Infezioni in ematologia - Ematologia La Sapienza

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Infezioni in ematologia - Ematologia La Sapienza
EMATOLOGIA
1
direttori della collana
Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati
INFEZIONI IN EMATOLOGIA:
EPIDEMIOLOGIA, PROFILASSI, CLINICA
E TERAPIA
Corrado Girmenia, Giuseppe Gentile
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia
Università “La Sapienza”, Roma
11
EMATOLOGIA
DIRETTORI DELLA COLLANA
Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia
Università “La Sapienza”, Roma
ACCADEMIA NAZIONALE DI MEDICINA
REDAZIONE
P.zza della Vittoria, 15/1 - 16121 Genova
Tel. 010/5458611 - Fax 010/541761
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DIREZIONE
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COORDINAMENTO EDITORIALE
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PROGETTO GRAFICO
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IMPAGINAZIONE
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PROMOZIONE
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INDICE
INTRODUZIONE
1
FATTORI PREDISPONENTI LO SVILUPPO
DELLE INFEZIONI OPPORTUNISTE
2
EPIDEMIOLOGIA E CLINICA DELLE INFEZIONI
NEL PAZIENTE EMOPATICO IMMUNOCOMPROMESSO
3
PROFILASSI
4
APPROCCIO CLINICO AL PAZIENTE
IMMUNOCOMPROMESSO CON FEBBRE
5
CONSIDERAZIONI RELATIVE A PARTICOLARI
CATEGORIE DI PAZIENTI IMMUNOCOMPROMESSI
6
BIBLIOGRAFIA GENERALE
7
LE DIAPOSITIVE
ABBREVIAZIONI
ARA-C
ARDS
BAL
CDC
CMI
CMV
CSE
EBNA
EBV
EIA
G-CSF
GIMEMA
GM-CSF
GVHD
HBeAg
HBsAg
HBV
HIV
HSV
HVZ
IATCG
Ig
MHC
PCR
PMN
RIA
RMN
RSV
SNC
TAC
TMO
VZIG
citosina-arabinoside
adult respiratory distress syndrome
lavaggio bronco-alveolare
Centers for Disease Control and prevention
concentrazione minima inibente
Cytomegalovirus
cellule staminali emopoietiche
antigeni nucleari del virus Epstein-Barr
Epstein-Barr virus
immunodiagnosi con anticorpi monoclonali e policlonali
granulocyte colony-stimulating factor
Gruppo Italiano Malattie Ematologiche Maligne dell’Adulto
granulocyte-macrophage colony-stimulating factor
graft versus host disease
antigene “e” del virus dell’epatite B
antigene superficiale del virus dell’epatite B
virus dell’epatite B
virus dell’immunodeficienza umana
virus Herpes simplex
Herpes varicella zoster
International Antimicrobial Therapy Cooperative Group
immunoglobuline
complesso maggiore di istocompatibilità
polymerase chain reaction
polimorfonucleati
indagini radioimmunologiche
risonanza magnetica nucleare
virus respiratorio sinciziale
sistema nervoso centrale
tomografia assiale computerizzata
trapianto di midollo osseo
immunoglobuline anti-varicella zoster
1
INTRODUZIONE
Dagli anni ‘60 in poi, grazie all’avvento e ai progressi della chemioterapia antineoplastica, si è assistito a un’aumentata sopravvivenza e guarigione dei pazienti con cancro. Tuttavia, la diffusione dei trattamenti
chemioterapici e immunosoppressori, ha rapidamente evidenziato il
grave rischio infettivo rappresentato dalla granulocitopenia e dalle alterazioni della immunità cellulo-mediata e umorale. L’elevata e rapida
mortalità associata alle complicanze infettive, soprattutto in corso di
grave neutropenia, ha indotto alla standardizzazione di un particolare
approccio clinico alla febbre che compare in questi pazienti caratterizzato da una rapida e accurata valutazione diagnostica e dall’inizio di
un trattamento antibiotico empirico. Il concetto di terapia antibiotica
empirica è oggi universalmente accettato e rappresenta la pietra
miliare nel trattamento della febbre nel paziente immunocompromesso neutropenico. Infatti, tale comportamento terapeutico ha condotto a una drammatica riduzione della letalità precoce legata alle
sepsi da batteri Gram-negativi anche se oggi, grazie all’uso di una corretta profilassi, tali infezioni sono divenute meno frequenti.
Nei pazienti emopatici immunocompromessi, parallelamente ai miglioramenti ottenuti sia nel trattamento che nella prevenzione delle complicanze infettive si osserva un continuo cambiamento della epidemiologia delle infezioni. Vari fattori quali l’aumento del numero di pazienti
sottoposti a chemioterapia antineoplastica in regime ambulatoriale,
l’uso di cateteri venosi centrali a permanenza, l’uso di schemi di chemioterapia sempre più aggressivi e immunosoppressivi, come il trapianto di cellule staminali, favoriscono questi cambiamenti. A questo si
aggiunge anche un’aumentata incidenza di infezioni da germi multiresistenti e da nuovi patogeni probabilmente associata anche all’esteso
uso di antibatterici e antifungini azolici sia come profilassi che come
terapia.
Lo sviluppo di nuovi antibiotici ad ampio spettro, più potenti e meno
tossici, apre nuove e promettenti possibilità nella scelta della terapia
antibiotica empirica quali: l’uso di una monoterapia al posto di combinazioni antibiotiche, di monosomministrazioni giornaliere al posto di
somministrazioni multiple. A questo si aggiunge la comparsa nell’armamentario farmaceutico dei fattori di crescita, quali il G-CSF (granulocyte colony-stimulating factor) e il GM-CSF (granulocyte-macrophage
colony-stimulating factor): la loro influenza sulla durata della neutropenia, potrebbe contribuire sia alla prevenzione che al trattamento delle
infezioni nei pazienti con neoplasie ematologiche e non, anche se la
INFEZIONI
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EMATOLOGIA
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EPIDEMIOLOGIA
,
PROFILASSI
,
CLINICA
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TERAPIA
1
potenziale tossicità e l’elevato costo di questi prodotti impone una loro
attenta valutazione e una precisa definizione della loro applicazione clinica.
Nonostante il tentativo di standardizzare e uniformare l’approccio clinico
e terapeutico alle complicanze infettive nei pazienti emopatici immunocompromessi, l’ampio spettro delle malattie ematologiche e degli stati
di immunocompromissione condizionano un’estrema variabilità nei tipi e
nell’espressione clinica delle infezioni. Di conseguenza l’approccio ottimale a tali complicanze comporta un adattamento delle risorse cliniche,
microbiologiche e terapeutiche a ogni singolo paziente.
Tali continui cambiamenti nell’epidemiologia delle infezioni, nei quadri
clinici dei pazienti immunocompromessi e negli strumenti terapeutici
disponibili, offrono ovviamente motivi di controversie sulla migliore
gestione delle complicanze infettive e impongono ai clinici continui
aggiornamenti.
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FATTORI PREDISPONENTI
LO SVILUPPO DELLE
INFEZIONI
OPPORTUNISTE
2.1
LA NEUTROPENIA
Delle numerose alterazioni dello stato immunitario che potenzialmente
interessano i pazienti emopatici la neutropenia è probabilmente la
più importante in quanto predispone i pazienti a un elevato numero di
infezioni, può condizionarne la prognosi e spesso non si associa a
tipici segni e sintomi infettivi. Nei pazienti con emopatie maligne o
altre neoplasie in trattamento citostatico, la relazione tra neutropenia e gravi complicanze infettive è stata chiaramente individuata
soprattutto per le infezioni batteriche e fungine, meno per quelle
virali e protozoarie. Già nel 1966 Bodey e coll. (1) avevano osservato
che il rischio infettivo aumentava in modo significativo quando il
numero dei neutrofili scendeva al di sotto di 1000/mm3 ed era particolarmente elevato nei pazienti con grave neutropenia (PMN<100/mm 3 )
(Tabella 1). Ulteriori fattori che condizionano l’incidenza e la prognosi
delle infezioni sono la durata e la rapidità con cui compare la neutropenia. Infatti, un elevato rischio infettivo si può associare a una modica ma prolungata neutropenia (<1 000/mm 3 per più di 4 settimane), a
una profonda anche se breve neutropenia (<100/mm 3 per meno di
sette giorni) o a una modica neutropenia nella fase di grave citoriduzione post-chemioterapia.
Inoltre, il rischio infettivo in corso di neutropenia dipende anche da
altri fattori associati quali una grave mucosite o lo stato più o meno
avanzato della malattia ematologica. Infine, nei pazienti affetti da emopatie non neoplastiche, come l’aplasia midollare e l’agranulocitosi, la
neutropenia cronica espone indubbiamente a un elevato rischio infettivo, ma spesso di minore entità rispetto a quello comunemente osservato nei pazienti con neutropenia indotta da chemioterapici.
In sintesi, il rischio infettivo correlato alla neutropenia si basa sulle
seguenti condizioni la cui definizione è ormai universalmente adottata:
1. neutropenia: numero di granulociti neutrofili inferiore a 500/mm3
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EPIDEMIOLOGIA
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CLINICA
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TERAPIA
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2
Associazione tra grado e durata della neutropenia e
incidenza di gravi complicanze infettive
Tabella 1
Riduzione del numero
dei neutrofili (per mm3)
Rischio infettivo (%) in
relazione alla durata della
neutropenia (in settimane)
1
2 000 - 1500
2
1 500 - 1000
5
1 000 - 500
10
500 - 100
19
²100
28
2
3
4
6 10
30 45 50
65 70
12
14
85 100
50 72 85 100
Adattato da Bodey et al., (1).
2. neutropenia grave: numero di granulociti neutrofili inferiore a
100/mm 3
3. neutropenia prolungata: durata della neutropenia maggiore di
sette giorni
4. neutropenia cronica: neutropenia della durata di settimane o mesi
correlata a una patologia iporigenerativa neoplastica o non del
midollo osseo.
2.2
ALTERAZIONE QUALITATIVA DEI NEUTROFILI
L’attività antimicrobica dei granulociti e dei monociti coinvolge complesse interazioni tra cellula, microorganismo e sede dell’infezione. Le
patologie ematologiche si possono associare ad anomalie qualitative
dei granulociti tra cui le alterazioni della chemiotassi, della fagocitosi, dell’attività microbicida intra ed extracellulare. Numerosi studi
hanno documentato importanti difetti dell’attività dei granulociti neutrofili in pazienti con leucemia mieloide e linfoide acuta e in soggetti
affetti da mielodisplasie o sindromi preleucemiche, ed è stata individuata una correlazione tra ridotta attività mieloperossidasica dei neutrofili e maggiore incidenza di complicanze infettive (2-4). Deficit qualitativi dell’attività fagocitaria possono essere determinati dalle stesse
terapie citostatiche e immunosoppressive impiegate nel trattamento
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delle emopatie. I chemioterapici in grado di determinare aplasia causano anche una momentanea soppressione della funzione fagocitaria
(5-7). L’irradiazione corporea totale, praticata prima di un trapianto di
midollo, ha effetti analoghi (8). I corticosteroidi riducono la reazione
infiammatoria e deprimono la funzione fagocitaria oltre a incrementare
il rischio infettivo a causa dell’effetto negativo a livello delle barriere
muco-cutanee, della funzione linfocitaria, della produzione di citochine
e della risposta umorale (9, 10).
2.3
ALTERAZIONI DELL’IMMUNITÀ
CELLULO-MEDIATA
Deficit dell’immunità cellulare è una definizione molto ampia ma pratica, che consente di selezionare pazienti esposti a infezioni da parte di
agenti che hanno in comune la capacità di moltiplicarsi dentro le cellule. Nei soggetti normali, alcuni di questi agenti patogeni sono responsabili di infezioni la cui espressione clinica è generalmente benigna,
talora inapparente, solo eccezionalmente grave (es. varicella, herpes).
La maggior parte di questi agenti rimane quiescente nell’organismo e
si riattiva solo in presenza di deficit dell’immunità cellulare (es.
Herpesvirus, Mycobacterium tuberculosis), mentre alcuni di questi
microorganismi non provocano praticamente mai infezione nell’immunocompetente (es. Pneumocystis carinii, micobatteri atipici, nocardia,
criptococco).
Alterazioni dell’immunità cellulare sono soprattutto presenti nei
pazienti affetti da malattie del sistema linfoproliferativo, oppure
nei pazienti sottoposti a trapianto allogenico di cellule staminali
emopoietiche e in quelli in trattamento immunosoppressivo. La
radioterapia, l’azatioprina, la ciclofosfamide, la ciclosporina, i corticosteroidi, il siero antilinfocitario posseggono modalità di azione ed
effetti differenti sui meccanismi dell’immunità cellulare (11, 12). Tali
effetti si sovrappongono inoltre al deficit immunitario legato alla emopatia di base. La malattia di Hodgkin e i linfomi non Hodgkin si associano a una intrinseca alterazione dell’immunità cellulo-mediata che
può persistere anche dopo la guarigione e la fine della terapia.
Pazienti in remissione di malattia, infatti, presentano ancora un
aumentato rischio di sviluppare determinate infezioni come ad esempio da virus Herpes varicella zoster (HVZ).
Alterazioni dell’immunità cellulo-mediata sono presenti anche in
pazienti emofilici che hanno ricevuto concentrati di fattore VIII e non
solo in quelli che hanno contratto l’infezione da HIV (13). Pazienti
affetti da talassemia e anemia falciforme presentano alterazioni immunitarie sulla cui importanza clinica, tuttavia, vi sono ancora dubbi (14).
INFEZIONI
IN
EMATOLOGIA
:
EPIDEMIOLOGIA
,
PROFILASSI
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CLINICA
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TERAPIA
5
2
2.4
ALTERAZIONI DELL’IMMUNITÀ UMORALE
Le immunoglobuline (Ig), supporto dell’immunità umorale e prodotte
dai linfociti B, neutralizzano taluni agenti patogeni e alcune tossine,
favorendo la fagocitosi. In presenza di alcune patologie, l’incapacità di
sintetizzare rapidamente le IgM rende conto della rapidità d’evoluzione
e della gravità delle infezioni da batteri capsulati, come nel caso dello
Streptococcus pneumoniae in pazienti splenectomizzati. Il mieloma
multiplo si associa frequentemente a difetti dell’immunità umorale (15),
il cui grado dipende dallo stadio della malattia ematologica. Le plasmacellule maligne inducono la produzione di una proteina sintetizzata
dai macrofagi che selettivamente sopprime la funzione dei linfociti B.
Per tali motivi, i pazienti affetti da mieloma multiplo sono particolarmente soggetti a infezioni da germi capsulati come S. pneumoniae, H.
influentiae o Neisseria spp. Anche i pazienti con leucemia linfatica cronica a cellule B sembrano avere un difetto intrinseco dei linfociti B clonali alla base di una incongrua sintesi di catene di Ig con conseguente
ipogammaglobulinemia. L’incidenza di complicanze infettive in tali
pazienti si correla con la durata e lo stadio della malattia oltre che con
i livelli sierici di Ig, in particolare IgG. Il ruolo preciso delle alterazioni
dell’immunità umorale nelle altre emopatie non è ben chiaro.
Il complemento è un insieme complesso di proteine che favoriscono la
fagocitosi e partecipano alla lisi batterica. I deficit congeniti di talune
frazioni del complemento espongono a infezioni specifiche (ad esempio da meningococco). Al contrario, i trattamenti immunodepressivi
non producono in tal senso deficit significativi.
2.5
ALTERAZIONI DELLE BARRIERE
MUCO-CUTANEE
La cute e le superfici mucose rappresentano una importante difesa
primaria nei confronti di agenti patogeni endogeni ed esogeni.
I pazienti immunocompromessi frequentemente presentano alterazioni
nell’integrità di tali barriere. Esse possono essere causate dall’invasione da parte di cellule maligne, dagli effetti citotossici della chemioterapia e radioterapia, dall’impiego di manovre invasive a scopo diagnostico o terapeutico (es. catetere venoso centrale) o da infezioni superficiali (es. H. simplex). L’alterazione della barriera muco-cutanea espone
a infezioni da parte di germi che normalmente colonizzano la cute o il
tratto gastroenterico. Come verrà ampiamente discusso in seguito,
l’uso di cateteri venosi centrali è probabilmente alla base dell’elevata
incidenza di sepsi da cocchi e bacilli Gram-positivi, mentre la grave
mucosite orale e gastrointestinale permette l’ingresso in circolo di
germi colonizzanti il cavo orale e l’intestino come streptococchi viridanti, bacilli Gram-negativi o lieviti.
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EPIDEMIOLOGIA E
CLINICA DELLE
INFEZIONI NEL PAZIENTE
EMOPATICO IMMUNOCOMPROMESSO
3.1
INFEZIONI BATTERICHE
Nell’ultima decade, l’epidemiologia delle batteriemie nel paziente
neutropenico si è modificata; si è assistito a un progressivo incremento delle sepsi da Gram-positivi e a una diminuzione di quelle
da Gram-negativi. Le ragioni di questa modifica del quadro epidemiologico sembrano molteplici: l’incrementato uso del catetere venoso
centrale e l’utilizzo in profilassi dei fluorochinoloni sembrano rappresentare i fattori probabilmente più importanti (16). In particolare, la
profilassi con fluorochinoloni si è dimostrata in grado di ridurre nettamente le sepsi da Gram-negativi, ma non egualmente efficace è risultata nel controllo delle infezioni da cocchi Gram-positivi (17).
Nella Figura 1 è riportato il trend etiologico delle batteriemie monomi-
Figura 1 • Trend etiologico delle batteriemie negli studi dell’IATCG-EORTC
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Gram-positivi
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50
%
40
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Gram-negativi
20
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0
73-78
78-80
80-83
83-86
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88-91
91-93
93-94
Anni: 1973-1994
INFEZIONI
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:
EPIDEMIOLOGIA
,
PROFILASSI
,
CLINICA
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TERAPIA
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crobiche negli studi dell’International Antimicrobial Therapy Cooperative Group (IATCG) dell’EORTC che mostra il cambiamento dinamico
dell’epidemiologia nei pazienti onco-ematologici.
La Figura 2 riporta l’andamento delle sepsi in pazienti emato-oncologici osservati presso il Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed
Ematologia dell’Università “La Sapienza” di Roma dal 1970 al 1995.
Ciò che risalta maggiormente è l’evidente diminuzione dei bacilli
Gram-negativi con il corrispettivo aumento dei batteri Gram-positivi e, in particolare, degli stafilococchi coagulasi-negativi che rappresentano attualmente i microorganismi di più frequente isolamento dal
sangue di pazienti neutropenici.
Figura 2 • Trend etiologico delle sepsi*
90
80
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Gram-positivi
60
%
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Gram-negativi
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Polimicrobiche+anaerobi
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Funghi
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95-96
Anni: 1970-1996
*Ematologia, Università “La Sapienza”, Roma
In due trial successivi, condotti dal GIMEMA (Gruppo Italiano Malattie
Ematologiche dell’Adulto) Infection Program negli anni ‘88-’89 e ‘90’91, in pazienti neutropenici profilassati con chinoloni (18, 19), le batteriemie da Gram-positivi sono passate dal 64% all’89% del totale
(Figura 3). Nella casistica GIMEMA, gli stafilococchi coagulasi-negativi
si confermano i patogeni documentati più frequentemente (44% e
47%) e la ricomparsa dello Staphylococcus aureus, che incrementa
dall’8% al 27%, può essere correlata al concomitante aumento di
ceppi di S. aureus resistenti ai chinoloni (dal 31% al 68%). Gli streptococchi del gruppo viridans sono passati dal 41% al 21% delle sepsi, e
per tale decremento non sembra esservi una spiegazione valida e in
ogni caso non appare imputabile alla riduzione delle infezioni a carico
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Figura 3 • Trend etiologico delle batteriemie in due studi successivi del
GIMEMA Infection Program
89
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Gram-positivi
Gram-negativi
80
70
64
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%
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40
30
20
11
10
0
GIMEMA I (88-90)
GIMEMA II (90-92)
del cavo orale. La prevalenza degli stafilococchi coagulasi-negativi e
la persistente rilevanza degli streptococchi viridanti è confermata
anche nella esperienza dei trial dell’EORTC (Figura 4). Gli streptococchi del gruppo viridans, in particolare S. mitis e S. sanguis II, preval-
Figura 4 • Trend etiologico delle batteriemie da Gram-positivi negli studi
dell’IATCG-EORTC
70
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%
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Gram-positivi
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Anni: 1973-1994
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S. coagulasi-negativi
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EPIDEMIOLOGIA
,
PROFILASSI
Streptococchi viridanti
,
CLINICA
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TERAPIA
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gono anche in altre casistiche essendo responsabili sino al 40% circa
delle batteriemie in corso di neutropenia. Le possibili complicanze
sono rappresentate dall’adult respiratory distress syndrome (ARDS),
dallo shock, e, più raramente, dall’endocardite. La mortalità varia dal
6% al 30%. I fattori di rischio specifico per le batteriemie da streptococchi del gruppo viridans nel paziente neutropenico sembrano essere
rappresentati da: grave neutropenia (PMN <100/mm3 ), profilassi antibiotica (chinoloni, co-trimossazolo), utilizzo di dosi elevate di citosinaarabinoside (ARA-C), presenza di mucosite orofaringea e massiccia
colonizzazione da parte di tali microorganismi. L’uso profilattico di
penicillina può indurre l’emergenza di ceppi resistenti (20, 21).
Altri batteri Gram-positivi che possono più raramente causare infezione in corso di neutropenia sono Bacillus spp. (spesso correlati alla
presenza del catetere venoso centrale), Corynebacterium jeikeium
(correlato alla presenza del catetere venoso centrale e frequentemente
sensibile solo ai glicopeptidi), Streptococcus faecium (uno streptococco del gruppo D che può essere resistente alla vancomicina) e
Lactobacillus (che può essere resistente alla vancomicina).
L’incremento progressivo delle batteriemie da cocchi Gram-positivi si
è accompagnato a un contemporaneo calo di quelle causate dai bacilli
Gram-negativi (Figura 5). Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae
sono i Gram-negativi più frequentemente isolati dal sangue nella maggior parte dei centri onco-ematologici, e in genere sono a partenza dal
tratto gastroenterico o dalle vie urinarie. Altre enterobatteriacee che
Figura 5 • Trend etiologico delle batteriemie da Gram-negativi negli studi
dell’IATCG-EORTC
80
70
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50
% 40
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Anni: 1973-1994
Gram-negativi
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E. coli
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P. aeruginosa
possono causare gravi infezioni nei pazienti neutropenici sono
Enterobacter spp., Citrobacter spp. e Serratia marcescens che possono facilmente diventare resistenti agli antibiotici beta-lattamici grazie
alla capacità di produrre beta-lattamasi. Un altro bacillo Gram-negativo
con caratteristiche di multiantibioticoresistenza emergente negli ultimi
anni nei centri onco-ematogici è lo Stenotrophomonas maltophilia (22).
Lo Stenotrophomonas maltophilia, un tempo detto Pseudomonas maltophilia, poi Xantomonas maltophilia, è un batterio Gram-negativo non
fermentante. Una caratteristica, che conferisce a questo batterio una
facilità alla contaminazione ambientale, è data dal fatto che è poco
esigente dal punto di vista nutritivo ed è in grado di infettare anche le
sostanze disinfettanti. I quadri clinici in corso di sepsi da parte di questo microorganismo sono simili a quelli che si osservano per Pseudomonas aeruginosa ma con un particolare tropismo per le infezioni
del catetere venoso centrale. Tuttavia, una problematica rilevante nelle
infezioni da Stenotrophomonas maltophilia è il particolare tipo di antibioticoresistenza del microorganismo. La maggior parte dei ceppi è
resistente agli aminoglicosidi, alle penicilline ad ampio spettro, alle
cefalosporine di terza generazione, ai carbapenemici (23) mentre molti
ceppi sono sensibili al co-trimossazolo. Di conseguenza, tali caratteristiche espongono al rischio che gli schemi di terapia antibiotica empirica comunemente impiegati nei pazienti onco-ematologici neutropenici
siano inadeguati in corso di sepsi da Stenotrophomonas maltophilia.
È indubbio il ruolo che hanno avuto i fluorochinoloni nel decremento
delle infezioni da bacilli Gram-negativi: nei trial I e II del GIMEMA
Infection Program le batteriemie monomicrobiche da Gram-negativi
sono state documentate rispettivamente nel 3.2% (20 su 619 episodi)
(18) e nell’1.6% (13 su 822 episodi) (18, 19) degli episodi di neutropenia febbrile. Questa virtuale “scomparsa” delle batteriemie da Gramnegativi sembra essere conseguente alla efficace decontaminazione
intestinale che farmaci come norfloxacina e ciprofloxacina sono in
grado di operare nei confronti dei Gram-negativi. Occorre però
sottolineare come l’utilizzo protratto nel tempo dei fluorochinoloni in
profilassi possa avere favorito l’emergenza e la progressiva prevalenza
di ceppi resistenti; sono sempre più frequenti le segnalazioni di batteriemie da E. coli resistenti, in corso di profilassi con fluorochinoloni
(24). Anche nell’esperienza dei trial GIMEMA, le batteriemie da bacilli
Gram-negativi, seppure infrequenti, sono causate da microorganismi
multiresistenti e difficili da trattare. Il 20% circa dei bacilli Gram-negativi isolati da emocolture è infatti rappresentato da Pseudomonas
aeruginosa e non-aeruginosa che risultano resistenti ai chinolonici e
largamente resistenti (60-70%) ad aminoglicosidi e cefalosporine di
terza generazione.
I microorganismi anaerobi possono raramente essere causa di
infezione in corso di neutropenia (25, 26). I più frequentemente iso-
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CLINICA
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TERAPIA
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3
lati sono il Bacteroides fragilis e il Clostridium spp., entrambi normali
colonizzanti del tratto gastroenterico, e che, infatti, causano infezioni in
presenza di alterazioni della barriera mucosa intestinale. Le infezioni da
B. fragilis sono solitamente poco aggressive al contrario delle sepsi da
C. perfringens e C. septicum che possono avere una evoluzione rapidamente mortale. Il C. difficile è un comune patogeno nei pazienti neutropenici, quasi mai associato a batteriemia, ma frequentemente causa
di infezioni gastroenteriche da parte dei ceppi produttori di tossina.
Le infezioni da micobatteri sono sempre state considerate complicanze
non tipiche dei pazienti neutropenici ma associate prevalentemente ad
alterazioni dell’immunità cellulo-mediata. Tuttavia, la recrudescenza di
infezioni da Mycobacterium tuberculosis negli ultimi anni ha coinvolto
anche alcune categorie di pazienti immunocompromessi. In particolare
i pazienti affetti da leucemia a cellule capellute presentano un elevato
rischio di infezioni da micobatteri tubercolari e micobatteri atipici come
M. kansasii, M. fortuitum, M. chelonei, M. avium-intracellulare complex
(27, 28). Micobatteri a rapida crescita come M. fortuitum e M. chelonei
possono anche causare infezioni del punto di uscita e del percorso
sottocutaneo del catetere venoso centrale come complicanza postoperatoria.
3.2
INFEZIONI FUNGINE
Le infezioni fungine rappresentano una importante complicanza
nei pazienti immunocompromessi. Il rischio di sviluppare una micosi
invasiva è particolarmente elevato nei pazienti con emopatie maligne
sottoposti a chemioterapia citostatica intensiva a causa della conseguente profonda e prolungata granulocitopenia e dell'alterazione della
barriera mucosa intestinale (29-31). Inoltre, i notevoli progressi ottenuti
nella profilassi e terapia delle infezioni batteriche espongono ad altri
rischi infettivi tra cui le micosi. Negli ultimi 50 anni, l'incidenza delle
infezioni fungine invasive nei pazienti leucemici è aumentata dal 3
al 30% nelle varie casistiche (29, 30, 32). L'approccio clinico e terapeutico alle infezioni fungine è reso particolarmente difficile dal continuo cambiamento della epidemiologia e dagli scarsi progressi degli
strumenti diagnostici non invasivi (33). Non solo è aumentata l'incidenza delle micosi invasive, ma i pazienti ne vengono colpiti sempre più precocemente nel corso della malattia ematologica e
nuove specie fungine si stanno rivelando potenziali patogeni (3436). La maggior parte delle micosi sono causate da Candida species e
Aspergillus species (31, 37, 38). Altri funghi, un tempo ritenuti semplici
contaminanti o al massimo colonizzanti stanno assumendo un ruolo di
elevata importanza per frequenza e gravità delle loro infezioni.
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Numerose sono le ragioni che possono giustificare il cambiamento
epidemiologico delle infezioni fungine.
1. Nell'ambito dei vari generi di funghi patogeni, alcune specie stanno
assumendo un ruolo emergente forse come conseguenza dell'uso
di particolari schemi di profilassi e terapia antimicotica (37-40). La
candidosi rimane tuttora l’infezione fungina più frequente nei
pazient i neutropenici (29, 37, 38), tuttavia, negli anni si è
osservato un cambiamento epidemiologico caratterizzato dalla
diversa incidenza nelle varie specie di Candida. Infatti, per molti
anni C. albicans è stata la specie più comunemente in causa nelle
infezioni superficiali e profonde. Negli anni '70, in numerosi centri è
stata osservata una particolare incidenza di infezioni da C. tropicalis (41). Negli ultimi anni, altre specie, tra cui C. parapsilosis, C.
guillermondii, C. krusei e C. glabrata, stanno dimostrando una elevata patogenicità in relazione a particolari fattori di rischio (31, 33,
42). Per esempio, C. krusei, raramente causa di infezioni sistemiche in passato, deve oggi essere considerata un patogeno importante nei pazienti neutropenici per l'aumentata incidenza, ma
soprattutto per la particolare resistenza agli antifungini azolici (42,
43). C. parapsilosis, anch’essa in passato raramente causa di infezioni, è attualmente isolata con sempre maggiore frequenza dal
sangue di pazienti leucemici ed è causa del 4.5% delle candidemie
osservate presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New
York e del 9% presso l'Harpen Hospital di Detroit. Presso il
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia dell’Università "La Sapienza" di Roma, C. parapsilosis è stata isolata nel
28% delle candidemie osservate in pazienti leucemici (44). Questo
fenomeno può essere spiegato dalla particolare affinità di C. parapsilosis per i corpi estranei e in particolare per i cateteri venosi
centrali (33, 45). Nell'ambito di una stessa specie fungina si possono osservare differenti gradi di patogenicità che si correlano a particolari caratteristiche biologiche. In uno studio su ceppi di C. parapsilosis isolati dal sangue, da infezioni vaginali e dall'ambiente,
diversi biotipi hanno evidenziato particolari correlazioni cliniche e
una diversa patogenicità sperimentale sul topo sulla base dell'analisi del cariotipo, del morfotipo, del resistotipo e della produzione di
aspartil-proteinasi (45).
2. Alcune specie fungine possono presentare una notevole variabilità di incidenza da correlare a situazioni epidemiologiche
locali e all'emergere di nuove patologie caratterizzate da un
alterato stato immunitario. Le infezioni da Aspergillus presentano
una rilevante incidenza in pazienti leucemici. Tuttavia, recentemente, tali complicanze vengono segnalate anche in altre categorie di
ospiti immunocompromessi tra cui i pazienti con tumori solidi e con
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AIDS (31, 46, 47). Le varie casistiche indicano che l'incidenza di
aspergillosi nei pazienti leucemici è tra il 10% e il 30%, ma
nello stesso centro si possono osservare notevoli variazioni a
seconda dei periodi. Aspergillus species è un comune contaminante dei materiali biologici in decomposizione ed è largamente presente nell'ambiente. L'infezione prende origine dall'inalazione delle
spore che può avvenire sia all'esterno che all'interno dell'ospedale
e la colonizzazione nasale si associa a un significativo aumentato
rischio di sviluppare un'infezione invasiva (48). Il numero delle
spore di Aspergillus nell'aria varia in relazione alle diverse stagioni, alla presenza di lavori murari all'interno o nelle vicinanze
dell'ospedale, o all'uso di condizionatori d'aria. Sono state
descritte numerose epidemie da Aspergillus in pazienti immunocompromessi in corso di opere di costruzione o restauro all'interno
o nei pressi dell'ospedale, in seguito alla liberazione nell'aria di un
elevato numero di spore fungine. In alcuni casi il sistema di condizionamento d'aria contaminato è stato riconosciuto come serbatoio
di infezione nelle stesse stanze dei malati.
3. Alcuni funghi, in precedenza ritenuti contaminanti o innocui
colonizzanti, sono stati recentemente identificati come causa
di gravi infezioni in pazienti neoplastici immunocompromessi.
Tre gruppi di funghi possono causare queste infezioni opportuniste
emergenti: i feoifomiceti tra cui Curvularia, Bipolaris e Alternaria; gli
i a l o i f o m i c e t i t r a c u i S c o p u l a r i o p s i s, P s e u d a l l e s c h e r i a b o y d i i e
Fusarium spp.; altri lieviti e funghi filamentosi tra cui Malassetia furfur, Trichosporon beigelii e Blastoschizomyces capitatus (T. capitatum) (30).
Il Fusarium è un noto patogeno delle piante ed è comunemente
presente nel terreno. Fusarium species è da tempo conosciuto
come causa di infezioni superficiali di cute, unghie e cornea, e alcuni casi di infezione profonda localizzata sono stati descritti anche
nei pazienti non immunocompromessi (30). Al contrario la fusariosi
è stata osservata in forma disseminata quasi esclusivamente nei
pazienti immunocompromessi in particolare in pazienti con emopatie maligne, nei trapiantati di midollo e nei grandi ustionati (34, 36,
49). Febbre, isolamento del fungo dal sangue, mialgie diffuse, lesioni cutanee disseminate a tipo "ectima gangrenosum", disturbi visivi
e disseminazione a numerosi organi costituiscono un quadro clinico
peculiare. La fusariosi disseminata è una infezione gravata di elevatissima letalità e la prognosi è strettamente correlata alla normalizzazione del numero dei granulociti periferici.
Nonostante l'ampia distribuzione ambientale di Fusarium species in
tutto il mondo, sembra vi sia una discrepanza nella distribuzione
geografica dei casi di fusariosi descritti in letteratura. Più del 60%
dei casi sono stati osservati negli Stati Uniti. In Italia sono stati
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descritti il 15% dei casi e altre fusariosi invasive sono state solo
occasionalmente osservate in altri paesi (49). Il particolare interesse per le infezioni fungine con conseguente elevata capacità diagnostica di fusariosi in alcuni centri può giustificare una artificiosa
distribuzione geografica; tuttavia, il possibile ruolo dei fattori ecologici e climatici locali deve essere ancora valutato.
Le infezioni invasive da Trichosporon beigelii e Blastoschizomyces
capitatus sono state oggetto di particolare interesse negli ultimi
anni. La loro presentazione clinica è in alcuni aspetti simile ad altre
micosi (35). Possono dar luogo a un quadro clinico identico alla
candidosi epatica cronica, coinvolgendo spesso fegato e milza con
lesioni focali multiple. Inoltre, una infezione polmonare da B. capitatus può presentarsi con un tipico pseudomicetoma che solitamente è patognomonico per una aspergillosi polmonare. Entrambe
le infezioni fungine sono state osservate soprattutto in Europa e
negli Stati Uniti. Tuttavia, anche in questo caso sembra esservi una
particolare distribuzione geografica. Infatti le infezioni da T. beigelii
sono state riportate soprattutto negli Stati Uniti, mentre la maggior
parte dei casi da B. capitatus sono stati osservati in Europa (35).
4. Nuovi schemi terapeutici in alcune emopatie maligne possono
dar luogo a diversi stati di immunocompromissione con differente rischio infettivo. Per esempio, il trattamento della leucemia
linfoide cronica con fludarabina e altri analoghi purinici si basa su
un particolare effetto immunomodulante con conseguente aumentato rischio per rare infezioni opportuniste come listeriosi e criptococcosi (50). L'uso di agenti immunosoppressivi, come ciclosporina e
siero antilinfocitario, nel trattamento dell'anemia aplastica grave
sembra esporre a un aumentato rischio di aspergillosi invasiva e
fusariosi a causa dell'immunosoppressione linfocitaria che si aggiunge all'immunocompromissione correlata alla granulocitopenia (49).
Anche i progressi nell'approccio diagnostico-terapeutico delle infezioni fungine hanno contribuito all'emergere di nuovi quadri clinici
nell'ambito della stessa infezione. Emottisi massiva e pneumotorace spontaneo, per esempio, sono gravi complicanze tardive della
aspergillosi polmonare che si osservano con sempre maggiore frequenza parallelamente al miglioramento della prognosi della fase
acuta dell'infezione (51-53).
5. In aree endemiche la riattivazione di micosi invasive come istoplasmosi e coccidioidomicosi può aumentare in corso di immunocompromissione indotta da chemioterapia (54-56).
Il cambiamento epidemiologico delle infezioni fungine soprattutto
nei pazienti neutropenici deve essere sempre preso in considerazione per adeguare il corretto approccio nella prevenzione e terapia di queste gravi complicanze.
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3.3
INFEZIONI VIRALI
Le infezioni virali rappresentano, ancora oggi, la principale causa
infettiva di morbilità e mortalità per i pazienti immunocompromessi (57). Anche se più comuni nei pazienti riceventi trapianto di midollo
osseo, tali infezioni sono oggi individuate con sempre maggiore frequenza nei pazienti affetti da neoplasie ematologiche maligne che ricevono chemioterapia. Considerato il numero crescente di individui
immunocompromessi che vengono reinseriti nella comunità, è probabile che aumenteranno i casi di infezione da virus normalmente riscontrabili in comunità come le infezioni da virus influenzale, parainfluenzale e da adenovirus. La gravità di tali infezioni nel paziente immunocompromesso è spesso maggiore di quella osservabile in soggetti immunocompetenti, sebbene il quadro clinico sia sostanzialmente sovrapponibile. Nei pazienti riceventi trapianto di midollo osseo, le infezioni
virali più frequenti e gravi sono quelle da virus erpetici (CMV, EBV,
HVZ, Herpes simplex 1 e 2, Herpesvirus-6) (58). In seguito a un’infezione primaria, tali virus rimangono in fase di latenza, controllati principalmente dall’immunità cellulo-mediata mediante i linfociti citotossici,
tuttavia durante i periodi di immunodepressione si possono riattivare e
dar luogo a malattie. Altre infezioni virali apparentemente meno comuni ma potenzialmente gravi per i pazienti con neoplasie ematologiche
sono dovute ad adenovirus (polmoniti, infezioni sistemiche), a virus
respiratorio sinciziale, influenzale e parainfluenzale (polmoniti), BK
virus (cistiti emorragiche), parvovirus B19 (anemia). L’importanza dei
virus nei pazienti trapiantati è dovuta a effetti diretti (causa di malattie
o sindromi quali mononucleosi, epatite, polmonite, lesioni gastrointestinali, infezioni mucocutanee, ecc.), e a effetti indiretti (predisposizione dei pazienti a infezioni opportunistiche quali quelle da Pneumocystis carinii, Aspergillus spp. e Listeria monocytogenes) (59). Altri
virus invece di complicare il decorso clinico dei pazienti con neoplasia
ematologica maligna sembrano essere addirittura associati all’insorgenza della neoplasia stessa: per esempio il virus HTLV-I sembra
essere associato all’insorgenza di leucemia a cellule T e di alcune
forme di linfoma non-Hodgkin, il virus di Epstein-Barr è associato
all’insorgenza di sindromi linfoproliferative in pazienti trapiantati, più
recentemente è stata proposta l’associazione tra Herpesvirus-8 e mieloma multiplo e gammopatia monoclonale (60).
I virus del gruppo Herpes sono particolarmente adatti a provocare
malattie nel paziente affetto da neoplasie ematologiche a causa
delle seguenti caratteristiche biologiche: latenza, associazione
cellulare, oncogenicità.
■ LATENZA
L’infezione con un virus erpetico è una infezione permanente.
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Il virus allo stato latente può essere riattivato (in particolar modo,
durante l’immunodepressione); la sieropositività è il marker di laboratorio indicativo della presenza di tali virus.
■ ASSOCIAZIONE CELLULARE
La trasmissione dei virus da cellula a cellula e da soggetto a soggetto,
rende il sistema immunitario umorale inefficiente e attribuisce all’immunità cellulo-mediata (maggiormente inibito dai regimi immunosoppressivi) un ruolo importante nel controllo dei virus. La difesa dell’ospite nei confronti di tali virus è mediata attraverso i linfociti T citotossici virus-specifici, ristretti al complesso principale di istocompatibilità
(MHC).
■ ONCOGENICITÀ
A oggi, soltanto EBV è stato chiaramente associato a malattia linfoproliferativa.
3.4
INFEZIONI PARASSITARIE
L’incidenza delle infezioni parassitarie nei pazienti immunocompromessi non è ancora nota. Prima dell’epidemia dell’infezione da
HIV, le infezioni parassitarie più frequenti tra i pazienti immunocompromessi erano le infezioni da Toxoplasma gondii, da Pneumocistis
carinii, da Strongiloides stercoralis e occasionalmente da babesia e da
malaria (nei pazienti splenectomizzati o trasfusi). In base a caratteristiche genotipiche recentemente individuate, P. carinii viene
attualmente considerato da un punto di vista tassonomico non più
un protozoo ma un fungo.
Molti nuovi parassiti, patogeni e non patogeni per l’individuo immunocompetente, sono oggi considerati causa di gravi infezioni nell’ospite
immunocompromesso come ad esempio i coccidi (isospora, microsporidium, criptosporidium) (61, 62).
Le manifestazioni cliniche possono variare da infezioni asintomatiche fino a malattie disseminate. Gravi manifestazioni cliniche
avvengono quando il rapporto tra meccanismo immunitario e la crescita del parassita è a favore di quest’ultimo. Il meccanismo alla base del
danno dei parassiti varia. Per esempio, gli elminti tendono a causare
ostruzione meccanica a causa delle loro dimensioni e sono generalmente limitati al tratto gastrointestinale. Al contrario, la moltiplicazione
dei protozoi, favorita dalla depressione immunitaria, produce malattie
anche sistemiche. Inoltre, l’infezione con altri patogeni (CMV,
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Salmonella, Shigella) può contribuire ad aggravare il quadro clinico.
I pazienti con difetti dell’immunità cellulo-mediata sono predisposti a
gravi infezioni causate da Pneumocystis carinii, patogeno responsabile
di polmoniti interstiziali ancora oggi gravate da una elevata mortalità.
La profilassi a intermittenza con trimetoprim-sulfametossazolo è in
grado di ridurre l’incidenza di polmoniti, soprattutto in bambini affetti
da leucemia linfatica acuta.
L’infezione da Toxoplasma gondii può dar luogo a corioretiniti o ascessi cerebrali.
Strongiloides stercoralis può causare più frequentemente diarrea, più
raramente una sindrome da iperinfestazione con evoluzione mortale.
Infezioni da Cryptosporidium spp., comunemente osservate nei
pazienti affetti da AIDS, sono documentate sempre più frequentemente
nei pazienti affetti da neoplasie ematologiche maligne (61).
L’espressione clinica più frequente è una diarrea profusa e di lunga
durata. In individui con neoplasie ematologiche, tuttavia, sono stati
descritti casi di diarrea moderata, di localizzazione extraintestinale del
parassita e di portatore asintomatico (62).
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PROFILASSI
Le strategie di prevenzione delle infezioni nel paziente ematologico
immunocompromesso sono molteplici: riduzione dell’acquisizione di
nuovi microorganismi con l’utilizzo delle procedure di isolamento
inverso; riduzione delle procedure invasive (es. utilizzo del CVC);
miglioramento dei meccanismi di difesa dell’ospite attraverso il controllo del grado e della durata della neutropenia con i fattori di crescita
e infine soppressione della flora microbica endogena con una profilassi chemio-antibiotica.
4.1
TRATTAMENTO DELLA NEUTROPENIA
Il più importante fattore prognostico nei pazienti neutropenici con
complicanze infettive batteriche o fungine è la risalita dei neutrofili. Nel tentativo di controllare la neutropenia, riducendone la gravità e
la durata sono stati utilizzati fattori di crescita e trasfusioni di granulociti. Le citochine stimolanti la proliferazione, la differenziazione e l’attività funzionale dei neutrofili (G-CSF, GM-CSF) sono state impiegate
nell’ipotesi che una neutropenia meno profonda e più breve si correli
con un minore rischio infettivo. Alcuni risultati interessanti sono stati
ottenuti soprattutto in pazienti sottoposti a trapianto di midollo autologo (63). Tuttavia, l’uso dei fattori di crescita sembra associarsi a una
limitata riduzione della durata della neutropenia nei pazienti leucemici
sottoposti a chemioterapia intensiva e a una non significativa riduzione
dell’incidenza delle complicanze infettive. In conclusione, in considerazione del limitato ruolo nella prevenzione delle infezioni e dell’elevato
costo di tali farmaci, l’impiego dei fattori di crescita non sembra
avere un ruolo rilevante nella profilassi antimicrobica in corso di
neutropenia.
Per quanto riguarda i concentrati granulocitari, l’impiego di moderni separatori cellulari e l’uso del G-CSF nel donatore di globuli bianchi
hanno permesso di aumentare il numero di granulociti nelle unità di
globuli bianchi trasfuse. Per tale motivo è ipotizzabile che l’uso delle
trasfusioni di concentrati granulocitari ottenuti utilizzando i fattori di
crescita nel donatore possa permettere di ottenere migliori risultati nel
trattamento delle complicanze infettive gravi in corso di neutropenia.
Non vi sono comunque dati che ne giustifichino l’uso in profilassi.
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4.2
PROFILASSI DELLE INFEZIONI BATTERICHE
I microorganismi che causano infezione nei pazienti neutropenici possono essere di origine endogena (normale flora microbica cutanea, del
cavo orale, gastrointestinale e dell’apparato genitale) o esogena. In
questo caso i germi possono dar luogo subito a un’infezione o colonizzare il paziente e diventare un potenziale patogeno. La prevenzione
delle infezioni esogene è rappresentata soprattutto da “tecniche meccaniche” che riducono le possibilità di contatto con i microorganismi
esogeni. L’isolamento inverso sembra essere utile, ma il semplice
lavaggio delle mani del personale sanitario prima di ogni contatto
col paziente è di fondamentale importanza.
Poiché la gran parte delle infezioni batteriche che vengono documentate nel neutropenico sono causate da microorganismi che colonizzano il tratto gastrointestinale, la soppressione della flora microbica
intestinale con chemioantibiotici rappresenta un valido mezzo di
prevenzione di gran parte delle infezioni batteriche. Gli schemi di
decontaminazione selettiva della flora intestinale aerobica con la conservazione di quella anaerobia sono quelli più impiegati in quanto la
conservazione della flora anaerobia, che raramente causa infezioni in
corso di neutropenia, svolge un ruolo protettivo nel prevenire la crescita o la colonizzazione intestinale dei microorganismi Gram-negativi
nosocomiali (64). Pur tuttavia, la decontaminazione selettiva con cotrimossazolo o fluorochinoloni non è sempre in grado di impedire la
selezione di microorganismi resistenti (P. aeruginosa, E. coli) mettendo
in discussione il concetto di resistenza alla colonizzazione. I regimi
profilattici che utilizzano l’associazione di antibiotici orali non assorbibili (es. gentamicina, vancomicina, neomicina, colistina) si sono dimostrati efficaci soltanto quando utilizzati in combinazione con l’isolamento protettivo; a causa della scarsa “compliance” e della frequente
emergenza di microorganismi resistenti, questi regimi profilattici sono
ora desueti. Il co-trimossazolo ha dimostrato la sua efficacia profilattica in studi randomizzati, sia in adulti che in bambini neutropenici.
Tuttavia, a causa della sua inattività nei confronti di P. aeruginosa,
della frequente emergenza di bacilli Gram-negativi resistenti e degli
effetti indesiderati, il suo uso è oggi limitato all’ambito pediatrico e alle
poche situazioni locali dove le resistenze al farmaco risultano contenute. I fluorochinoloni rappresentano il gruppo di farmaci più diffusamente utilizzato per la profilassi antibiotica nel neutropenico:
l’ampio spettro antibatterico, le elevate concentrazioni intraluminali,
l’elevata attività battericida sistemica, la buona tollerabilità e l’apparente assenza di potenziale per lo sviluppo di resistenze rappresentano le caratteristiche che ne hanno favorito l’uso in profilassi. In effetti,
i fluorochinoloni hanno dimostrato di ridurre la morbosità causata dalle
infezioni da Gram-negativi con risparmio anche economico (17). Il fluo-
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rochinolonico più usato è attualmente la ciprofloxacina che ha dimostrato di possedere una relativa maggiore attività rispetto agli altri
antibiotici della stessa classe nei confronti dei germi più “difficili” (18).
Pur tuttavia, dopo dieci anni di utilizzo, si sono delineati chiaramente
anche i loro limiti rappresentati dall’inefficacia profilattica nei confronti
delle infezioni da Gram-positivi, a causa della loro intrinseca scarsa
attività contro questi microorganismi, e dall’emergenza di bacilli Gramnegativi resistenti (ceppi epidemici di E. coli) responsabili di batteriemie in pazienti profilassati. Paradossalmente questi due problemi
impongono che la terapia antibiotica empirica, nel paziente neutropenico che sviluppa febbre in corso di profilassi con fluorochinoloni,
tenga conto sia dell’alta probabilità di infezioni da Gram-positivi che
della possibilità di infezioni da Gram-negativi multiresistenti.
L’emergenza delle infezioni tubercolari sia nei pazienti immunocompetenti che immunocompromessi impone un’attenzione particolare alla diagnosi e alla profilassi di tali complicanze anche se
non si conosce allo stato attuale l'entità del rischio per le infezioni
tubercolari in tutte le categorie di pazienti immunocompromessi.
Contrariamente a quanto avviene nei pazienti con emopatie, nelle quali
vi è una alterazione dell’immunità cellulo-mediata (es. linfomi), la
tubercolosi non sembra essere una complicanza frequente nei pazienti
neutropenici. Tuttavia, è indicata la profilassi anche nei pazienti
neutropenici se presentano anamnesi positiva per infezione tubercolare o cutireazione positiva alla tubercolina. Il farmaco da utilizzare per la profilassi antitubercolare è la isoniazide al dosaggio di
300 mg/die da assumere per almeno tre mesi dopo la sospensione della terapia immunosoppressiva.
4.3
PROFILASSI DELLE INFEZIONI FUNGINE
L’elevata incidenza e la prognosi sfavorevole delle infezioni fungine nei
pazienti immunocompromessi hanno sollecitato numerosi studi relativi
alla prevenzione di tali complicanze nei pazienti a rischio. Numerosi
antifungini (nistatina, amfotericina B, miconazolo, clotrimazolo, ketoconazolo, fluconazolo e itraconazolo) sono stati testati soprattutto
nella profilassi delle infezioni superficiali e profonde da Candida. Per
quanto riguarda l’Aspergillus, che solitamente si acquisisce dall’ambiente, i maggiori successi sono stati ottenuti con la prevenzione
ambientale. Infatti, l’isolamento inverso dei pazienti con camere a flusso laminare o a pressione positiva e i sistemi di filtraggio dell’aria (filtri
HEPA) rappresentano l’unico mezzo efficace nella prevenzione delle
aspergillosi, mentre l’impiego di antifungini attivi in vitro nei confronti
dell’Aspergillus, come amfotericina B (orale, endovenosa a basse dosi,
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aerosol), ketoconazolo e itraconazolo, è risultato insoddisfacente.
Quindi, allo stato attuale, non esiste alcuno schema di profilassi
farmacologica che possa essere utile nella prevenzione delle
aspergillosi invasive.
Per quanto riguarda le infezioni superficiali e profonde da Candida, la
profilassi farmacologica sembra possa avere un ruolo solo in alcune
categorie di pazienti a rischio. L’uso di fluconazolo in profilassi a vari
dosaggi (150-400 mg/die) è stato comparato con placebo e amfotericina B orale in due importanti studi prospettici, randomizzati, multicentrici, in pazienti neutropenici affetti da leucemia acuta e non sembra
presentare alcuna efficacia significativa. Il primo studio controllato in
cui il fluconazolo ha ridotto in modo significativo l’incidenza di candidosi superficiali e profonde è stato pubblicato da Goodman et al. (65)
nel 1992. In tale studio, il fluconazolo al dosaggio di 400 mg/die è
stato paragonato a placebo in una popolazione di pazienti sottoposti a
trapianto di midollo osseo e il gruppo trattato con l’antifungino ha presentato una riduzione significativa della colonizzazione fungina (29.6%
vs 67.2%), delle micosi superficiali (8.4% vs 33.3%) e profonde (2.8%
vs 15.8%) senza aumento di tossicità. Tali risultati sono stati confermati da un ulteriore studio sempre in soggetti sottoposti a trapianto di
midollo osseo nel quale oltre a una ridotta incidenza di infezioni e
bassa tossicità, l’uso del fluconazolo si è associato a una minore mortalità (66).
L’impiego del fluconazolo è stato in alcuni studi associato a un aumento di infezioni da specie di Candida naturalmente resistenti al farmaco
come C. krusei e C. glabrata (67-69). Mentre la selezione di funghi
resistenti al fluconazolo è un problema ben conosciuto e di rilevante
impatto clinico nei pazienti con AIDS in fase avanzata, nei pazienti
oncologici tale problema non sembra attualmente rappresentare un
fattore limitante l’impiego del farmaco. Tuttavia, la possibile selezione
di germi resistenti rappresenta un ulteriore motivo per limitare l’uso
della profilassi antifungina ai soli casi in cui ne è stata dimostrata l’indicazione.
Allo stato attuale, gli studi sulla profilassi delle infezioni fungine nei
pazienti oncoematologici hanno portato alle seguenti conclusioni:
• non esistono schemi di profilassi antifungina efficaci nei pazienti con leucemia acuta sottoposti a chemioterapia di induzione
• il fluconazolo in profilassi al dosaggio di 400 mg/die si è dimostrato efficace nei pazienti sottoposti a trapianto di midollo
osseo
• l’emergenza di ceppi di Candida resistenti al fluconazolo è un
problema da tenere in debita considerazione anche se allo stato
attuale sembra incidere in modo significativo solo nei pazienti HIV
positivi
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• l’unica prevenzione delle infezioni da Aspergillus è rappresentata dall’isolamento ambientale e non vi sono attualmente schemi
farmacologici efficaci.
4.4
PROFILASSI DELLE INFEZIONI VIRALI
■ VIRUS HERPES SIMPLEX (HSV)
HSV può essere una frequente causa di morbidità nei pazienti immunocompromessi, in particolare quelli sottoposti a TMO o chemioterapia intensiva per leucemia acuta. In questi pazienti l’incidenza di riattivazione è elevata (>80%) nei pazienti sieropositivi che non ricevono
profilassi. Titoli di anticorpi più elevati (>1:16) sono predittivi per lo
sviluppo della manifestazione clinica. Molti studi di profilassi hanno
dimostrato che la somministrazione di aciclovir per via endovenosa (250 mg/m 2 ogni 8 ore) o per via orale (200 mg per 5 volte al dí)
previene l’infezione da Herpes simplex nel 100% dei casi. Pertanto
è indicato somministrare aciclovir per os o per via endovenosa per la
profilassi delle infezioni erpetiche per alcuni sottogruppi di pazienti ad
alto rischio:
1. per i pazienti sottoposti a TMO sieropositivi per HSV con un
titolo di 1:16 o più elevato, se i pazienti diventano CMV positivi,
deve essere somministrato ganciclovir e può essere sospeso l’aciclovir;
2. per i pazienti sieropositivi per HSV e affetti da leucemia acuta
in trattamento con chemioterapici;
3. per i pazienti con anamnesi positiva per HSV che devono essere sottoposti a chemioterapia.
■ VIRUS HERPES VARICELLA ZOSTER (HVZ)
Uno dei metodi di prevenzione dell’infezione da HVZ più importanti e
semplici è l’isolamento dei pazienti con infezione in atto (sia con varicella che con Herpes zoster) dagli altri pazienti immunocompromessi.
L’immunizzazione passiva con Ig anti-virus varicella zoster (VZIG) è in
grado di ridurre l’incidenza delle polmoniti e della mortalità da varicella
nei pazienti immunocompromessi dal 7% allo 0.5%. Bambini o adulti
immunocompromessi che sono sieronegativi o con basso titolo di
anticorpi antivaricella dovrebbero ricevere VZIG (1 fiala/10 kg)
entro 72 ore dall’esposizione a una fonte potenzialmente infettiva.
Una dose di Ig dovrebbe essere protettiva per 4 settimane circa.
Un vaccino vivo attenuato ancora in fase di sperimentazione si è dimostrato efficace nel produrre anticorpi nei pazienti immunocompromessi
e non sono stati osservati casi gravi di varicella o di Herpes zoster.
INFEZIONI
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EMATOLOGIA
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EPIDEMIOLOGIA
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PROFILASSI
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CLINICA
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■ CYTOMEGALOVIRUS (CMV)
La prevenzione dell’infezione da CMV in pazienti ad alto rischio è rappresentata dalla somministrazione di emoderivati sieronegativi in
pazienti sieronegativi, dall’immunizzazione passiva, e dalla somministrazione di aciclovir e di ganciclovir.
L’uso delle Ig ad alto titolo per la prevenzione della malattia da CMV
nei trapiantati di midollo osseo è controverso mentre è stato dimostrato essere efficace per i riceventi di trapianto di rene sieronegativi per
CMV.
La somministrazione di aciclovir per la prevenzione dell’infezione e
della malattia da CMV è controverso. Tuttavia, in uno studio randomizzato, la somministrazione di aciclovir ad alte dosi (800 mg 5 volte al
dí) si è dimostrata capace di ridurre l’incidenza della malattia da CMV.
Attualmente, il farmaco più utilizzato per la prevenzione della malattia
da CMV è il ganciclovir (5 mg/kg/ 2 volte al dí). In alcuni centri, questo farmaco è somministrato in pazienti sieropositivi per CMV dal
momento dell’attecchimento del midollo fino al giorno +100. Tuttavia,
tale procedura espone i pazienti agli effetti collaterali del farmaco
(neutropenia, insufficienza renale). Per tale motivo la maggior parte
degli autori ritiene che l’uso di ganciclovir al momento della positività per CMV nel sangue (antigenemia, viremia, PCR) (pre-emptive
therapy) si è dimostrata efficace e con minori effetti collaterali rispetto
alla somministrazione di ganciclovir per 100 giorni.
4.5
PROFILASSI DELLE INFEZIONI PARASSITARIE
La profilassi per Pneumocystis carinii con trimetoprim-sulfametossazolo è efficace per i bambini con leucemia, pazienti con linfopatie in
trattamento chemioterapico intensivo, pazienti riceventi TMO e per i
pazienti con AIDS. La somministrazione di trimetoprim-sulfametossazolo (160-800 mg, rispettivamente) due volte al giorno per tre
giorni consecutivi la settimana è il sistema più efficace e meno
tossico. Altri farmaci usati per la profilassi di P. carinii sono la pentamidina aerosol, atovaquanone, la pirimetamina + dapsone, la pirimetamina + sulfadossina. Il valore di questi farmaci è stato dimostrato al
momento solo per i pazienti con AIDS.
4.6
VACCINAZIONI
I vaccini virali vivi attenuati generalmente non dovrebbero essere
somministrati ai pazienti immunodepressi con leucemia o linfoma, o
che ricevono agenti alchilanti e radioterapia.
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Il CDC raccomanda che i pazienti con leucemia in remissione che
hanno terminato la chemioterapia da più di tre mesi ricevano vaccini vivi attenuati (70). Non sono considerate controindicazioni alla
somministrazione di vaccini vivi attenuati, le somministrazioni di cortisonici per periodi inferiori alle 2 settimane e a dosi intermedie. Inoltre,
pazienti che hanno ricevuto TMO allogenico da almeno 2 anni, in
remissione della malattia ematologica e in assenza di GVHD, possono
ricevere vaccini vivi attenuati (morbillo, rosolia, parotite) (71). Infine,
anche se la somministrazione di vaccini vivi attenuati è controindicata
in pazienti adulti sintomatici HIV-positivi, il CDC raccomanda la somministrazione di vaccini vivi attenuati (morbillo, rosolia, parotite) in bambini HIV-positivi anche se sintomatici.
Il vaccino per lo pneumococco, pur contenendo 23 dei sierotipi
responsabili di quasi il 90% delle batteriemie, è protettivo solo per il
61% dei pazienti immunocompetenti e ancora meno per i pazienti
immunocompromessi. Tuttavia, il vaccino è raccomandato per i
pazienti con asplenia, per i pazienti con linfoma di Hodgkin, linfoma,
mieloma multiplo, e per i pazienti sottoposti a TMO.
Il vaccino per Haemophilus B è raccomandato per i pazienti con asplenia funzionale o anatomica.
La vaccinazione per il virus influenzale, con virus attenuato o con antigeni ricombinanti, è raccomandato per i pazienti immunodepressi ma il
valore protettivo è subottimale. Tuttavia, è indicato per i lavoratori
sanitari e per i parenti dei pazienti immunodepressi, per prevenire la
trasmissione virale.
Per quanto riguarda le vaccinazioni consigliate nei pazienti da sottoporre a splenectomia o con asplenia funzionale o anatomica si rimanda
al capitolo 6.3.
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TERAPIA
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APPROCCIO CLINICO
AL PAZIENTE
IMMUNOCOMPROMESSO
CON FEBBRE
5.1
APPROCCIO DIAGNOSTICO
Un adeguato approccio clinico alle infezioni nei pazienti emopatici
immunocompromessi richiede una analisi di vari fattori che possono
condizionare la decisione diagnostica e terapeutica che sono:
1. caratterizzazione dell’alterato stato immunitario dipendente dalla
patologia di base, dalla fase di malattia, dal numero dei granulociti
neutrofili e dalle precedenti terapie per la patologia di base;
2. conoscenza dei patogeni che più comunemente causano infezioni
nei pazienti con quel particolare stato immunitario, valutazione della
loro sensibilità agli antimicrobici e della epidemiologia locale (nel
paese e nell’ospedale stesso);
3. scelta di una appropriata terapia antimicrobica empirica o mirata.
La neutropenia modifica marcatamente la risposta infiammatoria
nell’ospite e rende pertanto difficile rilevare la presenza di infezioni. Nelle polmoniti possono mancare i segni clinici di consolidamento
parenchimale e i segni radiologici mentre l’escreato purulento è raramente presente; nelle infezioni urinarie non è possibile fare riferimento
al dato della leucocituria che è generalmente assente per cui è difficile
differenziare tra infezione e colonizzazione; nelle meningiti possono
non essere rilevabili i segni di irritazione meningea e può mancare la
pleiocitosi liquorale.
Nei pazienti nei quali l’immunocompromissione non è dovuta alla
neutropenia ma all’alterazione dell’immunità cellulo-mediata, le
manifestazioni cliniche delle infezioni sono in genere più evidenti
perché presente, se pur ridotta, la risposta infiammatoria da parte dei
neutrofili. Tuttavia alcune infezioni opportuniste che spesso si osservano in tali soggetti possono avere una espressione clinica cronica, subdola, con sintomatologia sfumata, di difficile diagnosi.
L’approccio clinico al paziente emopatico immunocompromesso febbrile si basa sull’anamnesi, sull’esame obiettivo e su gli accertamenti
diagnostici microbiologici e strumentali.
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■ ANAMNESI
Gli obiettivi dell’indagine anamnestica sono i seguenti:
1. calcolare, nel caso in esame, lo “score” globale di compromissione
delle difese in relazione alla malattia di base e al suo trattamento
(neutropenia, alterazioni dell’immunità umorale e cellulare, delle barriere cutanee e mucose) poiché i diversi microorganismi infettanti
prevalgono in relazione allo specifico difetto di difesa anche se in
concreto, nel singolo paziente, spesso interagiscono molteplici
difetti delle difese;
2. inquadrare l’episodio febbrile come primario o secondario: il primo
episodio febbrile in corso di neutropenia di recente insorgenza è
causato per lo più da batteri, specie se il paziente non ha ricevuto
in precedenza terapia antibiotica; i successivi episodi sono per lo
più di natura fungina.
L’indagine anamnestica si rivolge innanzitutto alla valutazione della
malattia di base con l’identificazione della sua esatta natura, la data
della diagnosi, il trattamento precedente (chirurgia, radioterapia, ecc.),
il trattamento recente con particolare riferimento a chemioterapia,
radioterapia, steroidi, trasfusioni di sangue ed emoderivati, uso di antipiretici e analgesici, chirurgia, manovre invasive (catetere venoso centrale, catetere urinario, sondino naso-gastrico ecc.). Si indaga poi su
precedenti episodi febbrili o infezioni recenti per distinguere tra possibile recidiva e nuova infezione. La terapia antibiotica recente deve
essere bene identificata per conoscere se l’episodio febbrile in esame
è insorto durante la terapia o a breve distanza da essa (superinfezioni
da batteri resistenti, infezione fungina). Il luogo di insorgenza della febbre riveste particolare importanza nell’indagine epidemiologica (infezione ospedaliera o insorta a domicilio). I sintomi soggettivi vanno indagati con particolare riferimento al dolore (es. cefalea), all’andamento della
curva termica e alle complicanze di precedenti terapie (reazioni di ipersensibilità).
■ ESAME OBIETTIVO
L’esame obiettivo del paziente neutropenico febbrile deve essere
accurato e deve sempre precedere qualsiasi iniziativa terapeutica,
fatta eccezione per l’emergenza rappresentata dallo shock settico.
Il rilievo dei parametri vitali (polso, pressione arteriosa, frequenza
respiratoria) è sufficiente a valutare, insieme con i valori della temperatura corporea, la gravità del caso.
L’esame fisico completo e sistematico deve avere particolare riguardo
per l’obiettività neurologica (stato mentale, nervi cranici, fundus oculi);
per la cute (inclusa l’area perirettale, la sede di inserzione di cateteri,
le sedi di pregresse manovre diagnostiche quali biopsia ossea, ecc.);
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per l’orofaringe (denti, gengive); per l’obiettività toracica (cuore, polmoni) e dell’addome (fegato, milza), per le stazioni linfonodali e per la
regione pelvica. Se è presente dolore perirettale si procede alla esplorazione rettale e se sono rilevabili segni neurologici o alterazione dello
stato mentale, alla puntura lombare.
Gli accertamenti diagnostici si suddividono in microbiologici e strumentali; si riconoscono in ciascun gruppo le procedure routinarie e
quelle speciali.
■ ACCERTAMENTI MICROBIOLOGICI
Gli accertamenti microbiologici routinari sono rappresentati innanzitutto dai prelievi delle emocolture. Poiché il tasso di isolamento è proporzionale al numero di prelievi di sangue effettuati occorre eseguire
almeno 2 differenti prelievi nell’arco di 30 minuti-6 ore. Se il paziente è
portatore di CVC è necessario prelevare contemporaneamente sangue
dal catetere e dalla vena periferica. I moderni sistemi emocolturali prevedono l’inoculo di un singolo brodo per ogni prelievo emocolturale;
solitamente tale brodo è idoneo a far crescere batteri e funghi.
Gli altri accertamenti microbiologici routinari sono rappresentati dalla
urinocoltura e dall’esecuzione di tamponi o agoaspirati da sedi
infette. Sono invece da considerare opzionali le colture di sorveglianza per funghi (tampone nasale per Aspergillus spp.; tampone faringeo
e rettale per Candida spp.) che possono risultare peraltro un importante ausilio diagnostico nel caso di sospetta aspergillosi e candidosi
invasiva e per decidere se instaurare una terapia antifungina (37). Gli
accertamenti sierologici hanno un ruolo diagnostico potenziale nella
diagnosi non invasiva delle micosi disseminate (ricerca di galattomannano per Aspergillus, mannoproteina ed enolasi per Candida), anche
se ancora da codificare (72). Al contrario la titolazione dell’antigenemia e antigenerrachia per criptococco ha un ruolo diagnostico validato sensibile e specifico.
Tra gli accertamenti microbiologici speciali vanno considerate le ricerche virologiche relative ai virus erpetici (HSV1 e 2, HVZ, CMV,
HSV6). Tali indagini vanno mirate a problemi specifici e riguardano per
lo più pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali allogeniche o
con infezione da HIV.
■ ACCERTAMENTI STRUMENTALI
Gli accertamenti strumentali routinari prevedono l’esecuzione di un Rx
torace in 2 proiezioni (da eseguire sempre) e di una emogasanalisi se
vi è il sospetto di una compromissione respiratoria. Accertamenti strumentali speciali, che spesso vengono adottati nei pazienti con neutropenia febbrile, sono rappresentati dal lavaggio bronco-alveolare
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(BAL) (in caso di polmonite, specie se interstiziale), da biopsia di
lesioni cutanee, da TAC del polmone (lesioni polmonari poco definibili all’Rx standard), da ecografia o TAC dell’addome (ileotiflite, candidosi epatosplenica, ecc.), TAC o RMN cerebrale (ictus di n.d.d.,
disturbi dello stato di coscienza, cefalea), TAC del massiccio facciale
(rino-sinusite, infiltrato orbitario).
■ DIAGNOSI DELLE INFEZIONI FUNGINE INVASIVE
L'approccio clinico alle infezioni fungine opportuniste è caratterizzato
da una serie di problemi non ancora risolti, primo fra tutti la difficoltà
diagnostica (33).
I segni clinici nei pazienti neutropenici non consentono in genere di
ottenere una diagnosi sicura di micosi invasiva. Infatti, non vi sono sintomi specifici e spesso l'unico segno clinico di infezione è la febbre.
Solo in un limitato numero di casi, e solitamente dopo la risalita dei
granulociti neutrofili, alcuni quadri clinici tra cui lo pseudomicetoma
polmonare e le tipiche lesioni epato-spleniche permettono una diagnosi presuntiva di micosi invasiva.
La possibilità di eseguire una diagnosi in genere deriva dalla valutazione contemporanea di una serie di dati clinici, microbiologici, istologici
e sierologici.
L'impiego di indagini radiologiche più sensibili ha notevolmente
aumentato la possibilità di evidenziare alterazioni di tessuti profondi
tipiche di alcune micosi invasive. La tomografia assiale computerizzata tradizionale e la tecnica ad alta risoluzione rappresentano il
mezzo diagnostico più sensibile e specifico. Le indagini ecografiche, inoltre, possono validamente affiancarsi alla radiologia nella diagnosi e monitorizzazione di alcune infezioni fungine. La rivelazione alla
tomografia assiale e all'indagine ecografica di caratteristiche lesioni
epatiche e spleniche, e in alcuni casi localizzate anche a reni e polmoni, permette un fondato sospetto diagnostico di candidosi disseminata
(Figure 6 e 7). Tale quadro clinico, tuttavia, si manifesta solo dopo la
risalita dei granulociti neutrofili se il paziente è sopravvissuto all’infezione acuta. Per quanto riguarda le infezioni polmonari, le indagini
radiografiche convenzionali possono non essere in grado di evidenziare lesioni micronodulari in corso di candidosi o raramente di aspergillosi. Lesioni cavitarie polmonari con abitante (pseudomicetoma) o
lesioni pseudoinfartuali tipiche dell'aspergillosi sono chiaramente
documentate alla radiografia del torace. Tuttavia, queste lesioni
polmonari assumono un aspetto tipico solo tardivamente nel corso
dell'infezione e spesso nella fase acuta non presentano caratteristiche
peculiari o addirittura non sono evidenziabili. Alla TAC, le stesse
lesioni in una fase precoce sono frequentemente caratterizzate da
una area periferica di densità inferiore rispetto alla zona centrale.
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Figura 6 • Candidosi epatica (risonanza magnetica nucleare)
Figura 7 • Candidosi epatica (reperto autoptico)
Questo quadro abbastanza tipico è anche conosciuto come segno
dell'alone dell'aspergillosi polmonare (73).
Tali tecniche strumentali, pur avendo migliorato le possibilità diagnostiche, sono utili solo in alcuni casi e spesso tardivamente nel corso dell'infezione.
Un ruolo spesso determinante e sicuramente promettente per la diagnosi delle infezioni fungine profonde è sostenuto dalla diagnostica di
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laboratorio. Tuttavia, gli esami colturali spesso sono poco sensibili. Le
emocolture sono solitamente negative in corso di aspergillosi
anche disseminata. Una candidosi invasiva, invece, può essere
diagnosticata con le emocolture in circa il 50% dei casi, anche se
l'isolamento del germe dal sangue è in genere tardivo ed è segno di
disseminazione spesso fatale dell’infezione (33). Tra i funghi emergenti,
Fusarium species e Blastoschizomyces capitatus sono stati isolati dal
sangue in molti dei casi di infezione invasiva segnalati in letteratura
(35, 36).
La possibilità di isolare un fungo dal sangue è maggiore se aumenta il
numero di emocolture eseguite in occasione di una sospetta infezione
fungina. Tra le tecniche emocolturali più sensibili e che permettono un
più rapido isolamento del germe ricordiamo la lisi-centrifugazione, il
metodo radiometrico e il sistema bifasico ventilato. Il significato dell'isolamento di funghi dalle mucose e dal tratto respiratorio è controverso. Il problema fondamentale è discriminare tra colonizzazione e infezione fungina. L'isolamento di Aspergillus dalle secrezioni respiratorie (espettorato, broncolavaggio e tampone nasale) varia dal
13% al 50% nei pazienti leucemici con infezioni polmonari e delle
vie aeree superiori, ed è considerato un dato microbiologico di rilevante significato diagnostico (74). Tuttavia, la colonizzazione da
Aspergillus delle vie aeree superiori è frequente anche nei soggetti
sani, di conseguenza, un tampone nasale positivo potrebbe non essere correlato a un’infezione. Dunque, le positività degli esami colturali
sulle secrezioni del tratto respiratorio possono avere un significato diagnostico se associate a un quadro clinico di infezione polmonare o dei
seni paranasali.
La Candida è un comune commensale e colonizzante del tratto
gastroenterico, quindi il suo isolamento dal cavo orale o dalle feci non
può assumere valore diagnostico. Anche in presenza di lesioni polmonari diagnosticate radiologicamente, l'solamento di Candida
dall'espettorato non ha alcun significato. Tuttavia, alcuni studi
dimostrano che la colonizzazione da Candida può essere considerata un fattore di rischio per lo sviluppo di una candidosi invasiva
nei pazienti neutropenici (74).
Il risultato degli esami colturali è spesso di difficile interpretazione e il
valore diagnostico dipende dal tipo di campione clinico e dalle specie
fungine isolate. Inoltre, il mancato isolamento di funghi dalle colture
non è sufficiente per escludere l'origine fungina di un’infezione.
Nella maggior parte dei casi, la conferma o l'esclusione di una
infezione fungina invasiva si può ottenere solo dalle indagini istologiche. Tuttavia, le procedure diagnostiche invasive sono spesso
controindicate in pazienti in gravi condizioni generali e in quelli con
grave piastrinopenia. Solo lesioni cutanee sospette per localizzazione
fungina possono essere agevolmente bioptizzate senza rilevanti rischi.
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Negli ultimi anni sono stati ottenuti risultati promettenti nella diagnosi
sierologia delle infezioni fungine profonde tramite il dosaggio di specifici antigeni fungini (72, 75, 76). Tuttavia, questi esami sierologici
presentano limitazioni nelle tecniche di esecuzione e nel loro
significato clinico. Pertanto, tali dati dovrebbero essere interpretati
con cautela e considerati nel contesto della malattia come parte delle
indagini cliniche e di laboratorio. Per alcune micosi come la criptococcosi, l'istoplasmosi e la coccidioidomicosi il ruolo della diagnosi sierologica con dosaggio degli antigeni fungini è ben codificato e sono
disponibili in commercio validi test diagnostici. Tuttavia, tali micosi
colpiscono soprattutto i pazienti con AIDS. Nei pazienti con neoplasie
maligne, al contrario, la diagnosi immunologica delle micosi invasive
ha un limitato valore diagnostico. Infatti, gli esami sierologici attualmente disponibili per la diagnosi di candidosi e aspergillosi invasiva
sono dotati di scarsa sensibilità e specificità. Il valore clinico del
dosaggio degli anticorpi nelle micosi invasive è estremamente limitato
per l'alterata risposta immunitaria nei pazienti immunocompromessi e
per i falsi positivi nei pazienti con colonizzazione delle mucose. La
ricerca di numerosi antigeni fungini con varie metodiche è stata impiegata nella diagnosi di candidosi e aspergillosi invasive. Per quanto
riguarda la candidosi invasiva, in numerosi studi è stato valutato il
significato del dosaggio della mannoproteina di superficie, di una proteina citoplasmatica di 48KDa e di una glicoproteina termolabile. Le
metodiche più frequentemente impiegate sono: immunodiagnosi con
anticorpi monoclonali e policlonali (EIA), indagini radioimmunologiche
(RIA), test di agglutinazione e coagglutinazione al lattice. Nella diagnosi delle infezioni da Aspergillus il significato del dosaggio urinario e
sierico dell'antigene polisaccaridico galattomannano è stato valutato
con metodiche RIA, EIA e di agglutinazione al lattice.
Il valore diagnostico del dosaggio degli antigeni per la diagnosi di
candidosi e aspergillosi nei pazienti neoplastici è tuttora controverso. La sensibilità e la specificità, il valore predittivo positivo e
negativo differiscono notevolmente nei vari studi pubblicati e con le
varie metodiche. La ragione di questi risultati contrastanti è probabilmente da riferirsi alla particolare cinetica degli antigeni fungini. La
mannoproteina di Candida e il galattomannano di Aspergillus vengono
rapidamente rimossi dal circolo sanguigno con la formazione di immunocomplessi e seguente endocitosi da parte delle cellule del Kupffer
nel fegato. La presenza transitoria di tali antigeni nel circolo sanguigno
potrebbe spiegare la bassa sensibilità di tali indagini soprattutto se
effettuate in singoli campioni di siero. Per tale motivo sembra che tali
test sierologici possano avere valore diagnostico se effettuati su
campioni seriati di sangue in pazienti con sospetto di candidosi o
aspergillosi invasiva. In uno studio retrospettivo in pazienti emopatici
con candidemia, il dosaggio della mannoproteinemia è risultato utile
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nella diagnosi differenziale tra candidemia correlata alla presenza del
catetere venoso centrale e candidemia in corso di infezione invasiva
(77). La mannoproteinemia è risultata praticamente assente nei casi di
candidemia da catetere e positiva nella maggior parte dei pazienti con
infezione invasiva.
Ulteriori studi sono necessari per standardizzare le metodiche sierologiche, per identificare l'ottimale frequenza di prelevamento dei campioni sierici e per individuare i quadri clinici nei quali le indagini sierologiche dimostrano una soddisfacente sensibilità e specificità diagnostica.
■ DIAGNOSI DELLE INFEZIONI VIRALI
Una pronta e accurata diagnosi di alcune infezioni virali è necessaria
tenuto conto delle possibilità terapeutiche oggi disponibili.
Un campione di siero prelevato prima del trapianto è sufficiente per
determinare l’immunità acquisita del ricevente il trapianto verso i virus
erpetici che più frequentemente causano malattie nei pazienti emopatici. In genere le infezioni primarie sono più gravi delle infezioni secondarie o delle riattivazioni. Nel caso delle infezioni da Herpes virus la
sieropositività è indice di infezione latente.
Con l’immunosoppressione gli individui sieropositivi mostrano frequentemente la riattivazione di quella infezione, indicata generalmente da
un innalzamento del titolo anticorpale. Tuttavia, questo fenomeno non
rappresenta necessariamente un indice di malattia in atto. È inoltre
consigliato prelevare un campione di siero dal donatore per determinare la presenza di anticorpi verso quei virus che possono essere trasportati con le cellule staminali emopoietiche (CSE) da trapiantare.
Difatti, la potenziale infettività delle CSE da trapiantare può essere
indicata dallo stato sierologico del donatore.
Il metodo di laboratorio più sensibile e specifico per la diagnosi di
infezione virale in pazienti emopatici è la coltura cellulare. Infatti,
questi pazienti presentano nelle loro secrezioni un elevato titolo del
virus. Tuttavia, in genere sono necessari alcuni giorni, se non settimane, per ottenere una risposta conclusiva. Sono stati quindi sviluppati
metodi rapidi che utilizzano anticorpi monoclonali diretti verso antigeni
virali che sono poi rivelati in immunofluorescenza o con immunoperossidasi. Recentemente, sono stati realizzati sistemi anche automatizzati
che permettono la rivelazione di genoma virale mediante ibridizzazione
in situ o mediante amplificazione del genoma stesso (PCR), in tale
modo la diagnosi può essere effettuata in 24-48 ore invece delle usuali
2-3 settimane.
Le colture virali di sorveglianza sono usualmente effettuate dalla
maggior parte dei centri di trapianto per porre diagnosi di infezione da CMV e HSV. In genere le colture vengono effettuate ogni 2-4
settimane per 3 mesi circa dopo il trapianto. Le colture di sorveglian-
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za del sangue posseggono un elevato valore predittivo positivo
(90% circa), comunque, il 10% circa dei pazienti può presentare una
malattia erpetica (esempio CMV) senza aver eliminato in precedenza
virus nel sangue o in altri siti corporei. Tuttavia, sapere se il paziente
elimina il virus è utile per formulare una diagnosi differenziale nel caso
il paziente diventasse febbrile. Per esempio, la diagnosi di infezione
sintomatica da CMV, è poco probabile in un paziente trapiantato le cui
colture virali sono ripetutamente negative per CMV. Per quanto
riguarda il CMV, l’attuale indicazione è di eseguire, se possibile,
più test con elevata sensibilità e specificità. Il test dell’antigenemia, eseguita in immunofluorescenza con anticorpo monoclonale
pp65, è attualmente il test più standardizzato, il risultato è espresso
come numero di cellule positive/150 000-200 000 globuli bianchi analizzati. Questo test consente non solo una rapida diagnosi (5-7 ore dal
prelievo) ma anche la possibilità di monitorizzare la terapia antivirale.
Tuttavia, nei pazienti con emopatia maligna e/o sottoposti a chemioterapia o trapianto di midollo osseo, il numero dei globuli bianchi circolanti è spesso inferiore al quantitativo minimo necessario per eseguire
il test. Per tale motivo, test di biologia molecolare (PCR) sono utilizzati
per individuare anche poche quantità di genoma virale. Il limite della
PCR in questo settore è la predittività clinica e la mancata standardizzazione internazionale. A ogni modo, l’esecuzione di colture cellulari
rapide (shell vials) e di colture cellulari tradizionali consente di isolare
e tipizzare il ceppo virale, permettendo in tal modo di superare le
carenze degli altri test.
5.2
APPROCCIO SINDROMICO
■ SINUSITI
La sinusite acuta nei pazienti con neoplasie ematologiche è causata
principalmente da batteri e da funghi. La localizzazione nei seni del
tessuto neoplastico rappresenta un importante fattore di rischio per lo
sviluppo di una sinusite. Inoltre, in pazienti con sintomi e segni di
sinusite cronica deve essere considerata la possibilità anche di una
infezione da batteri anaerobi. Per tale motivo in caso di biopsia, il tessuto prelevato deve essere esaminato per batteri aerobi, anaerobi e
funghi. Le infezioni fungine possono evolvere rapidamente, coinvolgendo, le strutture ossee, cartilaginee e i tessuti molli circostanti.
L’estensione dell’infezione con erosione ossea, distruzione dei seni
nasali, paranasali e dell’orbita, provocano la sindrome rinocerebrale
con coinvolgimento del cervello mediante estensione diretta o invasione vascolare (Figura 8). L’Aspergillus è la più frequente causa di
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sinusite in pazienti onco-ematologici, la diagnosi di certezza richiede la biopsia del tessuto. La TAC del massiccio facciale e il tampone
dei seni sono fortemente indicativi di infezione, ma non definitivi. La
terapia di scelta è l’amfotericina B, spesso in associazione con l’intervento chirurgico.
Figura 8 • Infezione da Aspergillus spp. dei seni etmoidali e sfenoidali con
localizzazione cerebrale frontale (indagine TAC)
■ INFEZIONI POLMONARI
La presenza di un infiltrato polmonare con febbre nel paziente
immunocompromesso rappresenta un importante problema diagnostico e terapeutico. Le cause infettive possono essere le più varie
(batteri, funghi, protozoi) (51), in relazione anche al tipo di deficit
immunitario (Tabella 2), e inoltre cause non infettive come l’edema
interstiziale, il danno da farmaci e la stessa malattia onco-ematologica
di base possono dar luogo a infiltrati polmonari da includere nella diagnosi differenziale. La presenza di un infiltrato polmonare in un paziente affetto da neoplasia ematologica maligna è associato a una prognosi
sfavorevole, la polmonite infatti è l’infezione gravata dalla più alta
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Rapporto tra deficit immunitario
ed etiologia delle polmoniti
Tabella 2
Deficit immunitario
Etiologia
Mucosite, intubazione
Flora batterica cavo orale
Enterobacteriaceae
Neutropenia
Gram-negativi (P. aeruginosa)
Aspergillus spp.
Ipogammaglobulinemia
Streptococcus pneumoniae
Haemophilus influentiae tipo B
Pneumocystis carinii
Deficit immunità cellulare
Micobatteri, Funghi
Virus (CMV, Herpes)
Pneumocystis carinii
Toxoplasma gondii
letalità nei pazienti con ridotti poteri di difesa. I pazienti con leucemia acuta in recidiva sviluppano un episodio di polmonite ogni 2 mesi
trascorsi a rischio e nei pazienti con emopatie maligne, che hanno sviluppato febbre e infiltrato polmonare, la mortalità è del 45%, 5 volte
superiore a quella dei pazienti che avevano sviluppato solo febbre
(78). Le cause di questa elevata mortalità sono probabilmente molteplici. Il danno delle mucose bronchiali, la depressione dei linfociti T e
B, la neutropenia e la disfunzione dei macrofagi alveolari possono
essere tutti presenti contemporaneamente come conseguenza della
malattia di base e/o della terapia impiegata per controllarla. Il dismicrobismo delle alte vie respiratorie creato dagli antibiotici, dalla terapia
immunosoppressiva e da cannule endotracheali facilita la colonizzazione delle vie respiratorie. L’esposizione all’ambiente ospedaliero rappresenta un ulteriore fattore di rischio. Tra gli agenti infettivi ospedalieri che in questi ultimi anni hanno assunto un ruolo rilevante per la morbidità e la mortalità ricordiamo l’Aspergillus spp. Una elevata contaminazione dell’aria ambientale con spore di Aspergillus fumigatus o
Aspergillus flavus, come avviene in corso di lavori murari nell’ospedale
o nelle immediate vicinanze, può essere associata a epidemie ospedaliere di aspergillosi polmonare gravate da alta letalità.
La diagnosi di polmonite nel paziente granulocitopenico può
essere resa difficile a causa della assenza dei mediatori della
flogosi, pertanto sia l’esame obiettivo sia l’esame radiologico
INFEZIONI
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EMATOLOGIA
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EPIDEMIOLOGIA
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PROFILASSI
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CLINICA
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TERAPIA
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possono essere negativi e rivelarsi positivi, successivamente,
alla risalita dei neutrofili, quando il paziente non è più febbrile e il
focolaio broncopolmonare è in via di risoluzione. Non sorprende
quindi che, in alcune casistiche, il 58% dei pazienti deceduti con
leucemia e profonda granulocitopenia, abbiamo mostrato all’autopsia focolai broncopneumonici misconosciuti in vita e quindi
non adeguatamente trattati. La certezza diagnostica in tali circostanze potrebbe venire solo dall’accertamento bioptico che in
pazienti così fragili e gravemente piastrinopenici è quasi sempre
controindicato. Malgrado le varie difficoltà, esistono numerosi elementi clinici che possono essere di aiuto nell’approccio a questo grave problema. Essi sono elencati di seguito.
1. I fattori di rischio del paziente e l’epidemiologia delle infezioni
polmonari in quella determinata categoria di ospiti immunocompromessi. In questa ottica sono particolarmente importanti le infezioni
polmonari pregresse o latenti, i contatti familiari od ospedalieri.
2. Il tempo di progressione dell’infezione. A seconda che la polmonite abbia un andamento acuto, subacuto o cronico possono in
effetti essere ipotizzate etiologie differenti.
3. Il tipo di infiltrato polmonare osservabile all’esame radiologico
(omogeneo, localizzato, diffuso) (Tabella 3).
4. La valutazione dei gas arteriosi e dell’equilibrio acido-base
(Tabella 4). L’alcalosi respiratoria con pH alcalino e con o senza
riduzione della paO 2 fa pensare a un interessamento di tipo interstiziale che può non essere chiaramente visibile all’esame radiologico.
Un impegno sia del parenchima polmonare che dei vasi non induce
alterazione del rapporto ventilazione/perfusione, per cui la pressione
parziale di ossigeno resta normale a dispetto del massimo impegno
parenchimale. Le infezioni dotate di queste caratteristiche sono causate da alcuni bacilli Gram-negativi come Pseudomonas aeruginosa,
Nocardia asteroides e da funghi, in particolare Aspergillus e Mucor.
Data l’attuale epidemiologia delle infezioni, nel paziente leucemico
la presenza di un infiltrato polmonare con paO 2 normale deve
far pensare in prima istanza a una polmonite fungina ed è una
indicazione codificata all’impiego terapeutico di amfotericina B
per via endovenosa.
■ LE POLMONITI FUNGINE
Le cause più frequenti di polmoniti fungine sono rappresentate dai
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Rapporto tra aspetto radiologico, tempo di evoluzione
ed etiologia dell’infiltrato polmonare nel
paziente immunocompromesso
Tabella 3
Aspetto radiologico
Evoluzione acuta
Subacuta-cronica
Opacità strutturata
Batterica
Funghi
Nocardia
TBC
Neoplasia
(virus)
(P. carinii)
(farmaci)
Infiltrato peribroncovascolare”interstiziale”
Edema polmonare
Reazione da
leucoagglutinine
Virus
P. carinii
Radiazioni
Farmaci
Infiltrato nodulare
Batteri
(Edema polmonare)
Neoplasia
Funghi
Nocardia
TBC
P. carinii
L’emogasanalisi nelle infezioni polmonari
paO2
➝
IN
➝
➝
Polmonite fungina **
**
pH
➝
➝
Polmonite lobare
*
INFEZIONI
➝
➝
Polmonite interstiziale *
paCO2
➝
➝
Tabella 4
➝
➝
➝
nelle fasi iniziali di una polmonite interstiziale la paO 2 può essere normale con paCO 2 ridotta
nelle polmoniti fungine l’infezione parte primariamente dai vasi per cui
non si altera il rapporto ventilazione/perfusione. Per tale motivo un
esteso infiltrato polmonare con paO 2 normale è compatibile, anche se
non diagnostico, con una infezione fungina.
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PROFILASSI
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cosiddetti “miceti opportunisti”, fra questi quelli che più spesso possono essere causa di micosi disseminata, con interessamento polmonare, sono Aspergillus, Mucor e Candida.
■ ASPERGILLOSI POLMONARE
L’aspergillosi polmonare è un problema prevalente del paziente oncoematologico granulocitopenico. L’incidenza di questa complicanza
infettiva è 20 volte più elevata nel paziente con leucemia acuta che nel
paziente con linfoma o sottoposto a trapianto d’organo. La neutropenia prolungata e profonda, e l’uso di terapia immunosoppressiva rappresentano i principali fattori di rischio di aspergillosi polmonare. La
diagnosi certa è soltanto istologica, tuttavia, la biopsia polmonare è
spesso non praticabile, perché i pazienti sono profondamente piastrinopenici. Nella maggior parte dei casi la malattia all’esordio è simile a
una polmonite batterica acuta. Generalmente il paziente presenta una
febbre resistente alla terapia antibiotica ad ampio spettro. La tosse, se
presente, non è mai produttiva e spesso si associa a dolore toracico di
tipo pleurico. L’aspetto radiologico può essere vario: opacità focale,
singola o multipla, fino all’interessamento di un lobo o miliare, questi
ultimi aspetti radiologici sono più rari. L’aspetto radiologico più suggestivo in questi pazienti è la presenza di opacità triangolari con
la base rivolta verso la pleura e l’apice rivolto verso l’ilo polmonare, espressione dell’invasione vascolare da parte del fungo. Con la
risalita dei neutrofili tali opacità possono escavarsi assumendo
talora l’aspetto di “fungus ball” o “pseudo-micetoma” o “aspergilloma” (Figura 9).
Questa caratteristica immagine a bersaglio costituita da una cavità
con all’interno una opacità circondata da una semiluna d’aria, “air
crescent sign”, è patognomonica di infezione fungina e nella maggior parte dei casi è dovuta ad Aspergillus spp., anche se alcune volte
sono stati descritti casi di micetoma da altri funghi come Mucor o
Blastoschizomyces capitatus (35). Queste cavità possono rompersi in
un vaso, al momento della risalita dei neutrofili, causando il drammatico quadro dell’emottisi massiva sempre rapidamente mortale, o nel
cavo pleurico, determinando uno pneumotorace spontaneo (79); tali
eventi possono peggiorare la prognosi elevando la letalità intraospedaliera dell’aspergillosi polmonare. Le colture dell’espettorato sono
positive nell’8-20% dei casi come anche la coltura del broncolavaggio che è positiva in meno del 20-25% dei casi. La positività
colturale del tampone nasale rappresenta un fattore di rischio aggiuntivo per lo sviluppo di una aspergillosi polmonare in fase di neutropenia,
come dimostrato da studi prospettici e retrospettivi. Il farmaco di
scelta per il trattamento dell’aspergillosi polmonare è ancora oggi
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Figura 9 • Pseudomicetoma da Aspergillus all’esame TAC in paziente con
leucemia acuta mieloide
l’amfotericina B che deve essere iniziata il più presto possibile.
Recenti studi hanno suggerito l’uso dell’itraconazolo, nella terapia
della polmonite da Aspergillus. Anche se i dati sono ancora preliminari,
la buona efficacia clinica e i limitati effetti collaterali rendono l’itraconazolo una valida alternativa all’amfotericina B nel trattamento
delle aspergillosi invasive. Studi prospettici comparativi su un vasto
numero di pazienti sono necessari per valutare l’efficacia dell’itraconazolo rispetto al farmaco di riferimento. Le possibilità di superare l’infezione sono comunque legate esclusivamente alla ripresa midollare senza la quale la terapia attuale è incapace di guarire la polmonite. La letalità continua a essere dell’80-90% se il paziente è persistentemente neutropenico.
■ MUCOR
Il rinomicetoma, descritto anche nel paziente diabetico, è l’infezione
più comune da Mucor nel paziente immunocompromesso.
L’affezione polmonare da Mucor presenta un quadro clinico e radiologico assolutamente sovrapponibile a quello dell’aspergillosi, quindi la
diagnosi differenziale è possibile solo mediante l’isolamento microbiologico del fungo o mediante l’esame istologico con la dimostrazione di
grossolane ife non settate divise ad angolo retto, caratteristiche del
Mucor. La prognosi è ancora più grave di quella dell’aspergillosi e la
risposta all’amfotericina B è scarsa, pur rimanendo il farmaco di scelta
poiché è l’unico dotato di una qualche attività su Mucor.
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■ CANDIDOSI POLMONARE
La polmonite primitiva da Candida è un’assoluta rarità (80). La frequente colonizzazione da Candida del cavo orale, che si riscontra in
oltre il 50% dei pazienti dopo terapia antibiotica, consente di isolarla
con grande facilità dall’espettorato generando così grande confusione
diagnostica. Sono stati descritti pochi casi di polmonite da aspirazione, ma la patogenesi della polmonite da Candida è per via ematogena. Ciò può avvenire solo nel paziente gravemente immunocompromesso affetto da candidosi disseminata, per cui è sempre un evento
preterminale e peraltro raro. Alla luce di queste osservazioni, la polmonite da Candida non può essere presa in considerazione sulla
base dell’esame colturale dell’espettorato, anche in presenza di
una polmonite di etiologia imprecisata.
■ LE POLMONITI VIRALI
Le specifiche caratteristiche epidemiologico-cliniche delle infezioni polmonari virali verranno trattate nel capitolo 6.1.
■ INFEZIONI DEL CAVO ORALE E DEL TRATTO
GASTROINTESTINALE
Le ulcerazioni del cavo orale sono frequenti in corso di chemioterapia.
Le lesioni indotte dalla chemioterapia sono colonizzate dalla flora indigena del cavo orale (aerobi, anaerobi, miceti), che successivamente
può dar luogo a un’infezione locale, che a sua volta, nei pazienti neutropenici, rappresenta una porta d’ingresso per i germi responsabili di
setticemia. Nei pazienti con leucemia, le mucositi, le gengiviti e altri
p r o b l e m i d e n t a l i s o n o f r e q u e n t i ( f i n o a l l ’ 8 5 % d e i c a s i ) . S f o r t unatamente, la mucosa del cavo orale è un sito dove è difficile ottenere un’efficace decontaminazione microbica.
La candidosi e le infezioni batteriche del cavo orale sono prevalentemente infezioni superficiali. Spesso le infezioni del cavo orale sono
infezioni miste, ad esempio è possibile la combinazione tra Streptococcus viridans e HSV. Per tale motivo in alcuni centri è invalso l’uso
di profilassare con aciclovir i pazienti con alto rischio di sviluppare una
mucosite (trapiantati di midollo osseo). L’uso di tale procedura di profilassi avrebbe prodotto una notevole riduzione delle infezioni streptococciche. Le infezioni mucocutanee da HSV devono essere trattate
con aciclovir per via orale mentre l’uso della crema non produce lo
stesso effetto clinico.
Nel paziente granulocitopenico, l’esofagite può essere secondaria
alla chemioterapia o alle radiazioni, ma è spesso causata da
Candida spp. e da HSV, o meno comunemente da batteri e da CMV
(specialmente in pazienti sottoposti a TMO). Porre la diagnosi può
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essere problematico, poiché non è facile distinguere le lesioni da
Candida da quelle da HSV, e l’esame endoscopico con biopsia, malgrado sia l’esame più sensibile e specifico, può rappresentare un
rischio in pazienti profondamente piastrinopenici. Pertanto secondo
alcuni autori in queste condizioni è consigliato somministrare un
trattamento empirico con antifungini per 24-48 ore e in caso di
persistenza del dolore aggiungere aciclovir per via venosa.
L’incidenza delle infezioni gastrointestinali da CMV non è ancora ben
definita poiché per porre la diagnosi di certezza di infezione da CMV è
necessario effettuare esami endoscopici e prelievi di tessuti. Quando
la malattia da CMV è presente possono essere identificate piccole
ulcere e papule eritematose in ogni parte del tubo gastroenterico.
Clinicamente i pazienti possono presentare dolori addominali e diarrea
con sangue, ma possono essere anche asintomatici. Ulcere duodenali
o esofagee possono essere provocate anche da HSV.
In aggiunta alle infezioni dovute ai comuni germi intestinali, i pazienti
con neoplasia ematologica sono a rischio per i patogeni gastrointestinali, quali ad esempio la Salmonella.
La tiflite è una cellulite necrotizzante dell’intestino cieco, usualmente si presenta con una sindrome caratterizzata da addome
acuto, con dolore addominale e iperbilirubinemia. I principali
germi responsabili sono Pseudomonas spp., Candida spp. e
Clostridium spp. La diagnosi è stata fino a oggi prevalentemente istologica, attualmente l’uso dell’ecografia sembra essere una metodica
diagnostica promettente (Figura 10). Tuttavia, la prognosi di tale mani-
Figura 10 • Ileotiflite in un paziente con leucemia acuta mieloide sottoposto a chemioterapia di induzione (indagine ecografica: scansione trasversa
del colon che dimostra ispessimento delle pareti)
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festazione clinica è prevalentemente infausta. La terapia è medica (antibiotica) e in rari casi chirurgica.
La diarrea e la colite da farmaci (prevalentemente antibiotici, es.
clindamicina) sono scatenate dalla crescita nell’intestino di
Clostridium difficile. La sintomatologia clinica è legata alla produzione nell’intestino di citotossina e di enterotossina. Lo spettro clinico
dell’infezione da Clostridium difficile nei pazienti con emopatia maligna
va dallo stato di portatore asintomatico, alla diarrea moderata-grave,
fino al megacolon tossico (81). Il Clostridium difficile può essere trasmesso in ambiente nosocomiale, pertanto pazienti con Clostridium
difficile producente tossine dovrebbero essere attentamente sorvegliati
per evitare la trasmissione nosocomiale. Il trattamento della colite da
C. difficile richiede la somministrazione di vancomicina per os
(125 mg 4 volte al dí per 10-14 giorni) o metronidazolo (30
mg/kg/die per os o e.v. in 3-4 somministrazioni). Il 10-20% dei
pazienti presenta recidiva della diarrea, tuttavia questi casi rispondono
a un secondo trattamento.
L’infezione da Strongyloides stercoralis nel soggetto immunocompetente decorre in modo asintomatico o con diarrea di grado lieve.
Invece, nei pazienti immunodepressi l’infezione può diventare sistemica e fatale. La sintomatologia a carico dell’apparato intestinale si
manifesta con diarrea e dolori addominali. Possono essere presenti
anche febbre, ipotensione, polmonite e deficit neurologici dalla confusione mentale fino al coma. Nel corso della superinfezione da
Strongiloides la diagnosi è possibile mediante l’identificazione delle
larve nelle feci, nelle urine e nella saliva. Il farmaco di scelta è il tiabendazolo (25 mg/kg due volte al dí per 21 giorni).
■ INFEZIONI EPATICHE
L’epatite può colpire il paziente neoplastico sia come infezione primaria (epatite da virus A, B, C) o come infezione secondaria (CMV, EBV,
HSV). L’incidenza dell’infezione da virus B (presenza di HBsAg nel
siero) in pazienti con leucemia e linfoma varia a seconda delle
casistiche dall’1% fino al 33%, mentre la frequenza di anticorpi
verso HBV è stata riportata tra 19 e 55%. Perciò l’esposizione
totale all’infezione da virus B, passata e presente, è stata calcolata essere tra 29 e 69% dei pazienti con malattie mieloproliferative
e linfoproliferative (82). Durante la chemioterapia, l’immunodepressione consente un notevole incremento del titolo dell’HBsAg; successivamente quando il paziente sarà in remissione, il titolo dell’HBsAg
tornerà a livelli pre-terapia. Inoltre, è possibile osservare durante la
chemioterapia la conversione dell’infezione da virus B da forme non
replicative (HBeAg/HBV DNA negativi) a forme replicative (HBeAg/HBV
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DNA positivi). Infine, in modo occasionale alcuni pazienti con antiHBsAg possono riesprimere HBsAg. È interessante notare, come
pazienti asintomatici portatori di HBsAg al momento della sospensione della chemioterapia possono sviluppare una forma di epatite
acuta. Per quanto riguarda le manifestazioni cliniche, l’infezione acuta
da HBV non è sempre asintomatica nei pazienti onco-ematologici.
L’epatite acuta può manifestarsi durante la chemioterapia e successivamente dopo l’interruzione della chemioterapia. Poiché il comportamento di pazienti HBsAg positivi non è prevedibile, è indicato il monitoraggio delle transaminasi. La cronicità dell’infezione da HBV non è
del tutto sovrapponibile a quella della popolazione normale.
L’infezione da virus C è caratterizzata da una elevata frequenza
alla cronicizzazione anche nei pazienti emopatici. Benché il rischio
di infezione sia stato ridotto in questi ultimi anni, il problema è ancora
presente e probabilmente lo sarà ancora in futuro. Nei centri europei di
trapianto di midollo osseo il 4% dei pazienti trattati nel 1995 era HCVRNA positivo e il 7% dei pazienti sviluppava una viremia “de novo”
durante il follow-up. Il ruolo dei nuovi virus epatotropi, virus GB e virus
G, non è stato ancora del tutto definito. La prevalenza nella popolazione normale è dell’1-5%, mentre nei trapiantati di midollo osseo è del
20%; la patogenicità epatica deve essere meglio definita (83).
Per quanto riguarda i pazienti trapiantati, HSV, HVZ e adenovirus
possono essere causa di epatite nel secondo trimestre dopo il trapianto. In particolar modo l’epatite da HSV può avere una rapida evoluzione fatale ma è anche la forma più rispondente alla terapia con aciclovir se la diagnosi è posta precocemente.
■ INFEZIONI DELLE VIE URINARIE
Il rischio delle infezioni delle vie urinarie è incrementato dalla localizzazione di eventuali masse neoplastiche e dalla cateterizzazione del
paziente. In aggiunta alle infezioni batteriche, le vie urinarie possono essere infettate da Candida, specialmente nei pazienti portatori
di catetere. I pazienti neutropenici possono avere in seguito a infezione
urinaria da Candida una forma di candidosi disseminata, tuttavia la
presenza di pseudoife nelle urine non è diagnostica.
Le infezioni virali del tratto urinario sono comuni ma frequentemente decorrono senza sintomi. Le infezioni da papovavirus, dovute
sia a virus BK sia JC possono presentarsi come infezione primaria o
secondaria, in genere, dopo il 3° mese dal trapianto. Le infezioni da
papovavirus possono essere diagnosticate mediante colture virali,
esame citologico e determinazione di anticorpi specifici. L’isolamento
di CMV dalle urine non indica necessariamente che il virus sia la causa
di una eventuale infezione in atto.
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■ INFEZIONI DELLA CUTE E DELLE MUCOSE
L’integrità della barriera muco-cutanea è frequentemente distrutta nei
pazienti neoplastici (chemioterapia, CVC, radioterapia, punture, chirurgia, biopsia). Conseguentemente, l’infezione batterica o fungina
locale è frequente e può dar luogo a un’infezione disseminata nei
periodi di neutropenia. Inoltre, la cute può infettarsi durante gli episodi di batteriemia (P. aeruginosa, A. hydrophila, S. marcescens), di
fungemia (Aspergillus, Candida, Mucor) e di viremia (HSV e HVZ).
Pertanto l’analisi della cute consente la diagnosi precoce di infezioni
anche generalizzate.
Le infezioni virali che coinvolgono la cute sono comuni dopo trapianto
d’organo ma raramente rappresentano un grave problema per la prognosi. Più frequentemente tali infezioni sono provocate da HSV e HVZ.
HSV di tipo 1 e tipo 2 possono causare tipiche lesioni muco-cutanee
nelle regioni orale e periorifiziali. Benché siano generalmente benigne,
possono essere espressione di infezioni disseminate.
La varicella, infezione primaria da HVZ, è la più grave infezione
per i bambini con emopatia, presentando una mortalità prima dell’introduzione della terapia antivirale del 7%. Particolarmente frequente in questi pazienti è lo sviluppo di complicanze viscerali (3050% dei casi), in particolar modo polmonite, epatite e localizzazione al
sistema nervoso centrale (SNC). Attualmente, la più comune complicanza è caratterizzata dalla superinfezione batterica delle lesioni cutanee, più frequentemente da batteri Gram-positivi; tali infezioni nei
bambini neutropenici possono dar luogo a complicanze settiche.
L’incidenza di riattivazione del HVZ nei pazienti con neoplasia è
del 15-52%, mentre l’incidenza nella popolazione normale è del 5%.
Contrariamente alla mortalità dovuta all’infezione primaria (varicella), la
mortalità da Herpes zoster è bassa (<1%) anche nei pazienti con neoplasia.
Individui trapiantati possono sviluppare infezioni da Herpes zoster nel
7-16% dei casi dopo i primi 6 mesi dal trapianto. L’incidenza della
nevralgia post-erpetica (dolore persistente oltre 1 mese dalla risoluzione dell’Herpes zoster) tra i pazienti immunocompromessi è del
20-30%. L’Herpes zoster nel paziente immunocompromesso tende a
disseminare più frequentemente che nel paziente immunocompetente.
La disseminazione cutanea si accompagna frequentemente a localizzazioni viscerali e al sistema nervoso.
Altre infezioni disseminate con espressione a carico della cute possono essere provocate da CMV. Più raramente possono presentarsi
condilomi, causati da papillomavirus. Una diagnosi etiologica di infezioni cutanee di difficile interpretazione può richiedere una biopsia,
spesso necessaria per escludere un’origine non infettiva della lesione
(localizzazione di malattia o espressione di una tossicità da ciclosporina).
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■ SINDROME LINFOPROLIFERATIVA
Si verifica generalmente nei primi tre mesi dopo il trapianto in
soggetti con infezione primaria da EBV. Può presentarsi con tre
aspetti diversi:
1. come forma similmononucleosica, autolimitantesi, che coinvolge
solo tonsille palatine e linfonodi periferici senza interessamento di
altri tessuti;
2. con aspetti iniziali analoghi alla forma precedente ma con successiva infiltrazione diffusa di più organi (in particolare del fegato) da
parte di linfociti B, a esito frequentemente infausto;
3. con insorgenza di linfomi extralinfonodali.
La diagnosi di sindrome linfoproliferativa associata a EBV può essere
posta mediante studi di ibridazione in situ che dimostrino la presenza
di antigeni nucleari (EBNA) e/o di materiale genico di EBV in tessuti
neoplastici. La terapia delle sindromi linfoproliferative EBV-associate è
ancora oggetto di controversie. L’uso dell’aciclovir è da alcuni indicato
come utile, ma non esistono ancora dati sufficientemente probanti al
proposito.
■ INFEZIONI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE
Le meningiti del soggetto immunocompromesso possono essere dovute sia a germi abituali, Streptococcus pneumoniae e Neisseria meningitidis, sia più frequentemente a microorganismi non usuali nel soggetto con ridotte difese immunitarie.
La meningite da Cryptococcus neoformans è insidiosa, insorge lentamente ed è caratterizzata da cefalea costante e da febbre nel 5080% dei casi. L’interessamento dei nervi cranici è frequente. La
diplopia, la riduzione del visus e dell’udito possono essere gli unici sintomi di interessamento del sistema nervoso centrale. I segni neurologici di localizzazione centrale non sono abituali. La puntura lombare è
essenziale per la diagnosi. La pressione liquorale è moderatamente
elevata e si osserva una moderata pleiocitosi (50-500 linfociti/mm 3 ).
Il glucosio è diminuito e le proteine sono aumentate. La colorazione
con inchiostro di china (India InK) è diagnostica nel 50% dei casi.
La ricerca dell’antigene criptococcico deve essere eseguita nel
liquor e nel siero del paziente. Tale indagine, oltre a essere altamente diagnostica, permette di valutare l’efficacia della terapia. La terapia
di scelta è la combinazione di amfotericina B (0.5-1 mg/kg die) più
5-fluorocitosina (100 mg/kg/die per os) per 6 settimane.
La meningite da Listeria monocytogenes è più frequente nei pazienti
con linfoma, leucemia, mieloma e pazienti sottoposti a trapianto d’organo. L’insorgenza è acuta con febbre elevata, tremori, convulsioni e
coma. La diagnosi è posta mediante esame del liquor che rivela una
pleiocitosi (1000-10000 cellule/mm 3 prevalentemente polimorfonuclea-
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ti), la glicorrachia può essere bassa e la proteinorrachia elevata. La
colorazione di Gram può evidenziare bacilli Gram-positivi nel 30% dei
casi. Le colture del liquor sono in genere positive fino al 75% dei
casi. L’ampicillina (1-2 g ogni 4 ore e.v.) è l’antibiotico di scelta,
tuttavia sono utilizzate alte dosi di penicillina, eritrocina e tetraciclina.
Studi in vitro dimostrano l’effetto sinergico tra penicillina e aminoglicoside.
Toxoplasma gondii può essere causa di meningo-encefalite per riattivazione di un focolaio silente. Il quadro clinico è caratterizzato dalla
presenza di febbre, alterazione della coscienza, cefalea, convulsioni e
deficit motori. La diagnosi è effettuata mediante la ricerca di anticorpi nel liquor e nel sangue periferico, la ricerca del parassita
mediante PCR è promettente. Il farmaco di scelta è la pirimetamina
(dose iniziale 100-200 mg per os, seguita da una dose di mantenimento di 1-2 mg/kg fino a un massimo di 50 mg/kg al giorno per
os). La durata ottimale del trattamento non è del tutto nota ma non
deve essere inferiore a 4-6 settimane.
I virus che possono produrre malattie del SNC nel paziente immunocompromesso appartengono principalmente a 2 classi: 1. virus erpetici, 2. papovavirus (tra questi il virus JC causa leucoencefalite multifocale progressiva).
HSV di tipo 1 e 2 possono causare meningoencefalite necroticaemorragica, prevalentemente in sede temporale. L’isolamento del
virus dal liquor è raro. La sierologia non è particolarmente utile, poiché
significative elevazioni del titolo di anticorpi possono essere documentate anche in corso di infezioni asintomatiche. La diagnosi di certezza è posta solo mediante la biopsia cerebrale.
Gravi forme di encefaliti sono state osservate in corso di infezione
da HVZ. La diagnosi è generalmente clinica per la distribuzione in dermatomeri dell’infezione. Tuttavia, la diagnosi di certezza è ancora
posta effettuando una biopsia cerebrale con coltura in linee cellulari
del pezzo bioptico.
La leucoencefalite multifocale progressiva, provocata dal virus
JC, è stata documentata soprattutto in pazienti riceventi trapianto di
rene. La diagnosi può essere sospettata osservando aree di demielinizzazione nel SNC con la risonanza magnetica nucleare. La diagnosi
definitiva è però sempre posta effettuando la biopsia cerebrale e coltivando il tessuto in colture cellulari, oppure esaminandolo mediante
ibridizzazione in situ.
5.3
LA TERAPIA ANTIBIOTICA EMPIRICA
Nei pazienti neutropenici la febbre rappresenta frequentemente l’unico
segno di un’infezione, data l’incapacità dell’ospite a fornire una nor-
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male risposta flogistica con i classici segni clinici di infezione tissutale,
e, nonostante un corretto approccio diagnostico, la documentazione
microbiologica può mancare. Nel 60% dei casi, infatti, l’agente etiologico non viene identificato e la febbre resta di origine sconosciuta. La maggior parte delle infezioni documentate nel primo episodio febbrile è di origine batterica e le sepsi, soprattutto da germi
Gram-negativi (Pseudomonas aeruginosa, Klebsiella pneumoniae,
Escherichia coli), si associano spesso a shock e sono gravate da un’elevata e precoce letalità. Per tali motivi, dagli inizi degli anni ‘70 è stato
codificato e reso routinario, nel paziente neutropenico febbrile, il concetto, rivoluzionario per l’infettivologia dell’epoca, della terapia antibiotica empirica che ha lo scopo di proteggere dalla morte precoce da sepsi da Gram-negativi. Non più una terapia mirata sulla etiologia provata dell’infezione e sostenuta dalle prove di sensibilità in
vitro, ma una terapia basata sull’analisi dei fattori di rischio (febbre e
neutropenia) gravati da una letalità inaccettabilmente elevata ed eccezionalmente precoce. Tale approccio metodologico, divenuto oramai
prassi abituale in tutti i centri emato-oncologici, più che alla eradicazione dell’infezione, mirava a tenere il paziente in vita proteggendolo
dallo shock settico fino alla risalita dei granulociti neutrofili. Oltre 20
anni di esperienza e di studi ci confermano con risultati clamorosi la
validità e la irrinunciabilità di tale approccio. La letalità da sepsi da
Gram-negativi è infatti passata da circa il 90% negli anni ‘60 a
meno del 10%. Negli ultimi 10 anni sono avvenuti una serie di cambiamenti radicali che hanno avuto un impatto importante nella diagnosi,
nella terapia e nella prevenzione delle infezioni nei pazienti neutropenici. Sono cambiate infatti le etiologie e i fattori di rischio delle complicanze infettive, sono stati inoltre introdotti nuovi farmaci antimicrobici
con più ampio spettro di azione e nuove caratteristiche farmacocinetiche che offrono una varietà di nuove possibilità terapeutiche. Sono
infine entrati nell’armamentario terapeutico i fattori di crescita ricombinanti con la promessa teorica di attenuare l’immunodepressione indotta dalla malattia di base e/o dalla chemioterapia, e di accelerare il
recupero dalla aplasia midollare. Tutti questi cambiamenti non potevano non suscitare una serie di controversie sulla terapia antibiotica
empirica e sulla gestione della febbre in corso di neutropenia.
Come già accennato, i risultati ottenuti con l’impiego precoce della
terapia empirica sono di una tale rilevanza clinico-scientifica da
non poter mettere in discussione la validità di questo approccio
metodologico. Tuttavia, la scelta degli antibiotici, l’identificazione
delle categorie a rischio, il numero di farmaci impiegati, le modalità di
somministrazione e l’utilità o meno di misure preventive, sono argomenti che fanno ancora discutere i ricercatori impegnati in questa
branca medica senza trovare ancora, nella maggior parte dei casi, un
consenso unanime.
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EMATOLOGIA
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EPIDEMIOLOGIA
,
PROFILASSI
,
CLINICA
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La maggior parte dei principi ispiratori degli schemi di terapia empirica
nel paziente neutropenico si sono sviluppati agli inizi degli anni ‘70. In
questi anni, non solo fu stabilito il principio del pronto inizio di una
terapia antibiotica non appena il paziente fosse divenuto febbrile, ma
si codificò che tale terapia dovesse essere costituita da una associazione di due o tre farmaci, ciò allo scopo di:
1. allargare lo spettro di azione
2. limitare l’emergenza di germi resistenti
3. ottenere un sinergismo di azione che si traducesse in elevati livelli
battericidi nel siero in modo da poter consentire un più elevato
numero di successi clinici.
In mancanza di un adeguato numero di granulociti circolanti, le possibilità di eradicare l’infezione erano affidate unicamente all’intensità e
rapidità battericida degli antibiotici. Molti studi in vitro e in vivo hanno
confermato la validità di tali presupposti teorici mostrando una maggiore percentuale di successi clinici se l’associazione di farmaci presentava un effetto sinergico in vitro (84).
I farmaci attualmente più usati a tale scopo sono le ureidopenicilline e le cefalosporine di III generazione in combinazione con gli
aminoglicosidi. Il presupposto teorico per lo sviluppo di un effetto
sinergico fra un beta-lattamico e un aminoglicoside è basato sulle differenze dei siti di azione sulla cellula batterica. L’alterazione della
parete cellulare, creata dalla beta-lattamina, anche se non sufficiente
da sola a uccidere la cellula batterica, può facilitare l’ingresso dell’aminoglicoside incrementando così l’effetto battericida. Questo tipo di
associazione si è mostrato molto efficace in clinica, ma comporta
alcuni problemi legati alla nefro e ototossicità dell’aminoglicoside
e ai costi elevati di gestione; questi sono incrementati sia dalla necessità di somministrare i farmaci in dosi multiple giornaliere, con il relativo aggravio per il lavoro infermieristico, sia da quella di monitorizzare
attentamente la funzione renale e di dosare i livelli sierici dell’aminoglicoside.
Nel corso degli anni ‘80 tuttavia sono cambiati molti fattori. Innanzitutto è cambiata l’epidemiologia delle infezioni; pur restando i bacilli
Gram-negativi ancora il problema clinico più importante da affrontare
per la relativa morbidità e letalità, tuttavia i batteri Gram-positivi
cominciavano a predominare nella etiologia delle sepsi nella maggior
parte dei centro onco-ematologici di tutto il mondo.
Inoltre, negli ultimi 10 anni sono stati introdotti nella pratica clinica
molti nuovi beta-lattamici. Alcuni di essi, quali ceftazidime, imipenem e
meropenem, presentano uno spettro d’azione considerevolmente
ampliato che ne ha permesso l’uso in monoterapia nei pazienti neutropenici febbrili. Le critiche a questo tipo di approccio terapeutico sono
molte e soprattutto legate al fatto che tale terapia è rivolta essenzialmente alle infezioni sostenute da bacilli Gram-negativi e offre una mini-
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ma copertura nei confronti dei Gram-positivi. Sono stati pubblicati
diversi studi clinici nei pazienti neutropenici febbrili che hanno confrontato una monoterapia con un’associazione (85-87), ma sono disponibili
solo pochi dati che confrontino l’efficacia dello stesso antibiotico utilizzato da solo o in associazione con un aminoglicoside, indispensabili
per definire la reale efficacia della monoterapia e la non necessità dell’aminoglicoside.
L’aumento di infezioni da germi Gram-negativi produttori di beta-lattamasi ha indotto a considerare l’uso degli inibitori delle beta-lattamasi.
In uno studio multicentrico, prospettico, randomizzato in pazienti neutropenici con cancro, l’associazione piperacillina-tazobactam più
amikacina è stata confrontata con il trattamento standard ceftazidime
più amikacina e si è mostrata più efficace nel trattare gli episodi di neutropenia febbrile, anche considerando gli episodi di batteriemia (88).
Sono state valutate in vari studi diverse modalità di somministrazione
di antibiotici. Alcuni autori al fine di aumentare l’efficacia e ridurre la
tossicità degli aminoglicosidi hanno suggerito la loro somministrazione
in infusione continua, senza tuttavia fornire risultati convincenti; altri, al
contrario, hanno suggerito la monosomministrazione di un dosaggio
elevato di aminoglicoside al posto di 2 o 3 somministrazioni refratte e i
risultati di tali studi, sia sperimentali che nell’uomo, hanno evidenziato
che questa modalità si accompagna a una pari efficacia ma a una
minore tossicità rispetto a quella convenzionale (89). Tale modalità di
somministrazione degli aminoglicosidi, in combinazione con i beta-lattamici aiuta a raggiungere un effetto post-antibiotico soprattutto se i
livelli tissutali di beta-lattamine scendono al di sotto della concentrazione minima inibente (CMI) nell’ultimo periodo dell’intervallo tra le
somministrazioni.
Nuove cefalosporine a lunga emivita, come il ceftriaxone, possono consentire la loro monosomministrazione giornaliera in combinazione con un
aminoglicoside (90-92). Recentemente, l’uso in monodose giornaliera
di amikacina (20 mg/kg) e ceftriaxone (2 g/die) ha dimostrato efficacia analoga e non maggiore tossicità dell’associazione amikacina ceftazidime somministrati in modo convenzionale (91). Vale la pena
sottolineare i vantaggi in termini di costo/efficacia dell’associazione ceftriaxone-amikacina in monodose giornaliera che rappresenta anche una
notevole semplificazione degli oneri infermieristici (Tabella 5).
Sulla base dei cambiamenti epidemiologici e della possibilità di disporre di nuovi antibiotici con spiccata attività nei confronti dei bacilli
Gram-negativi sono stati proposti schemi di terapia antibiotica empirica diversi dalla classica associazione beta-lattamico-aminoglicoside.
L’associazione di due beta-lattamici (piperacillina con cefoperazone o
ceftazidime) (93) è costosa e sembra gravata dai rischi di recidive di
infezioni da Gram-negativi (P. aeruginosa), dall’emergenza di ceppi
resistenti e da superinfezioni fungine. Questo tipo di associazione può
rappresentare un’utile opzione nei pazienti anziani, in quelli con insuffi-
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EMATOLOGIA
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EPIDEMIOLOGIA
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PROFILASSI
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CLINICA
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TERAPIA
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Valutazione dei costi di acquisto delle principali
associazioni antibiotiche impiegate nel trattamento
empirico della neutropenia febbrile
Tabella 5
Costo
Costo/8 giorni
giornaliero
di terapia
Costo/
100 pazienti
Ceftriaxone (2 g x 1)
+ amikacina (1.5 g x 1)
57 000
456 000
45 600 000
Ceftazidime (2 g x 3)
+ amikacina (1.5 g x 1)
114 600
916 800
91 680 000
Piperacillina/taz. (4.5 g x 4)
+ amikacina (1.5 g x 1)
132 350
1 058 800
105 880 000
Meropenem (1 g x 3)
157 050
1 256 400
125 640 000
Tutti i costi sono espressi in lire e riferiti al prezzo ospedaliero (50% del
prezzo al pubblico) dei singoli antibiotici delle formulazioni e.v.
Da: L’informatore Farmaceutico, aggiornamento gennaio 1997
cienza renale, in quelli che ricevono terapie con farmaci nefrotossici
quali cisplatino, ciclosporina o amfotericina B oppure in pazienti con
alterazioni della funzionalità del nervo acustico.
La monoterapia con carbapenemici, imipenem (93), meropenem (86), o
cefalosporine di terza generazione, ad es. ceftazidime (94) garantisce
un ampio spettro antibatterico e una elevata attività battericida nei
confronti di enterobatteriacee, P. aeruginosa e di alcuni Gram-positivi,
ma può risultare di limitata efficacia nelle sepsi da ceppi di P. aeruginosa multiresistenti, può essere inefficace nei confronti degli stafilococchi resistenti alla meticillina, e inoltre potrebbe favorire l’emergenza
di ceppi resistenti e superinfezioni.
5.4
MODIFICHE ALLA TERAPIA ANTIBIOTICA
EMPIRICA
Nel corso della neutropenia, specie se prolungata, il paziente può
andare incontro a molteplici episodi infettivi causati da patogeni batterici e non (miceti, virus, protozoi). Questi si manifestano con ricomparsa o persistenza della febbre, con o senza segni di localizzazione. Si
tratta talvolta di infezioni secondarie (diversa sede, diverso microorganismo), talvolta di superinfezioni (stessa sede, diverso microorgani-
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smo), più raramente di recidive (stessa sede, stesso microorganismo).
Si rendono pertanto necessarie opportune integrazioni della terapia
antibiotica iniziale (16). Spesso la febbre persiste per fallimento della
terapia antibiotica empirica iniziale e solo in una parte dei casi, e spesso tardivamente, si riesce a individuare la causa infettiva e modificare
in modo mirato la terapia antimicrobica. In molti casi la febbre persistente rimane di origine sconosciuta ed è quindi necessario modificare
la terapia in modo empirico.
Gli elementi da considerare ai fini della modifica della terapia antibiotica empirica iniziale sono i seguenti: eventuale utilizzo di profilassi
antinfettiva (antibatterica, antifungina, antivirale); schema di terapia
empirica iniziale (monoterapia vs. associazioni); durata ed evoluzione
della neutropenia; evoluzione della curva termica (persistenza o ricomparsa della febbre); documentazione clinica e microbiologica dell’infezione (FUO vs. infezione documentata).
Se il paziente ha risposto alla terapia antibiotica empirica, questa
non viene modificata e viene continuata o per tutta la durata della
neutropenia o per almeno 7-10 giorni di cui gli ultimi 4 completamente senza febbre. Nel caso di un’infezione documentata microbiologicamente, la scelta tra il mantenere lo schema empirico o passare a una terapia mirata è ancora oggetto di ricerca anche se prevale
l’opzione di non ridurre la terapia antibiotica empirica alla sola
terapia mirata (es. se si documenta un’infezione stafilococcica si
aggiunge l’antistafilococcico mantenendo, almeno per qualche giorno,
anche la terapia iniziale), e in ogni caso il quadro clinico ha un valore
superiore al dato microbiologico nel giudizio terapeutico (se il
paziente sfebbra, non si modifica la terapia anche se il germe isolato
non è sensibile in vitro agli antibiotici impiegati). Nel caso di un’evidente obiettività infettiva (mucosite, cellulite, polmonite, ecc.) le
modifiche terapeutiche terranno conto delle etiologie più probabili
(Tabella 6).
■ LA TERAPIA ANTIFUNGINA
Negli ultimi anni sono stati ottenuti considerevoli progressi nel trattamento delle micosi sistemiche grazie all'impiego di nuovi antifungini e
all'uso diverso di vecchi antifungini (95, 96). Tuttavia, dal momento
che l'efficacia di una terapia antifungina dipende dalla precocità di inizio, il miglioramento delle procedure diagnostiche ha contribuito più di
ogni altro ai progressi terapeutici. Nei pazienti non neutropenici, un
trattamento antifungino viene in genere preceduto da accurate indagini
strumentali, istopatologiche e microbiologiche. In corso di neutropenia,
invece, la rapida progressione dell’infezione fungina condiziona un differente approccio clinico e terapeutico. È infatti ormai codificato l'uso
empirico della terapia antifungina nei pazienti neutropenici che persistono febbrili nonostante un adeguato trattamento antibatterico ad
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EPIDEMIOLOGIA
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PROFILASSI
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Modifiche terapeutiche nelle differenti
localizzazioni infettive
Tabella 6
Evento clinico
Possibile modifica terapeutica
Batteriemia in corso
della terapia empirica
■
■
Mucosite orale
■
Infiltrato perianale
■
Gram-positivi: aggiungi teicoplanina
o vancomicina
Gram-negativi (presumibilmente
resistenti): nuovo schema terapeutico
Aggiungi un antianaerobico
(metronidazolo, clindamicina)
■
Aggiungi un antianaerobico
Modifica terapia se Gram-negativo
resistente
Esofagite
■
Un antimicotico
Infezione correlata al CVC
■
Polmonite interstiziale
■
■
Infiltrato polmonare in
neutropenico in terapia
antibiotica
■
■
■
Febbre e neutropenia
persistenti
■
Aggiungi o cambia antibiotico in base
all’isolamento microbico
Se non rispondente estrai il CVC
Assoluta necessità di espettorato
indotto o BAL
Aggiungi cotrimoxazolo ed
eritrocina empiricamente
Se neutropenia in risoluzione:
osserva e aspetta
Se neutropenia persistente:
assoluta necessità di espettorato
indotto o BAL
Se diagnosi microbiologica non possibile:
aggiungi empiricamente amfotericina B
Continua terapia empirica, aggiungi
teicoplanina o vancomicina dopo 72 ore
e dopo altri 3 giorni aggiungi amfotericina B
ampio spettro (97, 98). L'amfotericina B, dopo circa 30 anni di
impiego clinico, continua a essere considerato il "gold standard"
della terapia delle micosi invasive. È infatti il farmaco più efficace e
il suo ampio spettro di azione ne rende idoneo l'impiego nella terapia
empirica. Tuttavia, due importanti limiti di questo farmaco sono la tossicità che ne limita il dosaggio e la frequente inefficacia clinica. Negli
ultimi anni, inoltre è stata spesso segnalata l'emergenza di ceppi di
Candida resistenti in vitro all'amfotericina B (99). Il probabile meccanismo di azione dell'amfotericina B è il suo legame con l'ergosterolo con
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formazione di pori a livello della membrana delle cellule fungine. La resistenza al farmaco sembra possa essere messa in correlazione anche
con la diminuita quantità di ergosterolo nella membrana cellulare.
Oltre al problema dell'emergenza di resistenze microbiologiche esiste
anche il fenomeno della resistenza clinica all'amfotericina B. La candidosi epatosplenica, ad esempio, è un’infezione clinicamente resistente. La mancata risposta clinica in corso di candidosi epatosplenica
contrasta con le alte concentrazioni di farmaco che sono state rilevate
a livello epatico e splenico in studi autoptici. Il motivo della inefficacia
clinica nelle micosi localizzate in tali organi nonostante l'elevata concentrazione tissutale sembra essere spiegato dal legame del farmaco
al colesterolo e alle lipoproteine in genere e successivo sequestro a
livello delle cellule reticolo-endoteliali del fegato e della milza con conseguente ridotta disponibilità contro le cellule fungine.
La tossicità della formulazione di amfotericina B fino a oggi impiegata
(fungizone) dipende in parte dalla sospensione colloidale con desossicolato che fa parte del prodotto galenico. Da circa dieci anni si è constatato che l’amfotericina B incapsulata in liposomi o legata a strutture
lipidiche sembra avere una minore tossicità e una migliore tollerabilità
rispetto al fungizone e quindi un indice terapeutico potenzialmente
maggiore. Tuttavia, solo negli ultimi anni sono stati effettuati studi clinici e di laboratorio per valutare tossicità e indice terapeutico delle formulazioni lipidiche di amfotericina B. Nonostante le premesse promettenti, i reali vantaggi nell’uso di questi farmaci in termini di efficacia
sono ancora da valutare.
La minore tossicità e maggiore tollerabilità delle formulazioni lipidiche
di amfotericina B rispetto al fungizone sono state ampiamente dimostrate in numerosi studi prospettici (100-102), ma i dati sulla efficacia
clinica sono ancora da considerare preliminari. Anche in considerazione dell’elevato costo di tali farmaci, allo stato attuale, l’insufficienza
renale e l’eccessiva tossicità del fungizone sono le uniche indicazioni all’uso delle formulazioni lipidiche di amfotericina B.
Recentemente, il fungizone è stato impiegato in associazione a una
emulsione lipidica (Intralipid al 20%) nell’ipotesi di ottenere la stessa
efficacia ma minore tossicità e migliore tollerabilità (103). I risultati
finora ottenuti, tuttavia, sono solo preliminari e un recente studio sembra non confermare tale ipotesi (104).
La 5-fluorocitosina è un antimicotico molto attivo e da tempo conosciuto ma con l'inconveniente di indurre resistenze con estrema frequenza. Per tale motivo, l'uso di questo farmaco è riservato solo in
associazione con l'amfotericina B. Tale associazione è stata impiegata nel trattamento di infezioni del SNC (il farmaco ha infatti una ottima capacità di attraversare la barriera ematoliquorale), dell’endoftalmite, della candidosi epatosplenica, della candidosi disseminata, della
fungemia persistente e dell’aspergillosi polmonare. Tuttavia, la mag-
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giore efficacia clinica dell'amfotericina B con l'aggiunta della 5-fluorocitosina è stata dimostrata fino a ora solo nei confronti della meningite
criptococcica (105) e osservata in altre infezioni fungine in studi nonrandomizzati o retrospettivi di scarso valore statistico.
Negli ultimi anni, gli antifungini azolici, fluconazolo e itraconazolo,
sono stati impiegati nel trattamento delle micosi superficiali e
profonde. Interessanti caratteristiche di tali antifungini sono la bassa
tossicità e la formulazione orale. Il fluconazolo è anche disponibile
nella formulazione endovenosa. Il loro meccanismo di azione è costituito dalla riduzione della sintesi degli steroli della membrana cellulare
attraverso l'inibizione degli enzimi dipendenti dal citocromo P-450.
Il fluconazolo è stato largamente impiegato nel trattamento delle infezioni superficiali e profonde e ha dimostrato una chiara efficacia nel
trattamento e nella profilassi della meningite criptococcica e della
candidosi superficiale. Buona, ma pur sempre limitata, è l'efficacia
verso la candidosi profonda. Tuttavia, la presenza di specie di Candida
resistenti al farmaco (C. krusei, C. lusitanae, C. glabrata, C. parapsilosis) e l'emergenza di ceppi resistenti nell'ambito delle specie sensibili
hanno messo in discussione l'uso del fluconazolo in determinate infezioni da Candida (67). L'itraconazolo ha una ottima attività nei confronti delle infezioni da Candida ma, in più rispetto al fluconazolo, è
efficace microbiologicamente e, sembra, anche clinicamente nei confronti delle infezioni da Aspergillus species. Per quanto riguarda
specifiche infezioni fungine solo pochi studi hanno dimostrato l'utilità
dei farmaci triazolici. Il fluconazolo è farmaco di scelta nel trattamento della candidosi orale ed esofagea nei pazienti con AIDS, e
lo stesso sembra anche per l'itraconazolo, pur non essendo stati ancora pubblicati validi studi clinici che mettano in comparazione i due farmaci. Per quanto riguarda la meningite criptococcica, entrambi i farmaci sono stati impiegati con successo; tuttavia, nella terapia di attacco
della meningite criptococcica l'associazione amfotericina B/
5-fluorocitosina è tutt'ora da considerarsi il trattamento di scelta
e il ruolo dei triazolici sembra essere limitato alla successiva terapia di
mantenimento e profilassi secondaria dell'infezione (106). Per quanto
riguarda le micosi profonde nei pazienti neutropenici, vi sono dati interessanti sull'uso del fluconazolo e dell'itraconazolo nei confronti di
candidosi e aspergillosi invasiva, rispettivamente, ma sempre in studi
retrospettivi o con limitato numero di pazienti (107, 108).
Nonostante l’ampio uso di fluconazolo e itraconazolo nel trattamento
delle micosi invasive, vi sono poche esperienze di comparazione prospettica con l’amfotericina B probabilmente per la difficoltà nella attuazione di uno studio randomizzato con un adeguato numero di pazienti
con infezioni fungine documentate e omogenee. Negli ultimi anni fungizone e fluconazolo sono stati comparati in alcuni studi retrospettivi e
prospettici randomizzati nel trattamento della candidemia (109, 110).
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I due farmaci sono risultati comparabili nel trattamento delle candidemie correlate al catetere venoso centrale, mentre la differente attività
antifungina in corso di candidemia associata a candidosi invasiva
profonda in pazienti neutropenici non è risultata valutabile (111).
Nuovi azolici (voriconazolo) e nuove classi di antifungini (pneumocandine, pradimicine, nikkomicine) sono attualmente in fase di studio (96).
Le interessanti caratteristiche antimicrobiche in vitro e la favorevole
farmacocinetica rappresentano aspetti promettenti di questi nuovi antimicotici anche se le applicazioni cliniche sull’uomo sono ancora in fase
del tutto sperimentale ed è impossibile allo stato attuale predire il possibile ruolo di questi farmaci nel trattamento delle micosi invasive nei
pazienti emopatici.
Il farmaco antifungino ideale nel trattamento delle micosi invasive nei
pazienti con neoplasie maligne dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: potente attività antifungina in vivo anche in corso di neutropenia;
possibilità di formulazione parenterale e orale; tossicità accettabile;
farmacocinetica che garantisca adeguate concentrazioni in tutti i siti
corporei. Sfortunatamente questo antifungino attualmente non esiste.
È parere comune che i prossimi studi sulla terapia antifungina dovrebbero essere rivolti non solo alla ricerca di nuovi e più efficaci farmaci
per il trattamento e la profilassi delle infezioni fungine, ma anche al
potenziamento delle difese immunitarie contro i funghi patogeni. L'uso
di immunomodulanti come interferoni, fattori di crescita e altre citochine potrebbero dimostrarsi utili nel controllo delle gravi micosi invasive.
È tuttavia utile sottolineare nuovamente che l'efficacia di ogni approccio terapeutico è tanto maggiore quanto più precoce e specifica è la
diagnosi di un’infezione fungina.
■ LA TERAPIA ANTIVIRALE
Sostanziali miglioramenti sono stati raggiunti in questi ultimi 10 anni
nel trattamento delle infezioni virali dei pazienti immunocompromessi,
soprattutto per le infezioni erpetiche. Il farmaco di prima scelta delle
infezioni erpetiche è l’aciclovir. Tale farmaco, un analogo della guanosina, deve essere fosforilato ad aciclovir-trifosfato per esercitare la
funzione antivirale. Il farmaco esercita una scarsa inibizione della DNA
polimerasi delle cellule non infette e questa è la ragione principale
della scarsa tossicità. L’aciclovir è attivo principalmente verso HSV,
HVZ e molto meno verso EBV e CMV. L’HVZ è 4-10 volte meno sensibile all’aciclovir rispetto all’Herpes simplex, per tale motivo sono consigliate dosi maggiori per il trattamento delle infezioni da HVZ. Inoltre,
somministrando aciclovir per os anche a dosi elevate, difficilmente si
ottengono costanti livelli plasmatici di farmaco che producono in vitro
il 50% di inibizione del HVZ. Conseguentemente, pazienti immunocompromessi con varicella o con Herpes zoster devono ricevere
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dosi elevate di aciclovir per os (800 mg 5 volte al dí) o per via
venosa (10 mg/kg ogni 8 ore) per 7-10 giorni.
La somministrazione di aciclovir per via orale (400 mg 5 volte al
dí) o per via venosa alla dose di 250 mg/m2 ogni 8 ore è efficace
nel trattamento delle infezioni mucocutanee dei pazienti immunocompromessi, riducendo in modo significativo la durata dei sintomi e
il tempo di escrezione virale. L’aciclovir somministrato per via orale (12 g al dí) è inoltre efficace nella profilassi della riattivazione in pazienti
sieropositivi per HSV.
Contrariamente all’efficacia mostrata nella terapia delle infezioni da
HSV e HVZ, le infezioni da EBV rispondono scarsamente all’azione dell’aciclovir. Infatti, la sindrome linfoproliferativa EBV-associata risponde
alla contemporanea riduzione dei farmaci immunosoppressori e alla
somministrazione di aciclovir solo se non è avvenuta la degenerazione
della sindrome linfoproliferativa in un tumore monoclonale.
Per quanto riguarda il trattamento delle infezioni da CMV, il ganciclovir è attualmente il farmaco di scelta per il trattamento di queste
infezioni in pazienti immunocompromessi con emopatie maligne.
Tuttavia, nel caso di polmoniti da CMV in pazienti allotrapiantati è
necessaria la somministrazione di ganciclovir in combinazione con Ig
ad alte dosi (500 mg/kg). Il ganciclovir è somministrato per via venosa,
alla dose di 5 mg/Kg due volte al dí per un periodo di 2-3 settimane (fase di attacco), successivamente il farmaco è somministrato
nella fase di mantenimento (5 mg/kg una volta al dí) per un periodo di 1-2 settimane. La neutropenia è l’effetto collaterale più frequente (30% dei casi) e si osserva in genere dopo 10-14 giorni, la riduzione
della dose e la sospensione del farmaco sono sufficienti per ridurre
tale effetto. Ceppi di CMV resistenti al ganciclovir sono isolati raramente nei pazienti con emopatia maligna, mentre sono più frequentemente
isolati in pazienti con infezione da HIV. In questi casi è indicata la somministrazione di foscarnet; tale farmaco è un inibitore della DNA polimerasi dei virus erpetici e non richiede l’attivazione da parte di enzimi
virali. Tuttavia, studi controllati sull’uso del foscarnet per il trattamento
delle infezioni da CMV in pazienti emopatici non sono ancora disponibili, e la somministrazione di foscarnet sembra essere più indicata
in quei pazienti con insufficienza midollare e infezione da CMV. Il
foscarnet è somministrato per via venosa alla dose di 90 mg/kg due
volte al dí per 2-3 settimane (fase di attacco), successivamente la
dose di mantenimento (45 mg/kg due volte al dí) per 1-2
settimane. L’alterazione degli elettroliti e la nefrotossicità rappresentano gli effetti collaterali più frequenti (25% nei pazienti riceventi anche
ciclosporina) in corso di terapia con foscarnet. Altri farmaci attivi verso
CMV sono il HPMC (cidofovir) e il ganciclovir per os, entrambi i farmaci
sono stati approvati per la terapia di mantenimento delle infezioni da
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CMV nei pazienti con infezione da HIV, non sono ancora disponibili
dati sull’efficacia e sulla tollerabilità nei pazienti con emopatia maligna
(112).
Nuovi farmaci per il trattamento delle infezioni erpetiche in via di sperimentazione sono: la sorivudina (bromovinildeossiuridina), 50-100 volte
più attivo di aciclovir contro HVZ in vitro che raggiunge elevati livelli
terapeutici quando è somministrato per via orale, tuttavia determina un
importante incremento della tossicità plasmatica del 5-fluorouracile; il
famciclovir, analogo nucleosidico strutturalmente molto simile a ganciclovir, è un profarmaco del penciclovir con attività nei confronti dei
virus erpetici soprattutto HSV e HVZ; il valaciclovir è convertito ad aciclovir dopo essere stato assunto per via orale e presenta una biodisponibilità più elevata tanto da produrre livelli ematici di aciclovir (3-5
volte) più elevati, è efficace su HSV e HVZ e attivo su CMV.
Infine, la ribavirina è attualmente utilizzata per il trattamento delle
infezioni da virus respiratorio sinciziale (RSV) alla dose di 2 g tre
volte al dí per un totale di 3 giorni per via aerosol.
5.7
IL RUOLO DEI FATTORI DI CRESCITA
EMOPOIETICI
La neutropenia grave e prolungata rappresenta il più importante fattore
di rischio per lo sviluppo di infezioni batteriche e soprattutto fungine.
La risalita del numero dei neutrofili, infatti, è un elemento prognostico
determinante. Come dimostrato in modelli animali, e in studi preliminari
sull’uomo, la somministrazione di fattori di crescita in associazione alla
terapia antimicrobica sembra migliorare le possibilità terapeutiche di
gravi infezioni, in particolare di origine fungina. Il G-CSF è stato impiegato con successo in alcuni casi di gravi infezioni da Mucor e
Fusarium, la cui prognosi nei pazienti persistentemente neutropenici è
inevitabilmente fatale (113, 114). Tali esperienze, tuttavia, sono da
considerarsi estremamente preliminari, pertanto l’uso dei fattori di
crescita granulocitari non può essere considerato un trattamento
codificato nel trattamento delle infezioni batteriche e fungine.
Durante le fasi di grave pancitopenia post-chemioterapia intensiva l’unico modo per ottenere un rapido aumento del numero dei granulociti
neutrofili è rappresentato dalla trasfusione di concentrati granulocitari
da donatore. Tuttavia, una normale leucoaferesi spesso non permette
di ottenere un adeguato numero di granulociti neutrofili. Recenti esperienze sembrano dimostrare che la stimolazione del donatore con GCSF sia in grado di migliorare in modo considerevole la resa della leucoaferesi. In alcuni studi preliminari, le trasfusioni di globuli bianchi da
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donatore stimolato con G-CSF hanno permesso di ottenere il controllo
di gravi infezioni fungine non rispondenti alla sola terapia con antimicotici (115). Alcuni dati sperimentali, inoltre, sembrano dimostrare che i
granulociti del donatore acquisiscono una maggiore attività antimicrobica dopo stimolazione in vivo con G-CSF (116). La stimolazione del
donatore con G-CSF, quindi, sembra in grado di migliorare il ruolo
terapeutico delle trasfusioni di globuli bianchi incrementando sia
il numero sia l’attività dei granulociti raccolti nelle singole aferesi.
CONSIDERAZIONI
RELATIVE A PARTICOLARI
CATEGORIE DI PAZIENTI
IMMUNOCOMPROMESSI
6.1
IL PAZIENTE SOTTOPOSTO A TRAPIANTO
ALLOGENICO DI CELLULE STAMINALI
■ COMPLICANZE INFETTIVE
La neutropenia e il danno alla barriera mucosa indotto dalla chemioradioterapia di condizionamento rappresentano fattori di rischio che
predispongono il paziente alle infezioni.
La durata della neutropenia è variabile e dipende dal numero di cellule
infuse, dalla profilassi della GVHD, dall'uso di citochine; tuttavia
mediamente è dell'ordine di 2-3 settimane. Il danno alle mucose
dipende solitamente dal tipo di regime di condizionamento: farmaci,
quali il busulfano, l’etoposide, il melphalan, la citarabina e la total body
irradiation (TBI) si associano a un danno maggiore. Questo danno è
presente non solo a carico del cavo orale, ma anche a livello del tratto
gastrointestinale e l’impiego del metotrexato per la profilassi della
GVHD peggiora il danno a livello delle mucose.
Alla citopenia e al danno delle mucose vanno aggiunti, quali fattori di
rischio per le complicanze infettive, l'impiego del catetere venoso centrale, della nutrizione parenterale e anche le alterazioni dell'integrità
della cute dovute ai ripetuti prelievi di sangue, agli aspirati midollari e
alle biopsie ossee e cutanee. Inoltre, alla comparsa di complicanze
infettive contribuisce anche il periodo di profonda immunosoppressione cui il paziente va incontro. La durata e la gravità di questo periodo
dipendono dal tipo di trapianto, dal grado di incompatibilità donatorericevente, dalla T-deplezione, dal tipo e dalla durata della profilassi per
la GVHD, dalla presenza di infezione da CMV e di GVHD.
Naturalmente, con il tempo c'è un recupero dell'immunità cellulare e
umorale che verosimilmente è più rapido dopo un trapianto da donatore familiare compatibile che in altre condizioni trapiantologiche.
Tuttavia, in presenza di GVHD cronica lo stato immunodepressivo può
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persistere per mesi o anche per anni; solitamente, in condizioni ottimali, il tempo di recupero immunologico è di circa un anno.
In funzione della sequenza di eventi legati a tali fattori di rischio si
distinguono diversi periodi di comparsa di complicanze infettive nel
paziente trapiantato.
Entro le prime tre settimane dal trapianto sono frequenti infezioni
batteriche e fungine (neutropenia + lesioni mucose).
Le infezioni da virus erpetici si sviluppano solitamente entro il
primo mese (riattivazione del virus latente).
Entro i primi tre mesi si osservano il maggior numero di infezioni
da CMV.
Le infezioni da Aspergillus, Toxoplasma e P. carinii si osservano nei
primi 6 mesi dal trapianto o anche successivamente se persiste il trattamento immunosoppressivo.
Di più raro riscontro sono le infezioni da adenovirus, rotavirus e da
EBV. Il terzo periodo di rischio infettivo fa seguito al terzo mese dal
trapianto in corrispondenza della GVHD cronica. In tale periodo si
osservano soprattutto infezioni respiratorie: Haemophilus influentiae,
Streptococcus pneumoniae, germi capsulati; queste ultime soprattutto
in mancanza di profilassi con penicillina. Il paziente trapiantato, in questa fase tardiva, può andare incontro a infezioni batteriche, virali o fungine insorte de novo o per riattivazione di infezioni pregresse.
Frequenti le infezione causate dal virus Varicella zoster a partire dal
sesto mese (30% dei pazienti).
In Figura 11 sono riportate schematicamente le fasi infettive post-trapianto di midollo osseo allogenico.
Figura 11 • Fattori di rischio e infezioni più frequenti in base al tempo trascorso dal trapianto di midollo osseo allogenico
Polmonite
Interstiziale
non batterica
Batterica
HSV
Virus
Funghi
Candida
CMV
ADENO
Aspergillus
Gram-pos
Gram-neg
Batteri
Fattori di
rischio
neutropenia
HVZ
Capsulati
GVHD acuta+Rx
GVHD cronica
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■ POLMONITI VIRALI E ALTRE INFEZIONI POLMONARI
POST-TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO
I virus erpetici rappresentano la causa più frequente di polmoniti virali
tra i pazienti con neoplasia ematologica riceventi chemioterapia o trapianto di midollo osseo (117). L’HSV è causa di polmonite con insorgenza precoce (< 30 giorni dal trapianto); mentre il CMV e l’HVZ sono
causa di polmonite tardiva (> 30 giorni dal trapianto). Adenovirus, virus
respiratorio sinciziale, virus influenzale, virus parainfluenzale e HHV-6
(118) sono sempre più frequentemente isolati da pazienti immunodepressi con polmonite, tuttavia la loro reale incidenza non è ancora definitivamente nota. Il CMV è il virus più frequentemente associato a
polmonite interstiziale (50%) nel periodo post-trapianto ed è gravato ancora oggi di una mortalità del 60% (119). La polmonite da
CMV è evidenziata più frequentemente nei pazienti leucemici rispetto a
quelli affetti da anemia aplastica e questa differenza è correlata con i
diversi regimi di condizionamento utilizzati, tuttavia non è attualmente
noto attraverso quale meccanismo. Inoltre, non è noto perché i pazienti riceventi trapianto di midollo osseo singenico o autologo raramente
sviluppano la polmonite rispetto a quelli sottoposti a trapianto allogenico. Tra gli altri virus erpetici, HSV e HVZ, sono stati considerati essere
causa di polmonite interstiziale nel 7% dei riceventi trapianto di midollo
osseo. Tre mesi dopo il trapianto il 40% dei pazienti sviluppa un quadro cutaneo di Varicella zoster, il 5% di questi pazienti muoiono prevalentemente per la polmonite.
Le manifestazioni cliniche possono differire da quelle osservate nei
pazienti immunocompetenti: tachipnea e dispnea possono essere sintomi isolati e iniziali e l’escreato è spesso assente. L’emogasanalisi
mostrerà ipossiemia e alcalosi respiratoria, soprattutto in corso di polmonite interstiziale. Le manifestazioni radiografiche delle polmoniti
virali possono essere polimorfe. Tuttavia, la forma più frequente è rappresentata da un processo bilaterale, simmetrico e peribroncovascolare (interstiziale) che coinvolge soprattutto i lobi inferiori. Polmoniti
necrotizzanti e a focolaio possono essere dovute a Herpes simplex.
Raramente si osservano processi di consolidamento focale in corso di
polmoniti da virus erpetici. Poiché la polmonite virale nei pazienti
immunocompromessi si presenta più frequentemente con infiltrati
interstiziali l’esame strumentale più idoneo per porre diagnosi è la
broncoscopia con broncolavaggio o la biopsia polmonare percutanea. Il tessuto o il liquido così prelevati devono essere inoculati in colture cellulari, esaminati per la presenza di antigeni virali (mediante
immunofluorescenza o immunoperossidasi) e per la presenza di acidi
nucleici virali mediante ibridazione in situ.
Le polmoniti batteriche, le setticemie, le sinusiti associate con
batteri Gram-positivi, sono state riportate quali le più frequenti
infezioni che si manifestano 6 mesi dopo il trapianto. Queste infe-
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zioni si manifestano principalmente nei pazienti che presentano GVHD
cronica (75% di incidenza). Nei 6 mesi successivi al trapianto sono
stati riportati rari casi ma fatali di polmonite attribuiti a Legionella
pneumophila, Mycobacterium tuberculosis, Clamidia trachomatis e
Toxoplasma gondii. L’incidenza di polmonite da Pneumocystis carinii si
è enormemente ridotta con l’uso della profilassi con trimetoprim-sulfametossazolo. Recenti studi hanno mostrato che Pneumocystis carinii
rappresenta meno del 6% delle polmoniti non batteriche e, al contrario
di altri pazienti immunocompromessi, i casi di polmonite si manifestano solo dopo l’interruzione della profilassi; tuttavia la polmonite interstiziale da Pneumocystis carinii è stata associata a una mortalità del
60% nei pazienti sottoposti a trapianto di midollo osseo.
La polmonite idiopatica è definita come una polmonite interstiziale
nella quale le cause infettive o altre cause specifiche non sono riconosciute anche dopo esame istologico del polmone. I farmaci chemioterapici utilizzati nei regimi di condizionamento, le radiazioni, le recidive
di leucemia, le reazioni alle trasfusioni, sono tutti fattori in grado di
causare diffuse alterazioni polmonari. Il danno correlato alla chemioterapia può apparire in qualsiasi periodo dopo la somministrazione (giorni, mesi) e può essere un fenomeno correlato alla dose. Per quanto
riguarda i pazienti riceventi trapianto di midollo osseo bisogna considerare sia l’effetto dose del busulfano (dose totale >500 mg), sia la
sinergia tra farmaci (ciclofosfamide, busulfano, metotrexato) e radiazioni, sia l’edema polmonare acuto non cardiogeno (citosina-arabinoside).
L’importanza della relazione tra GVHD e sistema respiratorio è stata
soltanto recentemente dimostrata; le principali anomalie sono rappresentate da progressive ostruzioni delle vie aeree, bronchiti acute e
broncospasmo.
6.2
IL PAZIENTE EMOPATICO HIV POSITIVO
■ INFEZIONE DA HIV E LINFOMI
Gli individui con infezione da HIV, in conseguenza dello stato di
immunodeficienza, sono ad alto rischio per lo sviluppo di un vasto
spettro di infezioni. La prolungata sopravvivenza dei pazienti con
infezione da HIV dovuta alla migliore profilassi antinfettiva e alla combinazione di farmaci antiretrovirali, unitamente alla persistenza di un
grave deficit immunitario espone al rischio per lo sviluppo di neoplasie,
in particolar modo di linfomi non-Hodgkin e sarcoma di Kaposi. Le
infezioni opportunistiche sono una frequente complicazione della somministrazione della chemioterapia a pazienti con linfomi HIV correlati e
possono manifestarsi nel 10-78% dei pazienti (120). L’incidenza di tali
infezioni dipende dall’intensità della chemioterapia e dalla gravità del-
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l’immunodeficienza. Recentemente Sparano et al. (121) hanno dimostrato che il trattamento dei pazienti con linfoma HIV-associato con un
regime non contenente steroidi era associato con una significativa
riduzione del numero dei CD4 e con un aumento delle infezioni opportunistiche.
I pazienti con infezione da HIV presentano nel 50% dei casi neutropenia e il rischio per le infezioni batteriche aumenta fino al 40% dei casi
quando il numero dei neutrofili è inferiore a 500/mm3 . La neutropenia
in pazienti con infezione da HIV può essere dovuta a numerosi fattori,
l’alterazione dell’emopoiesi può essere indotta dall’infezione diretta
delle cellule del midollo con HIV, da infiltrazione neoplastica del midollo, da infezioni secondarie e dall’uso di farmaci mielosoppressivi come
la zidovudina, il ganciclovir e il trimetoprim-sulfametossazolo. Pertanto
è indicato somministrare una combinazione di antibiotici beta-lattamici
più aminoglicosidi quando il paziente con infezione da HIV presenta
una profonda (<500/mm 3 neutrofili) e prolungata neutropenia (>10
giorni). Recenti studi hanno dimostrato l’efficacia dei fattori di crescita
(G-CSF) nel ridurre l’incidenza e la durata delle infezioni batteriche in
questi pazienti.
I pazienti con infezione da HIV e linfoma sono inoltre spesso portatori
di cateteri venosi centrali e questo li rende suscettibili a infezioni da
Gram-positivi, in questi casi è indicata la terapia con vancomicina o
teicoplanina.
Le infezioni fungine rappresentano, attualmente, le infezioni emergenti
nei pazienti HIV positivi con linfoma. Tuttavia le caratteristiche cliniche,
gli strumenti diagnostici e la terapia sono sovrapponibili ai pazienti con
neoplasia ematologica maligna.
6.3
IL PAZIENTE SPLENECTOMIZZATO
Infezioni fulminanti e potenzialmente fatali sono una importante
complicanza conseguente alla splenectomia. I macrofagi splenici
hanno una importante azione di filtro e di fagocitosi nei confronti dei
batteri, soprattutto quelli capsulati. Anche se il fegato può sopperire a
questa funzione, sono necessari elevati livelli di anticorpi e di complemento naturalmente non presenti nell’organismo. Tale carenza è maggiore nei bambini e per questo il rischio infettivo nei pazienti splenectomizzati diminuisce con l’età.
La migliore profilassi e terapia delle infezioni non è codificata in quanto
è difficile poter eseguire studi comparativi ma solo controlli storici.
Recentemente, sono state concordate le linee guida per la prevenzione e il trattamento delle infezioni nei pazienti con assenza o alterata
funzione della milza (122). In quest’ultimo caso vanno inclusi pazienti
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sottoposti a trapianto di midollo allogenico nei quali si sviluppa una
alterazione delle funzioni della milza comparabile a uno stato di splenectomia.
Anche se la maggior parte delle infezioni avviene entro i primi due anni
dalla splenectomia, circa un terzo di tali complicanze può svilupparsi
nei successivi cinque anni. Alcuni casi di infezioni fulminanti sono stati
descritti anche dopo 20 anni dalla splenectomia.
I regimi di profilassi e terapia delle infezioni nei pazienti splenectomizzati si possono schematizzare come riportato di seguito.
■ VACCINAZIONI
• La vaccinazione antipneumococcica è obbligatoria. Deve essere
somministrata due settimane prima di una splenectomia elettiva.
Se questa non è stato effettuata, è comunque utile somministrarla
anche dopo la splenectomia, non appena sia possibile. Nei
pazienti sottoposti a chemioterapia o terapia immunosoppressiva è
necessario attendere sei mesi dalla fine della terapia durante i quali
deve essere somministrata la profilassi antibatterica. La reimmunizzazione deve essere eseguita ogni 5-10 anni. Nei pazienti immunocompromessi può essere utile eseguirla ogni 3 anni. Tuttavia, alcuni
autori ritengono opportuna la reimmunizzazione entro un anno dalla
prima vaccinazione. Gli effetti collaterali costituiti prevalentemente
da dolore nel sito di iniezione, febbre, malessere e cefalea sono
autolimitanti e scompaiono entro 48-72 ore.
• Anche la vaccinazione anti-Haemophilus influentiae tipo b è
necessaria.
• L’immunizzazione nei confronti del meningococco viene consigliata anche se non vi sono dati chiari a tal riguardo.
• La vaccinazione antinfluenzale è consigliata soprattutto per
ridurre il rischio di infezioni batteriche secondarie.
■ PROFILASSI ANTIMICROBICA
La profilassi antibatterica di scelta è la penicillina V orale o l’amoxicillina al dosaggio di 10 mg/kg/die nei bambini e 500 mg/die
negli adulti. Tali farmaci tuttavia potrebbero non essere efficaci nei
confronti di Haemophilus influentiae. Nei pazienti allergici alla penicillina può essere impiegata l’eritromicina agli stessi dosaggi.
È in uso in molti centri la somministrazione di benzatin-penicillina
(1 200 000 unità intramuscolo ogni 21 giorni nell’adulto, 600 000
unità nel bambino) per evitare la somministrazione orale giornaliera. Tale schema di profilassi è stato impiegato in analogia alla profilassi della malattia reumatica, ma non è mai stato scientificamente valutato, anche se esperienze aneddotiche non controllate sembrano suggerirne l’efficacia.
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I pazienti splenectomizzati presentano un aumentato rischio di contrarre infezioni anche fatali da Plasmodium falciparum. Pertanto, è importante sconsigliare viaggi, anche per brevi periodi, in zone malariche
o almeno raccomandare una scrupolosa profilassi antimalarica.
■ TERAPIA ANTIBIOTICA
In caso di febbre, il paziente splenectomizzato dovrebbe assumere la terapia antibiotica immediatamente, prima ancora di consultare il medico. È consigliata l’amoxicillina al dosaggio di 90
mg/kg/die in tre somministrazioni nel bambino e 1 g ogni 8 ore
nell’adulto. Anche altri antibiotici beta-lattamici (es. cefotaxime e ceftriaxone) possono essere impiegati.
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