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mercoledì, 29 ottobre 2008 Archivio
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Questa sezione ospita soltanto notizie d’avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione
dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi
rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola.
Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il
profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni
prendono il taxi.
mercoledì, 29 ottobre 2008
Dida
Niente equivoci, non sto per dire del giocatore milanista Dida,
pseudonimo di Nelson de Jesus Silva, valoroso estremo difensore,
ma di un libro intitolato proprio così Dida con il sottotitolo
chiarificatore La didascalia nel testo drammatico; è stampato da
Infinito Edizioni.
Lo ha scritto Emina Gegić autrice multimediale originaria della
Bosnia Erzegovina, è nata nel 1976 a Goražde. Si è laureata presso
l’Accademia delle Arti Sceniche di Sarajevo. Dal 2006 è guest
docent per la sceneggiatura presso il Sae Institute di Milano.
La Gegić, con “Dida”, propone un saggio originale
su di un aspetto poco studiato del testo teatrale e
non solo teatrale: la didascalia. Quel breve (ma
talvolta non è tale, si pensi a “Il martirio di S.
Sebastiano” di D'Annunzio) scritto in corsivo o
maiuscolo che trasmette agli interpreti la volontà
dell’autore, la sua visione dello svolgimento
dell’azione e dell’interpretazione della stessa.
Della didascalia sono indagate le origini avvenute
con l’invenzione della stampa, se n’analizza il
percorso storico, gli effetti positivi (e negativi)
sugli attori e sul regista, per affrontare nell’ultimo capitolo la nuova
funzione che la didascalia assume nello spettacolo multimediale.
Per quanto mi riguarda, nella mia carriera registica assai spesso ho
dovuto evitare di seguire le didascalie così come quando in un
testo radiofonico mi capitò di leggere L’Inquisitore: cupo, terribile.
Il suo tono è lievemente inquisitorio.
Ci sono autori che tengono molto alle loro didascalie (Ionesco,
come ricorda la Gegić), ma nello spettacolo, di solito, le didascalie
sono viste dal regista più come un impaccio che come
un’indicazione. Del resto, spesso accade che la messa in scena sia
ambientata in epoca diversa rispetto al testo, con intenzioni ancora
diverse, interventi di strumenti tecnologici che portano le emozioni
interpretative dalla sensorialità all’interiorità e, quindi, escludono
talvolta quasi del tutto (si pensi alla Fura dels Baus o ai nostrani
Motus), le originarie ambientazioni e intonazioni.
Diversamente accade nel teatro di tradizione, dove spesso la
didascalia è, specie dagli interpreti di più antica scuola, rispettata
alla pari delle battute dei personaggi.
Dida ha il merito di studiare quella forma ritenuta ancillare nella
scrittura di un copione approfondendone forza e limiti in uno studio
che mette insieme semantica del testo e pratica scenica.
Per una scheda sul libro: QUI.
Emina Gegić
“Dida”
Prefazioni: Maurizio Schmidt, Darko Lukić
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Curatrice versione italiana: Elvira Mujčić
Pagine 123, Euro 12:00
Infinito Edizioni
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lunedì, 27 ottobre 2008
Comunicare spettacolo (1)
In oltre trent’anni di lavoro nello spettacolo, solo poche volte m’è
capitato di partecipare o d’assistere a produzioni che nel loro
budget di partenza includevano l’ufficio stampa.
Nella maggior parte dei casi è una voce che s’aggiunge quando la
trasmissione è quasi in onda, o gli attori stanno per andare in
scena oppure il film sta per uscire (ammesso che esca) in
distribuzione.
A chiacchiere quel ruolo è detto importante
(come lo è), nei fatti la cosa non trova
riscontro. C’è anche di peggio, spesso càpita
di vedere in quel ruolo persone del tutto
impreparate a sostenerlo. Ecco perché
pervengono nelle redazioni comunicati degni
d’essere recitati dai Fratelli De Rege.
Eppure alle origini del press agent troviamo
un uomo che proprio di spettacolo si
occupava: Edward Bernays.
C’è pure chi (Bruno Ballardini, “Gesù lava più
bianco”, Minimum Fax), con articolate e dotte
ragioni, riconosce in Paolo di Tarso il primo
stratega della comunicazione e primo addetto stampa e – visto che
la stampa non c’era ancora – ricorreva alla persuasione orale.
Nell’epoca moderna, però, è Bernays che inventa il mestiere di
press agent occupandosi dei Balletti Russi di Diaghilev, Enrico
Caruso, delle Ziegfeld Follies.
Lo s’apprende sfogliando un prezioso libro sulla comunicazione che
pubblicato una prima volta nel 2005, ha ottenuto molto successo e
quest’anno conosce una nuova edizione.
Si tratta di Comunicare spettacolo Teatro, musica, danza,
cinema. Tecniche e strategie per l’ufficio stampa; editore Franco
Angeli.
N’è autore Roberto Canziani; giornalista, critico teatrale al
quotidiano di Trieste “Il Piccolo”, insegna nel corso di laurea in
Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo dell'Università
di Udine.
Il volume s’avvale anche di contributi scritti da noti professionisti
della comunicazione: Anna Bandettini, Silvia Bergero, Roberto
Campagnano, Gianfranco Capitta, Simona Carlucci, Antonella
Chini, Lia de' Stefani, Fabrizia Maggi, Francesca Pedroni, Barbara
Regondi, Flavia Schiavi, Ugo Volli.
Ecco un volume che farebbero bene a comprare i molti che
vogliono misurarsi nell'area della comunicazione e, in particolare,
di quella del campo dello spettacolo, ma a mio avviso, risulta utile
pure a chi vuole occuparsi di produzioni editoriali o riguardanti le
arti visive.
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Segue una breve conversazione con l’autore
postato lunedì, 27 ottobre 2008 alle 08:02 :: permalink
Comunicare spettacolo (2)
A Roberto Canziani ho chiesto: a parole, molti s’affannano a
sostenere l’importanza dell’Ufficio Stampa, ma alla prova dei fatti,
a me pare, che pochissimi abbiano capito il ruolo strategico che ha
un ufficio stampa. Perché succede? Colpa della committenza?
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Mancanza di scuole ad hoc? Sostanziale, anche se inconfessata,
insensibilità al problema della comunicazione?
La sensibilità comune percepisce la
prosa, il teatro d’innovazione, lo
spettacolo lirico, la musica colta
eseguita dal vivo, eccetera, come
espressioni d’arte e quindi forme
della cultura. Pochi spettatori sono
consapevoli del versante mercantile
legato a queste attività e, a parte
qualche considerazione sul prezzo
del biglietto, è raro che il pubblico
rifletta sui costi economici di progetti e iniziative culturali.
Altrettanto fanno gli artisti, per i quali esprimersi è in primo luogo
un’esigenza individuale o una necessità, alla quale far fronte
reperendo (faticosamente) risorse, cioè denari. Non succede
spesso che artisti e pubblico si pongano il problema
dell’interdipendenza tra arti e mercato (compito che delegano a
organizzatori e agenti) e siano capaci di mettere a fuoco ciò che
agisce come mediatore tra i due, cioè la comunicazione. Ma per
esistere, dal punto di vista economico, lo spettacolo dal vivo ha
bisogno di essere ‘intensamente’ comunicato, poiché da solo (per
le limitazioni spazio-temporali inerenti alle arti dal vivo) non
riuscirebbe mai a far quadrare i bilanci. Ecco definito il ruolo
strategico delle attività di comunicazione, e l’orizzonte su cui va
collocato il lavoro dell’Ufficio Stampa.
I nuovi media che cosa hanno cambiato nelle tecniche di
promozione?
Parlavo prima di Ufficio Stampa, ma Ufficio Media sembra oggi una
definizione più pertinente dal momento che i canali si sono
moltiplicatati (radio, televisioni, e ora free press, internet, editoria
digitale) e tendono a convergere. Vedi il recente e inedito
affiatamento di cellulari e web, che è destinato a modificare (come
ha già fatto la telefonia cellulare da sola) i nostri comportamenti di
fruizione dell’informazione e dell’intrattenimento.
Quando nelle produzioni non ci sono nomi noti, qual è oggi in Italia
la cosa più difficile da promuovere: la musica leggera? La
sinfonica? La lirica? Il teatro? Il cinema? Insomma, esiste, a tuo
avviso, un genere che le redazioni radiotv, della carta stampata,
del web, accettano meno volentieri oppure no?
Non è questione di generi, ma di ‘notiziabilità’, cioè del valore che
un evento ha di interessare e coinvolgere i lettori. E di far
diventare ‘spettacolare’, la notizia stessa di ‘spettacolo’. A priori,
un personaggio celebre ha un alto indice di notiziabilità, a
prescindere dal settore o dal genere. Al contrario, la mancanza di
un nome riconoscibile sposta irrimediabilmente verso il basso
quell’indice. E allora, che si tratti di cinema (magari ben fatto) o
coreografia (che sconta un pubblico numericamente ridotto), la
promozione diventa più difficile.
Per una scheda sul libro: QUI.
Roberto Canziani
“Comunicare spettacolo”
Pagine 214, Euro 19:50
Franco Angeli
postato lunedì, 27 ottobre 2008 alle 07:59 :: permalink
venerdì, 24 ottobre 2008
Una stella s'avvicina
Se non ha ulteriopri impegni con la mostra romana (Museo
Andersen) di Domenico Mangano, se non viene rapita da focosi
alieni, se non trova ingorghi sulle rotte spaziali, Teresa Macrì fra
pochi giorni giungerà sull’Enterprise nella taverna di cui, secondo
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alcuni, sono il gestore e secondo altri il tenutario.
Verrà a dirci del suo più recente libro pubblicato da Meltemi – In
the Mood for Love – ma parleremo di tante altre cose e di come
la Divina vede l’universo della nuova espressività.
Tra le sue pubblicazioni, ricordo ai più distratti: Il corpo
postorganico (1996, nuova ed. 2006), Cinemacchine del desiderio
(1998) entrambi con Costa & Nolan; Postculture (2002) con
Meltemi.
Ecco com’è presentata questa sua recente fatica.
Quanta pittura aleggia nei frames di “In the
Mood for Love”, il cult-movie di Wong Kar-Wai?
Quanto cinema passa nelle opere di Douglas
Gordon, quanta visionarietà nei film di Harmony
Korine e Terrence Malick, quanta pop-music
risignifica la ricerca identitaria di Phil Collins e
Martin Creed? Quanto scarto politico sottendono
i re-nactement di Jeremy Deller e Rod
Dickinson?
Questo libro affronta, in modo inedito, il legame
tra arte e pop culture attraverso l’analisi di
artisti e registi tra i più significativi degl’ultimi
anni.
Riplasmata nei reality show, abusata nei pulp movie,
spettacolarizzata nelle mostre, rinegoziata nella rete, l’immagine
diasporica
postmoderna
non
fa
che
seguire
l’erraticità
dell’esistente. Passando dal paradigmatico film “Marie Antoinette”
di Sofia Coppola alla sensazionale opera “The Physical Impossibility
of Death in the Mind of Someone Living” di Damien Hirst, dalla
polemica installazione “La Nona Ora” di Maurizio Cattelan alla
satirica sit-com “South Park”, dal situazionismo di “The World
Won’t Listen” di Phil Collins al grunge di Kurt Cobain, il volume si
configura come una sorta di indagine transmediale, una collisione
di arte, musica, cinema, clip, reality, video, favola, sport,
animazione, disegno, video sharing, social broadcast, tecnologia,
esperienze underground e entertainment.
Mi pare che ce ne sia abbastanza per incuriosire perfino i meno
curiosi.
E poi, guest star, c’è l’autrice… prossimamente su questo schermo.
Teresa Macrì
“In the Mood for Love”
Pagine 232, Euro 20:00
Meltemi
postato venerdì, 24 ottobre 2008 alle 10:19 :: permalink
mercoledì, 22 ottobre 2008
It is difficult
Ogni tanto da qualche angolo si leva un lamento circa la
scomparsa dell’arte impegnata sul piano politico. Chi ne lagna
l’assenza, forse, la ricerca nelle vetuste forme derivate dal
realismo socialista di un tempo. Per fortuna, quelle cose non si
fanno più e chi ancora le pratica può perfino incuriosire qualcuno,
ma sarà guardato probabilmente con lo stesso sguardo curioso con
cui si guarda un fossile.
L’arte impegnata esiste oggi con nuove forme.
Che forse il graffitismo nato nelle aree sociali disagiate nelle
metropoli americane non era (ed è) arte di protesta? E che dire di
vasti territori d’arte africana contemporanea e dei tanti dissidenti
provenienti dalla Cina e d’altri paesi?
No, quell’arte esiste oggi. Usa nuovi strumenti, propone percorsi di
raffigurazione che hanno scansioni febbrili come il nostro tempo.
Ad esempio, uno di questi artisti
dalla maiuscola figura è Alfredo
Jaar che in questi giorni è possibile
vedere in una mostra a Milano –
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titolo: It is difficult – dalla duplice
dislocazione: Spazio Oberdan e
Hangar Bicocca.
Allo Spazio Oberdan protagonista è
l’Africa mentre all’Hangar Bicocca
sono esposte grandi installazioni.
Nato a Santiago del Cile nel 1956, dove ha compiuto studi
d’architettura e di regia cinematografica, Jaar si è trasferito a New
York nella metà degli anni ’80, e lì ancora lavora.
Le sue opere sono state esposte in alcuni tra i più importanti musei
d’arte contemporanea internazionali e all’interno di grandi eventi
espositivi come le Biennali di Parigi (1982), Venezia (1986), São
Paulo (1987), Johannesburg, Sydney (1990), Istanbul e Kwangju
(1995), Documenta 8 (1987) e Documenta 11 (2002) di Kassel.
E’ scritto acutamente nella presentazione della mostra milanese:
Jaar crede in una correlazione tra etica ed estetica, attribuisce
fondamentale importanza a un ruolo attivo e socialmente
responsabile della cultura e insiste sulla necessità di ribadire,
attraverso l'energia creativa dell'arte, posizioni etiche, anche
fortemente critiche, di fronte a temi difficili e a fatti gravi come
ingiustizie, genocidi, emergenze umanitarie.
Nelle sue opere, sempre improntate a estrema perfezione formale,
adotta linguaggi e strumenti diversi, dalla scultura all'installazione,
dal video alla fotografia, al light box fino ad opere di dimensioni
ambientali.
Curatori: Gabi Scardi e Bartolomeo Pietromarchi.
Il sito web dell’artista: QUI.
Catalogo edito da Corraini dove oltre ai curatori si trovano
interventi di Paul Gilroy e Paolo Fabbri; schede a cura di Nicole
Schweizer.
Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web, l’Ufficio
Stampa è guidato da Lucia Crespi: [email protected]
Alfredo Jaar
“It is difficult”
Spazio Oberdan e Hangar Bicocca
Milano
Fino all’11 gennaio 2009
postato mercoledì, 22 ottobre 2008 alle 10:14 :: permalink
lunedì, 20 ottobre 2008
Una storia del libro
Una decina d’anni fa uscì un libro di Klaas Huizing intitolato “Il
mangialibri” in cui agiva un parroco del ‘700, Johann Georg Tinius,
realmente esistito, appassionato di libri al punto d’arrivare alla
rapina e all’omicidio per saziare la sua sete di volumi. Quando fu
arrestato ne aveva raccolti ben 65mila.
Non so (o non ricordo) chi sia stato l’avvocato che difese Tinius,
ma se quel parroco m’avesse chiesto consiglio non avrei avuto
esitazioni, gli avrei consigliato Flaminio Gualdoni (che avvocato
non è, fra poco le sue note biografiche), ma è tanto appassionato
della carta stampata da capire e ben difendere quel bibliomaniaco.
Tanta fiducia in Gualdoni la ricavo anche da
un suo lavoro che ho appena finito di
leggere: Una storia del libro Dalla
pergamena a Ambroise Vollard.
Lettura emozionante perché la storia del libro
è narrata come la storia di un essere vivente
seguito da prima della nascita perché “la
vicenda del libro ha inizio prima della carta”.
Questa creatura che in un’immaginaria
ecografia prenatale s’annuncia come forma
lignea tanto che “il nome del libro, biblion in
greco e liber in latino, portano entro sé il
significato primo di corteccia d’albero:
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ugualmente l’ideogramma cinese indicante il libro lo schematizza
come tavoletta lignea o di bambù”.
Il libro poi nasce, cresce, e Gualdoni ci fa assistere a tutte le sue
varie età ciascuna con i suoi vizi e le sue virtù con un
attraversamento dotto (sterminato l’indice dei nomi) e
appassionato che mai conosce pause, mai s’abbandona a
pesantezze accademiche
Insomma, una lettura imperdibile al termine della quale ho avuto
la sensazione di vedere la mappa di un labirinto raffigurata in un
ologramma.
Amo i libri, naturalmente. Ma se qualcuno volesse regalarmi il libro
che più mi piacerebbe avere è quello che nel 1995 fu esposto al
Victoria & Albert Museum in una mostra dedicata appunto al libro,
alla sua storia e al suo futuro; è di due artisti contemporanei –
William Gibson e Tennis Ausbaugh – il cui testo su dischetto si
cancella per sempre man mano che si legge.
Segue ora una breve conversazione con Flaminio Gualdoni.
postato lunedì, 20 ottobre 2008 alle 10:15 :: permalink
Flaminio Gualdoni
Insegna Storia dell’arte antica all’Accademia di Brera. Ha diretto i
musei di Modena, di Varese e la Fondazione Arnaldo Pomodoro a
Milano. Dirige le riviste FMR e ‘La rivista bianca FMR’. Collabora alle
pagine culturali del “Corriere della Sera”. Per le sue pubblicazioni:
QUI.
A Flaminio Gualdoni (in foto) ho chiesto: dia una sua definizione
del bibliofilo…
Un malato, affetto da una patologia
meravigliosa, inestirpabile, e sicuramente
non dannosa per la salute: anche se per il
portafogli… Come ama ripetere il mio amico
Ugo Nespolo, bibliofilo feroce, a drogarsi si
spenderebbe meno.
Nella storia del libro, il passaggio dal
‘volumen’ al ‘codex’, dalla lettura ad alta
voce a quella silenziosa, che cosa ha significato?
Una delle conseguenze, secondo me, cruciali nella nostra storia:
un segno forte del’affermarsi dell’individuo sul senso comunitario,
il prevalere della visività della parola sulla sua sonorità (il che ci ha
“costretto” a inventare la grafica editoriale), il trascolorare
dell’oralità nella cultura alta in favore dell’auctoritas della parola
scritta, il rapporto di libera scelta tra lettore e autore. Elementi,
tutti, che hanno avuto ripercussioni fondanti sul modo stesso di
pensare l’individuo, la libertà, la cultura.
Perché ha scelto – come anche nel sottotitolo è precisato – di finire
il libro con Vollard e la sua epoca?
Perché avendo scelto di dare uno spazio importante alla
dimensione estetica del libro, alla sua qualità di opera delle arti
(dalla tipografia alla legatura all’illustrazione), Vollard rappresenta
la faglia a partire dalla quale il destino del libro si presenta
irrevocabilmente divaricato: da un lato il libro da leggere e basta,
dall’altro il libro da leggere, sì, ma anche da toccare, carezzare,
contemplare, odorare. Gli ultimi decenni del Novecento raccontano
due storie, non una. Era meglio, a mio avviso, arrestarsi a quella
soglia.
Le recenti tecnologie sono impegnate a produrre nuove forme di
libro, che cosa cambierà nel libro? Che cosa cambierà per il
lettore?
Appartengo alla schiera dei “non-apocalittici”: tutto ciò che le
nuove tecnologie apportano, a partire dall’informatica e dal web,
aggiunge molto al leggere ma non sottrae nulla all’identità storica
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del libro. E poi, come ama ripetere Eco, a letto o in spiaggia non ci
sono alternative…
Flaminio Guardoni
“Una storia del libro”
Pagine 143 con 96 tavole fuori testo
Euro 25:00
Skira
postato lunedì, 20 ottobre 2008 alle 10:12 :: permalink
venerdì, 17 ottobre 2008
Le Aziende In-Visibili (1)
L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è
quello che è già qui, l' inferno che abitiamo tutti i giorni, che
formiamo stando insieme.
Sono parole di Italo Calvino (1923 – 1985) che si trovano nel suo
libro del 1972 Le città invisibili.
Su quell’opera, Marco Minghetti ha ideato una complessa
operazione metaletteraria pubblicata dall'l’editore Schweiller;
titolo: Le Aziende In-Visibili.
Ecco in breve di che cosa si tratta.
99 nomi dell’arte, della cultura e del mondo imprenditoriale, sono
stati invitati a confrontarsi con le 55 Città Invisibili di Italo Calvino.
La sfida: racchiudere in un breve apologo (ciascuno di 3.000
battute circa), la rivisitazione di una delle Città Invisibili, vissuta da
ogni autore attraverso la propria conoscenza umana e
professionale, percorrendo le strade di una ricerca narrativa
individuale e collettiva, varcando, grazie alla forza dell’analogia, i
confini del tradizionale modo di guardare al mondo delle aziende.
Un’occasione (funestata anche da un mio racconto) per
approfondire la visione umanistica di cosa oggi significa fare
impresa, come favorire l’innovazione e la creatività. Ma che
soprattutto utilizza la metafora del mondo aziendale per parlare
della nostra contemporaneità.
Il volume s’avvale di un testo e 190 immagini di Luigi Serafini.
Il libro sarà presentato alla Triennale di Milano martedì 21 ottobre
alle 18:00.
Segue un incontro con Marco Minghetti
postato venerdì, 17 ottobre 2008 alle 00:19 :: permalink
Le Aziende In-Visibili (2)
Da vent’anni manager di una delle più grandi aziende italiane,
Marco Minghetti è il Fondatore dello Humanistic Management.
Autore di numerosi saggi ed articoli su questo tema, è Titolare
della Cattedra di Humanistic Management creata presso
l’Università di Pavia.
Conduce il blog Le Aziende In-Visibili, per conto di Nòva24, il
settimanale dedicato all’Innovazione e alla Creatività de Il Sole 24
Ore.
A lui ho chiesto: che cosa ti ha spinto a ideare quest’operazione? E
perché hai pensato proprio a Calvino e alle sue città invisibili?
L’operazione si inquadra in una riflessione metadisciplinare
sviluppatasi inizialmente intorno alle riviste «Hamlet» (da me
fondata nel marzo 1997 e diretta fino al luglio 2003) descritta in
termini teorici generali nel ‘Manifesto dello Humanistic
Management’ (Etas, 2004); approfondita nei volumi ‘L’Impresa
shakespeariana’ (Etas, 2002, illustrato da Milo Manara), e ‘Nulla
due volte’ (Scheiwiller, 2006), che ho scritto in collaborazione con
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il Premio Nobel per la Letteratura Wislawa Szymborska. Ho
chiamato l’approccio messo a punto in questo percorso “humanistic
management”: una apertura al nuovo che guarda alle possibilità
dell’Information & Communication Technology coniugate a
discipline che solo da qualche tempo hanno cominciato ad essere
utilizzate in contesti imprenditoriali – la letteratura, la filosofia,
l’antropologia,
la
drammaturgia,
la
cinematografia
(per
approfondimenti: www.humanisticmanagement.it . “Dalla poesia
all’apprendimento”: così è sintetizzata la questione nella
controcopertina del ‘Manifesto’.
Per portare avanti il discorso, dopo
Shakespeare e Szymborska cercavo
un riferimento altrettanto “alto” e al
tempo
stesso
più
vicino
alla
sensibilità comune. Calvino, di cui
tutti a scuola abbiamo letto qualche
pagina e che al tempo stesso è uno
dei pochi autori italiani apprezzati
all’estero, mi è parsa una scelta
ottimale. In particolare la traduzione
delle Città Invisibili in “aziende
invisibili” mi è sembrata subito
perfetta per il progetto che volevo
realizzare.
Questo tuo progetto intende andare anche oltre la letteratura
investendo altre arti.
Perché questo desiderio di nuovi codici? E a quali altri approdi
pensi?
In sintesi diciamo questo: è da trent’anni che con Lyotard tutti
affermiamo che le grandi narrazioni tradizionali (ivi compresa
quella che fa capo al paradigma del romanzo ottocentesco) non
sono più adatte a descrivere la complessità del mondo
contemporaneo, ma di fatto questa condivisione teorica non si è
tradotta in pratiche narrative veramente nuove, almeno per quanto
riguarda i due versanti che più mi interessano, quello letterario e
quello manageriale. L’idea da cui sono partito era dunque quella di
realizzare una nuova modalità di scrittura mutante che andasse
oltre le barriere e le divisioni classiche del sapere.
Ora, il modo più ovvio e radicale di riprodurre la poliedrica
virtualità dei punti di vista con cui si può leggere il reale è fare
scrivere insieme un numero il più possibile elevato di persone,
provenienti da campi disciplinari e da esperienze eterogenee,
facendole interagire come se fossero i neuroni di uno stesso
cervello, creando sinapsi creative al servizio di una opera finale
collettiva, interconnessa e condivisa, dall’identità molteplice, certo,
ma al tempo stesso unica e coerente.
Come ha ben messo in luce il recente libro Wikinomics, il concetto
di ‘mushup’, di contaminazione, trasformazione e trasferimento fra
conoscenze, discipline e prodotti artistici o di altro tipo, è
essenziale per lo sviluppo della conoscenza e della innovazione
nella nostra epoca neo-alessandrina. Sotto questo aspetto assai
significativa è la presenza di 190 immagini di Luigi Serafini (il
grande artista italiano scoperto proprio da Calvino) che
commentano il testo, che è divenuto così un “romanzo a colori”.
In foto l’immagine ideata da Serafini per la copertina del libro
In una battuta, l’idea è stata quella di scrivere un romanzo
mushup che possa essere a sua volta riscritto attraverso altri
linguaggi, a partire da quello dei blog e dei video. Il prossimo
passo infatti potrebbe essere la creazione di una web opera in cui i
128 episodi del romanzo si traducano in altrettanti videoclip da
diffondere in Internet. Un primo video è già stato realizzato dai
ragazzi dell’Accademia dell’Immagine di L’Aquila ed è visibile QUI.
Marco Minghetti
& Living Mutants Society
“Le aziende In-Visibili”
Pagine 429; Euro 29
Scheiwiller
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giovedì, 16 ottobre 2008
ValenzAlchemica
La Fondazione Teatro Regionale Alessandrino è un complesso di
produzione culturale, un sistema di teatri che dedicano particolare
attenzione alla drammaturgia contemporanea, al rinnovamento
della scrittura scenica e dei linguaggi artistici specie a quelli che
vedono protagonisti autori e interpreti del territorio.
N’è
testimonianza
anche
questa
rassegna,
chiamata
ValenzAlchemica, arrivata alla sua terza edizione, e che ha non a
caso il sottotitolo Festival teatrale del Genius Loci.
Gabriele Vacis, uno dei nomi prestigiosi
della nuova scena italiana, guida questa
rassegna.
Il nome della città di Valenza dove, al
Teatro Sociale, vanno in scena gli
spettacoli, ha ispirato un indovinato
parallelo con l’alchimia così spiegato: La
valenza caratterizza le possibilità di
combinazione di un elemento, il numero di legami che un atomo
forma con altri atomi. L'alchimia, antica pratica protoscientifica,
combinava elementi di chimica, fisica, astrologia, arte, semiotica,
metallurgia, medicina, misticismo nell'alveo di una eclettica "arte
tramutatoria". Valenza Alchemica coniuga teatro, musica, danza,
letteratura, design, scienze, attraverso la trasformazione, il gioco e
la combinazione delle arti.
La terza edizione di ValenzAlchemica presenterà in ordine di
calendario spettacoli di Jurij Ferrini. Simona Barbero. Laura
Bombonato.
Jurij Ferrini sarà in scena con una sua visione del MacBeth di
Shakespeare; Simona Barbero la vedremo in First Life; Laura
Bombonato proporrà Le vieux juif.
“ValenzAlchemica”
Teatro Regionale Alessandrino
Da oggi al 31 ottobre 2008
postato giovedì, 16 ottobre 2008 alle 08:38 :: permalink
mercoledì, 15 ottobre 2008
Un film di 30 secondi
L’editore Franco Angeli ha mandato in libreria Spot, un film in 30
secondi Come nasce e si produce la pubblicità televisiva.
Libro che illumina passo passo, con grande chiarezza espositiva,
dalla prima riunione fino alla proiezione sugli schermi il percorso
che compie l’idea pubblicitaria per raggiungere il pubblico. Percorso
che coinvolge plurali momenti tecnici e professionalità, dal
management al modello produttivo, alla realizzazione artistica.
L’autore è Massimo Carpegna regista e musicista, titolare della
casa di produzione Movie Industrial Film Production; docente di
“Filmica Industriale” presso la Facoltà di Scienze della
Comunicazione e dell’Economia dell’Università di Modena e Reggio
Emilia.
Ha detto di recente Carpegna: “In questo mio
libro ho cercato, in maniera sintetica, di
raccontare
il
percorso
delle
pubblicità
televisive. Il taglio è manualistico, ma non è
un testo solo per addetti ai lavori“.
La lettura, infatti, può interessare – aldilà
d’ogni benvenuta curiosità per tutti i mestieri –
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anche chi, senza volere diventare regista o
produttore di spot, intende studiare uno dei
fenomeni più rilevanti dell’universo mediatico
che ci circonda, con i suoi meccanismi tecnici e
sociali.
Il volume s’avvale d’interventi, nell’ordine d’apparizione, di Paola
Vezzani. Gisella Cenni. Benedetta Melli. Giorgio Giusti. Vittorio
Grilli.
A Massimo Carpegna ho chiesto: da tempo, in tv o in rassegne
estive, s'assiste a maratone di proiezioni consistenti in spot
pubblicitari.
Aldilà della più o meno perniciosa nostalgia, la pubblicità è in grado
di restituirci la cipria del tempo? Quale il valore della sua
testimonianza?
La pubblicità televisiva è figlia della settima arte, il cinema, e
persegue l’obiettivo di orientare le scelte d’acquisto del
consumatore; come tale è la migliore testimone dei costumi, delle
tendenze, dei valori del tempo in cui si attiva, che racconta e
condiziona. Guardate gli spot inseriti nelle trasmissioni Rai di
Ettore Bernabei: rassicuranti, educativi, informativi, castigati,
com’era la rete televisiva pubblica sotto la sua guida. Oggi le
direttrici sono diverse, come diverso è il nostro tempo. E diverso è
pure il rapporto tra “contenitore” e pubblicità, dove il secondo,
ormai, condiziona il primo e non il contrario.
Un guru della pubblicità qual è Bob Isherwood, pur apprezzando gli
autori dei nostri spot, vede marcati limiti negli esiti perché, a suo
avviso, troppo local e poco global, avvalendosi cioè di riferimenti,
battute, codici tutti interni al costume italiano.
Sei d’accordo con questa critica?
Sono perfettamente d’accordo. Questo è anche il difetto, salvo
rarissimi casi, del nostro cinema, che non vende all’estero come
quello di altri Paesi. Le “commedie all’italiana” pubblicitarie, tanto
per citare un esempio, con calciatori, ex miss Italia,
cantanti/fantasisti e monumenti del quiz televisivo, pur se
pregevoli e divertenti, sono essenzialmente “local” ed affatto
“global”.
Kevin Roberts, a Cambridge dove insegna, sostiene che i marchi
sono in crisi, il brand muore, quello che conta sono gli stili di vita.
Il brand era costruito sul concetto di superiorità: macchina più
veloce, telefonino più leggero, lana più morbida, eccetera. Ora, è il
momento del “lovemark” fatto di tre componenti: mistero,
sensualità, intimità.
Fin qui Roberts. Su questo tema vorrei che tu dicessi qualcosa
È una tesi che nasce da un’analisi oggettiva: la difficoltà del
marketing in un mondo in cui le performance di prodotto sono
ormai date per scontate e dove prodotti molto economici
competono alla pari con altri “storicizzati” ma di prezzo più
elevato. Una strategia che ricatturi periodicamente la nostra
attenzione, stimoli la curiosità con approcci multisensoriali ed in
strettissima relazione con le aspirazioni personali è, a mio parere,
efficace, perchè suggestiva di una lealtà alla marca aldilà della
ragione e sovrastante il rumore di fondo della comunicazione di
massa.
Per una scheda sul libro e l’Indice: CLIC!
Massimo Carpegna
“Spot, un film di 30 secondi”
Pagine 256, Euro 27:00
Franco Angeli
postato mercoledì, 15 ottobre 2008 alle 09:11 :: permalink
martedì, 14 ottobre 2008
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Su e giù con Amy
Amy è okay. Amy è una stronza. Amy è grassa. Amy è magra.
Amy è fine. Amy è rozza.
Amy è brutta. Amy è bella. Amy è dozzinale. Amy è elegante. Amy
è svelta. Amy è lenta…
Quante Amy esistono in Amy Winehouse da me molto amata?
Nata a Londra nel 1983, ha vinto cinque Grammy (di grammi
senza la ipsilon, non ne parliamo).
Ha esordito nel 2003 con l’album “Frank” seguito tre anni dopo da
“Back to Black” che, trascinato dal singolo Rehab, ha venduto più
di quattro milioni di copie.
Il suo sito web: QUI.
A lei è dedicato Su e giù con Amy Winehouse –
pubblicato da Kowalski – n’è autore Peter Fruit,
per chi ci abbocca.
Il libro è scritto bene dall’autore col nome
fantasiosamente ortofrutticolo, nello stile di Lester
Bangs, da ‘gonzo journalist’ – un tipo cioè che alla
cronaca resa creativamente v’aggiunge proprie
febbrili invenzioni, e scarti di memoria. Godibile,
perché asseconda con la scrittura il ritmo di tutto
un ambiente teso all’anfetaminica ricerca del
successo.
La fortuna della Winehouse discende dall’incontro (2002) con
Simon Fuller, produttore di Annie Lennox, delle Spice Girls e di altri
nomi famosi. Da allora nasce con Amy un personaggio che vede
associarsi all’indubbio talento vocale un rilievo mediatico dovuto in
parte ad una sapiente regìa promozionale e molto ai tanti
tumultuosi episodi (arresti, risse, ricoveri in clinica per
disintossicazioni) di cui la cantante s’è resa protagonista.
Il volume segue ascese e cadute di questa rock star che si trascina
con lacerata indolenza fra soul, blues, e jazz. E che, inoltre, è
un’esemplificazione di quanto lo show business sia capace nel bene
e nel meglio come nel male e nel peggio.
Ho aperto questa nota con una serie d’immaginarie e contrastanti
affermazioni su Amy, la concludo con una frase che proprio a lei
appartiene: Sono meglio nei dischi che nella vita reale.
Peter Fruit
“Su e giù con Amy Winehouse”
Pagine 191, Euro 11:00
Kowalski
postato martedì, 14 ottobre 2008 alle 08:02 :: permalink
lunedì, 13 ottobre 2008
Crescete e moltiplicatevi
Nel libro della Genesi si legge che Dio ordina all’uomo: “…Siate
fecondi…crescete e moltiplicatevi”.
Da lì ha origine l’idea diventata pernicioso luogo comune che fare
figli sia segno sia d’ordine morale e, perfino, di prosperità
economica degli Stati.
A questo tema è dedicato il più recente numero
del bimestrale dell’Uaar L’Ateo diretto da Maria
Turchetto.
Nell’editoriale, la direttrice, con il suo solito stile dotto e birichino al
tempo stesso, ripercorre la storia di quel luogo comune
popolazionista ch’ebbe poi grand’affermazione in epoche più vicine
a noi, specialmente nel XVI e XVII secolo, all’epoca della
formazione dei moderni stati-nazione.
Serviva allora carne da cannone e occorrevano braccia al lavoro,
eppure non mancarono voci che già allora s’opposero a quella
teoria, come ad esempio Robert Malthus.
I sostenitori del “crescete e moltiplicatevi” – scrive la Turchetto –
continuarono a ripeterlo nel Novecento. Le cose erano, in realtà,
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un po’ cambiate. Nelle guerre la tecnologia cominciava a contare
più della fanteria, e lo stesso avveniva per la produzione
industriale. Ma preti, politici ed economisti non demordevano […]
Dopo il crollo di Wall Street, Alvin Hansen e gli altri keynesiani
radicali sostennero che tra le cause della stagnazione
dell’economia occidentale andava annoverata la crescita
demografica più lenta rispetto al secolo precedente. Anche in
questo caso le obiezioni non mancarono: se così fosse – disse ad
esempio Joseph Alois Shumpeter – dovrebbe esserci il boom
economico in Africa, dove figliano come conigli. Aveva ragione, ma
nemmeno a lui dettero retta”.
Oggi, con argomentazioni nuove, i popolazionisti hanno ripreso
voce, ma le condizioni del globo anche con il suo naturale
impoverimento delle risorse (e le offese ambientali arrecate a
quelle esistenti) vanno in senso contrario al ‘crescete e
moltiplicatevi'.
Insomma, date retta ad Adolgiso: addizionarsi spesso, sottrarsi
talvolta, dividersi se necessario, moltiplicarsi mai.
Sullo stesso argomento nella rivista ci sono interessanti studi
condotti da plurali angolazioni in articoli di Orazio Nobile, Luca
Pardi, Federica Turriziani Colonna, Ruggero Ruggeri, Francesco
D’Alpa, Debora Da Dalt, Giovanni Mainetto, Antonietta Dessolis,
Vittoria Haziel, Giorgio Ferri. Per l’Indice completo: QUI.
In breve: un numero imperdibile per chi è interessato
culturalmente al tema o a questo dedica studi specialistici.
Per l’acquisto della rivista: le librerie Feltrinelli e quelle di Rinascita
d'Empoli e Roma, oppure scrivere a Casella Postale 755, 50123
Firenze Centro.
L’abbonamento annuale a 6 numeri costa 15 euro. Assolutamente
ben spesi.
postato lunedì, 13 ottobre 2008 alle 08:35 :: permalink
giovedì, 9 ottobre 2008
Jonas Mekas in Italia
Cosmotaxi Special per “Jonas Mekas”
Lucca, 10 ottobre - 2 novembre 2008
postato giovedì, 9 ottobre 2008 alle 08:22 :: permalink
Parole di JM
“In realtà tutto il mio lavoro non è che un unico, lunghissimo film
che ancora si sta sviluppando…”
postato giovedì, 9 ottobre 2008 alle 08:21 :: permalink
Chi, Dove, Quando
Considerato un esponente di spicco del rinnovamento del
linguaggio cinematografico e sperimentatore delle risorse artistiche
dei nuovi media visuali elettronici, Jonas Mekas, film-maker e
critico statunitense di origine lituana, è il protagonista della mostra
curata dalla Fondazione Centro Studi sull’Arte “Licia e Carlo
Ludovico Ragghianti” in collaborazione con il Lucca Film Festival
2008 che all’artista dedica, in concomitanza con l’esposizione,
un’ampia retrospettiva che occuperà 15 ore di proiezioni.
La mostra, a cura di Benn Northover,
allestita nei locali della Fondazione
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Ragghianti (nella fotina, il Chiostro),
presso il Complesso monumentale di San
Micheletto, sarà inaugurata il 10 ottobre
alle 17.30 e visitabile - il lunedì escluso fino al 2 novembre 2008 dalle 10 alle 13 e
dalle 15 al 19.
Mekas sarà presente a Lucca dal 9 al 15
ottobre.
Inoltre il Lucca Film Festival ospiterà: Paul Fraser dal 9 al 11;
Enrico Ghezzi dal 17 al 18; Marc'O dal 14 al 19; Jean Pierre Kalfon
dal 15 al 17; Agnes Feuvre dal 17 al 19; Christian Lebrat dal 14 al
17; Brady Corbet dal 17 al 19; Balthazar Clementi dal 14 al 19;
Franco Brocani dal 16 al 18.
La Fondazione Ragghianti, diretta da Vittorio Fagone, è nata nel
1981; per visitare il suo sito web: CLIC!
Come per tutte le altre manifestazioni dedicate all’arte ed alla
cultura visuale contemporanea realizzate dalla Fondazione
l’ingresso è gratuito, offerto dalla Cassa di Risparmio di Lucca.
Per informazioni: tel. 0583 – 46 72 05; fax 0583 – 49 03 25
Mail: [email protected]
Cosmotaxi ringrazia l’architetto Angelica Giorgi coordinatrice
delle mostre e degli eventi alla Fondazione Ragghianti; questo
’special’ è stato realizzato, infatti, grazie al suo prezioso aiuto.
postato giovedì, 9 ottobre 2008 alle 08:20 :: permalink
Special per JM: bio dell’artista
Jonas Mekas ha dedicato tutta la sua vita e la sua opera
all’affermazione del cinema indipendente come forma d’arte.
Regista, critico, editor, distributore, archivista e poeta, Mekas ha
contribuito significativamente alla nascita dei moderni movimenti
cinematografici d’avanguardia.
Nasce nel 1922 a Semeniskiai,
in Lituania.
Nel 1944, con suo fratello
Adolfas, Jonas viene rinchiuso
nei campi nazisti e costretto ai
lavori forzati. Nel 1949, dopo
aver vissuto per quattro anni
in un campo profughi, i fratelli
Mekas arrivano in America e si
stabiliscono a Brooklyn, New
York. Due settimane dopo il
suo arrivo, Jonas chiede in
prestito del denaro per comprare la sua prima Bolex 16mm e
comincia a registrare i momenti della sua vita.
Avevo poco tempo a disposizione, che mi permetteva di girare solo
pochi frammenti di ripresa. Mi sono detto: Bene, molto bene – se
non ho sei o sette mesi da dedicare alla realizzazione di un film,
me ne farò una ragione; filmerò brevi frammenti, giorno per
giorno, ogni giorno... se potrò filmare solo un minuto – filmerò
solo un minuto.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, oltre ad organizzare numerose
proiezioni di cinema sperimentale, Mekas fondò il magazine “Film
Culture” e cominciò a scrivere la sua colonna ‘Movie Journal’ sul
New Yorks Village Voice. Partecipò anche alla fondazione della
“Film- Makers' Cooperative”, della “Filmmakers' Cinematheque” e
degli “Anthology Film Archives”. Ancora oggi, gli Anthology Film
Archives sono ritenuti uno dei centri più importanti del mondo per
la conservazione, l’esposizione e lo studio del cinema indipendente
e d’avanguardia.
È stato fonte di ispirazione per generazioni di registi, tra cui Martin
Scorsese, Andy Warhol e Jim Jarmusch.
La produzione di Mekas come regista spazia dai film narrativi
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(“Guns of the Trees”, 1961 e “The Brig”, 1963) a i "diary films"
come “Walden” (1969); “Lost, Lost, Lost” (1975); “Reminiscences
of a Voyage to Lithuania”, (1972); “Zefiro torna”, (1992); “Birth of
a Nation” (1997); e “As I was Moving Ahead, Occasionally I saw
Brief Glimpses of Beauty” (2001). Le sue opere sono state
ampiamente proiettate in festival e musei di tutto il mondo, tra cui
la Biennale di Venezia, il Tate Modern di Londra ed il Museo di Arte
Moderna di New York.
Nel 2006 l’Associazione dei registi cinematografici americani ha
premiato gli Anthology Film Archives e Mekas con il DGA Honours
award, riconoscendo l’impegno di Mekas nei confronti dell’arte
cinematografica. Nello stesso anno, Mekas è stato premiato
durante la cerimonia della Los Angeles Film Critics Association per
il suo importante contributo alla cultura cinematografica
americana. Nella sua selezione annuale di 25 film, “Reminiscences
of a Journey to Lithuania” di Mekas è stato indicato dalla United
States National Film Preservation Board per essere conservato nei
registri della Library of Congress' National Film Registry.
Nel 2007, Mekas ha lanciato l’epica serie 365 che include la
creazione di 365 video e cortometraggi pubblicati una volta al
giorno per un anno sul suo sito web.
Questo progetto continua a godere di largo seguito internazionale,
perciò il suo sito in Rete è in continua espansione.
postato giovedì, 9 ottobre 2008 alle 08:18 :: permalink
Special per JM: Vittorio Fagone
Come dicevo in apertura la Fondazione Ragghianti è diretta da
Vittorio Fagone di cui vanto l’amicizia da molti anni. Abbiamo fatto
insieme lavori per RadioRai nei primi anni ‘80 e con lui ho fatto
anche (ci crediate o no) un viaggio spaziale nel settembre del
2000, pochi mesi dopo la nascita di questo sito.
Sue estese notizie biobibliografiche QUI.
E’ stato fra i primi critici in Italia a cogliere, in anni lontani, la
nascita di un nuovo modo di fare arte attraverso l’ibridazione di
generi e tecniche; ad accorgersi delle nuove energie che si
rappresentavano attraverso l’interlinguaggio, l’intercodice.
Vi propongo il suo intervento in catalogo.
“A un anno esatto dall’originale
realizzazione dell’ampia e articolata
esposizione dedicata a Michael Snow la
Fondazione
Ragghianti
in
collaborazione con Lucca Film Festival
presenta l’opera di Jonas Mekas, un
altro protagonista del rinnovamento
del
linguaggio
cinematografico
e
sperimentatore delle risorse artistiche
dei nuovi media visuali elettronici.
I due episodi segnano in modo positivo
l’attività della Fondazione Ragghianti
da sempre attenta al rapporto tra
cinema
e
arti
visuali
mentre
confermano l’alto livello internazionale
raggiunto dalle iniziative promosse dal
Lucca Film Festival.
L’influenza di Jonas Mekas sul cinema sperimentale praticato oltre
che negli Stati Uniti in diversi paesi europei dall’Italia alla Francia,
dalla Germania all’Inghilterra e alla Spagna, è stata notevole e
risulta ancora attiva sulle ultime generazioni di videoartisti
affermatisi nella svolta del ventunesimo secolo.
Per quanti interessati in Italia negli anni Sessanta alle espressioni
innovative del linguaggio cinematografico in relazione con le arti
visuali c’è una data e un luogo che vanno considerati memorabili.
Nel maggio 1968 la Galleria d’Arte Moderna di Torino organizzava
una presentazione del New American Cinema che dava risalto
come indiscutibile protagonista del nuovo fronte sperimentale di
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ricerca al ricco repertorio di film realizzati da Jonas Mekas. Con
Ugo Nespolo, già negli anni Sessanta uno dei più significativi
sperimentatori italiani del “cinema d’artista” come dimostrato dalla
grande mostra che attualmente gli dedica il Museo del Cinema
della Mole Antonelliana a Torino, in questo momento
particolarmente attivo a Lucca come originale scenografo
pucciniano, ho potuto ricordare che la manifestazione di Torino,
curata da Aldo Passoni, aveva coinvolto e entusiasmato amatori
del cinema e delle arti visuali, colpiti dalla lucida consapevolezza e
capacità comunicativa di Jonas Mekas.
L’attento pubblico lucchese ritroverà qui i fondamentali e
profondamente innovativi film che, a partire dalla seconda metà
degli anni Cinquanta, Mekas ha realizzato.
Nel libro L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici da
me dedicato all’evoluzione delle ricerche di un nuovo linguaggio
sperimentale nel campo del cinema e dei nuovi media elettronici,
pubblicato nel 1990 da Feltrinelli e quest’anno ripubblicato in
quanto considerato dall’editore “un testo fondamentale di
riferimento per quanti interessati alla nascita e agli sviluppi
dell’arte video”, le annotazioni sull’opera cinematografica di Jonas
Mekas, sono tra le più numerose. Risultava necessario per chi qui
scrive sottolineare come nel cinema sperimentale di Jonas Mekas si
realizza un’inedita prospettiva teorizzata insieme a Dominique
Noguez negli anni Sessanta e Settanta in molte occasioni
espositive in Francia e in Italia di un “cinema differente” che non si
cura delle regole e delle funzioni dominanti della comunicazione,
meno preoccupato del destinatario che dell’autore, del referente
che del messaggio stesso, del principio di realtà che del principio
del piacere, del simbolico che dell’iconico, in breve, meno
preoccupato del senso che della forma e ancora più radicalmente
un film largamente personale, che si rapporta principalmente, nella
sua concezione, nella sua realizzazione e nella sua diffusione,
all’arte e all’artigianato (non al commercio e all’industria).
Il “cinema differente” si caratterizza soprattutto per due aspetti: la
determinazione linguistica molto più libera, diretta e, in definitiva,
efficace; l’autonomia e l’indipendenza dalle strutture condizionanti
della produzione industriale. I due elementi sono, ad evidenza,
correlati.
L’esposizione dell’opera cinematografica di Jonas Mekas qui
presentata è anche particolarmente significativa di un’inedita e
produttiva possibilità di utilizzare in senso creativo le risorse
comunicative sulle quali il mezzo elettronico opera con maggiore
costanza, la nozione del tempo, memoria e simultaneità.
Conseguenti sono l’istantaneità che consente di presentare
un’immagine ripresa non convenzionalmente senza sottoporla a
nessun tipo di trattamento, il ritardo del tempo di proiezione, la
condizione di utilizzare contemporaneamente più camere o più
monitor per una scomposizione o ricomposizione della visione,
elementi che nella loro complessità contribuiscono a una creativa
dilatazione, o più esattamente a una innovativa temporalizzazione
dell’immagine.
Questo carattere storicamente oppone con forza, a partire dagli
anni Sessanta, le pratiche dell’arte video orientate verso
un’espansione topologica del tempo, alla televisione vincolata al
canone di una temporalità e di una spazialità unidimensionali”.
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