1 Prof. Vito Cardone Portavoce Interconferenza dei Presidi

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1 Prof. Vito Cardone Portavoce Interconferenza dei Presidi
Prof. Vito Cardone
Portavoce Interconferenza dei Presidi
Presidente della Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Ingegneria
Le interessanti relazioni svolte confermano quanto già sapevamo, sostanziando con dati impressioni
derivanti dalla quotidiana frequentazione dei presidi con gli studenti e i professori e dalle analisi
delle statistiche che, ormai da anni, vengono condotte un po’ in tutte le facoltà e spesso sono oggetto di riflessione nelle Conferenze dei Presidi e in Inteconferenza.
Particolarmente interessanti le osservazioni e i dati di sintesi del prof. Corbino, a proposito dei quali
va notato come le migliori prestazioni, o i minori ritardi e le ridotte difficoltà, che si rilevano per i
corsi di studio a ciclo unico sono connesse al fatto che quasi tutti questi corsi sono a numero programmato nazionale, con accesso a valle di una prova di ammissione unica nazionale per ogni tipo
di cds, che provoca una selezione in alcuni casi – non solo a medicina – abbastanza significativa.
Selezione che, va ricordato, si produce già a monte, giacché molti degli studenti che aspirano a immatricolarsi a questi cds si auto selezionano: basti pensare che nel caso di architettura, che presenta
percorsi sia a ciclo unico sia articolati sul 3+2, con accesso agli uni e agli altri mediante la stessa
prova, nelle sedi che offrono entrambi i percorsi gli allievi che scelgono il ciclo unico conseguono
alla prova risultati mediamente migliori di quelli che scelgono il percorso sul 3+2.
Dai dati e dalle considerazioni di Corbino, emerge pure che per affrontare il problema degli abbandoni e dei ritardi sono necessari anche alcuni interventi di tipo normativo e strutturale, che servono
servizi e cose tangibili e non solo, per così dire, immateriali. Comunque, non esiste una soluzione
semplice né perseguibile privilegiando una sola azione che oggi può sembrare molto efficace. Ed
occorre evitare di rincorrere parole o formule magiche, che possono avere solo l’effetto di generare
nuove illusioni. Già ne abbiamo avute troppe.
I relatori hanno ricordato come le azioni coinvolgono diversi soggetti: ad esempio l’orientamento in
entrata deve vedere coinvolta la scuola secondaria. Opportunamente, però, hanno posto l’attenzione
sul ruolo che deve svolgere l’università – in particolare le strutture didattiche, ma non solo – e si
sono chiesti quale tipo di orientamento bisogna condurre.
Si tratta di una questione delicatissima, sulla quale occorre essere chiari. Vi è il pericolo che
l’orientamento, soprattutto quello in entrata, sia considerato come la panacea o la chiave di volta del
tutto, con il pericolo di accreditare e dare nuova linfa a iniziative dubbie che, da anni, stanno invadendo l’università e la scuola secondaria con risultati più dannosi che inutili, distraendole dal lavoro
istituzionale e da interventi che possono risultare ben più efficaci. Ne abbiamo fin sopra i capelli di
kermesse tipo ‘orienta questo’ e ‘orienta quello’, che magari chiamano al protagonismo cosiddette
‘nuove professionalità’, le quali spesso utilizzano l’orientamento per tentare un ‘orienta-mente’ che
si concludono il più delle volte in un ‘orienta-niente’, se non in un totale disorientamento.
Non è che non si creda nella bontà dell’orientamento. La Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Ingegneria, ad esempio, già dieci anni fa ha sottoposto al Ministero uno specifico progetto di orientamento, che non è mai stato recepito non perché ritenuto inadeguato ma perché avrebbe invaso competenze ritenute di altri e per mancanza di fondi.
Il problema è serio. Sempre nell’ambito dell’ingegneria, che presenta la più alta percentuale di immatricolazione (pari ormai a quasi il 13% di tutti gli immatricolati all’università italiana) vi è molta
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disinformazione e molto disorientamento1. Spesso a dispetto, se non proprio per effetto, delle azioni
mirate di orientamento che sovente, se non condotte direttamente dalle facoltà, si limitano a sottolineare gli sbocchi occupazionali (non c’è dubbio: molteplici e con retribuzioni tra le più alte) e
l’esigenza di una buona preparazione in discipline scientifiche quali la matematica e la fisica.
La forte crescita di immatricolati comporta però numerosi problemi, da affrontare e risolvere con
determinazione e senza demagogia. Essa, in particolare, ha fatto sì che il livello medio degli studenti alle facoltà di ingegneria sia crollato. E ciò non solo per quanto concerne la preparazione scolastica, come dimostrano i dati dei test di accesso svolti in questi anni – a dispetto del fatto che la stragrande maggioranza degli allievi abbia conseguito la maturità con un voto elevatissimo, spesso il
massimo2 – e come confermato dal fatto che al primo anno gli immatricolati hanno incontrato difficoltà ben superiori a quelle che, gli allievi e i professori, si attendevano. Ma anche per quanto concerne la preparazione, per così dire, civile che ha ricadute pesanti sull’organizzazione e l’attività
della didattica, pregiudicandone pesantemente i risultati complessivi.
L’argomento è di rilevanza assoluta, considerato che oggi si iscrivono alle facoltà di ingegneria, ma
il dato vale un po’ per tutta l’università, non pochi che fino a qualche anno fa non se lo sognavano
nemmeno: anche chi non si iscriveva neppure al Diploma Universitario (ritenuto cosa di poco conto, mentre la laurea, anche se di tre anni, è comunque chiamata laurea e comporta il titolo di ‘dottore ingegnere’). Di per sé questo non è un fatto negativo; tutt’altro, considerato che in Italia è necessario aumentare il tasso di immatricolazione all’università e quello dei laureati, tra i più bassi
dell’Unione Europea.
La carenza di ingegneri, di ogni livello, e le allettanti prospettive di carriera lavorativa rendono improponibile il numero chiuso, per entrambi i livelli di studio. Pur tuttavia l’accesso va consentito solo a coloro che posseggono adeguata preparazione specifica per gli studi che vanno ad intraprendere.
Al primo livello ciò è particolarmente importante, anche al fine di non gravare in maniera negativa
sull’organizzazione della didattica e quindi sui processi di apprendimento di coloro che invece hanno la preparazione richiesta. Il che impone il più complesso compito di tenere conto delle caratteristiche cognitive e comportamentali dei giovani all’ingresso all’università, di identificare i fattori capaci di promuovere le trasformazioni nell’apprendimento in tempo utile ed evitare dispersioni di risorse e di energie, di studenti e di docenti. E ciò richiede un altro sforzo straordinario per il mondo
universitario, per altro inedito e non previsto dai padri della riforma3.
La soluzione non è semplice, considerando anche che il ministro Berlinguer aveva pensato la riforma degli ordinamenti didattici delle università nell’ambito di una più generale riforma dell’intero
sistema formativo italiano, alla quale aveva messo mano; ma per le vicende politiche successive essa è stata poi svincolata dalla riforma della scuola secondaria. Il che impone che, senza sostituirsi a
nessuno e senza cambiare di mestiere o snaturare il proprio, le università si rapportino alla scuola
secondaria per attivare insieme processi di orientamento formativo dei giovani maturandi: esperien1
Sull’evoluzione degli immatricolati alle facoltà di ingegneria, cfr. M. FIORENTINO, G. VERNAZZA (a cura di), Gli immatricolati nelle facoltà di ingegneria dal 1998 al 2006, «Quaderni della Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Ingegneria», n. 3, Salerno, Cues, 2007.
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Sui dati del test di accesso, si vedano CISIA, Facoltà di Ingegneria e Architettura. I risultati delle prove d’ingresso.
Anno 2005, Pisa, Edizioni ETS, 2006; CISIA, Facoltà di Ingegneria, Architettura e Design. I risultati delle prove
d’ingresso. Anno 2066, Pisa, Edizioni ETS, 2007 e CISIA, Facoltà di Ingegneria. I risultati delle prove d’ingresso. Anno
2007, Pisa, Edizioni ETS, 2008.
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Sull’argomento cfr. anche V. CARDONE, La riforma degli ordinamenti didattici ad ingegneria, in M. MORCELLINI e N.
VITTORIO (a cura di), Il cantiere aperto della didattica. Una strategia di innovazione oltre le riforme, Lecce, La Biblioteca Pensa Multimediale, 2007, pp. 116-136.
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za che molte facoltà di ingegneria già stanno compiendo da alcuni anni. Ma l’appeal dell’ingegneria
continua ad essere molto forte, anche nei confronti di coloro che non hanno preparazione adeguata.
Nella primavera del 2006 la Conferenza ha elaborato insieme all’UMI (Unione Matematica Italiana)
e ai professori di matematica un sillabo, rivolto a studenti e scuole secondarie, in merito alle conoscenze minime di matematica richieste per l’accesso, e che guiderà anche il CISIA – Consorzio Interuniversitario Servizi Integrati per l’Accesso che abbiamo costituito a partire dal precedente Centro per l’accesso alle scuole di Ingegneria e Architettura – nella preparazione del test di accesso. Inoltre il CISIA ha messo in rete materiale utile agli studenti per la preparazione al test stesso.
Ma dare indicazioni, per quanto precise, in merito alle conoscenze di matematica non è sufficiente:
e non solo perché l’ingegneria, in tutti i campi, è ben altra cosa che semplicemente matematica applicata. Né si può solo pensare di completare con l’indicazione delle conoscenze basilari di fisica e
delle altre discipline scientifiche. Basterebbe, per altro, richiamare i programmi della scuola secondaria che, ove svolti, sono più che sufficienti per frequentare ingegneria con successo.
Cosa fare? Ripeto: non vi sono soluzioni magiche, né semplici e meno che mai univoche per risolvere le criticità in esame. Bene hanno fratto i relatori a sottolineare il ruolo dei servizi – ma forse è
il caso di trovare altro termine per un insieme di azioni così importanti – agli studenti.
Occorre mettere in pratica una pluralità di interventi, sia prima dell’entrata all’università che dopo
l’accesso, perché non esiste una sola soluzione per un problema di tale rilevanza e complessità. Tuttavia tra le due fasi, pre-accesso e in itinere, vi è anche il momento dell’accesso, che è lo sbocco
della prima fase e l’avvio della seconda e va affrontato con iniziative specifiche.
A tal proposito, ha ragione Corbino nel sostenere che queste non dovrebbero andare nella direzione
di ‘comprimere’ gli accessi, cosa che per altro sarebbe in contrasto con l’esigenza anche in questa
sede più volte ribadita di aumentare il numero di iscritti e di laureati. In particolare va evitata
l’introduzione del numero chiuso, che comincia ad essere sollecitata pure da alcune categorie (ad
esempio, il Consiglio Nazionale degli Ingegneri l’ha chiesto in occasione del Congresso Nazionale
tenuto a settembre scorso, suscitando una violenta reazione della Conferenza dei Presidi di Ingegneria) e del quale pure si sta iniziando in taluni casi ad abusare con l’introduzione di molti cds, in varie sedi, a numero programmato locale.
Cosa ben diversa, però, è inserire una soglia di ammissione, dalla quale ormai in alcuni casi non si
può più prescindere: atteso anche che nell’attribuzione degli obblighi formativi aggiuntivi (OFA) e
nella verifica dell’annullamento del debito formativo nel corso del primo anno di studi universitari,
si sono registrati forti elementi di criticità. E ciò, nelle facoltà di ingegneria, nonostante l’adozione
ormai generalizzata del test di accesso e della sua progressiva trasformazione da test attitudinale a
strumento di verifica della preparazione, finalizzato all’attribuzione degli OFA. Le singole facoltà
hanno adottato criteri molto differenziati in proposito.
Alcune hanno organizzato corsi di recupero nel mese di settembre, senza verifica alla fine dei corsi;
ma, ovunque applicato, tale sistema non ha fornito risultati soddisfacenti. In altri casi si è proceduto
a verifiche di profitto alla fine dei corsi di recupero, che vanno fatti seguire di nuovo agli studenti
che non recuperano consentendo agli allievi di sostenere gli esami del piano di studi solo dopo aver
dimostrato di avere recuperato il debito formativo. Tale sistema si è rivelato macchinoso e poco
produttivo, anche per l’accavallamento tra corsi (e relativi esami) di recupero e ordinari, perché gli
studenti che non recuperano il debito subito sono costretti a seguire entrambi i tipi di corso e, per
altro, chiedono di sostenere gli esami ‘ordinari’ anche prima di recuperare il debito. Si è anche tentato di fare recuperare il debito formativo, sempre durante il primo anno, con lo svolgimento di cor3
si di recupero paralleli a quelli del piano di studi, svolti come una specie di corsi di ‘sostegno’ per
gli allievi con OFA. Ciò comporta uno sforzo notevole di assistenza e di tutorato. Queste due ultime
soluzioni suscitano alcune perplessità di fondo: in particolare, si è notato che contraddicono l’intera
impalcatura del sistema dei crediti, basato sul tempo che gli allievi possono dedicare allo studio, richiedendo per altro uno sforzo maggiore proprio agli allievi più deboli.
In qualche facoltà si è pertanto affermata la convinzione che vada perseguito con decisione
l’obiettivo che sia il recupero dei debiti formativi gravi sia gli eventuali abbandoni degli allievi
debbano prodursi il più possibile prima che gli studenti si immatricolino. E che non siano sufficienti
interventi di orientamento all’interno delle scuole secondarie ma debba altresì essere previsto che
gli studenti con debiti formativi rilevanti seguano i corsi di recupero organizzati dalla Facoltà e sostengano i relativi esami di azzeramento del debito prima di immatricolarsi.
Ciò comporta necessariamente l’inserimento di una soglia di ammissione, per tutti i tipi di cds con
alto numero di aspiranti all’immatricolazione. Pochi sanno che ai cds a numero programmato nazionale, benché la legge (mi pare la 264/99) parli espressamente di «superamento di prova di ammissione», la selezione avviene solo sulla base della posizione in graduatoria: nel senso che
l’accesso è consentito a coloro che prendono i punteggi più alti, fino ai posti disponibili, indipendentemente dal fatto che il punteggio conseguito sia ritenuto sufficiente o meno. Con il risultato che
in taluni casi si entra anche con punteggio negativo: come si verifica non di rado per i posti riservati
ai cittadini non comunitari a medicina e come si è qualche volta verificato per l’accesso ai cds di architettura articolati sul 3+2.
L’inserimento di una soglia di ammissione non è finalizzato alla selezione brutale e all’esclusione
dall’università: tutt’altro, se è accompagnato da azioni adeguate, volte a offrire la possibilità a coloro che non l’hanno superata e non sono stati immatricolati di migliorare la propria preparazione e,
nel contempo, di iniziare un’opportuna conoscenza dei percorsi universitari e della vita universitaria. In tal senso, anzi, è elemento primario di inserimento assistito e di orientamento in itinere.
A tal fine sono state delineate due altre proposte: definite ‘semestre zero’ e ‘anno zero’, rispettivamente.
La proposta del ‘semestre zero’, con l’immatricolazione per gli studenti che recuperano i debiti con
un semestre di sfalsamento rispetto a coloro che non hanno debiti, comporta la moltiplicazione di
quasi tutti i corsi di insegnamento a ogni anno e, per ragioni di costo, pare praticabile solo nelle facoltà con molti immatricolati e uno o due corsi di laurea (come ad esempio Giurisprudenza), ove gli
insegnamenti multiplati potranno essere distribuiti parte sul primo e parte sul secondo semestre.
Nelle facoltà di ingegneria – che il più delle volte hanno numerosi corsi di laurea, di distinte classi,
e quasi tutti gli insegnamenti degli anni successivi al primo diversificati e non multiplati – comporta invece un onere insostenibile.
Tale inconveniente può essere comunque evitato consentendo agli allievi che hanno superato il primo semestre (di preparazione) di immatricolarsi part-time all’inizio del secondo semestre dell’anno
accademico e facendoli poi iscrivere part-time anche all’anno accademico successivo. In tal modo, i
CFU previsti nel piano di studi per il primo anno di corso vengono di fatto distribuiti su due anni
accademici, dopo di che ci si immette nel percorso normale.
L’inconveniente, comunque, non si presenta nella proposta di ‘anno zero’, che alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Salerno – dove è stato adottato per la prima volta, in via sperimentale,
nell’a. a. 2005/2006 – preferiamo chiamare ‘anno di preparazione’.
Va precisato che l’iniziativa non ha solo lo scopo di recuperare gli studenti con preparazione inadeguata, ma che mostrano forti motivazioni e impegno, bensì anche di disincentivare i non motivati e,
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eventualmente, ad aiutarli a orientarsi verso altri studi, magari più confacenti alla loro preparazione
e alla loro personalità. Si tratta della proposta più dirompente tra tutte quelle messe a punto, caratterizzata da grande dignità culturale, assenza di ogni equivoco o ambiguità. In sintesi, si prevede che
la Facoltà organizzi – oltre ai corsi di laurea e di laurea magistrale – anche un corso, di un anno, di
‘preparazione agli studi di ingegneria’, al quale iscrivere tutti gli studenti immatricolandi che al test
conseguono una valutazione sotto una prefissata soglia di sufficienza. Tali allievi frequenteranno al
primo semestre corsi di recupero di insegnamenti di base (comprensione verbale, logica, chimica,
fisica, matematica); alla fine del semestre sarà effettuata la verifica dell’azzeramento dei debiti, attraverso una valutazione globale con indicazione di ammissione o non ammissione. Gli studenti che
avranno conseguito l’ammissione al secondo semestre prepareranno, avvalendosi del tutor individuale messo loro a disposizione all’atto dell’iscrizione, un piano di studi individuale per i corsi,
scelti tra quelli dei piani di studio dei corsi di laurea attivati in Facoltà, da seguire al secondo semestre, fino a un massimo di 30 CFU; se supereranno i relativi esami, all’atto dell’immatricolazione,
potranno vedere riconosciuti i CFU conseguiti.
Le prime applicazioni hanno dato buoni risultati; nel frattempo l’iniziativa è stata adottata dalla Facoltà di Ingegneria di Brescia ed è allo studio anche di altre facoltà4. Questa prima esperienza ha
mostrato che l’anno di preparazione può consentire, tra l’altro, un efficace e serio lavoro di orientamento degli allievi, in presenza di offerta formativa ricca e articolata da parte della Facoltà. Considerato che non esiste orientamento efficace senza diversificazione dell’offerta didattica, che consenta a ogni allievo l’accesso alle diverse carriere secondo le sue vocazioni e secondo le possibilità
connesse alla sua preparazione, si può pensare di adottare un anno di preparazione agli studi universitari per l’accesso a corsi di lauree di classi affini od omogenee (per esempio: tecnico-scientifico,
umanistico, giuridico). In ogni caso, pare opportuno trovare una soluzione condivisa, almeno per
facoltà che attivano corsi di laurea appartenenti alla stessa classe.
Su questo fondamentale aspetto il dibattito va sviluppato con maggiore incisività, sulla base di proposte e sperimentazioni concrete, come quelle condotte da alcune facoltà, ad esempio di ingegneria
(da Cosenza a Salerno, da Brescia a Cagliari) e poi di economia, con esiti abbastanza positivi. Di
sicuro, vanno evitati rigurgiti di demagogia che danneggerebbero l’università, gli immatricolati e la
società tutta. Il numero di immatricolati è importante, ma non è su di esso che si può sviluppare e
migliorare il sistema, la cui efficienza è meglio misurata dalla riduzione degli abbandoni, dalla diminuzione di ritardi e dei cambiamenti di corso di studio.
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Sull’avvio dell’esperienza salernitana, cfr. P. VILLANI, Attribuzione degli Obblighi Formativi Aggiuntivi: un esperimento dell’Università di Salerno, in A. VICINO (a cura di), La riforma degli studi nelle facoltà di ingegneria: risultati,
problemi e prospettive, «Quaderni della Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Ingegneria», n. 2, Salerno, Cues, 2007,
pp. 69-90.
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