandonò all’indietro fino a
lasciarsi cadere fra le sue braccia che la recuperarono all’istante; aveva il terrore che potesse farsi
male.
“Mia piccola Mila, attenta…”
Chiuse gli occhi e li riaprì. Sembrava una bambola di porcellana che fissava il mondo con le sue
pupille spente. Create unicamente per soddisfare il gusto di chi desiderava specchiarvisi dentro.
“Vedi?a me non importa di cadere, sei tu che sei subito pronto a recuperarmi. Se me ne andassi per
sempre, sarai tu a morirne. Io smetterei solo di respirare, d’un tratto. Tutto qua.” tacque, per un
istante. Riaprì gli occhi.
“Tutto qua, Boris. Non è uno scherzo.” Sospirò profondamente.
“E’ un gioco. E queste sono le sue piccole regole”.
La candela si era consumata del tutto.
Flavia Cidonio III A