PDF - Spaghetti Writers

Transcript

PDF - Spaghetti Writers
1
Il canto delle balene
Sonny Wyburgh
2
Come è sublime il canto delle balene. V'è qualcosa di magistralmente primordiale in esso, quasi che
mille millenni di storia non avessero mai toccato, neanche lievemente sfiorato, l'evoluzione di quel
canto. È semplice, monocromatico, come il colore inesistente del mare in cui esso si propaga: si staglia
tra luce ed ombra, la preghiera inascoltata di una educanda nelle ore intime della notte, mentre giace
sola nella sua cella a conversare con Dio e con il suo corpo. Passa poca differenza tra il divino e il
corporeo: sono entrambi il nostro tempio, possono entrambi essere violati ed abbandonati a se stessi.
Quel pomeriggio, il mare rifletteva pacifico il bagliore verginale del bianco circostante. Avevamo lasciato
il nostro isolotto, io e lei, per esplorare coste ignote: ci si poteva credere dei novelli Colombi, per la
prima volta in terra incontaminata. Pareva di essere delle creazioni nate dalla luce, in mezzo a tutto quel
limpido splendore; e non si trattava di una spiaggia a Nauru o di qualche lido caraibico, no. Quello era
bianco glaciale, bianco di neve, che solo il seno della mia amata Jacqueline poteva eguagliare. Quando si
giunge presso la zona del ghiaccio perenne, l'aria sembra cambiare di spessore: diventa astorica,
nell'estate australe il tempo scivola lontano da quel paesaggio sempre uguale, eternamente a sé
sembiante. Il mondo degli uomini gira seguendo i moti celesti nel resto del globo, ma là i pensieri si
fanno garanti di una dimensione sospesa tra lo ctonio e lo iodio: terra, mare e ghiaccio uniti in amplesso
in una forma che non conosce il consumarsi delle stagioni. Neanche l'amore là conosce l'invecchiarsi.
Fu per questo, e perché ce lo eravamo per tanti mesi proposto, che decisi di portarci Jacqueline. Quel
luogo specchiava la sua anima: semplice ed inafferrabile. Volevo portare là una porzione del mio cuore e
affidarla al dondolare della marea del sempre, e là ne ho sepolto una parte maggiore di quanto avessi
mai potuto immaginare, per sempre.
Il viaggio fu semplice, nostri complici furono il sole e il soffuso silenzio del vento. Il sorriso senza età di
Jacqueline mi spingeva avanti, e arrivammo poco tempo dopo quello che sarebbe potuto essere altrove
chiamato mezzogiorno. Ma così come le stagioni, neanche le ore avevano un nome in quel luogo. Il
regno astorico di ghiaccio si era dimenticato come si chiamassero, o forse apparteneva semplicemente ad
un'epoca in cui il loro nome ancora non era stato trovato. Eravamo attrezzati per accamparci la notte,
pronti ad allestire un perfetto nido coniugale, o quantomeno congeniale all'amore. Le ore passavano
liete e lei mi prendeva spesso in un abbraccio delicato, come quello dei gabbiani. Blu e bianco era lo
sfondo dei nostri baci all'ultimo lembo di globo, e cieli eterei si aprivano al palpitare volatile del mio
sangue. Fu allora che sentii il primo canto delle balene. Jacqueline si fermò come una statua in attesa di
essere creata e una mestizia riempì gli angoli del suo sguardo. Mi avvicinai a lei mentre restava a
guardare il mare.
«Senti,» sussurrò con voce trasparente, «le balene piangono. Sanno già che il loro viaggio finisce dove
finisce il canto.»
Io la baciai, e giocammo all'amore sotto i raggi più dolci che filtravano attraverso le pareti glaciali di
un'alcova nascosta nella scogliera bianca. La condensazione del dolce affanno ci copriva di una pioggia
incantata di mille gocce di arcobaleno. È incredibile come possa assumere tutto un colore nuovo e
mutevole quando si è circondati da chilometri cubici di cristalli di acqua. Anche il freddo diventa
relativo. Uscimmo a vedere l'ultima luce del giorno, là dove i tramonti rasentano l'infinito. Un brivido
più forte di tutti i gradi sotto zero mi pervase. Arenata sulla spiaggia giaceva, in un mastodontico
rantolio più flebile della voce del ratto, un lungo corpo di balena, muto e in totale, inerme, nudità. Un
odore acre, duro come le rupi gelide che ci circondavano, mi riempiva le narici poco prime impegnate
nell'estasiarsi nei profumi dell'accoppiamento. Sentii fitto un impulso al rigetto, ma riuscì a trattenerlo,
più per decoro che per istinto. Corsi da Jacqueline per voltarla da quell'orrido spettacolo, ma mi scostò
la mano con fare assente, gli occhi spalancati a impregnarsi di tutta quella carne.
Il ventre era stato squarciato in diverse direzioni, brutalmente e senza natura, e, visione ancor più
impietosa e raccapricciante, un aborto penzolava fuori per metà, privo di vita. Gli occhi della balena
giravano ancora, in inesprimibile agonia, e da quella gran bocca, capace di bersi gli oceani, non una nota
usciva. Era una madre di titani privata del dono della parola. E il mare si tingeva rosso del suo sangue,
rosso e nero nel blu che tutto sapeva sciacquare, anche quella tragedia che le stagioni non avrebbero
potuto ricordare. La vita effluiva da dove la vita nasce verso dove ogni vita si ricicla nel continuo gemere
delle acque.
Uccidendosi il sole, anche le nostre parole si fecero più rade. Jacqueline era rimasta molto tempo a
3
fissare in compartecipante silenzio la balena morente, che nell'ultimo spasmo di vita sfiatò acqua e
sangue dai polmoni ormai collassati. Nei suoi occhi qualcosa di simile ad una rassegnata accoglienza di
un monito stagnava, ma certo per me tutto questo era molto confuso allora. Il lento strisciare delle
tenebre rendeva necessaria la preparazione di un adeguato giaciglio, ma per fortuna eravamo ben
abituati a rifugi di questo tipo. Come ebbi finito di allestire il tutto, sentii sgocciolare su di me come un
liquido denso e umorale uno sguardo lontano. Mi voltai di scatto, stupito da quella subitanea
sensazione, e feci un sobbalzo. Jacqueline mi si era avvicinata di soppiatto, o forse semplicemente non
l'avevo sentita avvicinarsi, preso dai cupi pensieri suscitati dalle spoglie moribonde della balena. Il suo
sguardo era perso in un mesto disegno mentre accostava la sua testa alle mie spalle.
«Le balene piangevano, senti? Ora che se ne è andata del tutto, hanno ripreso il loro lamento funebre».
Le balene effettivamente avevano ripreso a cantare, non ci avevo fatto caso fino a quel momento.
«E' stata una visione terribile amore, mi dispiace tu abbia dovuto assistere a questo. Vieni qua, non ci
pensare troppo,» la strinsi gentilmente al mio petto, «purtroppo gli aborti naturali non vanno sempre a
buon fine. È tremendo, lo so, ma non ci si può fare niente, soprattutto in questo sconfinato deserto di
acqua. E poi chissà come funziona per le balene...»
«Non è stato un aborto,» mi interruppe Jacqueline con un filo sottile di voce, «quello che abbiamo visto
era Natura, certo, ma non era un aborto. Era il frutto di uno stupro, quegli squarci al ventre in ogni
direzione... la balena e la sua creatura mai nata sono state ferocemente violate».
«Ma cosa dici amore? Tu sei chiaramente scossa, come puoi dire che...»
«No, io non sono scossa, non sono mai stata più certa,» continuò Jacqueline con una voce da Cassandra
dinnanzi alla reggia di Agamennone, «me lo ha detto la balena prima di morire. Il sangue puzzava
ancora della polluzione brutale e meschina. Me lo ha detto la balena, con gli occhi, e lo gridava il
piccolo feto, prima di morire. E soprattutto questo è Natura...»
E mentre Jacqueline diceva queste parole e io continuavo a stringerla a me, il caldo del suo corpo contro
il mio veniva perforato da subitanee fitte di freddo e nuovamente sentii quella strana sensazione di uno
sguardo umidiccio colarmi addosso dalla testa ai piedi. Ma ero troppo turbato dalla visione infelice e
dalle parole per me opache di Jacqueline per dare alcun peso a quella sensazione. Già in passato aveva
avuto momenti di compassione tanto forte per il dolore altrui da assumere un tono fatale di vacuo
distacco da sé, ma questa volta il suo volto, combinato forse all'inintelligibilità dei ghiacciai circostanti,
tanto placidi quanto potenzialmente ostili, mi portava un vero tremolio dei nervi, non dovuto
semplicemente al vento antartico, che giusto in quell'ora si era alzato. E mentre dietro di noi la pianura
gelata e immobile ci faceva da sfondo così immutabile da sembrare un semplice drappo bianco di
cartapesta, e il mare con il suo instancabile lambiccare spargeva il sangue materno della balena nei
chilometri dei suoi abissi, il sangue ribollì in Jacqueline e si fece ardente, e mutò come più volubile tra
gli esseri il suo umore. Il suo sguardo divenne di cacciatrice esperta e paziente, e da confortante
abbracciante divenni nello sbattere di un ciglio bramato abbracciato. Questo cambio di intenti mi
sembrò snaturante e ingiusto, ma così come sono le femmine a creare il nostro bisogno di loro, allo
stesso modo quando loro chiamano, il corpo di maschio non sa negarsi, fisiologicamente innanzi tutto.
Un sensuale torpore mi pervase, e di nuovo sentii quello sguardo sbavato, questa volta più vicino,
accarezzarmi lungo il dorso e quasi potevo immaginarlo scendere lungo i fianchi di Jacqueline. Qualcosa
non andava in tutto ciò, ero certo che lo sguardo non era di Jacqueline, e che non si trattava di una
semplice costruzione mentale. Avevo sentito qualcosa muoversi, ne ero certo. Ma lei si strofinava sul
mio corpo, comandando l'atto amoroso, e un sensuale profumo erotico, mescolato all'odore ormai
marcescente della vicina carcassa di balena, mi intorpidiva la ragione. Volevo parlare, avrei voluto
fermare Jacqueline e urlarle in faccia di scappare, perché sentivo che qualcosa era sbagliato, ma non mi
riuscì. Un singhiozzo storpiato mi si era bloccato in gola, e improvvisamente un impulso a fuggire si
impadronì dei miei nervi e di ogni tendine del mio corpo in tensione, qualcosa di atavico. Ma in quel
momento il piacere saliva, e il piacere inglobava il terrore bagnandolo di sudore dolceamaro,
lentamente soffocandolo fino a spegnere ogni sua possibilità di reazione. Ero la preda in questo gioco,
non il predatore. Ma non potevo sapere che anche Jacqueline era destinata a essere preda. Fu in quel
momento che lo sguardo sgocciolante si trasformò in un quintale di carne tesa che mi sferzò da dietro
un colpo brutale, abbattendomi. Persi i sensi.
4
Quello che seguì nei momenti seguenti del mio intermittente stato di coscienza, provo dolore a
rievocarlo ancora adesso. Una forza brutale, arcaica e di razza crudele, mi aveva scaraventato a terra e,
sbattuta la testa contro uno scoglio vicino, non ebbi la forza di rialzarmi. Sentivo sangue lentamente
sgorgare da qualche parte del mio corpo, ma non ne sentivo dolore. Il mio dolore proveniva dagli occhi,
a pochi metri da dove supino rimanevo impotente. Jacqueline era stata afferrata da dietro e come me
scaraventata a terra, ancora calda di passione, la passione destinata a me. Sopra di lei, un corpo abnorme
e deforme strappava con cieco furore un prurito maschio e insensato, insieme alle grida e ad ogni
membrana di lei. Deflorata, vidi Jacqueline essere accartocciata in un grumolo di carne. Piangeva.
Piangeva e gridava, guardando il cielo, chiedendo aiuto al mare, e a me non riusciva di fare niente, ero
paralizzato a terra come un verme. Il meschino stupratore sovrastava con la sua mole umida e carica di
materia il corpo ormai ridotto a straccio sporco di Jacqueline, che aveva smesso di gridare. Mi guardava,
nel silenzio, mi guardava con sguardo serio e impassibile. Si stava spegnendo e con lei morivo anch'io,
ma la mia morte fu soltanto interiore. Piangevo come un infante, e riuscì appena a vedere la bocca di
Jacqueline sospirare un'ultima parola all'eternità del silenzio di quei ghiacciai: La balena.
Ero svenuto anch'io in quell'istante, ma fui bruscamente risvegliato pochi istanti dopo dalla stessa mole
insaziabile che si scaraventava sul mio corpo disteso. Mi sentii penetrare. Gridai, gridai con tutte le mie
forze e un atavico istinto di sopravvivenza si impossessò di me. Quello spingeva, mille volte più grande
di me, e non si saziava, mai. Non ricordo bene la sequenza delle azioni di quel momento, so solo che
riuscii a girarmi. Scalciai, sentii altro sangue, bagnata materia e respiri affannosi tentavano di
dominarmi. Non fui più in me, non vedevo, sentivo solo primitive sensazioni. Vidi una vena in quella
che sembrava essere la gola, e agii. Usai l'unico strumento rimastomi, il mio becco, per colpire con ogni
muscolo rimasto in mio comando quel punto focale. Un frastuono e svenni.
Non so quanto tempo rimasi lì. Forse fu questione di una sola notte, forse passarono anni. A me, del
resto, non importa. Con fatica riuscii a riprendere l'uso dei miei arti e a scivolare via da sotto il corpo
morto dell'enorme foca. Il suo sangue mi bagnava le piume, ne ero pregno. Vomitai al primo respiro di
aria antartica. Il corpo depauperato di Jacqueline giaceva poco lontano. Le sue ali spezzate erano
lievemente mosse dal vento forte che si era alzato. Il cadavere della balena rimaneva ancora là, con i
primi segni di decomposizione ormai evidenti. Il feto era un groviglio nero di tendini. Che desolazione.
La terra dei ghiacci era tornata immobile e fuori dal tempo, come lo era sempre stata, e nessuna storia
avrebbe conosciuto i corpi stracciati di quella balena, di quella foca e di quella femmina di pinguino: la
mia, per sempre, Jacqueline. Nessuna storia, se non la mia, che io racconto con lacrime che a fatica
scendono lungo il mio becco , tanto sono dense di ricordi, così gretti e materiali. Ma del resto, le storie
così come le lacrime le raccontano gli uomini, non i pinguini.
5